Mateo García Elizondo “Appuntamento con la
Lady” Feltrinelli euro 15 (in realtà, scontato a 5 euro con Payback)
[A: 21/12/2019 – I: 08/02/2020 – T: 11/02/2020]
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[tit. or.: Una cita con la Lady; ling.
or.: spagnolo; pagine: 159; anno 2019]
Ecco un altro libro della scuderia delle
novità, anche questa volta al seguito di una proposta di “Robinson” il
supplemento letterario di Repubblica. Scopriamo così una bella scrittura di un
giovane predestinato comunque alla scrittura. Per la sua carriera di
giornalista e sceneggiatore, ma anche per i suoi natali. È infatti nipote di
due scrittori: il grande Gabriel Garcia Marquez ed il messicano Salvator
Elizondo. Da sue interviste fu poi nonno Gabo che per primo gli regalo un
quaderno per scrivere le sue impressioni, quaderno che ritorna come leitmotiv
in questa sua prima opera letteraria. Come direbbero critici e dotti, una
scrittura che affonda nelle radici messicane di Juan Rulfo, ma che non disdegna
collegamenti agli studi di Mateo. Che si laurea a Londra in letteratura
inglese, e vengono parole di Kerouac e dei beatnik, pensando di aver Burroughs
come nume tutelare. Fortunatamente, per noi lettori non molto addetti ai voli
grafici, queste radici si manifestano in un discorso monologo (o quasi) intellegibile
e piano. Che comunque ci fa partecipe di un mondo e di una visione di vita che
il giovane protagonista ci mostra crudamente. Lo scrivano è un tossico
all’ultimo stadio, che ha visto morire molti (tutti?) i suoi amici, nonché il
suo grande amore, la Valerie. Allora, con un po’ di oppio e venti grammi di
eroina, fugge dalla metropoli, per rifugiarsi nell’ignota città di “El
Zapotal”. Ora noi europei diciamo ignota, ma in effetti, è un importante sito
archeologico messicano nello stato di Veracruz, patria della cultura “Totonac”.
Ma non è questo che interessa Mateo. Lui ci porta nella discesa negli abissi
del protagonista, che visti sparire tutti i suoi riferimenti, si rintana laggiù
per spararsi una overdose potente, farsi cullare dalle braccia della Lady (così
come chiama il rush nell’eroina, rush che per i meglio informati è l’euforia
iniziale della droga, prima che venga il down e l’assalto delle “scimmie”), ed
andarsene da questo mondo. Non sono un esperto, né tanto meno un blando
conoscitore, del mondo della droga. Per quanto ne ho sentito parlare, e visto
in circostanze altre (soprattutto filmiche, devo dire) Mateo riesce bene nella
rappresentazione di questo mondo. Ci fa partecipe degli alti e bassi che
seguono la ricerca e l’assunzione di sostanze stupefacenti. Si capisce come il
drogato vede il mondo esterno, ed anche come gli altri lo vedono. In questo suo
vagabondare, senza meta sempre, poi senza soldi, poi senza nulla, in questa
sperduta località. Come ben presto, nei momenti di astinenza, ma anche nei
momenti di fuga oppiacea, il protagonista sia assalito dai suoi fantasmi. Dal
ricordo dei suoi amici, della vita che aveva fatto in città. Ed in particolare,
tra le sue parole, traspare la bellezza dell’incontro con la Valerie, il loro
amore, profondo, fino all’ultimo stadio. Fino a quando lui si tira indietro e
la Valerie non ritorna. Per molto tempo (di lettura) ho aspettato di capire
come poteva evolversi, come Mateo ci avrebbe presentato la dose finale e la
morte del protagonista. Perché non c’è mai stato un dubbio nella mia lettura,
che lì avrebbe finito il suo mondo. Non entro nelle pieghe oniriche del
racconto, a volte forse le parti migliori. Come alte sono le pagine del
degrado, la descrizione delle piaghe, della sofferenza, del rifiuto del cibo e
dell’isolamento, per andare il prima possibile tra le braccia della Lady.
Purtroppo, la seconda parte del libro si avvia verso lidi che mi sono sembrati
poco consensi alla partenza dello scritto. Non si comprende quando il
protagonista muore, né se muore veramente, né se la confusione della testa
persa nelle droghe lo porta a scrivere in quel suo quaderno cose e momenti
strampalati. Come la visione di una donna che si lava nel fiume (ed in realtà,
El Zapotal è sulla riva del rio Blanco) dopo aver fatto l’amore. Che lui,
guardone triste, osserva tra le foglie, spergiurando di aver sentito nascere
una vita in quell’unione. Tanto che potrebbe venire il sospetto che ci siano
venature di induismo nelle pieghe del racconto. E chi vuole, lo capisca. Ma a
me è piaciuto il modo, crudo e dolente, della rappresentazione della
disperazione di chi non sa che farsene della propria vita, e cerca soltanto di
lasciarla. Magari senza dare troppo fastidio, magari portando in tasca degli
orecchini per pagarsi una sepoltura. Insomma, un giovane poco più che
trentenne, che scrive un racconto lungo che si lascia leggere. Con qualche
perplessità finale, ma sicuramente meglio di tanti celebrati scrittori, che le
perplessità me le lasciano fin dalle prime pagine.
Andrea Vitali “Le mele di Kafka” Garzanti
euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/06/2017 – I: 12/02/2020 – T: 14/02/2020]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 225; anno 2016]
Non devo certo ricordare a chi da tempo mi legge
che Andrea Vitali è uno scrittore, di certo leggero, ma che gradevolmente si
può leggere. A volte riesce ad essere anche più interessante, altre volte è
solo un utile momento di riposo dei due neuroni affaticati, che possono seguire
le vicende paesane descritte dal dottor Vitali in modo estremamente rilassante.
Ho sempre rilevato, poi, che le vicende migliori, quelle che oltre ad essere
rilassanti erano anche moderatamente ironiche, erano i romanzi ambientati nel
Ventennio fascista, laddove la vita di paese assurgeva a microcosmo spaesante
dei guasti nazionali. Qui siamo in altre zone. Vicenda ambientata nel 1958,
tendente verso un boom economico ancora da arrivare. Personaggi locali e
paesani, dagli interpreti principali ai comprimari (come il parroco e la
perpetua), ma senza un centro deciso come in altre descrizioni. Ci sono tante
piccole storie, che confluiscono nel grande fiume del racconto, eppure nessuna
riesce a prendere il sopravvento e ad interessare e coinvolgere. Ci sono, e in
questo bisogna riconoscere che Vitali è un maestro, i nomi dei personaggi
sempre con quel sapore paesano che diventa quasi un marchio di fabbrica. Qui si
comincia dai capostipiti, anche se marginali nella vicenda. Bigonio che vuole
le figlie ben sposate, anche per dare un seguito al negozio di ferramenta, e la
moglie Stellina, patita persa di Mike Bongiorno e di “Lascia o raddoppia”. I
due hanno due figlie: Fioralba che sogna il grande amore con il quale fuggire e
sposa Eraldo lo svizzero, con il quale va a vivere a Lugano, e Rosalba, quella
silenziosa, un po’ rubacuori di paese, che alla fine, anche se ha dato un bacio
ad Eraldo, sposa Abramo, che rileva il negozio di ferramenta e diventa l’idolo
del paese in quanto impareggiabile giocatore di bocce. Ma di bocce in coppia,
che per le gare ci vuole chi accosta e chi boccia. Tutta la vicenda ruota, tra
presente e feedback, nella storia appunto della famiglia Spotti. Nel
progressivo malessere e morte di Stellina. Nella volontà di sponsali di
Bigonio. Ma soprattutto nelle vicende di Rosalba e Fioralba. La seconda silente
ad aspettare il principe azzurro. La prima un po’ sognatrice, prima accompagnandosi
con il Tirelli, poi tradendolo con Abramo. Ovvio che parliamo di tradimenti di
paese, di sguardi, di passeggiate sul lungolago. Non si sta di certo in città,
dove di tradimenti sarebbero passati “di letto in letto”. La diatriba tra
Abramo ed il Tirelli, che sarebbero la coppia di punta della bocciofila locale,
sfocia nella rottura della coppia (di bocce), nel matrimonio di Abramo e
Rosalba, e nella crisi di Mario, il manager della bocciofila che si vede
sfuggire l’ambito trofeo. Ma ricordiamo anche che nel frattempo arriva Eraldo a
far innamorare Fioralba, tanto che si organizza in pratica un doppio
matrimonio, dove, nelle euforie dei festeggiamenti, ci scappa anche il bacio
furtivo tra Rosalba ed Eraldo. La storia attuale invece comincia con una telefonata
dalla Svizzera: Eraldo ha un coccolone e sta per morire. Tutto ruota quindi
sulla preparazione del viaggio di Abramo e Rosalba verso la “lontanissima”
Lucerna (ho controllato su Google, ora tra Bellano e Lucerna, a parte il
confine, c’è una strada di montagna di certo tutta curve, di ben 203
chilometri…). Sui sentimenti di Rosalba che non sopporta più Abramo e ripensa
al bacio di Eraldo. Sulle paure di Mario, visto che a giorni c’è la finale del
campionato di bocce, dove Abramo è fondamentale per la vittoria della squadra
locale. Sulla caratterizzazione di Lucerna e sull’accoglienza degli Svizzeri
agli emigranti (fate un po’ il paragone con oggi…). Ci saranno tutta una serie
di avventurine e rivolgimenti, alla fine dei quali, personalmente, credo rimangano
tutti delusi i personaggi locali. Ed anche noi lettori non è che si riesca a
fare il tifo per l’uno o per l’altra. E poi c’è Kafka. Ma che c’entra? Vitali
si appoggia ad un dato certo (nel 1911, Kafka e Max Brod fecero un giro in
Svizzera e passarono per Lugano). E vi aggiunge il suo tocco personale:
l’albergo dove Kafka soggiornò a Lucerna, secondo lo scrittore praghese, aveva
frutta poco saporita. Da quel giorno, il direttore faceva mettere nella hall un
cesto di mele, le mele di Kafka appunto, che non si dovevano toccare. Ovvio che
Abramo cercherà in tutti i modi di mangiarle, anche se questa è una piccola
punta della storia principale. Vi lascio, se avete voglia, scoprire le piccole
cose che succedono nelle duecento scarse pagine del romanzo. Come dicevo
gradevole ma nulla di più. Aggiungo solo un tocco laterale. Cercando notizie su
Kafka in Svizzera ho scoperto che in quel viaggio, a lui ed al suo amico Max,
essendo delusi delle guide roboanti alla “Baedeker”, venne in mente di proporre
delle guide economiche e piene di spigolature, un po’ antesignane delle attuali
“Routard”. Un progetto che non andò in porto, come le mele che non furono
mangiate. Spero in qualche futura lettura di un Vitali migliore, e più ironico.
Amos Oz “Giuda” Feltrinelli euro 9 (in
realtà, scontato a 6,90 euro)
[A: 28/08/2017 – I: 25/02/2020 – T: 28/02/2020]
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[titolo: Habasorah Al Pi Yehuda Ish Qariyot; lingua: ebraico; pagine: 329; anno: 2013]
Una piccola opera di rimozione del titolo, che in
ebraico suona molto più “provocante” come “Il Vangelo secondo Giuda della città
di Karyot (cioè Iscariota)”. Reso in italiano con solo “Giuda” in maniera forse
troppo riduttiva. Fatto questo accenno rilevo come sia il primo libro che leggo
dopo che anche il grande scrittore israeliano ci ha lasciato, senza che si sia
potuto fregiare, come io auspicavo da anni, di un Nobel per la Letteratura, che
avrebbe senza dubbio meritato. Per il complesso dei suoi scritti, e per le
posizioni, difficili, che nei suoi scritti ha sempre preso. Come in questo, uno
dei suoi ultimi lavori, complesso nella costruzione di rimandi tra passato e
presente, ma con un paio, almeno, di idee forti che ne rendono, alla fine, una
lettura interessante, forse non coinvolgente al massimo, nella parte diciamo
attuale, anche se l’ambientazione è nell’inverno a cavallo tra il 1959 ed il
1960. Il personaggio principale è un giovane universitario, Shemuel, che non
riesce ad andare avanti nella tesi, che viene lasciato dalla fidanzata, e,
sbandato e senza scopi, si ritrova a fare da “dama di compagnia” ad un vecchio
semi-paralitico ma di grande cultura e di grande voglia di parlare (visto che
sta relegato in casa, tra letto, chaise-longue e piccoli passi con le
stampelle). Accudito dalla moglie del figlio morto durante i combattimenti del
1948, durante la nascita dello Stato d’Israele. Nuora figlia di un personaggio
importante (morto una decina di anni prima). Un antagonista di Ben Gurion, tale
Abrabanel, che pensava fosse più utile mantenere una convivenza con gli arabi sui
territori comuni. Posizioni troppo filoarabe all’epoca, che lo fecero relegare
nell’angolo, additare come traditore, che lo videro chiudersi in casa, con il
consuocero. Il cui figlio, il marito di Atalia (e non apro parentesi sul nome
legato anche a vicende familiari), benché illuminato e progressista (d’altra
parte era un professore universitario di … matematica, quindi a fortiori un
dotto!), decide di arruolarsi alla chiamata alla difesa da parte di Ben Gurion
a valle della risoluzione delle Nazioni Unite sulla nascita di Israele. E che
sfortunatamente, muore subito. Rimarranno in tre nella casa, e poi in due alla
morte di Abrabanel. Ed occasionalmente in tre, quando Atalia assolda qualche
giovane per far compagnia al vecchio. come il nostro Shemuel. Sui cui studi si
impernia il filo forte della narrazione, e su cui torneremo. Ma che, giovane
venticinquenne alla deriva, non bello, né particolarmente motivato ad uscire
dal proprio ombelico, si trova ad avere tanto spazio di riflessione
nell’accudire il vecchio. ovvio che si innamora anche della quasi quarantenne
Atalia. Un amore che già sappiamo non avrà sbocchi. Il giovane farà un percorso
lungo e di riflessione, che lo porteranno alla fine al distacco con la famiglia
e la casa dove ha vissuto quell’inverno, ed a rifugiarsi (ma forse rinascere)
in un kibbutz che sorge nelle vicinanze di Ramon. Qui si vede in controluce
anche un piccolo spaccato della vita di Oz, che decise di andare in kibbutz
molto prima del giovane (aveva 15 anni) ma che è sempre rimasto legato al
“socialismo comunitario” dei kibbutzin. Cosa cui lego due miei ricordi
personali: la prima volta che andai in Israele, riuscii a passare due notti in
kibbutz al Nord verso il Libano. E fu un’esperienza interessante. Mentre
l’ultima mia visita lunga in Israele mi ha portato sia a Mitzpe Ramon, dove
lasciamo Shemuel alla fine del romanzo, sia a Beer Sheva, dove lui si sta
recando. Anche qui, ho dei bei ricordi di posti, di sensazioni. Ma anche di un
caldo assurdo che arriva dal deserto del Negev. Tutto ciò però ci ha
allontanato dalla parte forte del romanzo, e dal titolo. Che Shemuel, nei suoi
studi, stava indagando sulla visione ebraica di Gesù e sul ruolo di Giuda. Oz
riporta alcuni passi relativi al primo pezzo di indagine. Poi, in un capitolo intenso,
disvela la sua (anche se non sua personale, forse derivata da letture e
scritture dotte) visioni di Giuda. Visto come l’artefice della gloria del Nazareno.
Giuda, diversamente dagli altri apostoli, era benestante, veniva dalla ricca
città di Karyot, dove era un possidente. Alcuni ritengono che fosse stato
inviato a Gesù proprio dai sacerdoti del Tempio, per controllare il nascente
profeta. Ma Giuda si appassiona, passa “il Giordano”. Diventa uno dei più
vicini a Gesù. Convinto della sua discendenza divina, ipotizza la grande
apoteosi: andare a Gerusalemme, sfidare i sacerdoti, salire sulla Croce, e da
lì discenderne, mostrando la propria vicinanza al divino. Costruisce quindi
trame ed inganni per attuare tutto ciò, convincendo il, secondo Oz, recalcitrante
Gesù. Ma quando Gesù non scende sulla croce e muore, Giuda “perde la fede”,
pensa il suo disegno sia stato fallace, pensa di aver lui portato alla morte il
Nazareno. Fugge e si toglie la vita. Senza aspettare la seconda parte della
vicenda. Dove Gesù, che Giuda pensava di manovrare e che invece manovrava lui
Giuda, risorge al terzo giorno, mostrando appieno la sua essenza divina.
Questo, ovvio, molto in sintesi, che se ne potrebbe discettare a lungo. Ma lo
scopo di Oz, oltre a comunicarci il vangelo secondo Giuda, è anche quello di
tornare al problema che lo assilla da sempre. La lotta, senza possibilità di
uscita, tra arabi ed ebrei. Il rimando è quindi ad Abrabanel: era anche lui un
Giuda, come quello di storicità ebraica, che aveva le idee giuste, ma che,
tradotto in comportamenti sbagliati, non hanno portato gli effetti sperati? O
era quello di tradizione cristiana, un traditore e basta? Solo alcune
annotazioni per concludere. Il padre di Amos, si chiamava anche lui Yehuda
(nome molto comune tra gli ebrei). Gli Abrabanel, infine, erano una grande
famiglia storicamente sorta nella Vecchia Russia, tra Lettonia, Lituania ed
Ucraina. Ed uno dei discendenti della ramificata famiglia, era tal … Boris
Leonidovic Pasternak. Qui mi fermo.
“Non cercare continuamente qualcosa da dirmi.
Possiamo camminare insieme anche senza parlare. Io quasi ti ascolto anche
quando taci, sai. Anche se taci troppo di rado.” (108)
“La verità è che tutta la forza del mondo non basta
per trasformare l’odio in amore. Colui che odia lo si può trasformare in servo,
ma non in uno che ama. Tutta la forza del mondo non basta per trasformare il
fanatico in illuminato. Tutta la forza del mondo non basta per trasformare in
amico chi ha sete di vendetta.” (122)
“Diceva che … chi muore in questo mondo, non solo i
caduti di tutte le guerre, anche chi muore per un incidente o di malattia e
financo di vecchiaia, … tutti muoiono assolutamente invano.” (196)
Amitav Ghosh “Diluvio di fuoco” Beat euro
12,50 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A: 28/08/2017 – I: 29/02/2020 – T: 02/03/2020] - &&& +
[tit. or.: Flood of fire; ling. or.: inglese; pagine: 703; anno 2015]
Ed eccoci a quella che si dovrebbe ritenere la
conclusione della trilogia della “Ibis”. Una trilogia che ho letto scandendo un
libro ogni 4 anni (il primo recensito appunto nel 2012 ed il secondo nel 2016).
Tanto che ci sarebbe il dubbio di scordarsi i personaggi, di mescolarli oppure
di pensare che siano diversi da quello che poi appaiono ora. Ghosh è sempre uno
scritto che non mi dispiace, per il fluente modo di condurre storie corali.
Anche qui non si smentisce. Non solo, ma prende in mano una storia veramente
“voluminosa”, che tuttavia, come confessa nella lunga epigrafe finale, alla
fine con circa 1800 pagine, è riuscito a tratteggiare solo circa 4 anni della
storia che aveva in mano: dal 1838 al giugno 1841. Una storia avvincente, in
ogni caso, tanto che quest’ultima puntata, pur con le sue 700 pagine, mi ha
tenuto abbastanza spesso legato alla pagina, nonostante si avessero altre cose
da fare. Non è certo un capolavoro indimenticabile (e questo lo possiamo
rimarcare dal fatto che supera di poco i 3 libri di gradimento) ma è ben fatto,
piacevole da leggere, e con qualche cosa, alla fine, che mi consente di
polemizzare con l’autore. Ricordo che l’idea di base della storia era quella di
utilizzare alcuni personaggi tipici del mondo indo-cinese dell’epoca per
tratteggiare non solo un modo di vivere, ma anche una svolta epocale della vita
nella regione. Così, all’inizio, Ghosh fa convergere su di una nave, la goletta
“Ibis”, i suoi personaggi. Poi li scatena, e li segue, chi più chi meno,
eventualmente aggiungendone di nuovi e complementari. Il fulcro della
narrazione si incentra su Zachary Reid, un nero partito mozzo dai cantieri di Baltimora,
su Paulette Lambert, un’orfana appassionata di piante, su Deeti, una vedova che
cerca di sfuggire al suo destino, su Neel, un rajah caduto in disgrazia, e su
Jodu, fratello di latte di Paulette, mussulmano e marinaio. Tutti loro si
trovano ad un certo punto sulla nave fulcro, e da quella (vedi i capitoli
precedenti) fuggono, alcuni mettendosi in salvo nelle isole Mauritius, altri
tornando verso le terre di diversa provenienza. In realtà, Paulette, nel
secondo libro, già si sistema nell’isola di Kowloon, continuando la sua opera
di botanica. Mentre, nel corso della seconda trama, lamentavo la scomparsa
dalla scena di Zachary. Ebbene, in questo lungo finale, proprio lui prende
buona parte del centro della narrazione. Insieme a Kesri Singh, il fratello di
Deeti. Peccato che qui non si parli più di lei né delle Mauritius, ma si
incentri tutto di nuovo sulla seconda parte della prima guerra dell’oppio.
Ricordo che durante il secondo libro, l’imperatore cinese aveva bandito
l’importazione dell’oppio, e cercato di cacciare via inglesi ed altri stranieri
che da Canton inondavano la Cina di droga. Ovvio che è una cosa che non sta
bene alle potenze economiche, anche se basate su traffici illeciti. Saranno
proprio i mercanti che riusciranno a convincere le forze inglesi ad
intervenire, a stroncare le lecite richieste cinesi, dall’alto della loro
potenza militare, ed ottenere alla fine (questa è storia, non certo
anticipazione del libro) non solo il risarcimento per tutto l’oppio perduto, ma
di avere una base gratuita nella baia di Kowloon, e precisamente ad Hong Kong.
Base che gli inglesi terranno sino al 1997, e che ritorna in questi giorni di
attualità politica. Ma questo è un discorso diverso. Qui ritorniamo invece a
Zachary, e lo incontriamo alla fine del processo per i fatti dell’Ibis narrati
nel primo libro. Viene giustamente assolto, ma si trova senza un soldo,
costretto a reinventarsi tutto da capo. Trova un ingaggio da carpentiere presso
Mrs. Burham, una trentacinquina di cui sappiamo del marito, uno dei maggiori
commercianti di oppio (vedi volume due). Ma ora è sola, e con Zachary si
consola. Anche se il suo cuore era rimasto all’amore di gioventù, quando,
appena ventenne, cacciava nelle giungle paterne, aiutata da un bell’alfiere, il
tenente Mee, e dal suo aiutante, Kesri. Sono queste le due storie binario del
libro: Zac sedotto da Cathy Burham, che pensa anche di vendicarsi di lui
pensando che avesse sedotto Paulette, di cui invece si era innamorato. Zac che
con i soldi guadagnati da Cathy (che lo pagava anche come gigolò) riacquista i
gradi, e con l’aiuto di una specie di santone indiano, investe i soldi in
oppio, riprende la guida delle navi, guadagna una barca di soldi. Ed alla fine,
quando è scaricato da Cathy per giusti motivi, trova anche il modo di vendicarsi
di lei, di Mee, e di entrare in sodalizio con Mr. Burham ed il suo contraltare
cinese. Mr. Chen. Dall’altra vediamo Kesri, attendente di Mee, che con lui si
offre volontario nell’avventura di riconquistare Canton ed il mercato cinese.
Vicende che li porteranno anche a ritrovare Cathy, da parte di Mee, e notizie
della sorella Deeti, da parte di Kesri. Tutto si intreccia con la vicenda dei
parsi di Bombay, ed in particolare della bella signora Shiraam, moglie dello
sfortunato commerciante Moddie (morto nel secondo volume). Che qui ritrova il
figlio bastardo del marito, in cerca di sfuggire alla vendetta di Chen, tracce
della morte del marito, ed un nuovo amore in Zadig Bey. Non entrerò più di
tanto nelle varie storie, che ritroviamo anche Neel, passato dalla parte dei
cinesi, ma che, prima di essere sconfitto nuovamente, viene salvato da Jodu. Le
vicende sono tante, ma rimangono alcune perplessità. Ad esempio, su Zachary che
nelle prime vicende sembrava buonissimo, e che qui comincia a metà strada, per
poi diventare antipatico ed insolente, ed alla fine, forse, in via di
redenzione. Certo si riavvicina a Paulette, ma la strada percorsa lo ha portato
su sentieri poco eleganti. Si accenna a Neel, appunto, ma poi lo si relega alle
note dell’epilogo. E molti cattivi, o presunti tali, non pagano il fio delle
loro cattive azioni. Rimane, dal punto di vista storico, l’interesse per la
conquista di Hong Kong, per il suo futuro sviluppo, per la pervicace cattiveria
degli inglesi (e devo dire che non riesco a farmeli piacere quasi mai).
Personalmente, sento quasi che, se Ghosh ne avesse le forze, potrebbe scrivere
un altro capitolo della saga. Anche perché ho perso traccia di Deeti e di
Kalua, cui vengono riservate circa dieci righe su 700 pagine. Comunque, e per
finire, una lettura per riposare la testa, in questi tempi di pensieri
buiamente virali.
Avendo
anche maggio una domenica in più, questa festività regalata ci consente di
riprendere alcune letture della fucina dei libri curativi.
Stiamo
entrando nel terzo mese di quarantena, e devo dire che, personalmente, i
segnali della sua fine non mi sembrano così chiari come molti sostengono. Penso
che ci sia ancora molto da fare e da lavorare. Come ci sarebbe da fare e da
lavorare sulle nostre esistenze, visto che poco, anche in una crisi come questa,
sembra essere migliorato. Sempre nel mio inconfessato egotismo, credo di aver
compreso qualcosa di più su di me, migliorando l’aiuto ormai troppo datato
della mia mentore Luisa.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
Quasi DUE GIUGNO 2020
Quando c’è una domenica in più,
come in questo maggio in quarantena, cerco di recuperare trame e malanni
passati. Eccone altri tre.
EVASIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DI
Quando avete bisogno di scordare
la pena che avete nella testa, nel cuore o nel corpo; quando aspettate un
autobus che non arriva mai; quando volete sganciarvi dalla routine quotidiana,
svignatevela con uno di questi.
Roberto Bolaño I
detective selvaggi
Raymond Chandler Il lungo addio
Joseph Conrad I
duellanti
Julio Cortázar Il
gioco del mondo
Alexandre Dumas Il conte di Montecristo
E. M. Forster Passaggio
in India
Graham Greene Il
nostro agente all’Avana
Jerome K. Jerome Tre uomini in barca. Per non parlare del cane
Stephen King Stagioni
diverse
Nevil Shute Una
città come Alice
NOVANT’ANNI, AVERE
I dieci migliori
romanzi per novantenni
Heinrich Böll Opinioni
di un clown
Lewis Carroll Alice oltre lo specchio
Charles Dickens Casa desolata
Ernest Hemingway Il vecchio e il mare
Milan Kundera Il libro del riso e dell’oblio
Primo Levi Il sistema periodico
Gabriel Garcia Marquez L’autunno del patriarca
Salvatore Satta Il giorno del
giudizio
Mario Soldati America primo amore
P. G. Wodhouse La stagione degli amori
PREMESTRUALE, SINDROME
Vi
fanno male le gambe. Vi vengono i brividi. Meglio fare piano. Qualcosa di
troppo impegnativo potrebbe ridurvi in lacrime. Oggi restate sotto il piumone
con la borsa dell’acqua calda e un buon romanzo per ragazze: il miglior
analgesico del mondo.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUEI CERTI
GIORNI
Isabel
Allende “La casa degli
spiriti”
Thomas
Bernhard “Perturbamento”
Luciano
Bianciardi “La vita agra”
Truman
Capote “A sangue freddo”
Arthur
Conan Doyle “Uno studio in rosso”
Jeffrey Eugenides “Le vergini suicide”
Helen Fielding “Che
pasticcio, Bridget Jones”
Yu
Hua “Cronache di
un venditore di sangue”
Anna
Maria Ortese “L’Iguana”
Giovanni
Verga “I Malavoglia”
Bugiardino
Recuperiamo allora altri tre
libri dalla banca dei ricordi scritti. E lo faccio in ordine inverso,
cominciando dalla sindrome premestruale e da Helen Fielding.
Helen Fielding “Che
pasticcio, Bridget Jones!” BUR euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[tramato il 23 dicembre 2018]
Tre
anni dopo il successo planetario del “Diario”, Helen prova a rinverdire la sua
fama con questo secondo capitolo della saga. Un tentativo veramente poco
riuscito ed alquanto prevedibile. Se nel primo romanzo c’era la freschezza
della novità, l’ingenuità delle situazioni (con Bridget sempre leggermente
fuori fase rispetto a quanto le capita intorno), questo secondo romanzo, non
variando molto lo stile, risulta ripetitivo ed anche un po’ noioso. La maggior
parte dei protagonisti del primo si ripresentano qui con immutato stile,
ripercorrendo senza troppe variazioni quanto di scellerato (dl punto di vista
dell’attività umana quotidiana) facevano nel primo. Fortunatamente sparisce
quasi del tutto “il bastardo Daniel”, con una puntatina dimenticabile. Dispiace
invece la quasi totale assenza del “gay” Tom, troppo preso dai suoi amori
americani. Invece le pagine sono piene di Jude e Shaz, con le loro improbabili
ricette derivate dai libri di auto-aiuto (che la quarta di copertina lascia
nell’inglese self-help). Sempre pronte a dare il consiglio sbagliato nel
momento giusto. Precipitando sempre più in basso la stima e l’autocomprensione
di Bridget. Grande spazio, invece, prende l’odiosa Rebecca, subito pronta a
cercare di soffiare il buon Mark alla nostra. Organizzando cene, viaggi, e
quant’altro riesca a mettere in difficoltà la nostra eroina. Ma prima di passare
a Mark, c’è la solita tirata sui genitori di Bridget. Con la madre con non
vuole crescere, e questa volta passa dall’improbabile indiano al fasullo
keniota. Fortunatamente non viene ripreso a lungo, anche perché ripercorrerebbe
la stessa solfa del primo. Wellington invece appare, fa delle stupidate, dice
cose sagge inascoltate e se ne torna tranquillo e felice nella sua Africa.
Lasciando mamma Jones alle prese con l’alcolismo di papà Jones. Unico momento
esilarante: il rifiuto di rinnovare il passaporto da parte di mamma Jones,
perché dovrebbe mettere una foto aggiornata, quindi “più matura”. Mark, per
riprendere il filo, sembra sempre uguale a sé stesso. Molto imbranato, molto
innamorato, ma incapace a) di mostrare a Bridget quanto la ami e b) altrettanto
incapace di capire il modo di comportarsi di Bridget. Ma se ami qualcuno, non
puoi stare solo lì sulla porta a vedere passare quello che succede, senza mai
una volta intervenire, dire, fare qualche cosa. Solo quando Bridget passa un
bruto momento sembra rinsavire e capisce che sia bene fare qualcosa. E
facendolo, tira finalmente fuori dai guai la nostra eroina. In tutto questo
Bridget prende al solito il centro della scena, ma continua a ripetere i suoi
stereotipi: ingrassare/dimagrire, fumare/smettere di fumare, ubriacarsi, avere
una fiducia cieca dell’altro che la porta ai tre momenti topici del libro. Il
primo, unico, positivo ed esilarante, è l’intervista romana con il “vero” Colin
Firth (e suggerisco di tornare ai film che ne sono tratti, con il momento
double face: intervista con Colin e rapporti con Mark interpretato da Colin;
gustoso). Il secondo è il conflitto con Gary il muratore, con la
ristrutturazione di casa, con i soldi che mancano, e con la finale scoperta che
Gary non è altro che un piccolo topo d’appartamenti, che ha l’unico intento di
rubacchiare dove può (anche poco, vista l’imbranataggine palesata). Il terzo, e
punto forte del libro, è invece il viaggio in Thailandia. Con tutto lo sballo
di alcolici e funghi “eccitanti”, con la comparsa del perfido Jed, e con
l’incastro che questi le procura nascondendo droga nel trolley di Bridget. Qui
Helen fa un’operazione che vorrebbe essere ridanciana, ma che, per chi legge
giornali e sa del mondo, risulta quanto meno improbabile. Il possesso di droga
in Thailandia è perseguito con una durezza estrema. E le descrizioni della
settimana nelle carceri thailandesi sono una discreta presa in giro, per chi sa
che, una volta finito in quel girone, difficilmente se ne esce prima di un
congruo lasso di tempo (anni!). E non se ne esce mai bene. Visto che siamo
(almeno nello scorrere temporale) nel 1997, non poteva mancare l’accenno alla
morte di Diana. Che tuttavia avrei omesso per rispetto del personaggio. Il
tutto finisce poi come cominciato con Mark e Bridget che tornano insieme. Un
po’ scontato. E non capsico, ne leggerò poi, perché i miei libri guida
continuano a citare la Fielding nelle loro terapie. Un’ultima considerazione:
il titolo. Perché modificare l’originale “limite della ragione” con questo
“pasticcio”? Certo, Bridget continua a non combinarne una buona, come abbiamo
visto, ma credo che l’idea dell’autrice sia stata invece di procedere su quel
solco fra razionale ed irrazionale, per continuare a sostenere la sua idea di
fondo. Tutti siamo un po’ sbalestrati in questo mondo, ed è difficile procedere
perseguendo una razionalità che non ci è propria. Così come non è propria per
la nostra povera Bridget. Ne vedremo ancora, di sue avventure? Ai postumi
l’ardua sentenza.
Proseguiamo
poi con i novantenni, pensando ai miei cari zii.
Mario Soldati “America primo amore” Sellerio euro 12 (in realtà
scontato a 10,20 euro)
[tramato
il 5 agosto 2018]
Ricordo,
nelle nebbie della memoria, di aver letto, venti anni fa almeno, “La giacca
verde” di Soldati, forse perché entrò in qualche lettura paterna di campagna.
Ma Soldati lo ricordavo e lo ricordo per l’immagine con il sigaro e la regia di
“Piccolo Mondo Antico” (soprattutto per quella filastrocca “Ombretta sdegnosa…”
che risuonava nella mia mente di bimbo intorno ai dieci anni). Così, ho accolto
con interesse l’invito a leggere questo libro, che le mie “amiche” di libro
sostengono essere utile a chi raggiunge i novanta anni. Cosa sulla quale fin da
ora dissento. Anche perché il libro, o meglio la serie di articoli
giornalistici scritti dall’autore nel suo primo soggiorno americano, sono
interessanti, intensi, ed aiutano a scoprire (o riscoprire) quel mondo di là
dell’oceano, che tanto è presente sia nel nostro immaginario che nel nostro
reale. Soldati ha 23 anni, da poco laureato, vince una borsa di studio di un
anno alla Columbia University, e, deluso dal clima italiano post Patti
Lateranensi, va in America deciso, internamente, di emigrare. Vi passerà due
anni (uno di borsa ed uno nel tentativo di restare laggiù), ma non trovando
sbocchi, dovrà, amante deluso, tornare in Italia. Dove pubblica diversi
articoli sulla sua esperienza americana. Articoli che nel 1935, assemblati e
ripensati, decide di pubblicare in un libro. Un libro d’amore per la sua “idea
America”, con le sue speranze, le sue scoperte, i suoi giudizi. Siamo nel pieno
dell’ondata fascista degli anni Trenta, e non tutto quello che Soldati pensa riesce
ad essere espresso. Fortunatamente riprenderà più volte il libro nel corso
degli anni, e, come magistralmente ci mostra la post-fazione di Salvatore
Silvano Nigro, lo renderà un insieme compatto e coeso. Riordinare gli articoli, limarli, raccordare
i tempi, serve, a lui ed a noi, per fare un viaggio insieme al possibile
emigrante. L’imbarco sul “Conte Biancamano”, la traversata, la conoscenza con i
primi italo-americani (magistrale l’incontro con il fallito baritono), e tutte
le traversie che il nostro passa sul suolo americano. È stato bellissimo, per
me che avevo a trent’anni il mito americano, e che proprio sul limitare di
quell’età, per la prima volta varcai l’oceano (con un improbabile volo Roma –
Belgrado – New York), ripercorrere con i suoi occhi alcune delle tappe che mi
hanno fatto amare – odiare quel mondo. L’arrivo nella Grande Mela, il
passeggiare tra le “street” e le “avenue”, gustare Battery Park, entrare e
rimanere, più e più volte, nel coacervo di suoni e di odori di Times Square.
Ricordo ancora lo stupore di vedere, oltre il Greenwich e verso Tribeca, le
scale antincendio esterne. Come nei film. Come se anche io fossi in un fil
americano. Soldati incontra la comunità italo-americana e non ha parole di
elogio per questi immigrati che di italiano, ormai, hanno solo il cognome. Lo
capisco. Come capisco, una volta che finiscono i soldi, il suo immergersi nel
mondo dei poveri: fare lo sguattero in condizione miserrime, cercare di
coniugare il pranzo con la colazione del giorno dopo (che la cena si può
saltare). Come non stargli vicino quando viene rapinato a Chicago (ed io che
ricordo quel ristorante vicino al Palazzo delle Nazioni Unite dove assistetti
ad un inseguimento tra un ladruncolo ed un poliziotto). Quanta nostalgia
leggere di pezzi di new York che erano già scomparsi quando ci sono andato la
prima volta, cinquanta anni dopo Soldati, e che ancor di più sono spariti ora.
Anzi più che ora, due anni fa quando ci sono andato per l’ultima volta (anche
se spero di tornarci ancora). Le chiese, i cattolici americani, ma anche i
gospel di Harlem, lassù, oltre la 105^ strada. Dopo il percorso, che le sue
parole ricostruiscono (l’arrivo, New York, Chicago, i risentimenti, l’addio),
due articoli sono rimasti impressi, fuori dagli schemi del girovagare diurno,
delle parole, dei gangster, degli amori fugaci. La bellissima disamina dei film
americani, con quell’affermazione che riporto e che condivido in pieno. La
cattivissima sparata contro il mondo accademico americano. Certo viziata un
poco dal fatto di essere stato rifiutato. Ma di un’esattezza scientifica: in un
mondo basato sul mito del denaro, fare il professore risulta a volte un ripiego
per chi si tira fuori dal mondo “di lotta” in stile americano. Tanto che spesso
i professori sono falliti (o quasi) e tentano di perpetuare il mondo sulla
falsariga del loro fallimento. Da un lato riecheggiano le distruttive parole
berlusconiane (con la cultura non si mangia). Dall’altro, ricordo perfettamente
lo scontro con i colleghi d’oltre oceano, ai tempi universitari, che sapevano
perfettamente “come” funzionasse ad esempio un telefono, ma non si erano mai
domandati “perché”. Ciliegina sulla torta americana, i due ricordi incrociati,
di Soldati e del suo grande amico Carlo Levi, su come nacque la copertina della
prima edizione, all’alba dell’arresto e dell’avvio al confino dello stesso
Levi. Da leggere assolutamente. Come va letto il libro. Che mi riporta ad amare
quell’America che non aveva ancora Trump, ma di cui ricordo lo spaesamento, un
dì, in un caffè di Flagstaff, guardato con meraviglia da un locale, quando gli
dissi che vivevo a Roma, vicino al papa. Esperienze che non si scordano.
“Dormire in una camera, mangiare ad una
tavola per cui non debba pagare immediatamente mi dà il senso del gratuito. Alla
fine … presentano il conto … Ma pagare un conto non è pagare per avere qualcosa
… è fare un sacrificio misterioso … a ignote potenze organizzate.” (153)
“Meglio vere paure che orribili fantasie.”
(207)
“Un film americano innanzi tutto e sempre è
un film. Cioè non annoia.” (209)
Finendo quindi con un’evasione
ancora da meditare con Bolano.
Roberto Bolaño “I detective selvaggi” Adelphi s.p. (regalo de “I
Floridi”: Mario, Ines e la signora Laura)
[finito di leggere il 20 aprile 2020, anteprima]
Un libro discretamente complesso, che impegna nella lettura pieno com’è
di rimandi e di informazioni altre. Ma una delle prove migliori, per me, tra
quelle del mio coevo Bolaño (che in effetti è nato 10 giorni prima di me) che
ormai da troppo tempo ci ha lasciato. Il romanzo è veramente complesso, tanto
che meriterebbe un libro a sé per poterne parlare, e decrittare tutte le
sfaccettature. Di certo è il tentativo di uno scrittore con una testa
meravigliosa di lanciare un peana, o meglio come direbbe uno dei suoi
personaggi, Juan Garcia Madero, una trenodia ad una generazione centroamericana
che uscirà con le ossa rotte dal calderone della storia. Non solo è complesso
nella storia, ma lo è anche nella struttura, tripartita e polifonica. Il nodo centrale
è l’incontro di vari giovani latino-americani, scrittori, poeti o comunque
vicini alla letteratura (anche giornalisti, grafici di riviste, ed altro) che
convergono verso la creazione di un movimento letterario dal nome attraente
“realismo viscerale”. Movimento che qualcuno di loro fa risalire ad un analogo,
simile movimento degli anni ’20, che avrebbe avuto esponente di picco una
poetessa, Cesarea Tinajero, poi scomparsa senza lasciare traccia nel distretto
di Sonora (una regione semi-desertica di confine tra Messico e Arizona). Già da
questo vediamo il mascheramento ed il tentativo dell’autore di descrivere
un’epopea basata sui rimandi. Infatti, si vede in trasparenza il movimento che
intorno al 1974 fondarono lo stesso Bolaño ed il suo carissimo amico Mario
Santiago con il nome “infrarrealismo”. L’idea dei due è di dare vita, in
Messico ed in lingua spagnola, ad una “cosa” (e mi scuso ma non c’è un nome
singolo per quello che volevano fare) che percorresse strade analoghe,
letterarie e di vita, alla Generazione Beat americana degli anni ’50. Anche il
movimento messicano aveva un antenato anteguerra mondiale, con lo stesso nome,
legato però non ad uno scrittore ma al pittore cileno Roberto Matta, che lo
avrebbe coniato quando fu espulso dal movimento surrealista da parte di André
Breton. Anche il “realvisceralismo” di Cesarea aveva avuto a suo tempo un
ombrello da cui fu espulso. Era lo “stridentismo”, fondato nel 1921 in Messico
dal poeta Manuel Maples Arce, anche qui un movimento interdisciplinare, legato
al sociale, con radici nel futurismo, nel dadaismo, nel surrealismo, così
denominato per il gran rumore che suscitò alla sua comparsa (stridente à rumore sgradevolmente acuto secondo il
dizionario). Già da questa genesi vediamo la complessità dell’idea di base. Ma
anche la struttura, come detto polifonica, è magistrale. Il libro è composto da
tre parti. La prima e la terza sono il diario scritto dal giovane Juan Garcia
Madero, diciassettenne innamorato di poesia, che ci racconta gli avvenimenti da
lui vissuti dal novembre 1975 al febbraio 1976. L’incontro con i fondatori del
“realvisceralismo”, Arturo Belano e Ulises Lima. La sua entrata nel movimento.
L’incontro con tutti i personaggi che gravitano intorno, in special modo le
donne (di cui si innamora ed altro). La fuga con Arturo, Ulises e l’ex-prostituta
Lupe sia per sfuggire al di lei magnaccia, sia per cercare tracce di Cesarea
nello stato di Sonora. Di certo non vi dico cosa succede prima, durante e dopo
questa ricerca, e se viene trovata Cesarea, ed altro. La parte centrale,
corposa e molto articolata, è invece basata su decine e decine di voci diverse,
che raccontano cosa succede della vita di Arturo e Ulises dal 1976 al 1996.
Questo coro, cui i due letterati centrali del romanzo non partecipano mai, ci
farà seguire le loro gesta. Arturo, il cileno, e le sue donne. I suoi amici
omosessuali. La sua fuga in Europa, dove farà mille mestieri, dal commesso, al
guardiano di campeggio. I suoi matrimoni, e forse uno o due figli. La voglia di
non star mai fermo, come se avesse paura di qualcosa. La sua seconda ed ultima
fuga in Africa, dove, come Rimbaud, pare (o riesce?) voler perdersi senza
ritorno. Ulises che invece rimane ancora in Messico all’inizio, ed è quasi
ignorato. Ma che poi va anche lui in Europa, si incontra con Arturo, poi decide
di andare a trovare una sua fiamma in Israele, dove trova che questa è sposata
con un altro. Il ritorno in Messico. L’incontro con l’ormai anziano Octavio
Paz, l’emblema contro cui i realvisceralisti avevano scagliato le prime pietre.
Ma queste sono solo piccole piume della ricchezza della scrittura. Perché ogni
voce, ogni persona che interviene, fa nascere spesso un microracconto interno
al romanzo. Un racconto che a volte si esaurisce, a volte si riprende più
tardi. E da tutte queste voci, che di sicuro non riesco a riportare qui, alla
fine esce fuori il monumento dolente di una generazione. Di un insieme di
intellettuali che avrebbero voluto portare novità, che avevo iniziato a
portarne, ma che, come tutte le cose, alla fine rimane solo qualche elemento,
qualche rovina, anche se delle rovine bellissime. Qualcuno, meglio attrezzato
di me, parla di una “educazione sentimentale” alla Flaubert legata a persone e
a movimenti. Non so, non mi pronuncio. Quello che è certo, è che dietro ogni
personaggio c’è sempre una persona. Non a caso i due di cui cerchiamo di capire
le gesta e la vita, Arturo e Ulises, sono gli alter ego di Bolaño e di Mario
Santiago. Come molti altri personaggi, per cui penso che dedicherò del tempo a
ritrovarne voci e sentimenti nello spazio e nella memoria. Nel libro
Arturo-Roberto sparisce e Ulises-Mario rimane a vagare in una Città del Messico
che, ad ogni passo, mi torna alla memoria. Nella realtà, in quel 1998 in cui
finì la scrittura, Roberto stava ormai da tempo a Barcellona, cercando di curarsi
per un male che ce lo porterà via cinque anni dopo. Mario stava sì in Messico,
ma venne travolto in un incidente stradale e non riuscì mai a leggere di questi
detective selvaggi. Di questi cercatori che le voci del bravissimo cileno
utilizza per cercare di trovare, e di presentarci, l’anima di una generazione.
Investigatori dell’anima e scopritori di sentimenti. Un libro che a volte è
troppo “messicano” per me profondamente occidentale. Ma che mi ha stimolato, mi
ha preso, e mi ha fatto voglia di andare oltre. Di viaggiare, col corpo e con
la mente. Di visitare il deserto di Sonora, e di trovare i segni del passaggio
di Juan Garcia Madero, uno dei pochi al mondo che sapeva cosa fosse
l’epanadiplosi.
“Tutti i libri del mondo stanno aspettando che io li legga.” (20)
“Peccato che il tempo passi, vero? peccato che si muoia e si invecchi e
che le cose belle si allontanino da noi al galoppo.” (204)
“Le storie che si raccontano negli aeroporti si dimenticano in fretta, a
meno che non siano storie d’amore.” (560)
Conclusioni
Per alcuni versi, pur essendo
stato contento della spinta alla lettura, trovo le motivazioni di questi tre
libri poco gradevoli. Il rinchiudere le donne nei recinti mestruali,
considerare un libro di formazione e di sconfitta come evasione, nonché pensare
i novanta anni diano necessità all’indulgenza letteraria, mi trova poco
convinto. Per ora godiamoci il piacere anche di queste letture.