[A: 15/01/2018
– I: 26/06/2020 – T: 28/06/2020] &&
e ¾
[titolo:
Recipes for Love & Murder. A
Tannie Maria Mystery; lingua: inglese; pagine: 477; anno:
2015]
Come sempre, nei casi della vita, dopo aver
letto un’avventura sudafricana di Smith, eccoci alle prese con un romanzo
ancora sudafricano. Ambientato però verso Cape Town, ed in particolare nella
zona denominata Karoo. Una zona geomorfologicamente complessa divisa in due
grandi ma non uguali zone. Il Grande Karoo (Groot Karoo) semidesertico ed il
Piccolo Karoo (Klein Karoo) che è savana e prateria, nonché teatro principale
del romanzo.
La scrittrice che ci fa viaggiare verso
questi luoghi (sempre interessanti) è un’autrice di romanzi pedagogici,
ecologista ed amante della natura, che vive nel Karoo e che cinque anni fa ha
deciso di cimentarsi nel romanzo giallo, senza però dimenticarsi le sue radici.
Tant’è che il romanzo in sé non risulta né scorrevole né particolarmente
avvincente, che a volte Sally è presa da intenti “altri” rispetto alla trama
(consigli d’amore, ecologismo da non dimenticare mai e tante, tantissime
ricette, di cui riparleremo).
L’idea di base, inoltre, è un po’ scopiazzata
dalla più fortunata serie poliziesca ambientata nel mondo australe: quella di Precious
Ramotswe, la fortunata detective del Botswana uscita dalla penna di Alexander
McCall Smith. Mentre Precious è “fully colored”, l’eroina del nostro libro è
invece meticcia, e l’azione si svolge nel pieno dell’interno sudafricana, con
una forte componente afrikaans, che, purtroppo, non viene tradotta quasi mai,
lasciando alcune zone d’ombra al lettore.
Tannie Maria vive a Ladismith (da non
confondere con Ladysmith città del Natal, questa è nel Karoo dedicata a Lady
Juana Maria de los Dolores de Leon Smith, sposa del governatore di Città del
Capo del 1851, Sir Harry Smith), è stata sposata, ma il marito, che la
picchiava, è fortunatamente morto. Lasciandole comunque un forte dolore per non
essersi saputa ribellare, ed una paura che si sente sulla pelle
nell’approcciare il mondo maschile. Tannie (che ho scoperto essere un appellativo
di rispetto locale, l’equivalente di “zia”, tipo che se fosse ambientato nel
Sud Italia, lei potrebbe essere “zi’ Marì”) Maria ha però il dono di cucinare
in modo sopraffino, di risolvere molte situazioni con un piatto preparato dalle
sue sapienti mani. Tanto che lavora alla gazzetta locale, tenendo l’angolo
delle ricette. Giornale gestito dall’impeccabile Hattie, e dove lavora agli
articoli la giovane e simpatica Jessie.
Il via alle vicissitudini è la richiesta
degli editori del giornale di cambiare l’angolo delle ricette in un pezzo di
“Posta del Cuore”. Inciso, ho scoperto che chi si occupa di questa posta, in
inglese è chiamato “Agony Aunt” (zia Agonia), e forse gli addicted di slang mi
sapranno delucidare. Tannie Maria riceve tante lettere di persone colpite in
vario modo negli affetti, e risponde elargendo consigli e ricette. Il punto
dolente è quando riceve una lettera di una signora, anonima, che non sa
ribellarsi al marito che la picchia spesso, che trova rifugio nell’affetto di
una sua amica, e che non sa come uscire da questa situazione. Prima che Tannie
Maria riesca a fornire consigli e ricette, però, la signora muore assassinata.
Da qui si scatena un vaudeville di accuse, di assalti, di situazioni abbastanza
variegate, ed anche divertenti.
Prima viene accusato il marito, ma le prove
non tengono. Poi l’amica, anche se sembra strano che uccida una persona che
dice di amare. Il fatto è che non è ricambiata e potrebbe aver agito di
gelosia. I due vengono scagionati per motivi che non vi dico, ma inscenano una
sceneggiata in cui si vogliono uccidere a vicenda. Fino a che Maria non li
convince, a suon di prove, che non possono essere stati loro. Esce fuori
l’ex-fidanzato di Martine (questo il nome della morta), e Dirk (il marito) e
Anne (l’amica) si alleano per farlo fuori. Anche questo viene fermato da Tannie
Maria, in unione con Henk, il capo della polizia locale, che vediamo subito
avere un debole per la nostra cinquantina.
Tra una ricetta e l’altra, si intravede in
controluce la reale trama. Qualche grossa compagnia petrolifera vuole
utilizzare il fracking per aumentare la produzione del greggio. Ma per far ciò
deve acquistare le terre, e non tutti vogliono vendere. In particolare,
Martina, che tenta un gioco “sporco”: promette di vendere, si fa dare soldi in
anticipo con i quali poter fuggire dal marito. Ma qualcuno scopre il gioco, e
Martina ha la peggio. Resta solo da scoprire che regge le fila delle compagnie,
se pagherà e come il delitto, se Maria e Hank si scioglieranno, se Jessie
troverà anche lei l’amore.
Che, ad esempio, per complicare il tutto,
Sally introduce tanti piccoli rametti laterali: Candice, una cugina di Martina,
in bancarotta, e belloccia da far girare la testa anche all’uomo di Jessie, il
fratello di Martina squattrinato, un figlio con problemi fisici, e chi più ne
ha più ne metta, nelle grandi distese del veld sudafricano.
Ho lasciato fracking poco sopra, come ha
fatto il traduttore, anche se si poteva con facilità utilizzare il termine
italiano di “fratturazione idraulica”. Così come quella ridondanza di parole
non tradotte che fanno cadere di molto il livello. Rimangono, questo sì, le
ricette. Che conserverò insieme a quelle dei grandi autori gialli (i Maigret, i
Nero Wolfe, i Montalbano), che mi divertono. Purtroppo, anche se descritte in
modo divertente, sono troppo complicate anche per riportarne brani.
In finale, seppur riconosco a Sally Andrew
una buona dose di amicalità verso il lettore, ed una decente ideazione di
trama, non è poi che sia convincente al massimo. Però a successo, tanto che in
patria già sono usciti altri due romanzi con la simpatica Tannie. Ultimo, ma
sempre presente lamento, riguarda il titolo. Da “ricette per amore e omicidio”
viene inserito una “torta al cioccolato” che c’entra veramente nulla (almeno
nel titolo). Insomma, riusciranno mai i nostri editori a fare operazioni di
correttezza verso gli autori?
“Nessuno è mai troppo vecchio.” (412)
Claudia
Piñeiro “Le vedove del giovedì” Repubblica Noirissimo 34 euro 7,90
[A:
12/02/2018 – I: 02/06/2020 – T: 04/06/2020] - & e ½
[tit.
or.: Las viudas de los jueves; ling. or.: spagnolo; pagine: 301;
anno 2005]
Un libro in una collana sbagliata porta ad
essere visto con occhio forse più critico del dovuto. La sessantenne scrittrice
argentina non si tira mai indietro nelle critiche alla società argentina. Tanto
più che il romanzo è interamente svolto all’interno del complesso residenziale
“Altos de la Cascada”, un country club che ritornerà nel libro “Betibù”, che
lessi anni fa e che recensii favorevolmente. Ma non è assolutamente un giallo,
e la sua uscita in questa collana ci fa rendere conto come i curatori
editoriali, spesso (se non sempre) agiscono senza conoscere cosa stanno
proponendo.
Visto che “Betibù” era sì un giallo (uscito
nella collana di Repubblica MondoNoir nel 2014), visto che l’ambientazione è
analoga, visto che comunque ci sono dei morti, e visto che la scrittrice è la
stessa, qualcuno ha pensato di pubblicarlo in questa “Noirissima” collana. Così
che il lettore, invece di seguire solo l’intreccio, dedica parte delle proprie
energie mentali a capire dove sia il noir, dove sia il mistero, dove sia chi
indaga e chi è indagato. Perdendo così di vista le potenzialità ed anche la
bellezza di questo affresco della vita argentina cristallizzato al 27 settembre
2001, e che ripercorre, in vario modo, l’ascesa e la crisi dell’economia locale
nei dieci-quindici anni precedenti.
Piñeiro ci descrive una comunità che si
aggrega all’interno del country club agli inizi degli anni Novanta, che spinge
politicamente Carlos Menem alla presidenza, ma che si inizia a disgregare verso
la fine del secolo. Certo, nelle prime pagine ci sono un ferito e tre morti, ma
sono solo lo spunto, o il punto d’arrivo della narrazione. Che la scrittrice
comincia da questa fine (o quasi fine) per raccontarci la vita del club e delle
persone del club. Cambiando ogni tanto voce narrante. A volte è Virginia, forse
il personaggio più interessante, a volte Teresa, spesso in terza persona da
narratore onnisciente. Ma, come detto, non c’è nessuno che indaga sulle morti,
che vengono lasciate lì per 270 pagine, e poi tornare in un finale (o in una
serie di finali) che dicono ma non spiegano. Tanto che in “Betibù” si tornerà a
gravitare sempre intorno allo stesso country club.
Perché appunto l’idea di Piñeiro è invece
descrivere la vita di una classe che si suppone agiata, e che sarà tra le più
colpite dalla crisi economica post-Menem. La parte migliore, o meno negativa, è
data dalla famiglia Gutierrez: Virginia, che si dedica alla compravendita delle
case, visto che il marito è da anni disoccupato, Ronie, appunto, il marito, da
anni senza lavoro, e Juani, il figlio, che seguiamo fin dalle medie per poi
arrivare ai tempi universitari. Juani che, a contatto con il mondo esterno,
sembra l’unico a comportarsi decentemente, in contrasto con la famiglia, ed in
sodalizio con Romina. Questa è una ragazza che vediamo essere adottata a tre
anni da Mariana ed Ernesto, insieme al fratellino Pedro (che non incontriamo
mai). Sono di certo “figli” di situazioni strane, come tante nelle dittature
sudamericane, magari figli di desaparecidos, o di poveri cui vengono strappati
a suon di pesos. Poi c’è il fulcro del club, la famiglia Scaglia, con Tano,
pezzo grosso di una società assicurativa, e la moglie Teresa, l’anima delle
iniziative sociali del club. Ad un certo punto entra in scena Gabriel, alter
ego di Tano dal punto di vista sociale, con una propensione a picchiare la
moglie Lana anche senza motivo. Intorno c’è anche altra gente, soprattutto la
famiglia Ulrich, anch’essa in difficoltà economica per licenziamenti ed altro.
L’idea della scrittrice è di farci vedere il
vuoto che c’è dentro le anime di questi presunti ricchi. Che prima spendono e
spandono. E che non sanno né sapranno gestire la crisi. Tenteranno mezzi e
mezzucci, anche collegamenti con Arturo, un malfamato avvocato, che però cade
sempre in piedi. Vediamo le mogli che si aggirano nel club, vediamo i mariti
che giocano a tennis, giocano a golf. Vediamo tutti che si affannano a tenere
fuori il mondo reale, usando i domestici come fantasmi. Ci sarà un motivo serio
per le morti di cui all’inizio, e ne capiremo i motivi, e quanto c’è intorno, e
come i vari personaggi si pongono di fronte a tutto ciò. Ma sempre come se
fosse, anzi come è una descrizione di un mondo in rovina, di un’economia che
sappiamo bene come sia finita (crisi, debiti internazionali non pagati, ed
altre “facezie” economiche).
Insomma, non è un giallo e non lo sarà mai. È
una fotografia, anche ben fatta, di un mondo in caduta libera. Forse, letto in
alto contesto, avrebbe suscitato migliori riflessioni. Peccato. Non è colpa
della scrittrice, ovvio, ma quando ci si storce leggendo un libro, è difficile
raddrizzare i giudizi.
“Vivere non è lo stesso che raccontare.
Vivere si vive, ed è finita lì. Per raccontare bisogna mettere in ordine.”
(141)
Brigitte
Glaser “Delitto al pepe rosa” Repubblica Noirissimo 33 euro 7,90
[A: 22/01/2018
– I: 09/07/2020 – T: 11/07/2020] - &&
e ½
[tit.
or.: Leichenschmaus; ling. or.: tedesco; pagine: 332;
anno 2003]
Eccoci alla lettura del primo dei libri di
gastronomia nera scritti dalla tedesca Brigitte Glaser, quasi mia coetanea
scrittrice di Offenburg, nella Germania alsaziana. Primo di altri due o tre già
entrati in libreria e che sono curioso di leggere. Per il piacere che sempre mi
ha dato mescolare delitti e cucina. Anche se in genere, non in modo così
stringente. Tanto che farei meglio a dire di cucina che insaporisce l’ambiente
dei delitti. Come le ricette di Nero Wolfe, della signora Maigret o della cuoca
Adelina di Camilleri. Qui, invece, abbiamo proprio una cuoca che viene
coinvolta in una trama gialla, improvvisandosi (e vedremo come) detective.
Intanto, come non mandare la solita invettiva
ai traduttori ed editori italiani che modificano il “Banchetto funebre” del
titolo, introducendo un “pepe rosa”, che se da un lato non c’entra molto,
dall’altro mette una pulce nell’orecchio del lettore, anzitempo rispetto alla
trama. Di certo all’inizio non era facile imbastire una trama con al centro una
cuoca, non tanto per introdurre delle uccisioni, quanto nel far passare la
protagonista Katharina Schweitzer dal ruolo di semplice chef gard-manger a
investigatrice di delitti. Devo dire che Brigitte costruisce bene l’impianto ed
anche la trama poliziesca.
Intanto, veniamo a poco a poco edotti delle
schiere di cuochi delle batterie di cucina dei grandi ristoranti. Il capocuoco,
l’addetto alle carni ed ai pesci, il responsabile delle salse, il cuoco dei
piatti freddi, dagli antipasti ai dolci, il jolly che dà una mano qua e là, ed
i ragazzi che fanno la gavetta: piccole preparazioni preliminari ai grandi
piatti, missioni in cantina o in cella frigorifera a reperire gli alimenti. E
poi lui, il fulcro, quello che stabilisce il menu, che rifornisce il
ristorante, che dà il tono ed il tocco da grande chef stellato, come il qui
presente Hugo Spielman del Bue d’Oro di Colonia. Tra l’altro, Köln è una città
che poco conosco, e mi ha fatto piacere girare per la città e per il lungo Reno
con gli attori del dramma.
In prima piano, Katharina, venuta da una
famiglia di ristoratori, passata per le pasticcerie di Vienna e di Bruxelles,
ed ora chiamata a Colonia. Ha un grande amore, che però è un cuoco giramondo,
che invece di rimanere con lei, decide di sperimentare la cucina indiana in un
grande ristorante di Bombay. L’aiuto detective nella vicenda sarà la padrona di
casa di Katharina, Adela, ostetrica in pensione che per il suo mestiere
pregresso conosce moltissima gente di ogni categoria nella cittadina tedesca.
Se quindi da un lato assistiamo, e con interesse, alla vita quotidiana di un
ristorante, la trama comincia a tingersi di giallo.
Una sera, al Bue, muore un commerciante
d’auto, all’inizio pare per un infarto, poi si scopre un avvelenamento. Il
tizio sembrava senza storia, poi si scopre che, benché sposato, era in realtà
gay. La moglie era abbastanza storta della faccenda (e si capisce), ed il
partner maschile del morto era nientemeno che il capocuoco del Bue d’Oro. La
trama si infittisce quando pochi giorni dopo, anche il capocuoco muore, questa
volta ucciso a coltellate con un “disossatore” della cucina (un particolare
coltello). Katharina raccoglie confessioni di piccole irregolarità dei vari
componenti della brigata di cucina, mentre Adela sostiene che le due morti
siano opera di mani diverse.
L’autrice complica la trama introducendo una
storia più di sesso che d’amore tra la nostra e il grande Spielman, complicata
dal ritorno di Ecki, l’amore di Bombay, che resta alcuni giorni a Colonia tanto
per completare il tutto. La morte del jolly di cucina, colpito alla testa da un
salame particolare e lasciato morire nella cella frigorifera, comincia a far
ragionare le rotelle di Katharina. Anche perché si accorge che molti indizi
portano verso la diminuzione del senso del gusto per operatori culinari. Una
perdita irrecuperabile. Abbiamo anche un poliziotto, che sembra proprio il
contraltare della buona cucina: rifiuta i manicaretti di Spielman, preferendo imbevibili
bibitoni di caffè e fumando a tutto spiano, anche nel ristorante (mancanza di gusto
totale). E se Fisher, con l’aiuto di Adela, risolve il primo mistero, per il
secondo ci porta verso un sottofinale in cui è proprio la nostra Katharina ad
avere tutti gli indizi contro di lei.
Finalmente, nelle ultime venti pagine, la
nostra eroina esce dal torpore, mette in fila gli indizi e risolve il mistero
di tutte le morti, delle loro concatenazioni, degli antecedenti e dei
conseguenti. Per riassumere le sensazioni, buone alcune idee, con un andamento
forse un po’ frenato. Interessanti le sei ricette finali legate alle patate,
anche se, per chi è andato in Perù, le varietà utilizzabili sono secondo una
ricerca di naturalisti locali circa 1.400! Comunque, poteva andare peggio, e
sono curioso di vedere le prossime puntate.
“Si poteva dire … che, a dispetto delle
sue cinquantaquattro primavere, fosse nel fiore degli anni.” (39) [ma vogliamo
scherzare…]
Kwei
Quartey “Omicidio nella foresta” Repubblica Noirissimo 35 euro 7,90
[A: 12/02/2018
– I: 24/07/2020 – T: 25/07/2020] &&
-
[titolo: Wife of the Gods; lingua: inglese; pagine: 376; anno: 2009]
Premesse interessanti, scrittura ed intreccio
scorrevoli, ma alla fine ci si poteva aspettare di più. Da un autore sangue
misto, che ambienta il suo scritto in uno dei suoi due paesi, e che scrive dopo
aver passato anni (quanti non si riesce a sapere, anche se pare più di venti)
nell’ambito medicale. Quartey è in effetti figlio di un nero del Ghana e di una
madre afroamericana, dovrebbe essere nato intorno alla metà degli Anni
Sessanta, in Africa, trasferendosi alla metà degli ottanta in America, dove si
laurea in Medicina, dal ’90 lavora in California, ed intorno agli anni Dieci
del secolo comincia a scrivere. Proprio con questo romanzo.
Un romanzo, come detto, ambientato in un territorio
a lui discretamente familiare: il Ghana del padre e della sua infanzia. Con un
po’ di Accra (la capitale, ignoranti) e molto del Ghana rurale, risalendo lungo
il Volta, tra il grande lago ed il Togo (riusciremo mai ad andarci?). Quindi
immerso in un mix di modernità ed arretratezza come in molti ambienti africani.
Liberalità, lotta all’Aids verso stregoni, medici improvvisati, nonché aspetti
tribali. Tanto che se avesse scritto il libro in lingua locale (la lingua
“ewe”) lo avrebbe intitolato “trokosi”, la cui libera traduzione in inglese (da
cui il titolo originale) è “sposa/schiava del dio”. La “trokosi” è in effetti una
pratica di alcune zone del Ghana, che comporta l'offerta di giovani donne ai
sacerdoti dei culti tradizionali, da parte delle famiglie con la speranza di
espiare colpe, reali o presunte, quasi sempre frutto di comportamenti tenuti da
membri maschili della famiglia stessa.
Da buon frequentatore di letture americane,
Quartey incentra la storia su Darko Dawson, un ispettore di polizia, coinvolto
nell’indagine sull’omicidio di Gladys, una studentessa di medicina in una zona
verso il confine con il Togo. Ed una delle direttrici principali dello scritto
e degli strali dell’autore è proprio la descrizione del conflitto tra la conoscenza
medica scientifica attuale e l’importanza dei guaritori tradizionali. Mescolato
ai problemi personali ed atavici del nostro Darko, con madre scomparsa in
circostanze misteriose e figlio con problemi di cuore. Ma questi sono legati ad
una storia parallela e poco incisiva che tralascio.
Quando la studentessa muore nel paese natale
di Darko, il suo capo pensa di mandare lui in quanto conosce bene i luoghi. E
lì Darko ritrova l’ambiente dell’infanzia (un po’ come Kwei con il Ghana). C’è
il grande stregone con il seguito delle trokosi, stregone tra l’altro malato di
AIDS che rischia di trasmettere a tutte le mogli, e che era uno dei punti di
contrasto con Gladys. Che girava le campagne, spinta dal suo tutor, proprio per
diffondere la prevenzione alla grande piaga africana. C’è il medico
tradizionale Isaac, che proviene da una famiglia di medici “naturali”, ma non
sembra avere appreso molto. Anche perché è stato un bel ragazzo, ed ora è un
bell’uomo che se la tira assai. C’è la famiglia di Darko, soprattutto incentrata
sulla zia Osewa, che si capisce fin da subito essere al centro di qualche
problema. Sembrava sterile, poi venticinque anni prima, dopo una serie di cure
di Isaac, improvvisamente partorisce. Motivo per cui la sorella, madre di
Darko, la va a trovare. Viaggio da cui non ritorna. Per un conflitto con lo stregone
malato volendo anche lei liberare le schiave? Per un rifiuto alle avances di
Isaac? Per una gelosia nei confronti della sorella? Tra l’altro, Darko scopre
un braccialetto di Gladys tra le cose dello stregone. E scopre il modo in cui
Osewa e Isaac si contatto per dedicarsi ai loro piaceri. Collegando il tutto
con una osservazione che altrimenti sarebbe parsa ingiustificata, e non vi dico
quale, Darko elimina il superfluo ed arriva al nocciolo della questione.
Come accennato, alcuni punti interessanti,
quando si parla dei conflitti, delle spose di dio, delle usanze tribali, e dei
tentativi di portare modernità nei siti africani più reconditi. Per il resto,
un po’ di detective story che risente più dell’America che dell’Africa.
Consiglierei a Kwei un sano approfondimento dei libri di Alexander McCall Smith
sul Botswana.
Infine, riprendendo quanto all’inizio, va bene
le spose degli Dei dell’originale, ma da dove spunta quel titolo italiano
sull’omicidio nella foresta? Rimango sempre dell’idea che tradurre sia sempre
tradire, anche quando la traduzione è difficile e se ne cerca un senso. Che qui
purtroppo non c’è stato.
Prima
trama di novembre, quindi eccoci ai libri di agosto, che si spera già “viaggioso”
ma non lo è stato. Quindi una buona dose di letture (16) con ben quattro libri
belli e solidi: il boreale Stefánsson, l’enigmatico Dicker, il compiano
Camilleri e la scrittrice araba Leila Slimani. In fondo alla lista, invece, uno
dei libri peggio riusciti di Wilbur Smith (con tutta una trama veramente
incasinata di servizi segreti ed attentati).
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Daniel Goleman |
Intelligenza emotiva |
BUR |
s.p. |
2 |
2 |
Wilbur Smith & David Churchill |
La guerra dei Courtney |
HarperCollins |
12,90 |
3 |
3 |
Jón Kalman Stefánsson |
Luce d’estate ed è subito notte |
Corriere Boreali |
8,90 |
4 |
4 |
Arnaldur Indridason |
Un delitto da dimenticare |
TEA |
11 |
3 |
5 |
Harper Lee |
Va’, metti una sentinella |
Repubblica Duemila |
9,90 |
3 |
6 |
Joel Dicker |
L’enigma della camera 622 |
La Nave di Teseo |
s.p.
|
4 |
7 |
Wilbur
Smith |
I
fuochi dell’ira |
TEA |
9,90 |
2,5 |
8 |
J.
J. Connington |
Il
caso con nove soluzioni |
TEA |
10 |
2,5 |
9 |
Andrea Camilleri |
Riccardino |
Sellerio |
15 |
4 |
10 |
Clive Cussler & Thomas Perry |
L’enigma dei Maya |
TEA |
331 |
2 |
11 |
Leila Slimani |
Il diavolo è nei dettagli |
Rizzoli |
8 |
4 |
12 |
Guy
Cullingford |
Il
morto che non riposa |
TEA |
10 |
2 |
13 |
Wilbur
Smith |
La
volpe dorata |
TEA |
9,90 |
1 |
14 |
Per
Olov Enquist |
Il
medico di corte |
Corriere Boreali |
8,90 |
3 |
15 |
Colson
Whitehead |
Il
colosso di New York |
Repubblica NewYork |
9,90 |
3 |
16 |
Mary
Roberts Rinehart |
La scala
a chiocciola |
TEA |
10 |
3 |
Il virus riprende, e noi, con tutte le attenzioni, cerchiamo un adeguamento tra il fare e l’aspettare. Certo, questo novembre non mi pare molto foriero di positività immediate, ma faremo tutti la nostra parte. Intanto, un augurio di buon onomastico a tutti coloro che, con nomi non usuali, non trovano spazio nel calendario. Poi un augurio a chi oggi gli anni li compie.
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