domenica 15 novembre 2020

I cammini della filosofia - 15 novembre 2020

 Finalmente inizio a parlare della collana di Repubblica sulla “Filosofia viva”, dove la felicità (di Ilaria Gaspari) ha senz’altro la meglio sull’amore (di Vittoria Baruffaldi). Ma l’agile libretto di Leila Slimani si erge, con tutte le sue contraddizioni. Anche sopra ai personali equivoci (ma gradevolmente letti) di Federico Pace (da cui capirete i cammini). Una settimana quanto meno stimolante.

Ilaria Gaspari “Lezioni di felicità – Esercizi filosofici per il buon uso della vita” Repubblica Filosofia Viva 4 euro 9,90

[A: 13/03/2020 – I: 22/04/2020 – T: 23/04/2020] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 148; anno: 2019]

Interessante inizio di questa nuova collana, posta presto in lettura per l’alternanza tra libri vecchi e nuovi. Certo il sottotitolo della collana (che come scritto sopra si chiama “Filosofia Viva”) recita un po’ pomposamente: “la saggezza dei grandi pensatori per prendere la vita con filosofia”. Non so ancora gli altri nove titoli cosa mi porteranno. Intanto questa prima lettura è stata senza dubbio gradevole, rilassante, ed anche portatrice di riflessioni interiori.

Plaudiamo anche all’autrice che è una “under 35”, laureata in filosofia a Pisa con un master alla Sorbona. Chapeau! Le notizie su di lei dicono che ha scritto anche altro, ma qui ci cimentiamo con una scrittura double face. Che da un lato ci fa percorrere le vie interne ed anche scanzonate dei filosofi greci, da Pitagora a Diogene. Dall’altro utilizza questo viaggio per esorcizzare un problema reale e personale (non so, né mi interessa se lo spunto si vero o derivato dalla necessità della trama), quello della fine di un rapporto che durava da dieci anni, con conseguente necessità di traslocare in un ambiente che sia adatto alle finanze ora ridimensionate, di impacchettare la propria vita in scatoloni (e quelli dei libri non bastano mai), e di ripartire. Ma si sa che il trauma di una separazione, soprattutto se poco consensuale, non è così facile da superare e da affrontare.

Allora la filosofa Ilaria inventa per sé, e ci trascina con sé dentro, un percorso attraverso la filosofia greca, per condurci verso quel sottotitolo (che forse è un po’ pretenzioso, ed avrebbe dovuto essere contestualizzato, altrimenti si pensa che parliamo di “tutti” i filosofi, e non solo dei primi) usando una serie di passaggi attraverso i filosofi. Una settimana per ognuna delle scuole antiche, cercando di immedesimarsi nella scuola stessa, usando quella metodologia filosofica come esercizio per superare i traumi. Ma anche per arrivare laddove Socrate ci avrebbe fatto partire, dal conoscere sé stessi (che certo non è facile…). Quindi cerchiamo di vivere con Ilaria per sei settimane, ognuna dedicata ad una scuola filosofica.

Si comincia di certo, e per semplicità, con i pitagorici, che almeno avevano una lista di precetti per far esercizi e diventare filosofi. Non certo matematici, che quelli erano il “cerchio magico”. Ma i 15 passi per essere pitagorici possono essere seguiti, anche se rimane sempre misterioso il primo (“astenersi dalle fave”). Dal settantacinquenne metapontino si passa al sessantenne eleatico Parmenide, cercando in particolare di andare a fondo sui paradossi di uno dei suoi più acuti discepoli, Zenone di Elea. Ma noi sappiamo che Achille raggiungerà la tartaruga, nonostante tutti gli sforzi filosofici per dimostrare il contrario (ma d’altra parte io sono un matematico non un filosofo, e conosco la teoria dei limiti…), e possiamo passare subito e senza danni alla terza settimana, quella degli scettici. Dove il fondamento ci deriva da Pirrone di Elide (e son passati quasi 200 anni da Pitagora) che nell’impossibilità della conoscenza, non ci si può che consegnare all’imperturbabilità, dal greco “atarassia” (cioè “privi di agitazione”). Leggendone, mi domandavo se fosse possibile coniugare gli scettici e lo zen, o quantomeno qualche filosofia orientale puntando verso il “nirvana”.

Ma presto non ci si può che evolvere, non credo (e Ilaria con noi) che si possa sempre rimane imperturbabili, quindi tanto vale passare ad un altro Zenone, quello di Cizio, ed al suo stoicismo, dove si passa invece ad un’altra “alfa privativa”, l’apatia. Cioè l’assenza di passioni, dove riuscire è comunque una virtù individuale. Gli stoici, peripateggiando in Atene, ed avvicinando ad un altro sodale del periodo, Epicuro di Samo. Ma l’epicureismo, scopriamo subito, non è quella dottrina che si dedica a tutti gli eccessi. Qui si ritorna, in realtà, a precetti precisi, a quello che Epicuro chiama il tetrafarmaco, cioè le quattro ricette per la felicità: la liberazione dei quattro timori fondamentali (degli dèi, della morte, dell’impossibilità del piacere, del dolore). Quello che poi mi attirava in Epicuro non è tanto il concetto di “libertà”, quanto quella separazione tra cielo e terra, che mi sembrava tutt’ora attuale.

Ilaria finisce il suo percorso camminando insieme a Diogene di Sinope, quello che cercava l’uomo, che girava il mondo in modo randagio, ma sempre pronto a stigmatizzare il mondo intorno. Che i cinici erano fedeli solo al rigore morale della loro condotta. Tra l’altro, il nome deriva dal soprannome di Diogene, “cane”. Per cui Ilaria non può che finire il suo percorso adottando un cane randagio, chiamandolo come Diogene.

Un bel percorso, da un abbandono, ad un percorso morale verso sé stessi. Molto bello, e più rigoroso delle pur interessanti pagine analoghe di De Crescenzo. Un ultimo appunto, ad un certo punto la nostra professoressa parla di quella bellissima dottrina giapponese che per riparare oggetti rotti, cerca di esaltarne le crepe, ripassandole in oro. Non la cita, ma noi che siamo andati per il mondo (e speriamo di tornarci) sappiamo che si tratta del “kintsugi”. Andiamo allora anche noi ad esaltare le nostre rotture, che mortali siamo, e personalmente, ripeto e faccio mia la frase di Epicuro che sotto cito. Libro agile, come detto, ed utile per chi decide che, sotto stimoli giusti, magari si può tornare a pensare.

“Sono fatta così. Non affronto i conflitti, li schivo.” (25)

“Camminare … è una di quelle imprese che ti portano per forza fuori di te … e ti fanno sentire … libero.” (36)

“Gozzano: Penso e ripenso: - che mai pensa l’oca / gracidante alla riva del canale? … che l’esser cucinato non è triste / triste è il pensare di esser cucinato.” (110)

“[Epicuro disse] di tutti i beni che la saggezza ci porge, il più prezioso è l’amicizia.” (113)

“Il vivere, come diceva Diogene, non è un male: il male è vivere male.” (147)

Vittoria Baruffaldi “C’era una volta l’amore – Brevi lezioni per innamorarsi con filosofia” Repubblica Filosofia Viva 9 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 08/07/2020 – T: 09/07/2020] &&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 168; anno: 2020]

Questa seconda lettura della collana di Filosofia di Repubblica, al contrario della prima, mi ha lasciato alquanto perplesso. Non posso certo dire che Vittoria Baruffaldi scriva male. È giovane (nata nel ’77 a Torino), è professoressa di storia e filosofia, quindi adusa ad usare parole e testi, ha scritto altri libri, e teneva un blog in rete “La filosofia secondo Baby P”, da cui è nato il primo libro “Esercizi di meraviglia”. Lì si parlava di bambini, nascendo dal rapporto tra Vittoria ed il suo Baby di quattro anni.

Ora ne sono passati altri quattro, non vedo altri blog in rete, e qui si parla invece di amore. Mi aspettavo tuttavia un approccio più diretto. Ci sono i filosofi, c’è l’amore (anzi l’Amore con la A maiuscola), c’è il modo in cui ne parlano. Beh, così sembra un po’ banale. Allora, e con intelligenza, proviamo a rovesciare i parametri: ci sono i filosofi, c’è l’amore, c’è il modo in cui lo vivono. Così va meglio.

Però ecco che la Baruffaldi si focalizza su alcuni esempi, di certo interessanti, ma, al solito, usati per dimostrare qualche propria idea. Allora, che filosofi scendono in campo? Ovvio che in testa al gruppo ci siano Abelardo ed Eloisa, con la loro storia d’amore scandita al ritmo dell’amore cristiano, della teologia, e dei tempi grami che vivevano. Vi ricordo che loro vissero intorno al 1100, che Eloisa era di 13 anni più giovane, che entrambi erano forse canonici, di certo, per poter studiare, al tempo si poteva solo all’interno della Chiesa, che si conobbero quando Eloisa aveva 25 anni, che generarono un figlio (di nome Astrolabio), che lo zio di Eloisa, sospettando tradimenti da Abelardo, lo castra, e loro, tuttavia, pur in clausura, continuarono la loro storia d’amore.

Poi ci sono le storie recenti, eventualmente con terzi incomodi, o comodi o, naturalmente, tradimenti ed abbandoni. Non può mancare Lou Andreas-Salomé, con le sue due storie d’amore. Quella giovanile, libera, ed un po’ alla Renato Zero (il triangolo…) dove compaiono, insieme a Lou ventunenne, i due amici Paul Rée (di 32) e soprattutto il trentottenne Friedrich Nietzsche (beh, se non c’è filosofia qui…). E poi quella matura, lei trentaseienne con il ventenne Rainer Maria Rilke.

Non poteva poi mancare il grande afflato novecentesco dell’amore necessario e dell’amore contingente. Ovviamente si parla di Simone de Beauvoir e di Jean-Paul Sartre (necessario), di loro due e dei loro amorazzi andanti (contingenti) e della crisi quando un contingente diventa per Simone necessario (il lungo e tormentato rapporto con Nelson Algren).

Infine, eccoci ad altri filosofeggiamenti, questa volta ancora tedeschi, tra Martin Heidegger (trentacinquenne professore di filosofia) e la sua allieva diciottenne Hannah Arendt. Grande amore di corpo e di testa, dove però Martin non lasciò mai la moglie Elfride. Se ci fossero solo questi sprazzi di grandi amori e grandi filosofie, forse si sarebbe potuto risalire la china, di un libro incentrato più sul non amato che sull’amore. Che di questi filosofi, spesso, non vediamo la scintilla che porta all’amore, ma le conseguenze di un atteggiamento (filosofico e personale) verso l’amore (e la vita). Ma tutto è mescolato con piccoli cenni al quotidiano, all’oggi, alla (possibile) vita di tutti i giorni.

È ovvio, per la personalità della scrittrice, e per la provenienza degli altri suoi scritti, che molto è letto in ottica femminile. E probabilmente questo potrebbe essere un altro punto a favore. Quello che mi disturba è altro. La frammentarietà, che non si riesce a fare un discorso lungo più di mezza pagina. La banalità di alcune affermazioni, sul prendersi, sull’incontrarsi, sul lasciarsi. Con alcune perle su cui riflettere (dell’amore si ricordano gli inizi e gli epiloghi, mai quello che c’è stato in mezzo).

Se si volesse essere (molto) buoni potremmo pensare che in controcanto con i grandi filosofi e le loro pene amorose, l’io narrante (che usa anche, e con sapienza, i cambi di soggettiva) narri il suo personale percorso amoroso, dalle turbe adolescenziali, ai primi approcci di sesso, al matrimonio, alla nascita dei figli, alle scappatelle del marito con la giovane segretaria, al lasciarsi, al ritrovarsi/ricostruirsi una vita. Con quell’accenno, anche qui come nel libro della Gaspari, al kintsugi (l’arte giapponese di ricostruire evidenziando le fratture).

Alla fine, tuttavia, il risultato non è così avvincente come nelle premesse. I filosofi avrebbero meritato più spazio. Il personale avrebbe meritato più continuità. Insomma, alcune buone, se non ottime idee, ma un impianto con non le sorregge tutte allo stesso modo.

“C’è sempre il bambino che si fa incantare [dalla matrigna], mentre lei serve in tavola montagne di patatine fritte, scommetto che la vostra mamma non le fa così buone!” (134)

Leïla Slimani “Il diavolo è nei dettagli” Rizzoli euro 8 (in realtà, scontato a 7,60 euro)

[A: 18/06/2020 – I: 24/08/2020 – T: 24/08/2020] - &&&& ---

[tit. or.: Le diable est dans les détails; ling. or.: francese; pagine: 58; anno 2016]

Non meravigliatevi del tempo di lettura, che non solo le pagine erano poche, ma essendo diviso in sei articoli, c’era anche una cesura tra l’uno e l’altro. Prima però di entrare nel dettaglio e nelle discussioni sul testo, vorrei fare una prolusione sul contesto, che mi mette in agio di alleggerire la bella impressione delle parole della scrittrice, inserendo una serie di segni meno che solo la brevità della pagina ferma (anzi Fermat, se qualcuno capisce il calembour).

Allora, dopo il titolo, nell’edizione italiana del testo compare la scritta “Sei pezzi inediti della scrittrice simbolo della Francia contemporanea”. Una menzogna. Non conosco l’originale, che è del 2016, ma anche lei sarebbe difficile di parlare di sei pezzi inediti. Inoltre, Rizzoli millanta una pubblicazione contemporanea, tanto che pensavo fosse edito nel 2020, motivo per cui subito ne lessi. Mentre, andando nella biografia di Leïla si scopre che il testo è del 2016, come riunificazione in volume. Peccato però, ed è questo il motivo che “inedito” è una parola veramente fuorviante, che i testi siano usciti dall’ottobre 2014 all’estate 2016 sul settimanale “Le 1” e sul suo supplemento estivo dedicato a “Ailleurs”.

Infine, si parla, giustamente, della traduzione di Elena Cappellini (brava) ma si evita di riportare il titolo originale, così come scritto anche su Wikipedia, tanto per alimentare la favola sugli “inediti”.

Insomma, continuo ad essere sempre meno accondiscendente con tutte queste manovre, che ritengo vere e proprie truffe nei confronti del lettore.

Anche perché, qui non ce n’era certo bisogno. Leïla Slimani scrive bene, e di facile lettura, e tutte e 58 le pagine sono dense di significato. Perché la scrittrice è marocchina con passaporto francese, e parla e scrive di islam, di Francia e di libertà, in un modo altamente condivisibile. Lei ha la doppia personalità per la lunga storia familiare da cui proviene. La nonna, francese dell’Alsazia, sposa un ufficiale algerino di passaggio. Insieme vanno a vivere in Marocco, dove nascono i genitori e poi lei. Ma avendo la nonna francese, lei riesce ad avere la doppia nazionalità. È una bilancia del 1981, e prima della fine del Secolo si trasferisce a Parigi pe completare gli studi. Lì trova i suoi spazi, la sua scrittura, diventando paladina delle donne in genere, delle donne arabe in particolare, di tutte le espressioni personali, etero, gay, lesbo e via discorrendo, fino ad essere nominata da Macron “Ambasciatrice della Francofonia nel Mondo”.

Ed ora sarebbe bene passare anche al testo, dopo tutta questa contestazione (e constatazione). Che è semplice, lineare, Leïla riesce in poche frasi a stabilire uno stato d’animo, a comunicarti una situazione. Con gli scritti che si dividono in due grandi categorie dell’anima: quelli interni, di memoria, sia essa dell’infanzia marocchina, sia della giovinezza parigina, e quelli dell’impegno, sociale, politico, islamico.

Nei primi si sente l’afflato di libertà che da sempre deve aver pervaso la mente se non la vita della scrittrice. Una libertà che lei (ed io con lei) riesce ad esprimere quando si trova a Parigi. Nelle sue parole ritrovo i miei pensieri di cinquanta anni fa. Ritengo sia difficile esprimere meglio cosa sia Parigi per una persona che riesce a viverci dei momenti così intensi. Come nella frase che riporto in calce.

Dall’altra in pochi microracconti, riesce a darci il senso della contrapposizione tra l’islam libertario e l’islam “fanatico” (nel senso generale definito a suo tempo nel bellissimo libro di Amos Oz). È proprio nel testo che dà il titolo alla raccolta di testi, dove il povero Amine Moussa scopre in piccoli dettagli quotidiani l’avanzare dell’intolleranza religiosa. E nell’altro testo, il buon Hamid ne rivela il secondo aspetto, quello della contrapposizione tra sciiti e sunniti, a partire dall’esaltazione del nipote verso Messi, quando questi segna un goal all’Iran. Un piccolo capolavoro di poche righe. Per poi finire, per me, in quel grido di dolore verso la mancanza di letture di tutti, e degli arabi in particolare. Secondo le organizzazioni arabe, ogni abitante della grande nazione islamica dedica sei minuti per anno alla lettura di un libro. Così che posso con Leïla riportare l’altra frase che per me fa da sintesi a tutto il testo.

Sono costretto a ripetermi, nella chiusura: poche decine di pagine che pesano come macigni. Dobbiamo continuare a riflettere anche su questo, anche ora che siamo, purtroppo, impegnati in altre e mortali battaglie.

“Tutti i dittatori arabi [ma non solo, nota mia] lo sanno bene: istruendo gli uomini corri il rischio che ti rovescino. E che un giorno sfilino, con la penna in mano.” (24)

“Parigi è la mia patria … è qui che ho amato, mi sono ubriacata, ho conosciuto la felicità, mi sono avvicinata all’arte, alla musica, alla bellezza. A Parigi, ho imparato la passione di vivere.” (41)

Federico Pace “Passaggi segreti” Laterza euro 15 (in realtà, scontato a 12 euro)

[A: 10/09/2020 – I: 03/10/2020 – T: 05/10/2020] &&& -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 175; anno: 2020]

Una lettura nata da un equivoco, ma che poi non era molto lontano dal vero. Di Pace avevo letto “Controvento” che mi era discretamente piaciuto. Guardando tra le novità, mi incuriosiscono questi paesaggi segreti, perché penso, con lui ed altri, che la nostra Italia ne sia piena.

Peccato che iniziandolo a leggere mi sia accorto che il titolo parla di “passaggi” e non “paesaggi” (ecco l’equivoco). Mi prende una punta d’ansia, ma la lettura mi rivela ben presto che certo, Pace parla di suoi passaggi su alcuni punti della nostra penisola. Che sono anche paesaggi, a volte solo visuali, a volte anche dell’anima. Ecco che l’equivoco rientra, e mi dico a questi dodici passaggi che seguo con l’autore, dodici come i mesi dell’anno. Cui sono dedicati.

Purtroppo, la scrittura non è scorrevole come altrove, rimanendo a volte incartata su sé stessa per l’ansia di dipingere con le parole quanto gli occhi vedono, ed il cuore ed il cervello assemblano in quello che poi ognuno tiene come ricordo. Perché molti passaggi sono anche intrisi di ricordi. Che anch’essi Pace tratteggia, ma con il pudore, a volte, di non affondare troppo. E così ci lascia sospesi (in una sospensione di cui noi immaginiamo il seguito, potenza della letteratura), sul bambino che si perde, sulla ragazza che aspetta seduta sulla soglia, sui piedi che salgono l’arenaria della costa, sul vaporetto insieme, sull’argine che anch’esso il guardo esclude. E sui tanti amici, persone che si sono incontrate durante le strade della nostra vita. Con cui abbiamo fatto un passaggio della nostra esistenza, quello sì che rimarrà segreto. Mentre noi ripercorriamo le sue strade, le sue onde, i suoi mari, con i nostri passaggi, segreti o palesi.

Allora, cominciamo anche noi a viaggiare per quest’Italia bloccata dal virus. Ma non seguendo i mesi, ma andando dal Nord al Sud dello Stivale.

Passeggiamo tra le cime e le Pale di San Martino, in quel bellissimo scorcio che va da Castrozza a Predazzo. Prendiamo un traghetto per attraversare il Lago Maggiore e portarci da Stresa all’Eremo di Santa Caterina (che ci rimanda al convento di Fra Cristoforo nei Promessi Sposi televisivi). Rimaniamo sull’acqua, con un vaporetto che si stacca dalla Fondamenta Nuove ed attraverso la laguna, arrivare all’antica isola di Mazzorbo, uno dei nuclei primevi degli insediamenti veneziani. Scendiamo lungo la costa Adriatica, fermandoci a Ravenna, non per il pur splendido Mausoleo di Teodorico, ma per avventurarci a piedi verso l’Argine Agosta, immortalato dalle splendide foto di Luigi Ghirri. Ma è tempo di volare verso il Tirreno, ed incamminarci dentro una creuza, e salire da Sestri Levante sino alla triangolare Punta Manara. Scendiamo allora lungo la costa maremmana, per addentrarci verso Pitigliano, ma fermandoci a Sovana ad esplorare la città sotterranea. Addentiamoci all’interno, dove seguendo orme genitoriali o parentali dell’autore, ci mettiamo seduti a leggere di un viaggio in treno che non si può più fare: il tratto di ferrovie appenniniche da Terni fino a Carpinone, sotto Sulmona. Riprendiamo a scendere, ma verso l’Adriatico, perdendoci nel litorale tra Peschici e Capojale dove un giorno spiaggiarono i capodogli (era la fine del 2009).

Ci aspettano altre tre piccole “perdite di memoria”. Torniamo al Tirreno, e da Vietri sul Mare (che a me ricorda uno dei miei primi viaggi in tenda carrello) saliamo su per la penisola sorrentina fino alla nascosta cittadina di Albori (considerato uno dei borghi più belli d’Italia). Come dimenticare la Basilicata, che io scoprii visitando Matera, e di cui Federico ci fa innamorare perdendosi nelle strade provinciali che partono da Potenza, ed arrivando all’entrata del Pollino, in quella Terranova di Pollino che ha la caratteristica di essere il comune più distante dal proprio capoluogo di provincia. Ma è ora di scendere sempre più giù, per perderci nella bellezza della salita della Scala dei Turchi, una scogliera nell’agrigentino unica al mondo.

Rimane solo un cenno da fare a quello che più mi ha portato nei miei passaggi e paesaggi. Anche se la mia famiglia non faceva il tragitto da Roma verso le Marche lungo la Flaminia, ma seguendo prima la Tiburtina Valeria e poi deviando verso l’Aquila, per prendere la Statale del Gran Sasso, ed arrivare alla mia (e di mio fratello e dei miei cugini) Tortoreto Lido. Questo appunto il bello della scrittura. Pace descrive ed io penso ai primi anni Sessanta, quando in giugno ci si avventurava per quella dorsale, e si arrivava al mare, dove io ed i miei cugini restavamo sino a settembre.

Come al solito, si parte da una lettura, e si arriva ai propri pensieri. Finendo con un ringraziamento per avermi ricordato (pagina 110) il mitico Salvatore Adamo e le sue canzoni (qui si cita “La notte”, ed altri ricordi affiorano).

Alla fine, io ho fatto i miei percorsi, ed omaggio l’autore per aver sollevato i miei ricordi. Anche se, globalmente, non si sposta dalla soglia dei 3 libri, quella che separa il buono dal discreto.

“Gran parte di quello che abbiamo vissuto non rammentiamo neppure di averlo vissuto.” (9)

“Nulla, se siamo attenti, è mai come ce lo attendevamo.” (134)

Nonostante si sia solo a metà mese, siamo già alla terza domenica, ed eccovi allora un primo malanno stagionale. No, non è covid, perché siamo in primavera (nella narrazione).

Continuano a chiudersi gli spazi di manovra, e quindi non ci resta che dedicarci ai piccoli ma importanti spazi personali. Spostamenti, piccoli e pochi. Letture, in numero consistente. Pensieri, anche. Abbracci, a tutti.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

NOVEMBRE 2020

Facciamo qualche salto tra malanni stagionali, come questo da potrebbe prendere in primavera.

MALANNI DI STAGIONE 1

Elizabeth von Arnim “Un incantevole Aprile” (1922)

Pillole di trama

Quattro donne diverse per età ed estrazione sociale ma tutte deluse dalla vita. Un annuncio sul «Times» che propone l’affitto di un castello sulla costiera ligure. Un mese tra sole, fiori e mare per ritrovare sé stesse e la felicità.

Supposta-saggezza

Ad alcuni non basta una vita per ritrovare sé stessi. Ad altri non bastano anni di terapia per uscire da una condizione di perenne tristezza e insoddisfazione. Ad altri ancora non bastano lunghe pause di riflessione o dolorose separazioni per salvare un matrimonio diventato una prigione di routine senza passione. A qualcuno invece basta un mese, un solo mese in Italia, per risolvere tutti questi problemi. È il caso delle protagoniste del romanzo di Elizabeth von Arnim: Lottie Wilkins e Rose Arbuthnot, entrambe incastrate in matrimoni che sembrano arrivati al capolinea, la bella, giovane e corteggiatissima lady Caroline Dester e l’anziana Mrs Fisher. Tutte fuggono dalla piovosa Londra per trascorrere un mese nell’assolata Italia, ciascuna nel tentativo di risolvere la propria incompletezza, di fuggire dalla noia e dalla tristezza, svicolando da quelle abitudini che hanno finito per soffocarne le rispettive personalità. Si tratta di un mese particolare, un mese rivelatore, un incantevole aprile passato in un castello a picco sulla costa ligure. Le premesse per stare bene, quindi, ci sono tutte e non manca neanche l’amore che si presenta puntuale bussando alle porte della bella villa. E a quel punto che la cura a base di sole e mare diventa ancora più efficace: il calore (anche umano nato dalla complicità femminile) scalda l’anima delle quattro protagoniste sciogliendo il ghiaccio che ricopriva i loro cuori. Lentamente riacquistano forza, energia, voglia di fare e sicurezza. Ritrovando una sensualità che credevano perduta, si riaprono alla vita riscoprendosi capaci di essere felici. Perché la felicità è anche una disposizione d’animo. Tutti questi cambiamenti avvengono trascorrendo un mese in Italia. No, dico, noi ci viviamo tutto l’anno e non riusciamo a trame gli stessi portentosi benefici? Anche solo per questo, la lettura di “Un incantevole aprile” giova alla salute.

Scritto nel 1922 e in parte autobiografico, il romanzo ha un sapore rassicurante d’altri tempi, di un’Italia che in parte non c’è più, dove il sole e il mare bastavano per stare bene. Oggi quattro donne insoddisfatte dalla vita difficilmente si “rinchiuderebbero” in un castello a picco su una scogliera, sceglierebbero piuttosto una vacanza avventurosa per dimostrare a sé stesse e agli altri la propria emancipazione e indipendenza.

Ma forse l’errore è proprio voler dimostrare qualcosa, mostrandosi dure per rispondere più duramente agli attacchi della vita sentimentale. In un’epoca in cui sentiamo tutti l’obbligo di restare connessi senza aver più contatto con noi stessi e con gli altri, “Un incantevole aprile” fa riscoprire l’utilità della fuga e dell’isolamento in compagnia di persone nuove. Di fronte a questo romanzo al femminile, non storcano il naso le lettrici emancipate del terzo millennio perché facilmente ne resteranno enchanted, trovandolo piacevole come un’intima chiacchierata tra donne, attività notoriamente terapeutica e liberatoria. Ci si potrebbe accorgere che il proprio lato romantico era solo in letargo e che il viaggio in Italia è una medicina ancora efficace. Soprattutto, si potrebbe scoprire o riscoprire un’autrice audace e spregiudicata com’è Elizabeth von Arnim, originale ed estranea a ogni corrente letteraria, libera e passionale, sinceramente e profondamente donna nella scrittura come nella vita.

Posologia

La somministrazione del romanzo è particolarmente indicata durante la stagione primaverile, quando si sente maggiormente la necessità di scaldare le ossa e i sentimenti.

“Un incantevole aprile” è una valida iniezione ricostituente che, favorendo il recupero energetico e contrastando la stanchezza e l’affaticamento della stagione invernale (intesa anche in senso emotivo), consente di rimettersi in moto e darsi una smossa quando le cose non funzionano, consapevoli che il cambiamento dipende soprattutto da noi. Se avete paura degli aghi, non temete perché il romanzo vi distrarrà abbastanza da non farvi sentire la puntura.

Se siete insoddisfatte del vostro matrimonio, se vostro marito è distratto, se la vita coniugale è solo fredda routine, oppure se siete piene di corteggiatori ma neanche uno vi interessa, se sentite il bisogno di riconciliarvi con il passato e con i vostri desideri, se vi sentite sole, se la vostra vita vi sembra vuota o troppo piena di cianfrusaglie inutili e credete sia arrivato il momento di fare le pulizie di primavera, o anche solo se ne avete abbastanza della pioggia e del freddo e volete riscaldarvi al sole di un incantevole aprile, il romanzo è la medicina adatta. Anzi, più che una medicina, è un olio profumato al glicine: facilmente spalmabile, non unge e consente di massaggiare con delicatezza i muscoli dello spirito per rimetterli in moto dopo il letargo invernale, preparandoli ad affrontare con slancio nuove prove (o fatiche). Può anche essere considerato una buona crema solare da spalmare con abbondanza prima di esporsi a nuove emozioni sentimentali.

Effetti collaterali

La controindicazione più frequente è il forte desiderio di trascorrere un mese in un castello sulla costiera ligure. Qualora l’effetto collaterale si verificasse, non allarmatevi perché è assolutamente normale, anzi, se potete, cercate di assecondarlo. Se non fosse possibile, state certi che leggendo il romanzo avrete quasi l’impressione di sentire il profumo e il tepore della primavera mediterranea. Non è come una vera vacanza, ma è un ottimo compromesso. La lettura sarà piacevole quanto dondolare su un’amaca all’ombra di un glicine.

In casi più rari può manifestarsi una sorta di fastidiosa allergia causata dalla descrizione un po’ stereotipata dell’Italia tutta sole, cuore, amore. Ma se assunti nelle giuste dosi e ben diluiti nella spregiudicata, ironica e romantica prosa di Elizabeth von Arnim, un po’ di sole, cuore e amore non dovrebbero danneggiare la salute.

Terapia cinematografica sostitutiva

Chi volesse prolungare l’effetto corroborante del romantico romanzo, può farlo con il film di Mike Newell. Belle location, un po’ di umorismo, una spolverata di tenerezza e un pizzico di retorica, Un incantevole aprile si regge soprattutto sull’interpretazione di Miranda Richardson e Joan Plowright.

Avvertenza: il romanzo è molto più efficace del film.

Commenti

Libro letto a fine marzo (tanto per rimanere in tema) e già tramato in fine estate. Ma che ripropongo volentieri in questa disamina di piccoli malanni stagionali.

Elizabeth Von Arnim “Un incantevole aprile” Fazi euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)

[pubblicato il 13 settembre 2020]

Un libro piacevolmente datato, e non a caso consigliato sia dalle libropeute per cure dedicate ai matrimoni che dai libri che ci rendono felici. E finalmente letto.

Scoprendo tra l’altro un personaggio interessante, questa Mary Annette Beauchamp, nata nel 1866 in Australia, che sposa a 25 anni il conte Henning August von Arnim-Schlagenthin, figlio adottivo di Cosima Liszt (in seguito Cosima Wagner), vive con lui nella campagna tedesca, dove conosce E.M. Forster e Hugo Walpole. Poi, divorziata dal conte, sposa il duca John Francis Stanley Russell, fratello maggiore di Bertrand Russell. Unione poco felice per il carattere impossibile di lui, tanto che nel 1919 si separa da lui, conducendo una vita libera e piena di libri. Libera con molti amanti, anche più giovani come l’editore Alexander Stuart Frere Reeves (lui 28, lei 54) o coetanei, ma molto impegnati, come lo scrittore H. G. Wells. E tanti libri, almeno una trentina tra il 1898 ed il 1940.

Un personaggio interessante, quindi. Tra l’altro, ovviamente usa il cognome del primo marito, ma dopo il grande successo del suo primo libro “Il giardino di Elizabeth”, inizialmente pubblicato senza nome, userà Elizabeth come nome. Infine, era anche cugina di Kathleen Mansfield. Tutto questo folto retroterra si sentirà molto nelle sue opere (che non ho letto, ma di cui ho letto). Ma anche avrà riflessi in questo gradevole libro quasi centenario.

Un libro quasi impalpabile, dove succede poco e nulla, ma questo poco e nulla è reso con una dolce grazia di scrittura, ed una specie di salita per una scala a chiocciola, al fine della quale, tutti saranno cambiati. In meglio (certo, un po’ di ottimismo da fine della Prima Guerra Mondiale). Grazie alla magia del posto, un castello ligure, posto in quel di San Salvatore (esistente località tra Genova e La Spezia) che però nasconde il vero luogo dove l’autrice pensò e scrisse il libro, il castello Brown di Portofino.

Nel castello di San Salvatore convergono quattro donne molto diverse: Mrs. Lotty Wilkins, sposa del distante avvocato arrivista Mr. Mellresh Wilkins, Mrs. Rose Arbuthnot, sposa di Frederik, archivista al British, più noto con il nome di Ferdinand Arundel, scrittore di libri sulle amanti reali ed imperterrito donnaiolo, Mrs. Fisher, di cui non sappiamo il nome, ma anziana e frequentatrice a suo tempo dell’aristocrazia mondana e politica inglese, e Lady Caroline Dester, giovane aristocratica stufa dell’elegante vita londinese, nonché della sua bellezza che attira troppo mosconi intorno a lei.

Il motore dell’azione sono Lotty e Rose, che vedono l’annuncio del castello, decidono di regalarsi una vacanza, ma, non essendo molto abbienti, trovano le altre due signore per dividere le spese. Lotty è angustiata dalla sua difficoltà da rapportarsi al mondo fatuo del marito. Rose, invece, non accetta gli scritti del marito e si dedica ad opere di carità. Una volta lontani dalla brumosa Londra, le quattro donne, ognuna con i propri tempi, sembrano rifiorire. Anche qui il motore di tutto è Lotty, con le sue uscite sempre fuori luogo, che tuttavia smuovono le altre, le costringono a pensare, in fondo mettono anche allegria. Non solo le donne diventano più socievoli, ma accettano altri difficili passaggi. Prima l’arrivo di Mellresh, che sulla riviera ligure scopre la gioia di vivere della moglie, e ne è contagiato. Poi Frederik che dopo alcune sbandate, si raddrizza, anche perché Rose accetta le sue scritture, ed i due sembrano destinati, finalmente, a comprendersi. Infine, Mr. Briggs, il proprietario del castello che stringe una amicizia foriera di possibili futuri con l’ammorbidita Lady Caroline. Anche l’arcigna Mrs. Fisher si ammorbidirà, accettando la possibilità che, per maturare nella vita, si possa anche cambiare.

Una favola, certo. Un improbabile idillio, anche. Ma la bellezza e la bravura del testo, è quella di presentare i vari caratteri delle donne, magari mutuando l’ambiente che la scrittrice ben conosceva. Non a caso, le tre giovani donne sembreranno avere futuri migliori di quelli che avevano all’inizio del libro. Mentre l’anziana signora sembra invece adombrare gli stessi pensieri dell’autrice. Che, forte di quel primo libro e del suo amore per la natura, non manca di descrivere con pennellate gradevoli, i giardini del castello e tutte le sfumature bucoliche che lo caratterizzano. Non prende molto, è vero, come tensione verso nuovi orizzonti, essendo, tuttavia, uno specchio di un certo tipo di spaccato social-culturale inglese. Amante delle belle cose, e del sole italiano. Non è un caso che da lì a trenta anni, gli inglesi andranno a colonizzare le colline toscane. Finisco ribadendo che, per l’appunto, è un libro datato, ma che rilassa la mente in tempi di tensione. E quali siano ora questi tempi ben lo sappiamo.

“Mancare a qualcuno che ha bisogno di te, per qualsiasi motivo, era comunque meglio della solitudine totale di non mancare a nessuno.” (44)

“Cosa curiosa, sentiva il desiderio di pensare, e di ciò era stupita più di chiunque altro. Mai prima d’allora aveva provato quel desiderio.” (111)

“Ripeté a sé stessa … ora mi metto a pensare, ma non è facile pensare se non lo si è mai fatto prima.” (169)

“Bisognerebbe continuare … a cambiare, per quanto vecchi si diventi.” (213)

Finalino

Il libro è piacevole, non so se possa alleviare qualche allergia primaverile, o qualche allergia sentimentale. Ma la lettura vale per un rilassamento generale.

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