[A:
13/03/2020 – I: 22/04/2020 – T: 23/04/2020] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 148; anno: 2019]
Interessante
inizio di questa nuova collana, posta presto in lettura per l’alternanza tra
libri vecchi e nuovi. Certo il sottotitolo della collana (che come scritto
sopra si chiama “Filosofia Viva”) recita un po’ pomposamente: “la saggezza dei
grandi pensatori per prendere la vita con filosofia”. Non so ancora gli altri
nove titoli cosa mi porteranno. Intanto questa prima lettura è stata senza
dubbio gradevole, rilassante, ed anche portatrice di riflessioni interiori.
Plaudiamo
anche all’autrice che è una “under 35”, laureata in filosofia a Pisa con un
master alla Sorbona. Chapeau! Le notizie su di lei dicono che ha scritto anche
altro, ma qui ci cimentiamo con una scrittura double face. Che da un lato ci fa
percorrere le vie interne ed anche scanzonate dei filosofi greci, da Pitagora a
Diogene. Dall’altro utilizza questo viaggio per esorcizzare un problema reale e
personale (non so, né mi interessa se lo spunto si vero o derivato dalla
necessità della trama), quello della fine di un rapporto che durava da dieci
anni, con conseguente necessità di traslocare in un ambiente che sia adatto
alle finanze ora ridimensionate, di impacchettare la propria vita in scatoloni
(e quelli dei libri non bastano mai), e di ripartire. Ma si sa che il trauma di
una separazione, soprattutto se poco consensuale, non è così facile da superare
e da affrontare.
Allora
la filosofa Ilaria inventa per sé, e ci trascina con sé dentro, un percorso
attraverso la filosofia greca, per condurci verso quel sottotitolo (che forse è
un po’ pretenzioso, ed avrebbe dovuto essere contestualizzato, altrimenti si
pensa che parliamo di “tutti” i filosofi, e non solo dei primi) usando una
serie di passaggi attraverso i filosofi. Una settimana per ognuna delle scuole
antiche, cercando di immedesimarsi nella scuola stessa, usando quella
metodologia filosofica come esercizio per superare i traumi. Ma anche per
arrivare laddove Socrate ci avrebbe fatto partire, dal conoscere sé stessi (che
certo non è facile…). Quindi cerchiamo di vivere con Ilaria per sei settimane,
ognuna dedicata ad una scuola filosofica.
Si
comincia di certo, e per semplicità, con i pitagorici, che almeno avevano una
lista di precetti per far esercizi e diventare filosofi. Non certo matematici,
che quelli erano il “cerchio magico”. Ma i 15 passi per essere pitagorici
possono essere seguiti, anche se rimane sempre misterioso il primo (“astenersi
dalle fave”). Dal settantacinquenne metapontino si passa al sessantenne
eleatico Parmenide, cercando in particolare di andare a fondo sui paradossi di
uno dei suoi più acuti discepoli, Zenone di Elea. Ma noi sappiamo che Achille
raggiungerà la tartaruga, nonostante tutti gli sforzi filosofici per dimostrare
il contrario (ma d’altra parte io sono un matematico non un filosofo, e conosco
la teoria dei limiti…), e possiamo passare subito e senza danni alla terza
settimana, quella degli scettici. Dove il fondamento ci deriva da Pirrone di
Elide (e son passati quasi 200 anni da Pitagora) che nell’impossibilità della
conoscenza, non ci si può che consegnare all’imperturbabilità, dal greco
“atarassia” (cioè “privi di agitazione”). Leggendone, mi domandavo se fosse
possibile coniugare gli scettici e lo zen, o quantomeno qualche filosofia
orientale puntando verso il “nirvana”.
Ma
presto non ci si può che evolvere, non credo (e Ilaria con noi) che si possa
sempre rimane imperturbabili, quindi tanto vale passare ad un altro Zenone,
quello di Cizio, ed al suo stoicismo, dove si passa invece ad un’altra “alfa
privativa”, l’apatia. Cioè l’assenza di passioni, dove riuscire è comunque una
virtù individuale. Gli stoici, peripateggiando in Atene, ed avvicinando ad un altro
sodale del periodo, Epicuro di Samo. Ma l’epicureismo, scopriamo subito, non è
quella dottrina che si dedica a tutti gli eccessi. Qui si ritorna, in realtà, a
precetti precisi, a quello che Epicuro chiama il tetrafarmaco, cioè le quattro
ricette per la felicità: la liberazione dei quattro timori fondamentali (degli
dèi, della morte, dell’impossibilità del piacere, del dolore). Quello che poi
mi attirava in Epicuro non è tanto il concetto di “libertà”, quanto quella
separazione tra cielo e terra, che mi sembrava tutt’ora attuale.
Ilaria
finisce il suo percorso camminando insieme a Diogene di Sinope, quello che
cercava l’uomo, che girava il mondo in modo randagio, ma sempre pronto a
stigmatizzare il mondo intorno. Che i cinici erano fedeli solo al rigore morale
della loro condotta. Tra l’altro, il nome deriva dal soprannome di Diogene,
“cane”. Per cui Ilaria non può che finire il suo percorso adottando un cane
randagio, chiamandolo come Diogene.
Un
bel percorso, da un abbandono, ad un percorso morale verso sé stessi. Molto
bello, e più rigoroso delle pur interessanti pagine analoghe di De Crescenzo.
Un ultimo appunto, ad un certo punto la nostra professoressa parla di quella
bellissima dottrina giapponese che per riparare oggetti rotti, cerca di
esaltarne le crepe, ripassandole in oro. Non la cita, ma noi che siamo andati
per il mondo (e speriamo di tornarci) sappiamo che si tratta del “kintsugi”.
Andiamo allora anche noi ad esaltare le nostre rotture, che mortali siamo, e
personalmente, ripeto e faccio mia la frase di Epicuro che sotto cito. Libro
agile, come detto, ed utile per chi decide che, sotto stimoli giusti, magari si
può tornare a pensare.
“Sono
fatta così. Non affronto i conflitti, li schivo.” (25)
“Camminare
… è una di quelle imprese che ti portano per forza fuori di te … e ti fanno
sentire … libero.” (36)
“Gozzano:
Penso e ripenso: - che mai pensa l’oca / gracidante alla riva del canale? … che
l’esser cucinato non è triste / triste è il pensare di esser cucinato.” (110)
“[Epicuro
disse] di tutti i beni che la saggezza ci porge, il più prezioso è l’amicizia.”
(113)
“Il
vivere, come diceva Diogene, non è un male: il male è vivere male.” (147)
Vittoria
Baruffaldi “C’era una volta l’amore – Brevi lezioni per innamorarsi con
filosofia” Repubblica Filosofia Viva 9 euro 9,90
[A:
06/05/2020 – I: 08/07/2020 – T: 09/07/2020] &&--
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 168; anno: 2020]
Questa
seconda lettura della collana di Filosofia di Repubblica, al contrario della
prima, mi ha lasciato alquanto perplesso. Non posso certo dire che Vittoria
Baruffaldi scriva male. È giovane (nata nel ’77 a Torino), è professoressa di
storia e filosofia, quindi adusa ad usare parole e testi, ha scritto altri
libri, e teneva un blog in rete “La filosofia secondo Baby P”, da cui è nato il
primo libro “Esercizi di meraviglia”. Lì si parlava di bambini, nascendo dal
rapporto tra Vittoria ed il suo Baby di quattro anni.
Ora
ne sono passati altri quattro, non vedo altri blog in rete, e qui si parla
invece di amore. Mi aspettavo tuttavia un approccio più diretto. Ci sono i
filosofi, c’è l’amore (anzi l’Amore con la A maiuscola), c’è il modo in cui ne
parlano. Beh, così sembra un po’ banale. Allora, e con intelligenza, proviamo a
rovesciare i parametri: ci sono i filosofi, c’è l’amore, c’è il modo in cui lo
vivono. Così va meglio.
Però
ecco che la Baruffaldi si focalizza su alcuni esempi, di certo interessanti,
ma, al solito, usati per dimostrare qualche propria idea. Allora, che filosofi
scendono in campo? Ovvio che in testa al gruppo ci siano Abelardo ed Eloisa,
con la loro storia d’amore scandita al ritmo dell’amore cristiano, della
teologia, e dei tempi grami che vivevano. Vi ricordo che loro vissero intorno
al 1100, che Eloisa era di 13 anni più giovane, che entrambi erano forse
canonici, di certo, per poter studiare, al tempo si poteva solo all’interno
della Chiesa, che si conobbero quando Eloisa aveva 25 anni, che generarono un
figlio (di nome Astrolabio), che lo zio di Eloisa, sospettando tradimenti da
Abelardo, lo castra, e loro, tuttavia, pur in clausura, continuarono la loro
storia d’amore.
Poi
ci sono le storie recenti, eventualmente con terzi incomodi, o comodi o,
naturalmente, tradimenti ed abbandoni. Non può mancare Lou Andreas-Salomé, con
le sue due storie d’amore. Quella giovanile, libera, ed un po’ alla Renato Zero
(il triangolo…) dove compaiono, insieme a Lou ventunenne, i due amici Paul Rée
(di 32) e soprattutto il trentottenne Friedrich Nietzsche (beh, se non c’è
filosofia qui…). E poi quella matura, lei trentaseienne con il ventenne Rainer
Maria Rilke.
Non
poteva poi mancare il grande afflato novecentesco dell’amore necessario e
dell’amore contingente. Ovviamente si parla di Simone de Beauvoir e di
Jean-Paul Sartre (necessario), di loro due e dei loro amorazzi andanti
(contingenti) e della crisi quando un contingente diventa per Simone necessario
(il lungo e tormentato rapporto con Nelson Algren).
Infine,
eccoci ad altri filosofeggiamenti, questa volta ancora tedeschi, tra Martin
Heidegger (trentacinquenne professore di filosofia) e la sua allieva
diciottenne Hannah Arendt. Grande amore di corpo e di testa, dove però Martin
non lasciò mai la moglie Elfride. Se ci fossero solo questi sprazzi di grandi
amori e grandi filosofie, forse si sarebbe potuto risalire la china, di un
libro incentrato più sul non amato che sull’amore. Che di questi filosofi,
spesso, non vediamo la scintilla che porta all’amore, ma le conseguenze di un
atteggiamento (filosofico e personale) verso l’amore (e la vita). Ma tutto è
mescolato con piccoli cenni al quotidiano, all’oggi, alla (possibile) vita di
tutti i giorni.
È
ovvio, per la personalità della scrittrice, e per la provenienza degli altri
suoi scritti, che molto è letto in ottica femminile. E probabilmente questo
potrebbe essere un altro punto a favore. Quello che mi disturba è altro. La
frammentarietà, che non si riesce a fare un discorso lungo più di mezza pagina.
La banalità di alcune affermazioni, sul prendersi, sull’incontrarsi, sul
lasciarsi. Con alcune perle su cui riflettere (dell’amore si ricordano gli
inizi e gli epiloghi, mai quello che c’è stato in mezzo).
Se si
volesse essere (molto) buoni potremmo pensare che in controcanto con i grandi
filosofi e le loro pene amorose, l’io narrante (che usa anche, e con sapienza,
i cambi di soggettiva) narri il suo personale percorso amoroso, dalle turbe
adolescenziali, ai primi approcci di sesso, al matrimonio, alla nascita dei figli,
alle scappatelle del marito con la giovane segretaria, al lasciarsi, al
ritrovarsi/ricostruirsi una vita. Con quell’accenno, anche qui come nel libro
della Gaspari, al kintsugi (l’arte giapponese di ricostruire evidenziando le
fratture).
Alla
fine, tuttavia, il risultato non è così avvincente come nelle premesse. I
filosofi avrebbero meritato più spazio. Il personale avrebbe meritato più
continuità. Insomma, alcune buone, se non ottime idee, ma un impianto con non
le sorregge tutte allo stesso modo.
“C’è
sempre il bambino che si fa incantare [dalla matrigna], mentre lei serve in
tavola montagne di patatine fritte, scommetto che la vostra mamma non le fa
così buone!” (134)
Leïla Slimani “Il
diavolo è nei dettagli” Rizzoli euro 8 (in realtà, scontato a 7,60 euro)
[A: 18/06/2020 – I: 24/08/2020 – T:
24/08/2020] - &&&& ---
[tit. or.: Le
diable est dans les détails; ling. or.: francese; pagine: 58; anno 2016]
Non meravigliatevi del tempo di lettura, che
non solo le pagine erano poche, ma essendo diviso in sei articoli, c’era anche
una cesura tra l’uno e l’altro. Prima però di entrare nel dettaglio e nelle
discussioni sul testo, vorrei fare una prolusione sul contesto, che mi mette in
agio di alleggerire la bella impressione delle parole della scrittrice, inserendo
una serie di segni meno che solo la brevità della pagina ferma (anzi Fermat, se
qualcuno capisce il calembour).
Allora,
dopo il titolo, nell’edizione italiana del testo compare la scritta “Sei pezzi
inediti della scrittrice simbolo della Francia contemporanea”. Una menzogna.
Non conosco l’originale, che è del 2016, ma anche lei sarebbe difficile di
parlare di sei pezzi inediti. Inoltre, Rizzoli millanta una pubblicazione
contemporanea, tanto che pensavo fosse edito nel 2020, motivo per cui subito ne
lessi. Mentre, andando nella biografia di Leïla si scopre che il testo è del
2016, come riunificazione in volume. Peccato però, ed è questo il motivo che
“inedito” è una parola veramente fuorviante, che i testi siano usciti
dall’ottobre 2014 all’estate 2016 sul settimanale “Le 1” e sul suo supplemento
estivo dedicato a “Ailleurs”.
Infine,
si parla, giustamente, della traduzione di Elena Cappellini (brava) ma si evita
di riportare il titolo originale, così come scritto anche su Wikipedia, tanto
per alimentare la favola sugli “inediti”.
Insomma,
continuo ad essere sempre meno accondiscendente con tutte queste manovre, che
ritengo vere e proprie truffe nei confronti del lettore.
Anche
perché, qui non ce n’era certo bisogno. Leïla Slimani scrive bene, e di facile
lettura, e tutte e 58 le pagine sono dense di significato. Perché la scrittrice
è marocchina con passaporto francese, e parla e scrive di islam, di Francia e
di libertà, in un modo altamente condivisibile. Lei ha la doppia personalità
per la lunga storia familiare da cui proviene. La nonna, francese dell’Alsazia,
sposa un ufficiale algerino di passaggio. Insieme vanno a vivere in Marocco,
dove nascono i genitori e poi lei. Ma avendo la nonna francese, lei riesce ad
avere la doppia nazionalità. È una bilancia del 1981, e prima della fine del
Secolo si trasferisce a Parigi pe completare gli studi. Lì trova i suoi spazi,
la sua scrittura, diventando paladina delle donne in genere, delle donne arabe
in particolare, di tutte le espressioni personali, etero, gay, lesbo e via
discorrendo, fino ad essere nominata da Macron “Ambasciatrice della Francofonia
nel Mondo”.
Ed
ora sarebbe bene passare anche al testo, dopo tutta questa contestazione (e
constatazione). Che è semplice, lineare, Leïla riesce in poche frasi a
stabilire uno stato d’animo, a comunicarti una situazione. Con gli scritti che
si dividono in due grandi categorie dell’anima: quelli interni, di memoria, sia
essa dell’infanzia marocchina, sia della giovinezza parigina, e quelli
dell’impegno, sociale, politico, islamico.
Nei
primi si sente l’afflato di libertà che da sempre deve aver pervaso la mente se
non la vita della scrittrice. Una libertà che lei (ed io con lei) riesce ad
esprimere quando si trova a Parigi. Nelle sue parole ritrovo i miei pensieri di
cinquanta anni fa. Ritengo sia difficile esprimere meglio cosa sia Parigi per
una persona che riesce a viverci dei momenti così intensi. Come nella frase che
riporto in calce.
Dall’altra
in pochi microracconti, riesce a darci il senso della contrapposizione tra
l’islam libertario e l’islam “fanatico” (nel senso generale definito a suo
tempo nel bellissimo libro di Amos Oz). È proprio nel testo che dà il titolo
alla raccolta di testi, dove il povero Amine Moussa scopre in piccoli dettagli
quotidiani l’avanzare dell’intolleranza religiosa. E nell’altro testo, il buon
Hamid ne rivela il secondo aspetto, quello della contrapposizione tra sciiti e
sunniti, a partire dall’esaltazione del nipote verso Messi, quando questi segna
un goal all’Iran. Un piccolo capolavoro di poche righe. Per poi finire, per me,
in quel grido di dolore verso la mancanza di letture di tutti, e degli arabi in
particolare. Secondo le organizzazioni arabe, ogni abitante della grande
nazione islamica dedica sei minuti per anno alla lettura di un libro. Così che
posso con Leïla riportare l’altra frase che per me fa da sintesi a tutto il
testo.
Sono
costretto a ripetermi, nella chiusura: poche decine di pagine che pesano come
macigni. Dobbiamo continuare a riflettere anche su questo, anche ora che siamo,
purtroppo, impegnati in altre e mortali battaglie.
“Tutti
i dittatori arabi [ma non solo, nota mia] lo sanno bene: istruendo gli uomini
corri il rischio che ti rovescino. E che un giorno sfilino, con la penna in
mano.” (24)
“Parigi
è la mia patria … è qui che ho amato, mi sono ubriacata, ho conosciuto la
felicità, mi sono avvicinata all’arte, alla musica, alla bellezza. A Parigi, ho
imparato la passione di vivere.” (41)
Federico
Pace “Passaggi segreti” Laterza euro 15 (in realtà, scontato a 12 euro)
[A:
10/09/2020 – I: 03/10/2020 – T: 05/10/2020] &&&
--
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 175; anno: 2020]
Una
lettura nata da un equivoco, ma che poi non era molto lontano dal vero. Di Pace
avevo letto “Controvento” che mi era discretamente piaciuto. Guardando tra le
novità, mi incuriosiscono questi paesaggi segreti, perché penso, con lui ed
altri, che la nostra Italia ne sia piena.
Peccato
che iniziandolo a leggere mi sia accorto che il titolo parla di “passaggi” e
non “paesaggi” (ecco l’equivoco). Mi prende una punta d’ansia, ma la lettura mi
rivela ben presto che certo, Pace parla di suoi passaggi su alcuni punti della
nostra penisola. Che sono anche paesaggi, a volte solo visuali, a volte anche
dell’anima. Ecco che l’equivoco rientra, e mi dico a questi dodici passaggi che
seguo con l’autore, dodici come i mesi dell’anno. Cui sono dedicati.
Purtroppo,
la scrittura non è scorrevole come altrove, rimanendo a volte incartata su sé
stessa per l’ansia di dipingere con le parole quanto gli occhi vedono, ed il
cuore ed il cervello assemblano in quello che poi ognuno tiene come ricordo.
Perché molti passaggi sono anche intrisi di ricordi. Che anch’essi Pace
tratteggia, ma con il pudore, a volte, di non affondare troppo. E così ci lascia
sospesi (in una sospensione di cui noi immaginiamo il seguito, potenza della
letteratura), sul bambino che si perde, sulla ragazza che aspetta seduta sulla
soglia, sui piedi che salgono l’arenaria della costa, sul vaporetto insieme,
sull’argine che anch’esso il guardo esclude. E sui tanti amici, persone che si
sono incontrate durante le strade della nostra vita. Con cui abbiamo fatto un
passaggio della nostra esistenza, quello sì che rimarrà segreto. Mentre noi
ripercorriamo le sue strade, le sue onde, i suoi mari, con i nostri passaggi,
segreti o palesi.
Allora,
cominciamo anche noi a viaggiare per quest’Italia bloccata dal virus. Ma non
seguendo i mesi, ma andando dal Nord al Sud dello Stivale.
Passeggiamo
tra le cime e le Pale di San Martino, in quel bellissimo scorcio che va da
Castrozza a Predazzo. Prendiamo un traghetto per attraversare il Lago Maggiore
e portarci da Stresa all’Eremo di Santa Caterina (che ci rimanda al convento di
Fra Cristoforo nei Promessi Sposi televisivi). Rimaniamo sull’acqua, con un
vaporetto che si stacca dalla Fondamenta Nuove ed attraverso la laguna,
arrivare all’antica isola di Mazzorbo, uno dei nuclei primevi degli
insediamenti veneziani. Scendiamo lungo la costa Adriatica, fermandoci a
Ravenna, non per il pur splendido Mausoleo di Teodorico, ma per avventurarci a
piedi verso l’Argine Agosta, immortalato dalle splendide foto di Luigi Ghirri.
Ma è tempo di volare verso il Tirreno, ed incamminarci dentro una creuza, e
salire da Sestri Levante sino alla triangolare Punta Manara. Scendiamo allora
lungo la costa maremmana, per addentrarci verso Pitigliano, ma fermandoci a
Sovana ad esplorare la città sotterranea. Addentiamoci all’interno, dove
seguendo orme genitoriali o parentali dell’autore, ci mettiamo seduti a leggere
di un viaggio in treno che non si può più fare: il tratto di ferrovie
appenniniche da Terni fino a Carpinone, sotto Sulmona. Riprendiamo a scendere,
ma verso l’Adriatico, perdendoci nel litorale tra Peschici e Capojale dove un
giorno spiaggiarono i capodogli (era la fine del 2009).
Ci
aspettano altre tre piccole “perdite di memoria”. Torniamo al Tirreno, e da
Vietri sul Mare (che a me ricorda uno dei miei primi viaggi in tenda carrello)
saliamo su per la penisola sorrentina fino alla nascosta cittadina di Albori (considerato
uno dei borghi più belli d’Italia). Come dimenticare la Basilicata, che io
scoprii visitando Matera, e di cui Federico ci fa innamorare perdendosi nelle
strade provinciali che partono da Potenza, ed arrivando all’entrata del
Pollino, in quella Terranova di Pollino che ha la caratteristica di essere il
comune più distante dal proprio capoluogo di provincia. Ma è ora di scendere
sempre più giù, per perderci nella bellezza della salita della Scala dei
Turchi, una scogliera nell’agrigentino unica al mondo.
Rimane
solo un cenno da fare a quello che più mi ha portato nei miei passaggi e
paesaggi. Anche se la mia famiglia non faceva il tragitto da Roma verso le
Marche lungo la Flaminia, ma seguendo prima la Tiburtina Valeria e poi deviando
verso l’Aquila, per prendere la Statale del Gran Sasso, ed arrivare alla mia (e
di mio fratello e dei miei cugini) Tortoreto Lido. Questo appunto il bello
della scrittura. Pace descrive ed io penso ai primi anni Sessanta, quando in
giugno ci si avventurava per quella dorsale, e si arrivava al mare, dove io ed
i miei cugini restavamo sino a settembre.
Come
al solito, si parte da una lettura, e si arriva ai propri pensieri. Finendo con
un ringraziamento per avermi ricordato (pagina 110) il mitico Salvatore Adamo e
le sue canzoni (qui si cita “La notte”, ed altri ricordi affiorano).
Alla
fine, io ho fatto i miei percorsi, ed omaggio l’autore per aver sollevato i
miei ricordi. Anche se, globalmente, non si sposta dalla soglia dei 3 libri,
quella che separa il buono dal discreto.
“Gran
parte di quello che abbiamo vissuto non rammentiamo neppure di averlo vissuto.”
(9)
“Nulla,
se siamo attenti, è mai come ce lo attendevamo.” (134)
Nonostante
si sia solo a metà mese, siamo già alla terza domenica, ed eccovi allora un
primo malanno stagionale. No, non è covid, perché siamo in primavera (nella
narrazione).
Continuano a chiudersi gli spazi di manovra, e quindi non ci resta che dedicarci ai piccoli ma importanti spazi personali. Spostamenti, piccoli e pochi. Letture, in numero consistente. Pensieri, anche. Abbracci, a tutti.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
NOVEMBRE 2020
Facciamo qualche salto tra malanni stagionali, come questo da
potrebbe prendere in primavera.
MALANNI DI STAGIONE 1
Elizabeth von Arnim “Un incantevole
Aprile” (1922)
Pillole
di trama
Quattro
donne diverse per età ed estrazione sociale ma tutte deluse dalla vita. Un
annuncio sul «Times» che propone l’affitto di un castello sulla costiera
ligure. Un mese tra sole, fiori e mare per ritrovare sé stesse e la felicità.
Supposta-saggezza
Ad
alcuni non basta una vita per ritrovare sé stessi. Ad altri non bastano anni di
terapia per uscire da una condizione di perenne tristezza e insoddisfazione. Ad
altri ancora non bastano lunghe pause di riflessione o dolorose separazioni per
salvare un matrimonio diventato una prigione di routine senza passione. A
qualcuno invece basta un mese, un solo mese in Italia, per risolvere tutti
questi problemi. È il caso delle protagoniste del romanzo di Elizabeth von Arnim:
Lottie Wilkins e Rose Arbuthnot, entrambe incastrate in matrimoni che sembrano
arrivati al capolinea, la bella, giovane e corteggiatissima lady Caroline
Dester e l’anziana Mrs Fisher. Tutte fuggono dalla piovosa Londra per
trascorrere un mese nell’assolata Italia, ciascuna nel tentativo di risolvere
la propria incompletezza, di fuggire dalla noia e dalla tristezza, svicolando
da quelle abitudini che hanno finito per soffocarne le rispettive personalità.
Si tratta di un mese particolare, un mese rivelatore, un incantevole aprile
passato in un castello a picco sulla costa ligure. Le premesse per stare bene,
quindi, ci sono tutte e non manca neanche l’amore che si presenta puntuale
bussando alle porte della bella villa. E a quel punto che la cura a base di
sole e mare diventa ancora più efficace: il calore (anche umano nato dalla
complicità femminile) scalda l’anima delle quattro protagoniste sciogliendo il
ghiaccio che ricopriva i loro cuori. Lentamente riacquistano forza, energia,
voglia di fare e sicurezza. Ritrovando una sensualità che credevano perduta, si
riaprono alla vita riscoprendosi capaci di essere felici. Perché la felicità è
anche una disposizione d’animo. Tutti questi cambiamenti avvengono trascorrendo
un mese in Italia. No, dico, noi ci viviamo tutto l’anno e non riusciamo a
trame gli stessi portentosi benefici? Anche solo per questo, la lettura di “Un
incantevole aprile” giova alla salute.
Scritto
nel 1922 e in parte autobiografico, il romanzo ha un sapore rassicurante
d’altri tempi, di un’Italia che in parte non c’è più, dove il sole e il mare
bastavano per stare bene. Oggi quattro donne insoddisfatte dalla vita
difficilmente si “rinchiuderebbero” in un castello a picco su una scogliera,
sceglierebbero piuttosto una vacanza avventurosa per dimostrare a sé stesse e
agli altri la propria emancipazione e indipendenza.
Ma
forse l’errore è proprio voler dimostrare qualcosa, mostrandosi dure per
rispondere più duramente agli attacchi della vita sentimentale. In un’epoca in
cui sentiamo tutti l’obbligo di restare connessi senza aver più contatto con
noi stessi e con gli altri, “Un incantevole aprile” fa riscoprire l’utilità
della fuga e dell’isolamento in compagnia di persone nuove. Di fronte a questo
romanzo al femminile, non storcano il naso le lettrici emancipate del terzo
millennio perché facilmente ne resteranno enchanted, trovandolo piacevole come
un’intima chiacchierata tra donne, attività notoriamente terapeutica e
liberatoria. Ci si potrebbe accorgere che il proprio lato romantico era solo in
letargo e che il viaggio in Italia è una medicina ancora efficace. Soprattutto,
si potrebbe scoprire o riscoprire un’autrice audace e spregiudicata com’è
Elizabeth von Arnim, originale ed estranea a ogni corrente letteraria, libera e
passionale, sinceramente e profondamente donna nella scrittura come nella vita.
Posologia
La
somministrazione del romanzo è particolarmente indicata durante la stagione
primaverile, quando si sente maggiormente la necessità di scaldare le ossa e i
sentimenti.
“Un
incantevole aprile” è una valida iniezione ricostituente che, favorendo il
recupero energetico e contrastando la stanchezza e l’affaticamento della
stagione invernale (intesa anche in senso emotivo), consente di rimettersi in
moto e darsi una smossa quando le cose non funzionano, consapevoli che il
cambiamento dipende soprattutto da noi. Se avete paura degli aghi, non temete
perché il romanzo vi distrarrà abbastanza da non farvi sentire la puntura.
Se
siete insoddisfatte del vostro matrimonio, se vostro marito è distratto, se la
vita coniugale è solo fredda routine, oppure se siete piene di corteggiatori ma
neanche uno vi interessa, se sentite il bisogno di riconciliarvi con il passato
e con i vostri desideri, se vi sentite sole, se la vostra vita vi sembra vuota
o troppo piena di cianfrusaglie inutili e credete sia arrivato il momento di
fare le pulizie di primavera, o anche solo se ne avete abbastanza della pioggia
e del freddo e volete riscaldarvi al sole di un incantevole aprile, il romanzo
è la medicina adatta. Anzi, più che una medicina, è un olio profumato al glicine:
facilmente spalmabile, non unge e consente di massaggiare con delicatezza i
muscoli dello spirito per rimetterli in moto dopo il letargo invernale,
preparandoli ad affrontare con slancio nuove prove (o fatiche). Può anche
essere considerato una buona crema solare da spalmare con abbondanza prima di
esporsi a nuove emozioni sentimentali.
Effetti
collaterali
La
controindicazione più frequente è il forte desiderio di trascorrere un mese in
un castello sulla costiera ligure. Qualora l’effetto collaterale si
verificasse, non allarmatevi perché è assolutamente normale, anzi, se potete,
cercate di assecondarlo. Se non fosse possibile, state certi che leggendo il
romanzo avrete quasi l’impressione di sentire il profumo e il tepore della
primavera mediterranea. Non è come una vera vacanza, ma è un ottimo
compromesso. La lettura sarà piacevole quanto dondolare su un’amaca all’ombra
di un glicine.
In
casi più rari può manifestarsi una sorta di fastidiosa allergia causata dalla
descrizione un po’ stereotipata dell’Italia tutta sole, cuore, amore. Ma se
assunti nelle giuste dosi e ben diluiti nella spregiudicata, ironica e
romantica prosa di Elizabeth von Arnim, un po’ di sole, cuore e amore non
dovrebbero danneggiare la salute.
Terapia
cinematografica sostitutiva
Chi
volesse prolungare l’effetto corroborante del romantico romanzo, può farlo con
il film di Mike Newell. Belle location, un po’ di umorismo, una spolverata di
tenerezza e un pizzico di retorica, Un incantevole aprile si regge soprattutto
sull’interpretazione di Miranda Richardson e Joan Plowright.
Avvertenza:
il romanzo è molto più efficace del film.
Commenti
Libro letto a fine marzo (tanto per rimanere in tema) e già
tramato in fine estate. Ma che ripropongo volentieri in questa disamina di
piccoli malanni stagionali.
Elizabeth Von Arnim
“Un incantevole aprile” Fazi euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[pubblicato il 13 settembre 2020]
Un libro piacevolmente datato, e non a caso consigliato sia
dalle libropeute per cure dedicate ai matrimoni che dai libri che ci rendono
felici. E finalmente letto.
Scoprendo tra l’altro un personaggio interessante, questa
Mary Annette Beauchamp, nata nel 1866 in Australia, che sposa a 25 anni il
conte Henning August von Arnim-Schlagenthin, figlio adottivo di Cosima Liszt
(in seguito Cosima Wagner), vive con lui nella campagna tedesca, dove conosce
E.M. Forster e Hugo Walpole. Poi, divorziata dal conte, sposa il duca John
Francis Stanley Russell, fratello maggiore di Bertrand Russell. Unione poco
felice per il carattere impossibile di lui, tanto che nel 1919 si separa da
lui, conducendo una vita libera e piena di libri. Libera con molti amanti,
anche più giovani come l’editore Alexander Stuart Frere Reeves (lui 28, lei 54)
o coetanei, ma molto impegnati, come lo scrittore H. G. Wells. E tanti libri,
almeno una trentina tra il 1898 ed il 1940.
Un personaggio interessante, quindi. Tra l’altro, ovviamente
usa il cognome del primo marito, ma dopo il grande successo del suo primo libro
“Il giardino di Elizabeth”, inizialmente pubblicato senza nome, userà Elizabeth
come nome. Infine, era anche cugina di Kathleen Mansfield. Tutto questo folto
retroterra si sentirà molto nelle sue opere (che non ho letto, ma di cui ho
letto). Ma anche avrà riflessi in questo gradevole libro quasi centenario.
Un libro quasi impalpabile, dove succede poco e nulla, ma
questo poco e nulla è reso con una dolce grazia di scrittura, ed una specie di
salita per una scala a chiocciola, al fine della quale, tutti saranno cambiati.
In meglio (certo, un po’ di ottimismo da fine della Prima Guerra Mondiale).
Grazie alla magia del posto, un castello ligure, posto in quel di San Salvatore
(esistente località tra Genova e La Spezia) che però nasconde il vero luogo
dove l’autrice pensò e scrisse il libro, il castello Brown di Portofino.
Nel castello di San Salvatore convergono quattro donne molto
diverse: Mrs. Lotty Wilkins, sposa del distante avvocato arrivista Mr. Mellresh
Wilkins, Mrs. Rose Arbuthnot, sposa di Frederik, archivista al British, più
noto con il nome di Ferdinand Arundel, scrittore di libri sulle amanti reali ed
imperterrito donnaiolo, Mrs. Fisher, di cui non sappiamo il nome, ma anziana e
frequentatrice a suo tempo dell’aristocrazia mondana e politica inglese, e Lady
Caroline Dester, giovane aristocratica stufa dell’elegante vita londinese,
nonché della sua bellezza che attira troppo mosconi intorno a lei.
Il motore dell’azione sono Lotty e Rose, che vedono
l’annuncio del castello, decidono di regalarsi una vacanza, ma, non essendo
molto abbienti, trovano le altre due signore per dividere le spese. Lotty è
angustiata dalla sua difficoltà da rapportarsi al mondo fatuo del marito. Rose,
invece, non accetta gli scritti del marito e si dedica ad opere di carità. Una
volta lontani dalla brumosa Londra, le quattro donne, ognuna con i propri
tempi, sembrano rifiorire. Anche qui il motore di tutto è Lotty, con le sue
uscite sempre fuori luogo, che tuttavia smuovono le altre, le costringono a
pensare, in fondo mettono anche allegria. Non solo le donne diventano più
socievoli, ma accettano altri difficili passaggi. Prima l’arrivo di Mellresh,
che sulla riviera ligure scopre la gioia di vivere della moglie, e ne è
contagiato. Poi Frederik che dopo alcune sbandate, si raddrizza, anche perché
Rose accetta le sue scritture, ed i due sembrano destinati, finalmente, a
comprendersi. Infine, Mr. Briggs, il proprietario del castello che stringe una
amicizia foriera di possibili futuri con l’ammorbidita Lady Caroline. Anche
l’arcigna Mrs. Fisher si ammorbidirà, accettando la possibilità che, per maturare
nella vita, si possa anche cambiare.
Una favola, certo. Un improbabile idillio, anche. Ma la
bellezza e la bravura del testo, è quella di presentare i vari caratteri delle
donne, magari mutuando l’ambiente che la scrittrice ben conosceva. Non a caso,
le tre giovani donne sembreranno avere futuri migliori di quelli che avevano
all’inizio del libro. Mentre l’anziana signora sembra invece adombrare gli
stessi pensieri dell’autrice. Che, forte di quel primo libro e del suo amore
per la natura, non manca di descrivere con pennellate gradevoli, i giardini del
castello e tutte le sfumature bucoliche che lo caratterizzano. Non prende
molto, è vero, come tensione verso nuovi orizzonti, essendo, tuttavia, uno
specchio di un certo tipo di spaccato social-culturale inglese. Amante delle
belle cose, e del sole italiano. Non è un caso che da lì a trenta anni, gli
inglesi andranno a colonizzare le colline toscane. Finisco ribadendo che, per
l’appunto, è un libro datato, ma che rilassa la mente in tempi di tensione. E
quali siano ora questi tempi ben lo sappiamo.
“Mancare a qualcuno che ha bisogno di te, per qualsiasi
motivo, era comunque meglio della solitudine totale di non mancare a nessuno.”
(44)
“Cosa curiosa, sentiva il desiderio di pensare, e di ciò
era stupita più di chiunque altro. Mai prima d’allora aveva provato quel
desiderio.” (111)
“Ripeté a sé stessa … ora mi metto a pensare, ma non è
facile pensare se non lo si è mai fatto prima.” (169)
“Bisognerebbe continuare … a cambiare, per quanto vecchi
si diventi.” (213)
Finalino
Il libro è piacevole, non so se possa alleviare qualche allergia primaverile, o qualche allergia sentimentale. Ma la lettura vale per un rilassamento generale.
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