Davide Enia “Appunti
per un naufragio” Sellerio s.p. (regalo di Rosa)
[A: 26/06/2019
– I: 09/06/2020 – T: 11/06/2020] &&&
+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 211; anno: 2017]
Un
regalo impegnativo di un’amica, che ho aspettato a leggere per maturare un po’,
la lettura e l’amicizia. Di Enia avevo letto un libro che mi aveva coinvolto su
di un inventato calciatore e sulla sua scomparsa (compresa una bellissima e
lunghissima playlist). Questo è tutto un altro tenore. Un libro di impegno
civile e di coinvolgimenti familiari. E non so quale dei due aspetti mi ha
colpito di più.
Di
trama in sé non è che si possa parlare molto, che, come riporta il titolo, sono
più che altro appunti che si affastellano durante diverse visite all’isola di
Lampedusa, dove si vive, quotidianamente, il dramma dei migranti e della morte
alle porte. Così Davide ci presenta diversi personaggi isolani, o diventati
isolani, che, in modo differente sono coinvolti nel dramma degli sbarchi più o
meno clandestini, e nelle tragedie in mare, compresa quella che, almeno
mentalmente, fornisce il motore primo dello scritto: l’affondamento del 3
ottobre 2013, con quasi quattrocento morti.
Enia
ha un’ottima scrittura, che rende agevole leggere anche pagine di una crudeltà
sovraumana. Nella parte che ho chiamato civile, poi, c’è tutto un susseguirsi
di sensazioni che non cadono mai in recriminazioni sterili od in poco utili (in
questo contesto) suggerimenti su cosa fare e come. Si parla dei migranti,
certo, ma soprattutto si guarda tutto con l’occhio da questa parte. Di chi
cerca di salvarli in mare. Di chi cerca di curarli, aiutarli, proteggerli ed
anche sostenerli. Economicamente, moralmente, sanitariamente.
Ci
sono tanti personaggi che scorrono sotto la lente di Enia, e tutti, pur nella
diversità, sempre con quel fondo di empatia che contraddistingue chi ha senso
stia al mondo. Ci sono gli amici vicini, Paola, Melo, Simone. Ci sono i
barcaioli, nel senso della gente che va in barca, in genere a pescare, ed ora
si ritrova alla pesca di esseri umani, vivi o morti, purtroppo. Ci sono i sommozzatori,
quelli che hanno i compiti più ingrati, quelli che vanno a recuperare i corpi
in profondità. Dalle parole di uno di loro esce tanto orrore che qualsiasi
persona dotata di un’infinitesima percentuale di umanità non può che sentirsi
colpita, indignata, mossa a qualcosa. Certo, noi, da qui, da Roma, lontano dal
mare e dalle isole, ci rendiamo conto che poco concretamente si può fare. Ma si
può non passare in silenzio. Si può unire la nostra voce alle altre voci.
Poi
c’è l’altra parte, che in maniera diversa ma altrettanto profonda mi ha
colpito. Quella personale. Quella del rapporto con i congiunti più grandi. Con
lo zio, malato di tumore, con la delicatezza di un rapporto che non invade, ma
che tocca le corde di passati comuni e di inutili prospettive di futuri
altrettanto comuni. Che l’unico futuro che Davide riuscirà a dare allo zio
Beppe sarà proprio questo libro. Ma di questo taccio, che troppi sono i dolori
che si potrebbero aprire. Mentre apro e consolido il giudizio, sul rapporto tra
Davide ed il padre. Ahi, quanto avrei voluto, quanto vorrei anch’io ora, che
mio padre non avesse vissuto gli ultimi lunghi anni del suo passaggio terreno
chiuso in una malattia che poco riusciva a penetrare all’esterno. Certo, capiva
e si faceva capire, ma era difficile, è stato difficile, istaurare un rapporto
di scambio, una comunicazione, come quella che, con tutte le difficoltà, riesce
in qualche modo ad essere descritta nel libro.
Ci
vuole certo uno sforzo da tutte e due le parti, per potersi aprire, per poter
comunicare. Questo è valido, sempre, in tutti i rapporti. Filiali, parentali,
amicali. Enia riesce a sfondare una porta che vuole essere sfondata, e riesce a
collegarsi con quella persona che è stata ed è un sé stesso prima di esserlo
coscientemente. Ritornano, lì come altrove, i fatti caratterizzanti dei DNA che
si ripropongono. Diversi, certo, ma con quel fondo di comunità che ci fa dire
di essere rami della stessa radice. C’è anche un salto mentale che mi ha fatto
fare la descrizione del rapporto del padre cardiologo con le strutture mediche
cui stava a contatto. Una descrizione (pagine 143 e 144) che vi invito a leggere
per poterla confrontare con gli sforzi odierni, attuali, di chi, medico,
infermiere, lotta con l’attuale pandemia. E poi, c’è un lato personale
sentimentale, doppio, che sottolineo quasi in chiusura.
Quando,
dall’aereo, Davide sorvola il Belice.
Doppio,
che ricordo l’andata familiare a pochi mesi dal terremoto, quando con mio padre
si andò a trovare e solidarizzare con Danilo Dolci, suo amico e coevo. E poi
ricordo la gita recente con Ale, quando finalmente siamo riusciti a vedere il
Cretto di Burri sopra le rovine di Gibellina. Se non l’avete visto, è uno dei
più alti esempi al mondo di “land art”. Chiudo, infine, augurando (come da
citazione) tanti momenti polpo a tutti i miei amici che hanno una penna in
mano.
“Spesso
è questo ciò che accade, si cerca lontano quando invece è proprio da ciò che è
vicino che andrebbe cominciata l’indagine.” (26)
“Il
momento ‘polpo’ è quando una storia, se vuole, ti viene incontro, e non c’è
bisogno di trafiggerla o di scagliarcisi contro. È necessario starle vicino,
quello sì, rispettarne i tempi ed essere pronti ad accoglierla.” (72)
Alessandro
Robecchi “I cerchi nell’acqua” Sellerio s.p. (regalo di Francesco)
[A: 07/05/2020
– I: 13/07/2020 – T: 15/07/2020] &&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 394; anno: 2020]
Una
valutazione data più per affetto, verso l’autore e verso il donatore, che per
il valore in sé del libro. Che invece, mi ha sinceramente deluso. Non ha
l’ironia dei primi sei libri dedicati alle storie di Carlo Monterossi. Cerca in
qualche modo di cambiare passo e registro alla trama, dandoci un intreccio, a
volte quasi più giallo che romanzesco, anche se non è decisamente un romanzo
giallo.
Eravamo
abituati (piacevolmente) alle storie strampalate delle avventure di Carlo,
infarcite da sapienti citazioni di Bob Dylan (qui ne rimane solo una sapiente
“per vivere da fuorilegge, devi essere onesto”), con al contorno la sua corte
dei miracoli: la slava Katrina, portiera e tata tuttofare, il solutore di
problemi Oscar e la sua partner nell’agenzia investigativa, l’ex-agente
Agatina, per finire con la bella di turno che da un po’ di tempo è rimasta
essere l’indaffarata e tuttavia simpatica Bianca.
Qui,
al contrario, inframmezzato da un sorso di whiskey e da qualche nota di Nina
Simone in sottofondo, assistiamo ad una serata di chiacchiere a casa Monterossi,
dove il nostro vuole scusarsi di qualcosa che non è riuscito a fare nel romanzo
precedente ed il buon Tarcisio, giustamente, lo manda a quel paese con le sue
paturnie borghesi e con i suoi facili pentimenti. Così che Ghezzi si decide a
raccontare una storia “vera”, rispetto alle paturnie che Carlo si inventa per
le trasmissioni della sua tv spazzatura. Così che assistiamo al lungo racconto
di momenti di vita che si intrecciano, incontrandosi come cerchi nell’acqua di
un ruscello provocati da un sasso che, fermo lì sul greto, ne favorisce il formarsi,
e l’allargarsi e lo scomparire all’orizzonte.
Abbiamo
allora una storia dove si intrecciano momenti polizieschi degli Stursky ed
Hutch de’ noantri. Cioè, anche se non sono così duri, né viaggiano rigidamente
in coppia, dei sovraintendenti Ghezzi e Carella. Momento pre-feriale (cioè
vicino all’estate) in questura, con solo un omicidio di un vecchio antiquario
che non avrebbe nessun motivo per essere ucciso.
Carella
si prende inaspettatamente giorni di ferie, che, come ci si aspetta da quel suo
essere un mastino di cuore, rimasto colpito dalla vicenda di una signorina
indicata con la sola iniziale, L, vuole effettuare una ricerca per suo conto.
Elle ha assistito al massacro perpetrato da tal Vinciguerra sulla sua amica
prostituta Eva. Quasi uccisa, che Vinciguerra è pappone e manesco. Piccola
condanna, ma Elle, tossica e sensibile, prima che il tizio esca si spara
un’overdose di paura e da paura. Carella decide allora di tenere sott’occhio
Vinciguerra, magari incastrandolo. Lo cerca, lo segue, lo perde di vista. Per
ritrovarlo, decide di seguire, ma alla lontana, le capacità mostrate nei primi
libri da Ghezzi. Si trasforma in un malavitoso di bassa tacca, e si mette alla
ricerca del cattivo. Tralasciando i pochi momenti ilari di questo
travestimento, scopre passo dopo passo, che Vinciguerra diceva di avere un asso
per rientrare nel giro, che si è fatto vivo con i calabresi (che controllano la
droga) per mostrare l’asso, che subito dopo (come se l’asso fosse sparito)
sparisce anche lui. Dopo varie vicissitudini, con Carella che viaggia anche al
di là della linea degli onesti, lo trova e ne trova il coinvolgimento con
l’omicidio cui tutti lavorano in Questura.
Tutti,
meno Ghezzi, che invece era stato coinvolto da una prostituta, la Franca, per
cercare di trovare il suo uomo, Pietro, che fu il primo caso risolto da Ghezzi
trent’anni prima. Dopo tanti giri a vuoti, che vi lascio leggere se vi va,
Ghezzi ritrova Pietro che era fuggito in quanto impauritosi da quello cui aveva
involontariamente assistito. Pietro è il mago della messa fuori uso di sistemi
d’allarme. Così aiuto un tizio ad entrare dall’antiquario di mattina all’alba.
Mentre se ne va con qualche oggetto rimasto appiccicato alle sue mani, sente il
tizio litigare con molta alterazione fonetica. Poi legge che l’antiquario è
morto, ha paura che il tizio si rifaccia su di lui, e scappa. Ghezzi alla fine
lo ritrova, e finalmente riunito al suo partner Carella, riesce a collegare
(cosa che ci si aspettava senza tanti patemi fin dall’inizio) la sua storia, i
suoi cerchi nell’acqua con quelli di Carella. Ci vorrà ancora tempo, ricerche e
qualche stratagemma, ma alla fine tutto andrà al suo posto.
Tutto
meno le coscienze dei nostri, che per incastrare i cattivi a volte sono stati
costretti a viaggiare sul filo della legge, ed anche a passarlo
abbondantemente. Su queste riflessioni, Robecchi chiude questa nuova avventura:
domandandosi (e domandandoci) fino a dove si può andare? Fino a dove dobbiamo
seguire Cerami ne “Il borghese piccolo piccolo”? Fino a dove, invece, non
possiamo discostarci dal Voltaire integerrimo che tuona in aula dicendo di non
essere in nessun punto d’accordo con l’interlocutore, ma che si batterà sino
alla morte perché costui possa esprimersi, mostrando cioè il più alto punto di
correttezza che io conosca? Tuttavia, non basta riconoscere questo tormento, per
poter far salire il giudizio di un libro da cui ci si aspettava qualche momento
più rilassante, qualche arguzia come ci si era abituati. Capisco la necessità
di rinnovamento, ma qui il risultato complessivo non mi sembra all’altezza
delle sue possibilità.
Andrea
Camilleri “Riccardino” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 13,75 euro)
[A: 16/07/2020
– I: 20/08/2020 – T: 21/08/2020] &&&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 287; anno: 2020]
Un
dovuto, sentito, commosso omaggio ad uno dei grandi degli ultimi tempi che,
purtroppo, come molti ci ha lasciato. Ultimo libro dedicato a Montalbano,
scritto da Camilleri nel 2005, rivisto ma non corretto nel 2016, ed
espressamente richiesto fosse pubblicato postumo. Così che la casa editrice
Sellerio decide di farlo uscire il 16 luglio, un anno esatto dalla morte
dell’autore siciliano. Una degna e sentita commemorazione.
Ho
deciso, inoltre, di comperare solo la versione definitiva, anche se Sellerio, per
suo marketing, ha pubblicato anche un cofanetto con le due versioni (la ’05 e
la ’16). Ma a me interessa il procedere dell’autore, ed il modo in cui decide
di chiudere la vicenda. Ci sono autori che decidono di far uscire i propri eroi
seriali con la loro morte (salvo poi, come Conan Doyle, costretti ad inventarsi
una via d’uscita a fronte dello sconcerto dei lettori), e quelli che muoiono
prima dei loro eroi seriali (così che qualcuno, tipo David Lagercrantz con
Millenium di Larsson viene incaricato di proseguirne la scrittura). Camilleri,
coscientemente e sapientemente, decide di tentare una terza via. Far uscire di
scena il suo personaggio, insieme all’uscita del suo autore, cercando di
trovare il modo che non sia possibile “resuscitarlo”.
Ecco,
prima che sulla trama in sé è bene concentrarsi su questo gioco filologico e
filosofico, con cui Camilleri sfida i lettori e l’editoria tutta. Intanto,
cerca di giustificare la stanchezza di Montalbano non con l’avanzare dell’età,
ma con il confronto con l’eponimo eroe televisivo. Entrando, come viene detto,
in un gioco pirandelliano, cui prende parte anche l’autore. Anzi l’Autore con
la maiuscola. Così che Camilleri ci disvela il fatto che stiamo leggendo un
libro, che lui può decidere a suo piacimento come e dove far andare la trama. E
che ci sarà sempre chi ne cercherà la trasformazione in episodio televisivo. Ma
non sarà facile per Zingaretti parla da Salvo con Zingaretti. O con Camilleri.
Altro
elemento che serve a chiudere il ciclo, è la riflessione filosofica, indotta
dal vescovo di Montelusa, a margine degli avvenimenti. Dove, dietro a domande
apparentemente solo pertinenti alla filosofia morale, spaziando da Socrate a
Giovanni di Salisbury, da T. S. Eliot a Pascal, Camilleri fa fare un
ragionamento personale suo proprio sul male e sull’omicidio. Dove, riassumendo,
si può giustificare o trovare delle attenuanti a chi uccide, ma solo a livello
dei giudici. Il poliziotto deve solo cercare la ricostruzione degli
avvenimenti, ed assicurare alla giustizia chi commette un reato. Fatto salvo
poi, se il reato è giustificato da elementi morali, mettersi alla testa di una
campagna di liberazione.
La
bravura di Camilleri, fin dall’inizio dei suoi scritti, sia quelli storici che
quelli “di cassetta” come malamente dice Montalbano dei libri (che poi sono
solo di grande diffusione), è quella, in ogni caso, di procedere con una storia,
che ha tutti i crismi di un articolo di cronaca giornalistica. Poi ne sfrutta i
rami per le sue elucubrazioni, che guarda caso ci trovano spesso convergenti.
Facendo anche un ultimo sforzo per ritrarre e fermare l’azione dei comprimari.
Così, Augello non compare, che già da tempo sembra allontanarsi dall’orizzonte
di Camilleri. Fazio continua ad essere il braccio pensante di Salvo, portandogli
a sostegno tutti gli elementi che consentono al nostro la soluzione del caso.
Infine, Catarella rimane la macchietta comica di cui non possiamo fare a meno.
Soprattutto per le sue entrate in scena, sempre d’effetto.
Di
certo, abbiamo anche la storia. La morte di tal Riccardino, poco dopo aver
sbagliatamente telefonato a Salvo. Morte che si contorna di molti elementi che
ne arricchiscono la trama: Riccardino era alla testa di altri tre
(moschettieri?) dediti a poco chiare trame. Ma tutte legate alle loro attività.
Riccardo in quanto direttore di Banca ed elargitore discrezionale di prestiti
più o meno ingenti. I suoi tre amici, impiegati nella Miniera di Sale a livello
amministrativo, a coprire ammanchi di gasolio, ed entrate ed uscite di droga,
magari per compiacere anche un boss mafioso amico dei padrini locali (che dai
primi romanzi sappiamo essere i Sinagra e tutte le loro ramificazioni).
Sodalizi strani, che Riccardo, per mantenere il controllo sui suoi sodali,
decide di accoppiarsi a rotazione con le loro mogli, tutti essendo consenzienti.
Tutti meno la tedesca moglie di Riccardo. Che tutto vede, tutto tace, anche il
sodalizio del marito con il boss. Camilleri gira e rigira sull’evoluzione del
racconto, che ci vuole portare ad una fine, della trama, del testo, di Salvo.
Così che propone due diversi possibili finali (starà a voi decidere e capire
quale che sia il migliore), così che possiamo dire, noi, da fuori, che stiamo
leggendo un libro Sellerio e non “La Gazzetta di Sicilia”), nonché un modo interessante
per Salvo di scomparire.
Con
Pirandello, con la filosofia, con l’entrata ed uscita dell’Autore dalle pagine,
con la bravura di Camilleri di farci vedere possibili scenari finali delle
vicende narrate, è un modo interessante, dotto e definitivo di dire: io ho costruito
un mito, io ora decido che sia il momento di fermarsi. Perché ormai io,
Camilleri, non ci sono più. Vi lascio Montalbano, ma in modo che ne rimarrà, da
ora in poi, solo il ricordo.
Ho
gradito molto l’impegno di Camilleri a costruire una trama veramente finale.
Forse manca un pizzico di “amor di pancia” per far salire ancora di più il
gradimento. Perché, e qui si rimane aperti, Livia c’è e vorrebbe vacanziare in
posti esotici. E Salvo lì non riesce a trovare vie d’uscita. Ma va bene anche
così, dove io eponimo autore, continuerei la saga da Genova e non da Vigata.
Staremo a vedere. Per ora godiamoci una bella prova di un compianto autore.
Hanya
Yanagihara “Una vita come tante” Sellerio s.p.
(Regalo di Nico&Benny)
[A: 07/05/2019 – I: 11/09/2020 – T: 15/09/2020]
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[tit. or.: A Little Life; ling. or.: inglese; pagine: 1094; anno 2015]
Di certo un libro che per mole ricorda i classici
russi dell’Ottocento. Purtroppo, non per contenuto, anche se la brava
scrittrice hawaiana non perde colpi sino alla fine. Non diventa mai troppo
pedante, parla e ci narra, magari alternando le voci (sempre però senza farci
perdere il filo), ed alla fine ci fa scorrere qualcosa come una quarantina di
anni, concentrandosi sulla vita e sulle amicizie di quattro tipici americani.
Ho detto hawaiana, ma Hanya è qualcosa in
più: padre hawaiano con discendenza giapponese e madre coreana. Lei comincia
come giornalista, per poi interessarsi ai problemi dei diseredati e dei
disadattati, divenendone cantrice e scrittrice. E questo percorso ben si evidenzia
nella scrittura, laddove si riescono a digerire le più di mille pagine in meno
di una settimana. Cosa impossibile se la scrittura non fosse fluida.
Ma è ovvio che un tale libro non può che
essere complesso. Talmente complesso (e lungo) che in America è uscito un libro
che si intitola “Riassunto di ‘A Little Life’”, dove in un centinaio di pagine
si riportano i personaggi, le loro azioni, le loro posizioni nel testo, ed un
filo di trama, dove in effetti non è che sia una trama di per sé complicata, ma
solo lunga, dovendo seguire i nostri eroi dall’adolescenza all’anzianità.
Inciso ovvio: il titolo inglese è appunto “Una vita piccola”, intesa anche come
corta, ma anche senza molta importanza, come tutte le piccole cose. Poco
consono, al solito, il titolo italiano di una vita come tante. Anche perché la
vita dei protagonisti non è proprio “come tante”. Ha una sua particolarità, una
sua essenza, la sua e quella dei suoi personaggi.
Certo, il messaggio di fondo è di un
pessimismo globale, anche se in linea con la poca fiducia nella bontà del
mondo. Per quanto si cerchi di fare qualcosa di positivo, niente riesce bene,
tutto va sempre a finire male.
Comunque noi attenti lettori, invece di
leggere il compendio di cui sopra ci accontentiamo del sunto che viene fatto
dei personaggi e delle loro manie a pagina 752. In effetti, i personaggi sono
quattro, i quattro amici dei tempi del collage, che all’epoca condividevano
alloggi e momenti di vita. E che poi sono cresciuti, hanno avuto il modo di
esprimersi nel mondo, di allontanarsi magari, per poi convergere e tornare
insieme.
In quattro, in modo diverso, hanno una
modalità di conforto, quasi di “auto-conforto”, testo a “dominare” l’ansia del
mondo: Malcom con le sue casette, Willem con le sue ragazze, JB con i suoi
quadri e Jude con i rasoi. Ecco, così avete anche i nomi dei nostri eroi, anche
se poi l’eroe eponimo, quello centrale in tutto il testo è Jude.
Facciamo però un passo indietro: i quattro
come detto si incontrano al college e le loro piccole vite si intrecceranno per
i tre decenni successivi. Tutti finiscono poi per vivere o abitare a New York,
dove comunque come detto il protagonista (o il mistero da affrontare) è Jude.
Anche se nella prima parte Jude rimane un po’
defilato. Consociamo i suoi coinquilini; JB un artista brillante cresciuto da
una famiglia di donne che cerca la sua identità mascherando con l’egoismo le
sue ansie; Willem il più bello del gruppo, insicuro anche se da bel tenebroso
si circonda di donne innamorate, mentre fa il cameriere sognando di diventare
un attore; Malcom studia architettura, proviene da una famiglia benestante, adottando
un basso profilo per schivare domande scomode sui suoi reali desideri.
Mentre Jude li osserva e … pulisce casa,
cucina, studia legge e matematica. È intelligente, forse anche troppo, ma
soffre di zoppia, per un imprecisato (all’inizio, poi tremendo) incidente
avvenuto in un remoto passato. Che Jude ha attraversato molte zone d’ombra, di
cui non parla, glissa sulle sue strane abitudini, non si fa mai vedere nudo.
Perché come detto sopra, lui si aggrappa ai rasoi, si tagliuzza infliggendosi
sofferenze al limite del sopportabile, per riuscire a sopportare la sua
“piccola vita”.
Come detto, e come scoprirete, ogni pagina è sofferenza,
ogni passo avanti ne prevede molti indietro. Anche quando sembra che tutto
possa volgere al meglio. Anche quando, finalmente, Willem e Jude si dichiarano
e vivono la loro storia omosessuale piena di amore. Un amore universale, inteso
anche come un disperato tentativo di trovare pace, di amare per guarire ed
essere guariti. Ma a Jude nessuna sfiga viene risparmiata. E tutti questi
patimenti, come tutte le punizioni autoinflitte, vengono descritte con puntigliosa
drammaticità, per renderci partecipi, anche noi, di questo dolore
insopportabile che si chiama vita.
Che ben presto anche noi lettori ci si
domanda a che scopo si può, si deve continuare a vivere, se il prezzo da pagare
è questo? Alla fine, sapremo come andrà a finire per Jude, per Malcom, per
Willem e per JB. Alla fine, vedremo l’impossibile felicità e la possibile
tristezza. Alla fine, capiremo se ci è piaciuto o meno. Tanto che ora,
sinceramente, non saprei se consigliarlo o meno, al contrario di Nico che me lo
ha regalato. Sono contento del regalo. Non so se vorrei che anche altri
stessero male.
Che io sono un inguaribile ottimista, sino
alla fine. E mi aspetto sempre un finale felice. Sempre e ovunque. Ma forse non
ci sarà.
“Sperimentò l’incomparabile gioia di
vedere le persone che amava affezionarsi ad altre persone che amava.” (198)
“Stava iniziando a rendersi conto che un
giorno le persone di cui aveva imparato a fidarsi avrebbero potuto tradirlo;
che, per quanto fosse triste ammetterlo, non poteva farci niente e che la vita
avrebbe continuato a spronarlo, perché per ogni persona che un domani lo
avrebbe deluso ce n’era almeno un’altra che non lo avrebbe mai fatto.” (270)
“Chi non ama la matematica accusa sempre i
matematici di fare di tutto per renderla complicata … Ma chiunque ami la
matematica sa che è esattamente il contrario: la matematica premia la
semplicità, e i matematici la apprezzano più di ogni altra cosa.” (433)
“La vita era qualcosa di spaventoso e
inconoscibile.” (752)
“Provare a risolvere il mistero di una
persona equivale sempre a ripararla.” (778)
Questo
tormentato novembre avendo cinque domeniche, ritorno all’uso solito di
allegarvi un recupero di libri curativi letti dopo aver passato la lettura
della relativa malattia.
Malattie che speriamo si continui a tenere il più lontano possibile. Compatibilmente. Curandoci laddove serve, e dando un pensiero di conforto a chi, come il mio amico Emilio, non sa più dove sbattere la testa tra tanti e diversificati malati. Noi si può fare altro? Non so, io per alleviare possibili tristezze, continuo ad abbracciarvi .
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
Quasi IMMACOLATA 2020
Come sapete, se ci sono cinque domeniche,
nell’ultima provo a recuperare cure passate o saltate.
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
Evasione, i dieci migliori romanzi
Quando avete bisogno di scordare la pena che avete nella
testa, nel cuore o nel corpo; quando aspettate un autobus che non arriva mai;
quando volete sganciarvi della routine quotidiana, svignatevela con uno di
questi:
Roberto Bolano “I detective
selvaggi”
Raymond Chandler “Il lungo addio”
Joseph Conrad “I duellanti”
Julio Cortazar “Il gioco del mondo”
Alexandre Dumas “Il conte di
Montecristo”
E. M. Forster “Passaggio in India”
Graham Greene “Il nostro
agente all'Avana”
Jerome K. Jerome “Tre uomini in
barca. Per non parlare del cane”
Stephen King “Stagioni diverse”
Nevil Shute “Una città come Alice”
Novant’anni, avere
I dieci migliori
romanzi per novantenni
Heinrich
Böll “Opinioni di un
clown”
Lewis
Carroll “Alice oltre lo
specchio”
Charles
Dickens “Casa desolata”
Ernest
Hemingway “Il vecchio e il mare”
Milan
Kundera “Il libro del riso
e dell’oblio”
Primo
Levi “Il sistema
periodico”
Gabriel
Garcia Marquez “L’autunno del patriarca”
Salvatore
Satta “Il giorno del giudizio”
Mario Soldati “America primo amore”
P.
G. Wodhouse “La stagione
degli amori”
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
Cinquant’anni, i dieci migliori romanzi per
cinquantenni
J. M. Coetzee Vergogna
Joseph Conrad Cuore di tenebra
Hermann Hesse Il gioco
delle perle di vetro
Elfriede Jelinek La
pianista
Doris Lessing Il diario di Jane Somers
Javier Marias Domani nella battaglia pensa a me
Philip Roth Lamento di Portnoy
Salman Rushdie I
versi satanici
José Saramago La
zattera di pietra
Anne Tyler Ristorante nostalgia
Bugiardino
Eccoci
allora alle prese con elenchi di letture per persone di una certa età, ma anche
di una certa maturità (90 e 50 anni), nonché una piccola puntata di evasione.
Ve ne ripropongo quelli messi in grassetto in ordine di elenco.
Roberto Bolaño “I detective selvaggi” Adelphi s.p. (regalo de “I
Floridi”: Mario, Ines e la signora Laura)
[tramato il 19 luglio 2020]
Un libro che impegna nella lettura pieno com’è di rimandi e di
informazioni altre. Ma una delle prove migliori, per me, tra quelle del mio
coevo Bolaño (che in effetti è nato dieci giorni prima di me) che ormai da
troppo tempo ci ha lasciato. Il romanzo è veramente complesso, tanto che
meriterebbe un libro a sé per poterne parlare, e decrittare tutte le
sfaccettature. Di certo è il tentativo di uno scrittore con una testa
meravigliosa di lanciare un peana, o meglio come direbbe uno dei suoi
personaggi, Juan Garcia Madero, una trenodia ad una generazione centroamericana
che uscirà con le ossa rotte dal calderone della storia.
Non solo è complesso nella storia, ma lo è anche nella struttura,
tripartita e polifonica. Il nodo centrale è l’incontro di vari giovani latino-americani,
scrittori, poeti o comunque vicini alla letteratura (anche giornalisti, grafici
di riviste, ed altro) che convergono verso la creazione di un movimento
letterario dal nome attraente “realismo viscerale”. Movimento che qualcuno di
loro fa risalire ad un analogo, simile movimento degli anni ’20, che avrebbe
avuto esponente di spicco una poetessa, Cesarea Tinajero, poi scomparsa senza
lasciare traccia nel distretto di Sonora (una regione semi-desertica di confine
tra Messico e Arizona).
Già da questo vediamo il mascheramento ed il tentativo dell’autore di
descrivere un’epopea basata sui rimandi.
Infatti, si vede in trasparenza il movimento che intorno al 1974
fondarono lo stesso Bolaño ed il suo carissimo amico Mario Santiago con il nome
“infrarrealismo”. L’idea dei due è di dare vita, in Messico ed in lingua
spagnola, ad una “cosa” (e mi scuso ma non c’è un nome singolo per quello che
volevano fare) che percorresse strade analoghe, letterarie e di vita, alla
Generazione Beat americana degli anni ’50. Anche il movimento messicano aveva
un antenato anteguerra mondiale, con lo stesso nome, legato però non ad uno scrittore
ma al pittore cileno Roberto Matta, che lo avrebbe coniato quando fu espulso
dal movimento surrealista da parte di André Breton. Anche il “realvisceralismo”
di Cesarea aveva avuto a suo tempo un ombrello da cui fu espulso. Ero lo
“stridentismo”, fondato nel 1921 in Messico dal poeta Manuel Maples Arce, anche
qui un movimento interdisciplinare, legato al sociale, con radici nel
futurismo, nel dadaismo, nel surrealismo, così denominato per il gran rumore
che suscitò alla sua comparsa (stridente à rumore sgradevolmente acuto secondo il
dizionario). Già da questa genesi vediamo la complessità dell’idea di base.
Ma anche la struttura, come detto polifonica, è magistrale.
Il libro è composto da tre parti.
La prima e la terza sono il diario scritto dal giovane Juan Garcia
Madero, diciassettenne innamorato di poesia, che ci racconta gli avvenimenti da
lui vissuti dal novembre 1975 al febbraio 1976. L’incontro con i fondatori del
“realvisceralismo”, Arturo Belano e Ulises Lima. La sua entrata nel movimento.
L’incontro con tutti i personaggi che gravitano intorno, in special modo le
donne (di cui si innamora ed altro). La fuga con Arturo, Ulises e
l’ex-prostituta Lupe sia per sfuggire al di lei magnaccia, sia per cercare
tracce di Cesarea nello stato di Sonora. Di certo non vi dico cosa succede
prima, durante e dopo questa ricerca, e se viene trovata Cesarea, ed altro.
La parte centrale, corposa e molto articolata, è invece basata su decine
e decine di voci diverse, che raccontano cosa succede della vita di Arturo e
Ulises dal 1976 al 1996. Questo coro, cui i due letterati centrali del romanzo
non partecipano mai, ci farà seguire le loro gesta.
Arturo, il cileno, e le sue donne. I suoi amici omosessuali. La sua fuga
in Europa, dove farà mille mestieri, dal commesso, al guardiano di campeggio. I
suoi matrimoni, e forse uno o due figli. La voglia di non star mai fermo, come
se avesse paura di qualcosa. La sua seconda ed ultima fuga in Africa, dove,
come Rimbaud, pare (o riesce?) voler perdersi senza ritorno.
Ulises che invece rimane ancora in Messico all’inizio, ed è quasi
ignorato. Ma che poi va anche lui in Europa, si incontra con Arturo, poi decide
di andare a trovare una sua fiamma in Israele, dove trova che questa è sposata
con un altro. Il ritorno in Messico. L’incontro con l’ormai anziano Octavio
Paz, l’emblema contro cui i realvisceralisti avevano scagliato le prime pietre.
Ma queste sono solo piccole piume della ricchezza della scrittura. Perché
ogni voce, ogni persona che interviene, fa nascere spesso un microracconto
interno al romanzo. Un racconto che a volte si esaurisce, a volte si riprende
più tardi. E da tutte queste voci, che di sicuro non riesco a riportare qui,
alla fine esce fuori il monumento dolente di una generazione. Di un insieme di
intellettuali che avrebbero voluto portare novità, che avevo iniziato a
portarne, ma che, come di tutte le cose, alla fine rimane solo qualche
elemento, qualche rovina, anche se delle rovine bellissime.
Qualcuno, meglio attrezzato di me, parla di una “educazione sentimentale”
alla Flaubert legata a persone e a movimenti. Non so, non mi pronuncio. Quello
che è certo, è che dietro ogni personaggio c’è sempre una persona. Non a caso i
due di cui cerchiamo di capire le gesta e la vita, Arturo e Ulises, sono gli alter
ego di Bolaño e di Mario Santiago. Come molti altri personaggi, per cui penso
che dedicherò del tempo a ritrovarne voci e sentimenti nello spazio e nella
memoria. Nel libro Arturo-Roberto sparisce e Ulises-Mario rimane a vagare in
una Città del Messico che, ad ogni passo, mi torna alla memoria.
Nella realtà, in quel 1998 in cui finì la scrittura, Roberto stava ormai
da tempo a Barcellona, cercando di curarsi per un male che ce lo porterà via
cinque anni dopo. Mario stava sì in Messico, ma venne travolto in un incidente
stradale e non riuscì mai a leggere di questi detective selvaggi. Di questi
cercatori che le voci del bravissimo cileno utilizza per cercare di trovare, e
di presentarci, l’anima di una generazione. Investigatori dell’anima e
scopritori di sentimenti.
Un libro che a volte è troppo “messicano” per me profondamente
occidentale. Ma che mi ha stimolato, mi ha preso, e mi ha fatto voglia di
andare oltre. Di viaggiare, col corpo e con la mente. Di visitare il deserto di
Sonora, e di trovare i segni del passaggio di Juan Garcia Madero, uno dei pochi
al mondo che sapeva cosa fosse l’epanadiplosi.
“Tutti i libri del mondo stanno aspettando che io li legga.” (20)
“Peccato che il tempo passi, vero? peccato che si muoia e si invecchi e
che le cose belle si allontanino da noi al galoppo.” (204)
“Le storie che si raccontano negli aeroporti si dimenticano in fretta, a
meno che non siano storie d’amore.” (560)
Mario Soldati “America primo amore” Sellerio euro 12 (in realtà
scontato a 10,20 euro)
[tramato
il 5 agosto 2018]
Ricordo,
nelle nebbie della memoria, di aver letto, venti anni fa almeno, “La giacca
verde” di Soldati, forse perché entrò in qualche lettura paterna di campagna.
Ma Soldati lo ricordavo e lo ricordo per l’immagine con il sigaro e la regia di
“Piccolo Mondo Antico” (soprattutto per quella filastrocca “Ombretta sdegnosa…”
che risuonava nella mia mente di bimbo intorno ai dieci anni). Così, ho accolto
con interesse l’invito a leggere questo libro, che le mie “amiche” di libro
sostengono essere utile a chi raggiunge i novanta anni. Cosa sulla quale fin da
ora dissento. Anche perché il libro, o meglio la serie di articoli
giornalistici scritti dall’autore nel suo primo soggiorno americano, sono
interessanti, intensi, ed aiutano a scoprire (o riscoprire) quel mondo di là
dell’oceano, che tanto è presente sia nel nostro immaginario che nel nostro
reale. Soldati ha 23 anni, da poco laureato, vince una borsa di studio di un
anno alla Columbia University, e, deluso dal clima italiano post Patti Lateranensi,
va in America deciso, internamente, di emigrare. Vi passerà due anni (uno di
borsa ed uno nel tentativo di restare laggiù), ma non trovando sbocchi, dovrà,
amante deluso, tornare in Italia. Dove pubblica diversi articoli sulla sua
esperienza americana. Articoli che nel 1935, assemblati e ripensati, decide di
pubblicare in un libro. Un libro d’amore per la sua “idea America”, con le sue
speranze, le sue scoperte, i suoi giudizi. Siamo nel pieno dell’ondata fascista
degli anni Trenta, e non tutto quello che Soldati pensa riesce ad essere
espresso. Fortunatamente riprenderà più volte il libro nel corso degli anni, e,
come magistralmente ci mostra la post-fazione di Salvatore Silvano Nigro, lo
renderà un insieme compatto e coeso. Riordinare gli articoli, limarli,
raccordare i tempi, serve, a lui ed a noi, per fare un viaggio insieme al
possibile emigrante. L’imbarco sul “Conte Biancamano”, la traversata, la
conoscenza con i primi italo-americani (magistrale l’incontro con il fallito
baritono), e tutte le traversie che il nostro passa sul suolo americano. È
stato bellissimo, per me che avevo a trent’anni il mito americano, e che
proprio sul limitare di quell’età, per la prima volta varcai l’oceano (con un
improbabile volo Roma – Belgrado – New York), ripercorrere con i suoi occhi
alcune delle tappe che mi hanno fatto amare – odiare quel mondo. L’arrivo nella
Grande Mela, il passeggiare tra le “street” e le “avenue”, gustare Battery
Park, entrare e rimanere, più e più volte, nel coacervo di suoni e di odori di Times
Square. Ricordo ancora lo stupore di vedere, oltre il Greenwich e verso
Tribeca, le scale antincendio esterne. Come nei film. Come se anche io fossi in
un film americano. Soldati incontra la comunità italo-americana e non ha parole
di elogio per questi immigrati che di italiano, ormai, hanno solo il cognome.
Lo capisco. Come capisco, una volta che finiscono i soldi, il suo immergersi
nel mondo dei poveri: fare lo sguattero in condizione miserrime, cercare di
coniugare il pranzo con la colazione del giorno dopo (che la cena si può
saltare). Come non stargli vicino quando viene rapinato a Chicago (ed io che
ricordo quel ristorante vicino al Palazzo delle Nazioni Unite dove assistetti
ad un inseguimento tra un ladruncolo ed un poliziotto). Quanta nostalgia
leggere di pezzi di New York che erano già scomparsi quando ci sono andato la
prima volta, cinquanta anni dopo Soldati, e che ancor di più sono spariti ora.
Anzi più che ora, due anni fa quando ci sono andato per l’ultima volta (anche
se spero di tornarci ancora). Le chiese, i cattolici americani, ma anche i
gospel di Harlem, lassù, oltre la 105^ strada. Dopo il percorso, che le sue
parole ricostruiscono (l’arrivo, New York, Chicago, i risentimenti, l’addio),
due articoli sono rimasti impressi, fuori dagli schemi del girovagare diurno,
delle parole, dei gangster, degli amori fugaci. La bellissima disamina dei film
americani, con quell’affermazione che riporto e che condivido in pieno. La
cattivissima sparata contro il mondo accademico americano. Certo viziata un
poco dal fatto di essere stato rifiutato. Ma di un’esattezza scientifica: in un
mondo basato sul mito del denaro, fare il professore risulta a volte un ripiego
per chi si tira fuori dal mondo “di lotta” in stile americano. Tanto che spesso
i professori sono falliti (o quasi) e tentano di perpetuare il mondo sulla
falsariga del loro fallimento. Da un lato riecheggiano le distruttive parole berlusconiane
(con la cultura non si mangia). Dall’altro, ricordo perfettamente lo scontro
con i colleghi d’oltre oceano, ai tempi universitari, che sapevano
perfettamente “come” funzionasse ad esempio un telefono, ma non si erano mai
domandati “perché”. Ciliegina sulla torta americana, i due ricordi incrociati,
di Soldati e del suo grande amico Carlo Levi, su come nacque la copertina della
prima edizione, all’alba dell’arresto e dell’avvio al confino dello stesso
Levi. Da leggere assolutamente. Come va letto il libro. Che mi riporta ad amare
quell’America che non aveva ancora Trump, ma di cui ricordo lo spaesamento, un
dì, in un caffè di Flagstaff, guardato con meraviglia da un locale, quando gli
dissi che vivevo a Roma, vicino al papa. Esperienze che non si scordano.
“Meglio
vere paure che orribili fantasie.” (207)
“Un
film americano innanzi tutto e sempre è un film. Cioè non annoia.” (209)
Joseph Conrad “Cuore di tenebra” Feltrinelli s.p. (Natale di
Giovanni&Clara)
[tramato
il 21 luglio 2019]
Seppur
ho letto abbastanza di Conrad (non tutto, non esaustivo, ma significativo) è
sempre un autore cui mi avvicino con amore e timore. Questa volta l’approccio è
stato guidato da un gradito Natale passato a casa di Giovanni, con un regalo
inaspettato, gradito perché, in ogni caso, pensato. Allora torniamo ancora su
Conrad, e su questo testo che forse, alla fine, mi riconcilia un po’ con
l’autore anglo-polacco (ricordo che nasce in una cittadina ora ucraina ed al
tempo polacca ma sotto la Russia zarista con il nome di Józef Teodor Nałęcz
Konrad Korzeniowski). Ovvio che Conrad è troppo noto perché mi dilunghi sulle
sue note biografiche, ricordo solo che, durante i suoi sedici anni sul mare, in
uno dei viaggi risalì il fiume Congo a bordo di un battello battezzato “Roi des
Belges”. Questo uno dei più profondi background dell’opera. Come, di sicuro,
qualcosa dell’ultima parte della vita di Rimbaud influenzò alcune idee di
scrittura. Il secondo elemento di grande attrazione che mi ha dato il libro, è
la post-fazione di Alessandro Baricco, dal titolo “Andata e ritorno:
destinazione l’orrore”, che è riuscita a mettere al proprio posto alcuni degli
elementi sia basilari del testo, sia esemplari del mio odio-amore per l’autore.
Inciso, ma anche invidia, quando trova, due anni prima della scrittura di
questo che è solo il suo quarto romanzo, l’amore per la semplice Jessie, che lo
sosterrà per tutto il resto della sua vita. Se vogliamo tronare al testo, o
meglio, se vogliamo iniziare dal testo e dalla trama (come d’altronde suggerisce
il titolo delle mie note), la struttura narrativa è semplice. È una “tale
novel”, cioè un romanzo (“novel”) basato sul racconto di un personaggio
(“tale”), tanto che, come dice Baricco, potrebbe essere descritto come
virgolettato dalla prima all’ultima riga. Il racconto ci viene dalla bocca di
Charles Marlow, uomo di mare dalle tante esperienze, ricalcato da qualcuno dei
tanti capitani che Conrad incontrò nella sua vita, che aspettando l’alba in un
momento di bonaccia sulla “yawl” Nellie navigante sul Tamigi (chiederei poi al
mio amico Renato che tipo di imbarcazione sia e se risulta che da pescherecci
nell’Ottocento divennero barche da regata in solitaria ai nostri giorni) parla
di un’esperienza che gli ha segnato la vita. In un momento di scarsa attività
marinara, infatti, Marlow ottiene l’ingaggio su di una barca che dovrebbe fare
da raccordo per gli insediamenti commerciali stabilitisi lungo il fiume Congo.
Dopo un lungo prologo, in cui cominciamo a temere che la tempra europea poco si
adatti ai climi africani (e ben lo sappiamo), Marlow arriva alla base
commerciale. Dove ne vede il degrado. Dove comincia a vedere lo sfruttamento
dell’uomo bianco sui locali. Dove sente per la prima volta il nome di Kurtz. Un
mitico rappresentante locale dell’uomo bianco, relegato in uno degli avamposti
più sperduti, dedito al procacciamento di avorio. Tra malattie ed isolamenti,
Kurtz sviluppa una sorta di pazzia paranoica, di sete di potere, facendo cadere
ai suoi piedi i poveri negri con i mezzi altri, avanzati, non noti, che i
bianchi portano con sé. Ma Kurtz è andato troppo in là, forse vuole fondare il
suo impero d’avorio verso le sorgenti del Congo. Inoltre, si ammala,
probabilmente di malaria o altro inguaribile male tropicale (soprattutto per il
tempo). allora Marlow è deputato ad andarlo a prendere. Lo farà, con il
direttore commerciale ed altri omuncoli bianchi. Parlerà con Kurtz,
probabilmente ne riceverà confidenze di cui non riceviamo traccia. Ma
soprattutto lo vedrà morire, pronunciando la terribile frase “The Horror!”.
Frase che Marlow capisce nel contesto in cui viene pronunciata, e che tuttavia
non riporta alla fidanzata di Kurtz. Cui tuttavia riporta le ultime lettere, di
chissà quale contenuto, e l’illusione che l’ultimo pensiero sia per l’amata. In
questo modo relegando all’oblio Kurtz, ma dando una speranza di vita nel
ricordo alla fidanzata. Due elementi mi vengono dal testo: l’orrore per il
colonialismo e la critica verso l’aberrazione del potere Il primo non tanto
dalle parole di Marlow, che in effetti narra, descrive, ma prende posizione
fino ad un certo punto. Quanto nell’io narrante che ascolta il racconto di
Marlow, quell’io in cui mi identifico, rabbrividendo alle descrizioni
partecipate ma non critiche di Marlow. Colonialismo ed atrocità commesse dall’uomo
bianco che ben conosciamo anche al di là delle parole non di Conrad, ma di
Marlow. Situazioni che hanno seminato quel terreno di tanti fraintendimenti, di
cui tuttora portiamo tracce negative. Il secondo, invece, nella descrizione dell’ascesa
e caduta di Kurtz, mediata, ora e qui, da quell’impagabile apologo che ne fece
Coppola con il suo “Apocalypse Now”. Perché sappiamo, anche se solo in modo
lato, che Kurtz non è un poco acculturato commerciale, ma ha un retroterra
sostanzioso di cultura e familiarità con il benessere. La facilità con cui si
riesce ad accrescere le proprie sostanze durante il periodo coloniale lo porta,
ad un certo punto, al di là del lecito, verso una follia di dominio e potere,
che sarà stroncata non dagli uomini (tutti, da Marlow al direttore commerciale,
agli impiegati della compagnia, sono affascinati dall’uomo Kurtz e dal suo
successo), ma dall’ambiente, che lo respingerà come elemento alieno, e da cui
neanche Kurtz riuscirà a salvarsi. Il debito finale, che devo a Baricco,
infine, è la ricostruzione delle modalità narrative di Conrad. Sia per l’uso di
una lingua non sua (lui di madre lingua polacca, di gioventù francese, che
impara l’inglese solo verso i venti anni) sia per il modo di pennellare il
racconto, a volte in modo quasi caravaggesco, facendo risaltare elementi spuri
per farci concentrare sui nodi narrativi che ci vuole proporre. L’inglese, come
già dicevo ne “La locanda delle due streghe” è semplice, quindi con una
propensione alla semplificazione del testo e ad una sua resa immediata verso i
noccioli narrativi. Il secondo, ellittico, si dilunga a volte in descrizioni
assolutamente marginali, saltando momenti che sarebbero salienti, ma che
proprio la loro omissione fa risaltare di più. Come il colloquio tra Marlow e
Kurtz, che noi si aspettava da tempo, e che viene liquidato come “Intenso ed
interessante”, ma di cui non ne viene riportata alcuna frase. Qui, per
stanchezza ed incapacità mi fermo, sperando che altro Conrad risalga meglio dal
limbo delle mie memorie.
“Non era un tipico rappresentante della
propria classe. Era un marinaio, ma era anche un girovago, mentre i marinai in
genere conducono … una vita casalinga … la casa – la nave – se la portano
sempre dietro; e con essa il loro paese – il mare.” (8) [dedicata al mio amico
Renato]
Hermann Hesse “Il giuoco delle perle di vetro (Saggio biografico sul
Magister Ludi Josef Knecht pubblicato insieme con i suoi scritti postumi)”
Mondadori euro 12
[tramato
il 4 dicembre 2016]
Un’opera
ponderosa, complessa, che mi ha impegnato per quasi un mese di lettura non
sempre agevole. Ma alla fine, mi ha lasciato con un po’ di delusione nel fondo
del cervello. Meno, sicuramente, del precedente Narciso. Lontanissimo,
tuttavia, dal mio ricordo di “Siddhartha”. Intanto, inizio subito
trasversalmente, che comprai questo libro su indicazione della bibliografia
delle libropeute che conoscete ormai bene. Collocandolo prima tra i libri che
devono leggere i cinquantenni. Mistero, ma ci si tornerà sopra. poi tra i libri
che gli amanti della fantascienza devono leggere per tornare sulla terra. È
vero, come dice l’ottima introduzione di Hans Mayer, che l’azione dovrebbe
svolgersi intorno al 2200, ma è tutt’altro il pregio ed il difetto di questo
libro. Mi permetto di parlare di difetto in senso personale, che non sempre
(anzi sempre più spesso) libri osannati e celebrati nell’universo mondo, ad un
mio approccio diretto mi forniscono meno stimoli di quanto speravo. Così anche
in questo caso, sebbene debba riconoscere che la scrittura, e le cose che Hesse
riesce a dire durante tutta la storia di Josef Knecht, sono da leggere e
soppesare ad una ad una. Intanto c’è l’impianto generale del libro, imperniato
sul giuoco del titolo e su di un Magister dello stesso. Con quattro divisioni
generali che ne fanno un’opera come sopra detto complessa. Una prima parte in
cui, con parole oscure, si cerca di spiegare l’inspiegabile: cosa sia mai “il
giuoco delle perle di vetro”. Una seconda ben ampia che percorre tutta la vita
di Knecht. Una breve esposizione di alcune sue poesie (di cui riporto sotto due
versi che mi hanno affascinato). Infine, un bellissimo gioco nel gioco. Gli
studenti del mondo di Knecht, a varie riprese nella loro vita, sono invitati a
scrivere una loro biografia fantastica. Un piccolo inciso: lo trovo un modo
bellissimo di esporre la propria personale visione di sé stessi; dovrebbe
essere presa come esempio in molte situazioni in cui bisogno presentare sé
stessi. Per tornare al libro, Knecht scriverà tre finte autobiografie, e sono
altrettanti momenti importanti per capire l’uomo, ma anche per capire Hesse, ed
il suo grande tentativo. Quello non solo e non tanto di scagliarsi contro le
brutture e le storture del mondo (non dimentichiamo che il libro vede la luce
nel 1943 in piena Guerra Mondiale), contro la guerra, contro la febbre del
denaro, contro i nazionalismi, ma con il tentativo di sostituirli con valori
etici altri. Purtroppo, noi, oggi, siamo ancora lontani dalle utopie del
tedesco premio Nobel bandito in patria (tanto che prenderà la cittadinanza
svizzera); purtroppo i valori etici che ci descrive sono ancora di là da
venire. E spero di non dover aspettare anche io il 2200! Per chi non conoscesse
(ancora) il complicato incastro di Hesse, la sua finzione si basa su di una
sorta di consorteria (Castalia) dove giovani dotati vengono educati al meglio
(e non è un caso che nel meglio siano in primo piano la musica e la
matematica). Ogni elemento di Castalia, eccellendo, cresce in qualche arte, e
l’andrà insegnando ad altri. L’arte suprema è, poi, il giuoco delle perle di
vetro (indescrivibile momento di vita) che governa Castalia e (forse) il mondo
intero, e, come tutti i giuochi, deve essere guidato da un grande Maestro, il
Magister Ludi. La Castalia è comunque inserita nel mondo (la Provincia), debole
e fallace, dove vivono tutti gli altri umani. Ci sono i seminaristi castali che
vivono solo per questi ideali e i seminaristi provinciali che torneranno a
governare la Provincia (e il Mondo). Knecht, in base a circostanze descritte
nel libro ma ininfluenti, viene scelto per far parte dei seminaristi castali.
L’ignoto biografo futuro ci descrive tutto il suo percorso di crescita, da
umile seminarista a grande (o forse ultimo dei grandi) Magister. Il suo
percorso, così come il modo di Hesse di porci le sue idee, si imbatte sin
dall’infanzia in una sorta di alter-ego provinciale, tal Designori, con il
quale entra in discussione alta e forte, ognuno dei due cercando di portare
avanti le giuste ragioni e di Castalia e della Provincia. Designori andrà nel
mondo, e Knecht proseguirà nella sua ascesa. Fino a diventare uno dei più
giovani e promettenti Magister Ludi. Finalmente, in questa veste, oltre ad
insegnare, girerà per la Provincia, capendo che Castalia è un’isola forse
felice, ma slegata dalla realtà del mondo. Incontrerà di nuovo Designori, la
sua famiglia, la moglie ed il figlio. Perché, scordavo, ma lo avete ovviamente
capito, i Castali sono dedicati allo studio, quindi niente sesso per favore.
Riprende nella parte finale della sua vita il dibattito acerrimo con Designori,
dove però le parti si sono smussate alquanto. Il provinciale, vivendo nel
mondo, capisce la bellezza dell’isolamento castalio. Knecht, dalla “torre di
vetro”, comprende la bellezza e la necessità della Provincia. La comprende talmente
che capisce che solo un gesto estremo potrà dare una scossa alla
cristallizzazione castalia. Decide allora di dimettersi dal suo ruolo e tornare
nel mondo. Gesto che metterà in crisi tutto l’edificio delle perle di vetro,
facendo capire come l’etica senza la pratica possa diventare un momento sterile
di vita. Knecht decide di insegnare al figlio di Designori, ma deve,
moralmente, pagare il fio del suo abbandono. Morirà quindi annegando in un lago
che ha tutte le caratteristiche di un lago di montagna elvetico, e che ricorda,
nel sacrifico, la morte di Empedocle (almeno quella leggendaria di una sua
caduta nel fuoco etneo). Difficile, complicato ed irrappresentabile per me è
tutto il percorso delle onerose pagine. Mi ha coinvolto, cerebralmente, il
discorso etico. Ho cercato di seguirne i risvolti, i voli pindarici di Hesse
scrittore. E di Hesse travestito in un “Faber Ludi” che vuole insegnarci questa
via verso un’etica diversa, ma che, senile ma non invecchiato (in fondo
pubblica questo ritenuto uno dei suoi capolavori a 66 anni; ho ancora
speranza), non riesce a portarmici dentro fino in fondo. Ci vuole personale più
filosofico, più erudito di me. Io mi accontento di sentire la mia testa
(spesso) e la mia pancia (sempre). Ed è quest’ultima che non mi porta molto più
in là di un apprezzamento formale. E di una sostanziale stanchezza verso tutta
l’opera del grande svizzero. È giusto, quanto abbiamo lottato e lotteremo per
avere davanti una vita che spazzi via (tanto per fare nomi alla rinfusa) i
Berlusconi, i Trump, i Putin. Ma dobbiamo avere accanto, noi uomini e donne
fallaci, i nostri amici, i nostri amori, i nostri sostegni reciproci. Insomma,
mi mancano dei pezzi verso la felicità, e non riesco ad incollarli a me. Ed
Hesse non riesce a farmeli sostituire con altro. Quindi, essendo confuso,
finisco qui, facendo l’ipotesi di riuscire, un dì, a scrivere anche io una mia
biografia fantastica, dove fare convergere in pace ed armonia tutti i pezzi del
me stesso diverso e diviso.
“Studiare storia significa abbandonarsi al
caos, ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno.” (172)
“Quanto più invecchiava, tanto più lo
attirava la gioventù.” (246)
“Knecht, che in quei mesi si era sentito
talvolta molto vecchio, si persuase di essere giovane e forte.” (251)
“Vide che l’altro … non ascoltava come si
ascolta una chiacchierata o magari un racconto interessante, ma con quella
dedizione assoluta con la quale ci si concentra nel meditare.” (307)
“Ogni inizio contiene una magia / che ci
protegge e a vivere ci aiuta.” (465)
“Si racconta di santi e di esseri celesti
che, affascinati da una donna deliziosa, la tennero abbracciata per giorni,
mesi e anni fondendosi con lei, tutti compresi del piacere, dimentichi di ogni
altra preoccupazione.” (556)
Doris Lessing “Il diario di Jane Somers” Feltrinelli s.p. (regalo di
Sara & Giampaolo)
[tramato il 15 maggio 2016]
Lunga
ma forse spiegabile la storia di questo libro e della mia lettura. Intanto,
come vedete dal titolo, l’originale riporta “Diario di una Buona Vicina”, che
con questo titolo uscì, con la firma “Jane Somers”. L’autrice, infatti,
scrivendo un libro diverso dai suoi precedenti usò uno pseudonimo per sfidare,
in un certo senso, il mondo delle lettere. Come sarebbe stato accolto un libro
di una sconosciuta? Un libro che non rimandava subito ad una autrice nota ed
affermata? L’accoglienza, pur se non entusiastica, fu buona, anche se non
facile l’uscita, che i suoi editori storici lo rifiutarono, con un commento
lapidario (“troppa angoscia”). Solo due anni dopo Doris svelò il mistero, ed il
libro ebbe da allora una sua buona riuscita. Il secondo passo è la mia lettura,
che alla fine degli Ottanta ero “innamorato” della scrittura della Lessing, e
cominciai a leggerlo. L’ho abbandonato dopo 30 pagine, non riuscivo ad entrare.
Ora, sotto altre spinte motivazionali, l’ho ripreso. E l’ho letto. Angosciato,
ma l’ho letto. Ed è un buon libro. Con alti e bassi, ma con una scrittura
potente, che ti lega non agli avvenimenti (che poco succede) ma al susseguirsi
dei ragionamenti della Jane Somers che scrive un diario degli avvenimenti della
sua vita intorno al suo cinquantesimo compleanno (Doris l’ha scritto a 65
anni). L’io narrante è una donna di successo, redattrice di una rivista alla
moda. Da poco è morto il marito Freddie, di cancro, ma sarà per le paure della
morte sarà per un legame lasco, sembra che Jane non sia partecipe in modo
particolare. Come non lo è alla successiva morte della madre. Continua a fare
la vita mondana, incontri, sfilate, serate di sesso senza importanza, lunghe
ore di relax e meditazione nella vasca da bagno. Poi, improvvisamente,
l’incontro con la novantenne Maudie. Malata (soprattutto di vecchiaia),
antipatica, bisbetica, eppure tenacemente attaccata alla vita. È un incontro
fulminante, dove la cinquantenne Jane, nel momento di riflessione sulla sua
vita, si trova davanti una soluzione, difficile, inattesa. Diventare amica di
Maudie. Non, come dice il titolo inglese, una “Buona Vicina”, che è una figura
esistente nella gestione degli Affari Sociali a livello locale in Inghilterra.
Che è una figura come dire di supporto, come i pensionati che aiutano gli
alunni ad attraversare la strada vicino a casa mia. No, lei diventa proprio
amica, ed è tutto il percorso del rapporto tra una specie di intellettuale, e
la povertà di anziani soli, che pervade il libro. Lo rende pieno di
interrogativi. Cosa fanno gli anziani che non hanno nessuno, e che i servizi
sociali vorrebbero “rinchiudere” in strutture lontano dagli occhi? Il percorso
comune di Maudie e Jane è duro ma pieno di folgorazioni. Quando Maudie se la fa
sotto e Jane, vincendo repulsioni e paure, la lava, è uno dei momenti forti,
che tanti echi, anche personali, riporta alla mente. E poi Maudie (ma anche
altre vecchie intorno) “parlano di sé”, delle loro vite, giovinezze, amori,
paure e desideri. Da qui, ogni tanto, si diparte la coralità dei romanzi di
Doris Lessing, quelli poi pieni di critica sociale (e qui ce n’è, anche se
stemperata dal bisogno personale di comprendere la propria vecchiaia). C’è la
storia di Maudie, e poi di Anne, e poi di Elize, e poi di Bridget, e poi, e
poi. In mezzo, sempre anche la storia di Jane, che riflettendo sul progredire
lento e inesorabile del tempo, si accorge di poter dare cose diverse alla vita.
Non solo essere la capo redattrice di una rivista. Così, dalle fantasie di
Maudie, le nascono bisogni e realizzazioni di romanzi. Ed un avvicinamento alla
famiglia (soprattutto alla nipote), un allentamento dei vincoli con il lavoro,
l’accorgersi che anche lei è “senza amici”, dove l’unico rapporto era con
Joyce, che ormai se n’è andata in America. Doris per mezzo di Jane ci fa
ragionare sulla nostra vita che scorre, sul “preteso” intellettualismo della
nostra vita, sulla frattura che si può creare tra l’idea di sé ed il sé di ogni
giorno, quello che fatica a fare le scale, che ha un “colpo della strega”, che
magari fuma troppo, che quando ha l’influenza sta in casa e non c’è nessuno che
gli faccia un brodo caldo. Ed il rapporto con gli altri, non quello di carità
ma quello di empatia. Insomma, ora ho apprezzato il libro. Forse, come dice il
mio amico Roberto, c’è un tempo giusto per leggere ogni cosa. Ora che le
persone che conosco invecchiano e muoiono (saluti Zap), ora Doris mi colpisce
nel vivo con un pugno allo stomaco. Perché, ed è ovvio, Maudie a 94 anni muore
anche lei. Lasciando Jane e noi a riflettere su cosa fare del resto del nostro
tempo.
“Quanti errori sto commettendo nel tentativo
di fare la cosa giusta,” (31)
“Noi facciamo le nostre scelte molto tempo
prima di renderci conto di averle fatte!” (72)
“Io non sono mai stata capace di tirar via
sul lavoro. Dovevo fare tutto per bene.” (100)
“I vecchi sono i peggiori nemici di sé
stessi.” (135)
“Ormai lo so che è inutile dare consigli
alla gente.” (217)
José Saramago “La zattera di pietra” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà,
scontato a 8,08 euro)
[tramato
il 18 marzo 2017]
Non
amo particolarmente la scrittura di Saramago, che trovo spesso difficile,
almeno per il mio leggere, tant’è che, insieme a Nabokov, è uno dei pochi
scrittori di cui a volte ho abbandonato la lettura. Eppur tuttavia continuo a
leggerne, sotto spinte diverse. Curiosità, temi trattati o altro. E sempre ne
ho ritorni buoni. Come fu in “Cecità”. Com’è stato in questo più che datato
viaggio di sospensione della realtà. In cui qualcuno ha voluto leggere (le mie
biblioterapeute, ad esempio) uno stimolo per cinquantenni vogliosi di letture.
Altri, come me, si sono lasciati trasportare dal duplice binario dell’autore.
Concedendogli credito, e seguendolo, con interesse e curiosità, sino alla fine.
Ho parlato di doppio binario, che nelle pagine del Nobel portoghese si notano
le due storie intrecciantesi, ma con scopi e finalità ben diverse. C’è la
storia delle persone, le due donne, i tre uomini ed il cane, che sono toccate e
coinvolte negli eventi, ma che, bene o male, seguono anche un loro percorso,
una loro costruzione, un loro scopo. E su queste torneremo. C’è poi l’evento
scatenante, quello per il quale Saramago ci chiede la sospensione delle
domande, ci chiede di entrare nella favola e lasciarsi trasportare. Perché,
senza motivi spiegabili, si crea una frattura lungo i Pirenei, e la Penisola
Iberica si stacca dall’Europa. Frattura che si ripercuote a sud, staccando
Gibilterra dalla penisola. E questa zattera di pietra, scivolando
tettonicamente nell’Atlantico, evita miracolosamente le Azzorre, poi si dirige
verso sud, sistemandosi in mezzo, tra America ed Africa. Questa finzione serve
allo scrittore per tutta una serie di strali politici ed etici. L’idea che
Hispania (così si potrebbe chiamare l’isola ispano-portoghese) si stacchi
dall’Europa, letta in questi momenti di crisi identitaria, è meravigliosa. Una
Brexit ante-litteram però fisica. Vediamo il comportamento dei governi, le
invettive, la politica. I tentativi nordamericani di crearne un ponte a loro
favorevole, il comportamento stesso delle popolazioni. I turisti, i
giornalisti, i commentatori. Tutti che non faranno altro che prendere
cantonate, meritandosi le invettive corrosive del Saramago polemista. Che però
sfrutta anche l’idea folle per cercare di rinsaldare i legami tra i due popoli.
Ed il fatto che poi tutto si fermi lì, sulla via delle conquiste che gli stessi
popoli fecero in Sudamerica, magari sfruttando da negrieri gli africani, è
molto bella, stimolante ed immaginifica. Ma altrettanto bella, e più
interessante per me da seguire, è l’epopea delle persone. Di Joana che
tracciando una riga per terra con un bastone ha dato il via alla nascita della
zattera. Di Joaquim che lancia un masso pesantissimo nell’acqua del mare, quasi
a segnare una via alla navigazione. Di Maria che tesse un calzino che non ha
mai fine e la cui lana servirà ad unire i nostri viandanti. Di José che viene
seguito da uno stormo di uccelli sino a che non trova il suo spazio tra i
viandanti. Di Pedro che sente, unico al mondo, la terra tremare, e la sentirà
fino alla fine del viaggio, della zattera e suo. E del Cane che raccoglie gli
sparsi viandanti, dà loro modo di riunirsi, e li condurrà, silente ma attento,
per le strade ex-peninsulari. Fino ad allontanarsi quando il suo compito sarà
finito. Il viaggio di questi umani uniti dal caso è quello che personalmente mi
ha più avvinto, anche al di là della difficoltà di seguire la contorta prosa di
Saramago. La ricerca della loro identità, la realizzazione dei propri obiettivi
attraverso l’amore e l’amicizia. Il ruolo della donna che in Saramago non è mai
subalterna, non è mai marginale, ma paritaria, con tutta la forza delle proprie
convinzioni politiche. È bello vedere l’avvicinarsi prima di Joana a José, poi
di Joaquim a Maria. La forza con cui entrambe le donne poi rivendicano il loro
ruolo, le loro scelte. Insomma, un bel libro, difficile, giocato sui due piani.
Seguiamo sempre tutte le loro peripezie, sia degli uomini compatti nelle loro
avventure politico-etiche-geografiche, sia dei nostri eroi, della loro macchina
(la mitica Due Cavalli), delle loro scelte, e di tutto quello che combinano. Di
cui non vi parlo, lasciando a voi la voglia di scoprirlo. Ripeto, un libro
difficile come lo sono spesso quelli di Saramago, ma che lascia dentro un mondo
pieno di cose, vecchie e nuove, come le frasi che mi hanno colpito, e voi
capirete come e perché.
“Si trattava per lo più di persone dalla
volontà debole, di quelle che continuavano a rimandare le decisioni, non fanno
che dire domani, domani, ma questo non significa che i sogni e i desideri non
ce li abbiano, il male è che muoiono prima di poterne e di saperne vivere
almeno una piccola parte.” (37)
“Non è dopo il sogno, che il sogno lo si può
vivere.” (74)
“Chiunque è in grado di capire la differenza
fra un addio e un arrivederci.” (107)
“Se per amare una persona si dovesse
aspettare di conoscerla, la vita intera non basterebbe.” (128)
“È così che io sono, osservami bene … se
volessi potrei attirarti nel mio letto … ma bella non sarò mai, a meno che non
sia tu a trasformarmi nella donna più attraente che sia esistita.” (153)
Conclusioni
Avere una certa età non è certo
una malattia. Quindi vi lascio leggerne senza altri commenti
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