Carlo Parri “Cardosa
e il codice Modigliani” Mondadori euro 5,90
[A: 09/04/2018
– I: 26/04/2020 – T: 27/04/2020] &&&
--
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 217; anno: 2018]
Una lettura scarsamente impegnativa, senza
troppi fronzoli e senza troppi pensieri. Ma ci vuole ogni tanto per allentare
la tensione e passare qualche ora in completo yoga – relax. Inoltre, è come
ritrovare un vecchio amico, o un sodale di viaggio, che di Parri lessi il primo
libro con protagonista il vicequestore aggiunto Leonardo Cardosa qualcosa come
sei o sette anni fa. Poi, il “vecchio” Parri scrisse racconti e forse altro, e
solo ora ritrovo nell’esimia collana dei “Gialli” un nuovo romanzo tutto Cardosa.
Purtroppo, e questo ha fatto comparire la selva di segni “-”, non è proprio
“un” romanzo, ma direi due e mezzo.
In realtà, ci sono due storie che vengono
seguite, svelate e risolte, che non hanno particolari intrecci, ed una mezza
(per via di brevità) che sembra riunirsi ad altro, ma che poi rimane a sé
stante. Questi racconti intrecciati fanno perdere un po’ la benevolenza verso
l’autore, e, personalmente, anche il ritmo. Anche perché il titolo si riferisce
al primo giallo, che dopo poco più di cento pagine è bell’e risolto. E nei
gialli, a mio parere, o sei particolarmente elevato in idee o scritture,
altrimenti la dimensione “racconto” tronca presto il ritmo a tutta la storia.
Come in tutti i libri di “procedural
thriller”, abbiamo una bella squadra che lavora intorno a Cardosa. Una squadra
che intreccia anche storie personali. Che nella squadra di Cardosa ci sono sia
le sue due mezze fidanzate, Gemma e Francesca, sia il procuratore Caterina, e
tutte e tre le donne non disdegnano di accompagnarsi al fascinoso vicequestore.
Noi lo avevamo lasciato nel commissariato di via Acherusio, accompagnandolo
nelle scorribande al mercato di Piazza Gimma. Ora pare che in virtù di qualche
non nota eredità si sia spostato in un attico a Lungotevere, abbia facoltà di
denaro che utilizza per i suoi piaceri, e per offrire cene prelibate alle sue
donne (sia nell’attico sia in ristoranti opportuni).
Tra l’altro, questo andar per Roma è uno dei
miei divertimenti maggiori accompagnando il nostro eroe. Sia quando ritorno dalle
parti di viale Libia (dove sto parcheggiato in attesa del passaggio del
coronavirus), sia quando deve risolvere il mezzo racconto, che ha il suo
epicentro in una palestra all’angolo tra via Attilio Regolo e via Cola di
Rienzo, cioè Prati, dove da quaranta anni si svolge la mia vita. Inciso: per
come viene descritta sembra più la palestra che sta in viale Giulio Cesare
altezza Lepanto, ma tant’è. E per finire, quando va a trovare un personaggio
implicato in una trama, e finisce a via Seneca, laddove accompagnavo il mio
amico Massimo ad un totalizzatore (e dove lui vinceva spesso).
Ma le trame? Quella che si cristallizza nel
titolo è una specie di esercizio logico, anche per farci vedere come Cardosa
sia conosciuto da tutte e due le sponde del crimine (cosa che servirà nella
seconda parte). La morte di uno spettabile pensionato (con delle gag
prevedibili ma discrete sul fatto che il morto sia stato ucciso al Verano, il
cimitero di Roma, e qualcuno che dice: “C’è un morto al cimitero!”, e qui mi
fermo). Il morto era anche uno stimato collezionista, con tanto di caveau e
pieno di quadri rari (ricordo un Manet), e dove subisce il furto di una testa
scolpita, attribuita a Modigliani. Le morti vengono a grappolo, che l’autore
del furto (su commissione) viene ucciso da una coppia di malavitosi, di cui uno
legato ad un potente clan romano. Poco dopo anche il malvivente di rango viene
ucciso, così che alla caccia insieme a Cardosa si unisce il clan. Vi tralascio
parti poco significative, ma la scia di morti prosegue. Arrivando al nocciolo:
la testa di Modigliani nasconderebbe un cifrario per non so quale mistero
esoterico (che fortunatamente Parri ci fa dimenticare subito), la cui chiave
sta in un disco scolpito di pietra, che nessuno trova, se non Cardosa usando il
principio della “Lettera rubata” di Poe (e se non lo sapete peggio per voi).
Ma la storia serve anche a Parri per
presentarci i tre amici del liceo del Cristo Re: Cardosa, appunto, il
giornalista italo-argentino Matarò (che viene rapito e che Cardosa salva) e
Barbier, italo-francese che dopo il liceo, finisce commissario a Parigi. Ciò
che dà agio all’autore di fare una bella parentesi parigina, che serve a
risolvere il caso.
Nella catena di morti iniziata con il
pensionato, ad un tratto viene coinvolto, per aver fornito una pistola che
scotta, anche il gestore della palestra di cui in Prati. Questo il mistero di
mezzo racconto, che nelle ultime venti pagine, Cardosa capisce che questa morte
è scollegata alla vicenda Modigliani, e trova il modo di risolverla in due
battute.
Nel mezzo, la lunga parentesi del rapimento
della donna della sorella gay di Cardosa, che vive ancora in Sicilia, nei
pressi di Siracusa. A parte le buone parole sulla convivenza civile, e
rivangando le origini al limite della mafia di Cardosa, che poi, però, sceglie
il versante buono, si intreccia tutta un’altra storia. Con sbarchi clandestini,
immigrati usati come carne da macello, e bimbi extracomunitari che servono per
adozioni illegali. Giuditta, la donna di Maria, ovvio che aveva capito
qualcosa, e nel tentativo di bloccare il traffico aveva fatto qualche passo
falso. Poiché tuttavia alcune piste portano a degli intoccabili, Cardosa trova
il modo di risolvere la faccenda, convincendo Giuditta ad un compromesso.
Facendo però contenta la sorella, e l’amico giornalista per le mangiate
siciliane che si concedono.
Insomma, Parri ha una buona capacità e
leggerezza nel raccontare, con delle idee di intreccio a volte interessanti.
Anche se il papocchio sui capelli della statua che si collegano anche alla
morte di Hitler a Berlino lascia il tempo che trova. Dosando meglio questa
parte gialla, magari ampliandone ad arte i contorni umani, ci si può ritrovare
altri libri di gradevole fattura. Per ora si è letto questo, e con decente
piacere.
“[dalle memorie della spesso aspirante
suicida Dorothy Parker] I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi; l’acido
macchia; i farmaci danno i crampi; le pistole sono illegali; i cappi cedono; il
gas fa schifo. Tanto vale vivere.” (97)
“[da Anselmo Bucci, iniziatore del movimento
artistico ‘Novecento’] La tua vita sia tessuta di delusioni piuttosto che di
rimpianti.” (197)
Franco
Pulcini “Delitto alla Scala” Repubblica Noirissimo 26 euro 7,90
[A:
04/12/2017 – I: 15/05/2020 – T: 18/05/2020] - &&
---
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 524;
anno 2016]
Non ho nessun
particolare motivo per aver avversione verso questo romanzo, eppure non solo
l’ho trovato ostico, ma anche poco coinvolgente, sotto molti punti di vista.
Ora, premetto che ritengo, e si nota dalla scrittura, che Franco Pulcini sia un
eminente musicologo, amante e conoscitore della materia. Ci sono infatti,
sparsi per tutto il romanzo, indizi, nozioni, elementi vari che ne sottolineano
la competenza e l’ampiezza di conoscenza. Citazioni dotte non solo di giuste
opere e passaggi musicali, ma anche aneddoti, spigolature, momenti di
rimembranze, che, quando presenti, elevano il tono del testo. Inoltre, quando
si parla di elementi orchestrali, di strumenti, ma anche di ensemble
orchestrali, di lotte intestine fra le varie sezioni dell’orchestra stessa,
odio e amore tra cantanti e direttori d’orchestra, ed anche tra cantanti e
cantanti, si vede che si parla di cose che Pulcini conosce di prima mano. E ben
conosce anche le dinamiche interne in un Teatro dell’Opera. Qui si parla della
Scala di Milano, ma (e credo che la mia amica Nico me lo possa confermare) si
potrebbe leggerne anche come l’Opera di Roma e via gorgheggiando.
Fatte queste
dovute premesse, il romanzo in sé, invece, in quanto “noir” non regge, non ha
spessore. Intanto, proprio per le conoscenze e le dovute spiegazioni
filologiche e musicali, si perdono pagine e pagine in giri tortuosi, facendo sì
che si perda il filo ed il ritmo della trama principale. Gli avvenimenti si
srotolano in poco più di un mese, dall’uccisione del direttore d’orchestra il
1° novembre fino alla prima alla Scala che, come ognun sa, avviene il 7 dicembre
di ogni anno.
Nell’anno di cui
ci narra Pulcini, si decide di aprire la stagione con una chicca: l’Arianna di
Claudio Monteverdi, misteriosamente ritrovata tra le pagine conservate di una
antica casata nobiliare scaligera. L’interesse musicale e di scoperta è il
fatto che, realmente, quest’opera è andata perduta, e quindi il suo
ritrovamento porterebbe non solo onori e gloria, ma anche mucchi considerevoli
di denaro. Alcuni elementi del romanzo sono di divertente ingegno: il
commissario Abdul Calì, siciliano di nascita, con madre araba, e di religione
mussulmana, sebbene non praticante; la segretaria di redazione Viola, con tutte
le astuzie e le conoscenze di una brava segretaria, che tutto vede, molto sa, e
nulla dice; il cammeo del commissario straordinario Perischella, che tra una
battuta napoletana e l’altra, riesce a mettere tutti in riga, sfruttando le
molteplice conoscenze delle pieghe ministeriali.
L’andamento della
trama, che si trascina stancamente tra una cantata e l’altra, vede coinvolte
molte persone nelle possibili tresche suscitate dall’opera e dall’Opera (mi
scusa il calembour, ma si parla di Arianna e del mondo operistico, giusto?).
C’è la famiglia Gentileschi che possiede il manoscritto, ma non conosce un acca
di musica. Ci sono i due esperti che analizzano il testo: De Masi, il
musicologo fino, che ne riconosce l’autenticità, e Trombetti, che ne capisce ma
che, come molti sulla falsariga del sottoscritto, benché possano leggere uno
spartito, ne seguono il suono solo se rappresentato. Ci sono i due gestori
della Scala: Caponango, il ragioniere delle spese, e Ferri, l’estroso ed
estroverso direttore artistico, forse gay o forse no, di sicuro sempre sopra le
righe. Ci sono, infine, le cantanti: la prima donna, Iris, destinata alla parte
di Arianna, e la rivale, la tedesca Monika (un nome che mi ricorda qualcosa)
che è relegata nel ruolo di Venere. Su tutti, la figura di Oscar Mazza, il
direttore esperto di antichità barocche. Sebbene sposato, non disdegna
accompagnarsi con tutte le donne che incontra, tanto che sembra abbia messo
incinta Iris (con notevole incazzatura del di lei fidanzato Achille), ma che ad
un certo punto pare abbia una sbandata per una donna misteriosa, che per quasi
400 pagine sfugge alla ricerca del nostro Abdul.
Veniamo allora
all’inchiesta: Abdul cerca, scava, interroga, ma soprattutto prende una
sbandata, ricambiata, con Viola, e cerca di trovare la soluzione del problema
seguendo una sua ipotesi. Ecco il motivo di base che ci lascia perplessi
nell’andamento del “noir”. Dove per 500 pagine si cerca di scavare nei vari
meandri delle relazioni reciproche (anche con qualche interesse, nonostante la
già sottolineata prolissità), per poi assistere all’idea di Abdul che ci
porterà il colpevole su di un piatto d’argento. Dato che il giorno della morte
di Oscar era comunque un giorno di recite, e dato che alle recite assistono
moltissimi stranieri, in particolare asiatici, ed in particolare, essendo una
loro caratteristica peculiare, asiatici con il vizio delle foto, ecco che Abdul
lancia una campagna mondiale alla ricerca di foto del Teatro, perché di sicuro,
se non velate dalla notte scura, qualcuna (o almeno una) ci permetterà di
vedere chi colpisce Oscar alla nuca. Peccato che questa brillante idea ci venga
detta nelle ultime pagine, e ci porti alla soluzione del drammone, senza però
che noi poveri lettori-investigatori abbiamo in mano altri elementi per
dirimere il senso delle indagini.
Forse l’autore era
interessato più ad un quadro rappresentante i vizi e le virtù del mondo operistico,
aggiungendoci come ciliegina il mistero di un delitto. Ma è come una fetta
d’ananas su di una pizza napoletana: non c’entra nulla e ne rovina il sapore.
Se fossi più cattivo vi svelerei tutte le contorte vie che nelle precedenti 510
pagine Abdul percorre per cercare non di arrivare alla soluzione, ma per
aspettare le risposte dalla sua ricerca sulle foto di tutto il mondo. Ma invece
non vi dico nulla. Se amate la musica classica e non vi spaventa un po’ di
prolissità, leggetelo. Altrimenti astenetevi.
“In
ogni religione ci sono criminali, fanatici e imbecilli.” (236)
Mariano
Sabatini “L’inganno dell’ippocastano” TEA euro 12
[A: 09/03/2018
– I: 15/09/2020 – T: 17/09/2020] - &&
e ¾
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332;
anno 2016]
Interessante,
anche se scontato. Interessante per l’ambientazione e per il personaggio
centrale, il giornalista investigatore Leonardo (Leo) Malinverno. Ah, dicevo,
l’ambientazione perché romana, dove molti personaggi gravitano nel quartiere Prati
(il mio). Scontato invece nella trama gialla, che ci sono morti e misteri, ma
poco prendono, sia nell’esecuzione che nella risoluzione. Comunque, cinque anni
fa è stata l’opera prima dell’autore, il cinquantenne (ora) Mariano Sabatini.
Romano, autore radio televisivo scoperto dal grande Luciano Rispoli per Tele
Montecarlo. Un’opera prima di successo, nel suo piccolo, vincendo appunto il
Premio Flaiano Opera Prima. Tanto che l’anno dopo fa uscire la seconda puntata
delle avventure di Leo, sempre per l’editore Salani. Anche se qui, viene
riproposto su licenza dalla TEA.
Altro
punto interessante è il titolo, che ci confessa derivare da una bella poesia di
Primo Levi (“Cuore di legno”) in cui si narra della dolenza dell’ippocastano
che vuol farsi emulo del suo fratello di montagna. Rivelazione che ci fa subito
pensare che ci sia qualche imboscamento, qualcuno e qualcosa che vuole farsi
passare per altro.
L’ambientazione
romana, poi, non può prescindere dalla presenza di malavita e malaffare, anche
nei palazzi buoni, anche nelle sedi alte. Che sappiamo bene l’intreccio mortale
che si svolge a Roma intorno a tutto ciò. Tutto partendo dalla morte del maturo
Ascanio Restelli, ucciso alla vigilia della sua scesa in campo per la carica di
Sindaco di Roma. Ucciso in modo barbaro nella sua villa (probabilmente tra
Monte Mario e Cortina d’Ampezzo per chi conosce Roma), insieme ai suoi due
fedeli servitori ed ai suoi due rottweiler. Ovvio che la morte scateni una
ridda infinita di ipotesi, che Ascanio aveva le mani in pasta su tutto:
costruzioni e appalti, droga e tangenti, ed altre amenità. Nonché, com’è ovvio,
collegamenti con la malavita calabrese, che da anni sta mettendo le sue mani
sulla capitale.
La
morte viene scoperta da Olga, giornalista di testate femminili, in rotta dura
con il marito, coinvolti in sessioni sessuali a tutto spiano, insieme ad un
factotum, che poi risulta collegato anche ad Ascanio. Ma questo serve da
introdurre il grande amico di Olga (con qualche venatura in più), Leo, per
l’appunto. Fascinoso, sciupafemmine ma rispettoso. Soprattutto, gran
conoscitore sia di Roma che del mezzo mondo che vi gira intorno.
Da
qui si intrecciano momenti personali e momenti di indagine. Nonché momenti
altri, che servono a collegare i vari piani. Leo ha scritto un reputato libro
sulla compravendita dell’Oro a Roma, così che conosce molte persone. Ed è
sodale al poliziotto Jacopo, incaricato delle indagini. Poliziotto in rotta con
la moglie per questioni di bambini (chi li vuole e chi no). Conosciamo
soprattutto la madre insegnante con la passione dei libri che tiene ovunque, al
bagno.
C’è
anche la presenza ingombrante della madre di Olga, forse in gioventù amante di
Ascanio. E c’è Conversi, il sodale di Ascanio, la cui stretta amica è il
caporedattore di Olga, ed insieme tutti e tre brigavano per acquistare, in modo
fraudolento, il giornale su cui scrive Leo.
Ma
questi sono tutti contorni, come contorno è la parentesi natalizia nella
montagna abruzzese, dove al solito Leo si esibisce nella sua arte culinaria.
Comunque,
è Leo che, puntino dopo puntino, ricostruisce possibili scenari. Aiutato anche
da qualche collegamento improvvisato. La morte di un autista dell’ATAC, la
scoperta che abitava in condomini taglieggiati da società di Ascanio, la
comparsa del figlio di questi, allevatore di cani utilizzati per il trasporto
della droga, stessi cani che facevano da guardia ad Ascanio, l’uso del factotum
di Ascanio, quello morto, per i taglieggiamenti di cui sopra. Alla fine, le
ipotesi si restringono a due soggetti: il figlio del factotum ed il figlio di
Ascanio. Uno aveva apparenti buoni motivi e scarsi alibi, l’altro non aveva
apparenti motivi e alibi solidi. Non vi dico né chi sia l’uno né chi sia
l’altro, né come Leo risolverà il tutto. Infatti, la fine è un po’ trascinata,
visto che parliamo della malavita romana (o di sue frange) e dei collegamenti
di cui sopra, che molto rimane detto ma impossibile da dimostrare. Però, Leo
risolverà il mistero e sarà pronto al secondo libro (“Prima venne Caino”, per
chi fosse interessato).
Rimane
questo libro, scorrevole e ben scritto, con alcune punte di interesse
(culinario e libresco), nonché di memorie giovanili su castagne e ippocastani.
Non eccelso, ma quasi a livello delle buone letture.
“Non
aveva il vezzo dell’arredamento. Gli unici mobili che le interessavano erano le
librerie, sistemate ovunque e stracolme.” (155)
Christine
von Borries “Fuga di notizie” Guanda s.p. (prestito dalla biblioteca di Porto
Ercole)
[A: 18/09/2020
– I: 20/09/2020 – T: 22/09/2020] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 192; anno: 2003]
A
dispetto del nome e delle ipotesi fatte su di lei, ho ben presto scoperto che è
una scrittrice (e non solo) italiana. Certo, di padre tedesco, ma di madre
italiana. Nata, una cinquantina di anni fa (e non ci interessa perché) a
Barcellona. Poi, prima, durante e dopo la sua avventura di scrittrice, iniziata
appunto con questo libro nel 2003, pubblico ministero in varie località, per
poi fermarsi in quel di Firenze.
Ne
avevo adocchiato la copertina nei momenti di relax portercolesi, e l’ultima
volta, a corto di altri libri, l’ho iniziato. Un libro estremamente facile in
lettura, così che è stato ultimato nel giro di pochi giorni, al di fuori delle
logiche di lettura usuali.
Una
lettura estremamente rilassanti, con alcune punte di “divertissement”, in
special modo quando la protagonista, Irene, si dedica alla lettura. Così che
possiamo ripassare con lei sia un vecchio Camilleri (“La voce del violino”),
sia un magistrale esempio di giallo moderno (“Casino totale” del compianto
Jean-Claude Izzo). Essendo questo (come sottolinea lo stesso Camilleri nella
postfazione) esso stesso un giallo moderno. Dove si seguono gli intrighi. E
dove non c’è neanche il morto, anche se ci sono due tentativi di omicidio (che
fortunatamente vengono sventati).
Ma
per iniziare riprendendo i complimenti del grande siciliano, il primo non
usuale elemento è l’attività della protagonista. Irene, infatti, è archivista
in Polizia. E come ricorda Camilleri, può essere un mestiere che porta
all’indagine, come Arthur Jelling, l’archivista di Boston protagonista di
alcuni romanzi di Giorgio Scerbanenco. O come l’archivista di Scotland Yard,
protagonista di una nutrita selva di racconti di un (per Camilleri) anonimo
inglese. Sveliamo il mistero: si tratta di William Edward Vickers, che con lo
pseudonimo di Roy Vickers, pubblica racconti che poi colleziona in una
raccolta, dal titolo “Department of Dead Ends” (reso in italiano con “Servizio
casi archiviati”, e che verranno alla ribalta dagli anni 2000 in poi con tutte
le serie televisive inzeppate di “Cold Case”).
La
nostra intrepida archivista viene coinvolta in un caso di ricerca di
informazioni da parte dell’agente Roberto Taddei, alla ricerca delle modalità
di fughe di notizie a favore di mafie ed altri malaffari. Anche se non coevi
(ci saranno una dozzina d’anni tra i due), ed anche se Roberto è sposato, nasce
tra i due prima una frequentazione e poi, ovvio, qualcosa in più.
Mentre,
come è giusto, Taddei, anche senza farlo sapere in giro, con le informazioni di
Irene arriva abbastanza vicino alla verità. Tanto vicino che viene ferito quasi
mortalmente ed entra in coma. Da questo punto, sarà la nostra intrepida
archivista che si fa motore primo della ricerca. Certo, è ben ostacolata:
scippi, perquisizioni impreviste, inseguimenti. La nostra eroina riesce (quasi)
sempre a sfuggire alle trappole. Solo per cacciarsi in trappole più grandi.
Perché non ha capito (e noi glielo stiamo gridando dalle prime pagine) che se
c’è una fuga di notizie, bisogna sospettare di tutti.
Con
qualche forzatura, e qualche fortunata circostanza, anche se pare consegnarsi
senza colpo ferire ai cattivi, qualcuno lungimirante c’è. Così che alla fine le
prove da lei accumulate solo la nascosta regia del comatoso Roberto arriveranno
al giusto procuratore. Tutti saranno incolpati al giusto grado. Mentre non ci
viene risparmiato, alla fine, anche un po’ di happy end tra i protagonisti
della vicenda.
Riprendo
ancora le sagge parole di Camilleri, che, pur non dicendolo esplicitamente, ci
fa capire che più che un noir, è un romanzo d’ambiente. Io rafforzo
l’intuizione, dicendo che lo avrei visto bene anche in una uscita dei Gialli
Mondadori, che sembra poterne avere l’andatura.
Ed
una gradevole scrittura, tanto che la nostra Christine continuerà negli anni a
scrivere, anche se non con una frequenza impossibile. Direi, a mente, un libro
ogni tre o quattro anni, visto che bisogna pur lavorare.
Ultimo
gradevole elemento, l’ambientazione romana della vicenda, che riconosciamo qua
e là e che raggiunge il mio massimo affettivo quando, a pagina 86, Irene si
reca a Campo de’ Fiori e incrocia la mitica libreria “Fahrenheit”).
Seconda
trama di novembre, per cui ci si merita un bell’allegato dedicato alle letture
dei trentenni (magari con qualche domanda).
Son già passati sette giorni e tutto sembra già lontano nel ricordo. Stringiamo i denti, che questa fine anno non sembra ancora riuscire a scardinare tutti i mali. Forse ce ne estirpiamo uno (americano), ma rimane ancora tanto da fare.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
NOVEMBRE 2020
Come ovvio, anche io ho avuto
trent’anni, anche se non da molto…
TRENT’ANNI, AVERE
Come a volte
succede, un suggerimento senza commenti
I
DIECI MIGLIORI ROMANZI PER TRENTENNI
Martin
Amis “London Fields”
William
Burroughs “La scimmia sulla schiena”
Italo
Calvino “La giornata di uno
scrutatore”
Jeffrey
Eugenides “Middlesex”
Ernest
Hemingway “Fiesta”
Rona
Jaffe “Il meglio della
vita”
William
S. Maugham “Schiavo d’amore”
Herman
Melville “Billy Budd”
Juan
Carlos Onetti “La vita breve”
Luigi
Santucci “Orfeo in Paradiso”
Bugiardino
Premessa
scontata (che precisa l’incipit) è che trent’anni sono passati da un bel pezzo,
eppure qualcosa rimane delle letture. Di certo Hemingway lo lessi molto prima,
così come il “Billy Budd” di Melville (che tra l’altro piaceva molto a mio padre).
Mentre di Burroughs e Maugham ho letto altro, e con alterni sentimenti. Così come
di Amis (che non mi è mai piaciuto). Ho qualcosa di Onetti, per cui mi astengo.
E confesso che non conosco, se non per sentito dire, Luigi Santucci. Ne
rimangono tre. Eugenides è uno dei primi libri che ho commentato per iscritto,
e si capisce dalla trama molto stringata. Calvino e Jaffe, dovete leggerne, e
non vi dico altro.
Jeffrey Eugenides Middlesex Mondadori 8,40
[tramato
il 24 dicembre 2006]
Grazie Luana di avermelo suggerito. Molto
intrigante l’accavallarsi delle storie famigliari greco-turche-americane
sull’ermafrodito, sulla sua scoperta di sé, sul sentire donna - sentire uomo …
Mi sarebbe piaciuto un po’ più di partecipazione su Cal adulto.
Italo Calvino “La giornata d’uno scrutatore” Mondadori euro 9 (in
realtà, scontato a 7,65 euro)
[tramato
il 5 ottobre 2014]
E già, che ci sono una prefazione dell’autore
alla prima edizione, ed una bella introduzione di Guido Piovene che risultano
lunghi più di metà del racconto vero e proprio. Quindi, indichiamoli, che li
abbiamo letti, anche se non ne commentiamo, che siamo qui per tramare di Calvino
e noi di chi scrive su Calvino.
Calvino che, è bene dirlo subito, è una delle
mie stelle fisse del panorama letterario. Non sempre alla stessa altezza, ma è
uno dei primi autori, che, quindicenne, lessi quasi integralmente (quasi, che
questa “giornata” era rimasta fuori ed ora rimedio). Tanto che sapevo quasi a
memoria la storia di Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di
Corbentraz e Sura. E se voi non sapete chi è, andate cinque minuti in punizione
dietro la lavagna. Per poi passare, con gioia scientifico – letteraria, alle
Cosmicomiche e a Ti con zero. Nella maturità, poi, avvicinando la sua all’altra
imperitura stella di Raymond Queneau, mi innamorai della Letteratura
Potenziale, di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Per finire, ancora una
volta imparando a memoria, le “Lezioni americane”. Soprattutto la leggerezza,
che spero rimanga sempre accanto a me.
Questo era rimasto fuori, anche se segna un
punto importante nella storia dell’autore. Una svolta (ma forse meglio una cerniera)
tra la passione letteraria e la passione civile. Non è un caso che impiega
dieci anni a scriverlo. Non è un caso che, benché agile e corto, sia denso. Di
significati, di messaggi, di premonizioni.
La trama, in sé, è volutamente semplice: un
intellettuale comunista, Amerigo Ormea, passa una giornata come scrutatore
durante le elezioni del 1953 alla Piccola Casa della Divina Provvidenza
"Cottolengo" di Torino, un istituto religioso dove sono ricoverati
migliaia di minorati fisici e mentali. Lì Amerigo assiste all'incredibile
sfilata dei votanti che sono tutti individui "fuori dalla norma",
sono persone malate e con gravi deformità che colpiscono molto il protagonista
e lo inducono a una serie di riflessioni e pensieri per lui completamente nuovi.
Si chiede se sia giusto che questi uomini possano votare o essere aiutati a
votare, si chiede cosa sia l'umano e fino a che punto arrivi l'umano. Ma tutto
questo mette in moto una serie di pensieri e riflessioni, che sono il fulcro
del racconto.
C’è sicuramente la parte politica. Non a caso
siamo nel 1953, anno della cosiddetta “legge Truffa”. C’è quindi il rapporto
tra il comunista e l’istituzione religiosa. Dove vede sì il ruffiano
democristiano arrivato per far carriera sulla pelle dei ricoverati. Ma vede anche
i religiosi ed il loro atteggiamento più che umano. E vede l’aprirsi di una
crisi nella sinistra, nei battibecchi con una scrutatrice socialista, con cui a
volte è solidale, ma spesso anche no. Poi c’è il rapporto privato. Nei pochi
momenti di pausa non fa che parlare al telefono con la sua compagna, con cui ha
un rapporto lasco, ma presso cui è piacevole, a volte, rifugiarsi. E lei gli
annuncia di essere incinta, innescando un’ulteriore riflessione in Amerigo
sulla paternità, sull’aborto, su cosa vuole lui veramente.
Avvenendo tutta questa crisi tra pubblico e
privato, è proprio il drammatico impatto con il Cottolengo che lo costringe ad
una riflessione a tutto tondo. Sul senso delle proprie azioni, sulla vita
stessa. Ideali e programmi politici, infatti, non hanno nulla a che fare con il
dolore e la malattia dei poveri abitanti del Cottolengo e sicuramente non
possono essere loro utili. Amerigo, sempre più colpito da questa crisi dei
valori, spostandosi tra le corsie, scorge due figure che lo colpiscono nel
profondo: una suora che dedica la propria vita alla cura dei malati e un
anziano padre che passa ogni domenica seduto su una sedia a schiacciare
mandorle per il figlio “deficiente”. Da questo momento in poi Amerigo e con lui
Calvino, non smetterà più di mettere in crisi le proprie certezze. E quanto
altro ci si potrebbe costruire intorno.
Quanto possiamo identificarci con Calvino, o
meglio con Amerigo! Che non ha caso ha il nome dello scopritore del “Mondo
Nuovo”, perché anche noi, con lui, stiamo entrando in un mondo nuovo. E come
non sottolineare che il cognome Ormea non è che l’anagramma della parola
“amore”! Calvino è sempre una “matrioska” letteraria, in cui nell’apparente
leggerezza della scrittura, e nella profonda complessità dei temi trattati,
trova sempre di mettere qualcosa in più. Sta a noi scoprirlo, farlo nostro, e
ragionarci. Sempre senza certezze, sempre mettendoci in discussione.
“In quegli anni … il petto d’un singolo
comunista poteva albergare due persone insieme: un rivoluzionario intransigente
e un liberale olimpico.” (29)
“La sua biblioteca era ristretta. Col passare
degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù
era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a
riflettere ed a evitare il superfluo. Il contrario che con le donne: la
maturità gli portava insofferenza, una giostra di storie brevi e balorde che
ogni volta si vedeva già che non andava. Era uno di quegli scapoli che per
abitudine gli piace far l’amore il pomeriggio, e di notte dormir solo.” (47)
“Cominciò una discussione delle solite … per
la sua abitudine a guardare le cose dal punto di vista dell’avversario e la sua
riluttanza a esprimere concetti ovvi.” (51)
“Non ammetteva di collegare dei fatti oggettivi
come la musica d’un disco a dei fatti soggettivi come il sentimento per chi
aveva regalato il disco.” (53)
Rona Jaffe “Il meglio della vita” Beat euro 9
[tramato
il 15 maggio 2016]
Considerato dai critici uno dei migliori
romanzi per chi compie trenta anni, ho letto con piacere filologico questo
quasi sessantenne romanzo della scrittrice americana Rona Jaffe. Probabilmente
risente dell’età in qualche parte, pur rimanendo, con molti decenni di
anticipo, un prodromo di “Sex and the city”.
Scritto e pensato con lucidità dalla non
ancora trentenne Jaffe, che butta giù il romanzo quando anche lei, come la
Caroline del libro, uscita dalla Radcliffe (una delle Università americane)
trova lavoro presso una casa editrice, la “Fawcett Pubblications”. Edizioni non
eccelse ma di importanza storica fondamentale: sono loro che hanno inventato i
“tascabili”, e solo per questo dovrebbe avere un posto luminoso nel pantheon
della scrittura. Senza contare che negli ultimi trenta anni hanno avuto nelle
loro pubblicazioni autori polizieschi degni come Anne Perry o P.D. James.
Ma torniamo alla scrittrice. Negli ultimi
tempi presso la Fawcett, Rona diventa amica di tal Jerry Wald, manager di
un’altra casa editrice, che la spinge a scrivere, leggere, rileggere e poi
ripulire il romanzo. Wald ne fa anche una campagna pubblicitaria serrata, prima
ancora che il libro esca (potenza del marketing nella creazione dei
best-seller). Fatto sta che nel ’58 il libro vede la luce, diventa per un paio
d’anni un faro della classifica dei libri più venduti e diventa anche un film,
non eccelso, ma diretto da uno dei maghi della sofisticated comedy, Jean
Negulesco (autore, anche, di quel divertente film “Come sposare un milionario”,
con Lauren Bacall e Marylin Monroe). Rona Jaffe continuerà a scrivere tutta la
vita, anche se non raggiungerà la diffusione di questo primo libro (un giorno o
l’altro, bisognerà parlare degli autori “di un solo libro”).
Intanto, in questi più di cinquecento pagine
si snodano tre anni e molta vita di cinque ragazze americane, tutte poco oltre
i venti anni. L’idea della scrittrice è di descriverci e farci vivere con loro
alcuni grandi sogni americani, ma anche alcuni dei problemi, a volte
insormontabili, che le donne devono affrontare. Seguiamo allora le loro
vicende, dove le nostre cinque ragazze passano del tempo nella casa editrice
Fabian.
Mary Agnes Russo è bruttina, capace di
origliare ogni più piccolo pettegolezzo, dattilografa efficiente, ha l’unico
scopo di mettere da parte i soldi per sposare il suo Bill, licenziarsi e vivere
una serena (e squallida) vita familiare. Non ha grandi sogni, incarna la voglia
di famiglia, ed il suo ottenimento usando il profilo più basso che c’è.
Barbara Lamont, diciottenne, aveva raggiunto
il “traguardo” di Mary, con l’aggiunta di una bella bambina. Peccato che il
marito si impaurisca e fugga. Barbara si rimbocca le maniche, lavora, con
profitto alla Fabian, pensando di non poter trovare più l’amore. S’illude che
il quarantenne Sidney possa darle il futuro ormai perduto. Ma Sidney, oltre che
più grande (cosa marginale) è anche sposato. Dilemma: divorzierà per far felice
Barbara o rimarranno due binari che s’incrociano per poi lasciarsi?
Gregg Adams vuole fare l’attrice, passa pochi
giorni alla Fabian, tanto per sbarcare qualche mese d’affitto, e per convincere
Caroline a dividere una casa troppo costosa. Lei s’innamora del regista David,
che come (molta) gente di spettacolo è pieno di sé stesso e di problemi. David
non vuole legami, non vuole controlli, ha forse avuto un amore maschile in
gioventù, ma sa essere dolce con Gregg, quando i due convergono verso mete
comuni. Tanto che Gregg non vede altro nella vita, avendo il torto, da
innamorata obnubilata, di non mollare mai la presa, di dimenticare sé stessa
per dedicarsi all’altare “David”. Così che quando lui, stufo, la molla, perde
la testa. Anche lei non vede altro che il matrimonio con David, iniziando una
vita da stalker che non potrà che finire male.
April Morrison è la “campagnola del Texas”
che per il diploma chiede al padre 500 dollari ed il permesso di andare a New
York fino a quando basteranno. Si prende tanto nella vita della City, che,
prima della fine dei soldi, entra alla Fabian. April è una bellezza alla
Marilyn, da togliere il fiato. Tanto che il porco Shalimar, dirigente della Fabian,
tenta subito di metterle le mani addosso. Lei resiste, venendo ovviamente
emarginata. Si rifà incontrando il ricco Dexter, che con lo specchietto
dell’anello nuziale le fa fare quello che vuole. Sesso, innanzi tutto. Poi un
aborto, quando lei rimane incinta. Ma Dexter ed April sono di classi sociali
differenti, e Dexter non la porterà mai nella sua cerchia. Anzi, la umilierà
pesantemente. April, distrutta, rischia di cadere nella monomania alla Gregg,
ma si salva prima dandosi al sesso con tutti, poi trovano in Ronnie una spalla
su cui appoggiarsi ed un bastone per uscire fuori dalle sabbie mobili.
Caroline Bender è sicuramente il personaggio
più forte, ma anche più “colpito” dalle traversie. Dopo due anni di
fidanzamento, Eddie la lascia per sposare una ricca signorina. Lei, per
distrarsi, entra alla Fabian. È una lettrice accanita e competente, ed in una
tale casa editrice, sgomitando un po’, ma senza ferire nessuno, pian pianino si
fa strada. Ha rapporti con i colleghi, scontri con i superiori, però va avanti.
Sino a quando, tre anni dopo, incontra nuovamente il mai dimenticato Eddie.
Sempre sposato e non divorziante. Ci si avvia verso il suo dilemma finale: fare
l’amante felice o continuare come donna in carriera?
Un bell’affresco, una coralità dosata con
giusta alchimia. Tornando, al fine, alle domande iniziali, sulla donna – sposa,
sul valore della verginità (siamo pur sempre negli anni Cinquanta), sul crinale
tra carriere e famiglia. Un ultimo appunto agli editor italiani: perché “Il
meglio della vita”, quando il titolo varrebbe “Il meglio di ogni cosa”. Deriva
infatti dagli annunci di lavoro del NYT che invogliavano le signorine al
lavoro, perché “You deserve the best of everything”,
“Le donne sono uguali agli uomini, solo che
non vogliono ammetterlo … Noi uomini quando vediamo una bella ragazza che
cammina per la strada … pensiamo: ‘Mi piacerebbe andare a letto con quella
ragazza’. È una semplice constatazione, senza nessuno scopo preciso.” (121)
“Sposa soltanto qualcuno … del quale non puoi
fare a meno. Ma soprattutto, sposa soltanto un uomo che rispetti.” (123)
“Ci vogliono sei anni per farsi un amico e
sei minuti per perderlo.” (258)
“Tenersi per mano [è] un Braille inventato da
quelli che ci vedono per capire cose che non si vedono.” (317)
“Ognuno ha diritto di comportarsi da idiota,
se è veramente innamorato.” (403)
“Non siamo responsabili di aver incontrato le
persone sbagliate; possiamo solo dirci fortunati quando incontriamo quelle
giuste.” (463)
Conclusioni
Nulla da eccepire su alcuni
titoli, ma forse avrei evitato Martin Amis e Luigi Santucci, inserendo, che so
(tanto per fare esempi volanti) “La breve favolosa vita di Oscar Wao” di Junot
Diaz o anche “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. Questa volta sono
critico.
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