domenica 8 novembre 2020

Dove ancora si nereggia - 08 novembre 2020

 Anche se forse sarebbe stato utile una rassegna di libri americani, in questo giorno in cui (forse) Trump è finalmente alle corde, torno su autori italiani di noir. Dove si ritrova il vecchio amico Carlo Parri o l’italianissima Christine von Borries, con dei libri quanto meno interessanti. Mentre poco hanno convinto sia il musicologo Pulcini sia il pur bravo Sabatini (almeno perché ci si muove nel mio quartiere).

Carlo Parri “Cardosa e il codice Modigliani” Mondadori euro 5,90

[A: 09/04/2018 – I: 26/04/2020 – T: 27/04/2020] &&& --   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 217; anno: 2018]

Una lettura scarsamente impegnativa, senza troppi fronzoli e senza troppi pensieri. Ma ci vuole ogni tanto per allentare la tensione e passare qualche ora in completo yoga – relax. Inoltre, è come ritrovare un vecchio amico, o un sodale di viaggio, che di Parri lessi il primo libro con protagonista il vicequestore aggiunto Leonardo Cardosa qualcosa come sei o sette anni fa. Poi, il “vecchio” Parri scrisse racconti e forse altro, e solo ora ritrovo nell’esimia collana dei “Gialli” un nuovo romanzo tutto Cardosa. Purtroppo, e questo ha fatto comparire la selva di segni “-”, non è proprio “un” romanzo, ma direi due e mezzo.

In realtà, ci sono due storie che vengono seguite, svelate e risolte, che non hanno particolari intrecci, ed una mezza (per via di brevità) che sembra riunirsi ad altro, ma che poi rimane a sé stante. Questi racconti intrecciati fanno perdere un po’ la benevolenza verso l’autore, e, personalmente, anche il ritmo. Anche perché il titolo si riferisce al primo giallo, che dopo poco più di cento pagine è bell’e risolto. E nei gialli, a mio parere, o sei particolarmente elevato in idee o scritture, altrimenti la dimensione “racconto” tronca presto il ritmo a tutta la storia.

Come in tutti i libri di “procedural thriller”, abbiamo una bella squadra che lavora intorno a Cardosa. Una squadra che intreccia anche storie personali. Che nella squadra di Cardosa ci sono sia le sue due mezze fidanzate, Gemma e Francesca, sia il procuratore Caterina, e tutte e tre le donne non disdegnano di accompagnarsi al fascinoso vicequestore. Noi lo avevamo lasciato nel commissariato di via Acherusio, accompagnandolo nelle scorribande al mercato di Piazza Gimma. Ora pare che in virtù di qualche non nota eredità si sia spostato in un attico a Lungotevere, abbia facoltà di denaro che utilizza per i suoi piaceri, e per offrire cene prelibate alle sue donne (sia nell’attico sia in ristoranti opportuni).

Tra l’altro, questo andar per Roma è uno dei miei divertimenti maggiori accompagnando il nostro eroe. Sia quando ritorno dalle parti di viale Libia (dove sto parcheggiato in attesa del passaggio del coronavirus), sia quando deve risolvere il mezzo racconto, che ha il suo epicentro in una palestra all’angolo tra via Attilio Regolo e via Cola di Rienzo, cioè Prati, dove da quaranta anni si svolge la mia vita. Inciso: per come viene descritta sembra più la palestra che sta in viale Giulio Cesare altezza Lepanto, ma tant’è. E per finire, quando va a trovare un personaggio implicato in una trama, e finisce a via Seneca, laddove accompagnavo il mio amico Massimo ad un totalizzatore (e dove lui vinceva spesso).

Ma le trame? Quella che si cristallizza nel titolo è una specie di esercizio logico, anche per farci vedere come Cardosa sia conosciuto da tutte e due le sponde del crimine (cosa che servirà nella seconda parte). La morte di uno spettabile pensionato (con delle gag prevedibili ma discrete sul fatto che il morto sia stato ucciso al Verano, il cimitero di Roma, e qualcuno che dice: “C’è un morto al cimitero!”, e qui mi fermo). Il morto era anche uno stimato collezionista, con tanto di caveau e pieno di quadri rari (ricordo un Manet), e dove subisce il furto di una testa scolpita, attribuita a Modigliani. Le morti vengono a grappolo, che l’autore del furto (su commissione) viene ucciso da una coppia di malavitosi, di cui uno legato ad un potente clan romano. Poco dopo anche il malvivente di rango viene ucciso, così che alla caccia insieme a Cardosa si unisce il clan. Vi tralascio parti poco significative, ma la scia di morti prosegue. Arrivando al nocciolo: la testa di Modigliani nasconderebbe un cifrario per non so quale mistero esoterico (che fortunatamente Parri ci fa dimenticare subito), la cui chiave sta in un disco scolpito di pietra, che nessuno trova, se non Cardosa usando il principio della “Lettera rubata” di Poe (e se non lo sapete peggio per voi).

Ma la storia serve anche a Parri per presentarci i tre amici del liceo del Cristo Re: Cardosa, appunto, il giornalista italo-argentino Matarò (che viene rapito e che Cardosa salva) e Barbier, italo-francese che dopo il liceo, finisce commissario a Parigi. Ciò che dà agio all’autore di fare una bella parentesi parigina, che serve a risolvere il caso.

Nella catena di morti iniziata con il pensionato, ad un tratto viene coinvolto, per aver fornito una pistola che scotta, anche il gestore della palestra di cui in Prati. Questo il mistero di mezzo racconto, che nelle ultime venti pagine, Cardosa capisce che questa morte è scollegata alla vicenda Modigliani, e trova il modo di risolverla in due battute.

Nel mezzo, la lunga parentesi del rapimento della donna della sorella gay di Cardosa, che vive ancora in Sicilia, nei pressi di Siracusa. A parte le buone parole sulla convivenza civile, e rivangando le origini al limite della mafia di Cardosa, che poi, però, sceglie il versante buono, si intreccia tutta un’altra storia. Con sbarchi clandestini, immigrati usati come carne da macello, e bimbi extracomunitari che servono per adozioni illegali. Giuditta, la donna di Maria, ovvio che aveva capito qualcosa, e nel tentativo di bloccare il traffico aveva fatto qualche passo falso. Poiché tuttavia alcune piste portano a degli intoccabili, Cardosa trova il modo di risolvere la faccenda, convincendo Giuditta ad un compromesso. Facendo però contenta la sorella, e l’amico giornalista per le mangiate siciliane che si concedono.

Insomma, Parri ha una buona capacità e leggerezza nel raccontare, con delle idee di intreccio a volte interessanti. Anche se il papocchio sui capelli della statua che si collegano anche alla morte di Hitler a Berlino lascia il tempo che trova. Dosando meglio questa parte gialla, magari ampliandone ad arte i contorni umani, ci si può ritrovare altri libri di gradevole fattura. Per ora si è letto questo, e con decente piacere.

“[dalle memorie della spesso aspirante suicida Dorothy Parker] I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi; l’acido macchia; i farmaci danno i crampi; le pistole sono illegali; i cappi cedono; il gas fa schifo. Tanto vale vivere.” (97)

“[da Anselmo Bucci, iniziatore del movimento artistico ‘Novecento’] La tua vita sia tessuta di delusioni piuttosto che di rimpianti.” (197)

Franco Pulcini “Delitto alla Scala” Repubblica Noirissimo 26 euro 7,90

[A: 04/12/2017 – I: 15/05/2020 – T: 18/05/2020] - && ---  

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 524; anno 2016]

Non ho nessun particolare motivo per aver avversione verso questo romanzo, eppure non solo l’ho trovato ostico, ma anche poco coinvolgente, sotto molti punti di vista. Ora, premetto che ritengo, e si nota dalla scrittura, che Franco Pulcini sia un eminente musicologo, amante e conoscitore della materia. Ci sono infatti, sparsi per tutto il romanzo, indizi, nozioni, elementi vari che ne sottolineano la competenza e l’ampiezza di conoscenza. Citazioni dotte non solo di giuste opere e passaggi musicali, ma anche aneddoti, spigolature, momenti di rimembranze, che, quando presenti, elevano il tono del testo. Inoltre, quando si parla di elementi orchestrali, di strumenti, ma anche di ensemble orchestrali, di lotte intestine fra le varie sezioni dell’orchestra stessa, odio e amore tra cantanti e direttori d’orchestra, ed anche tra cantanti e cantanti, si vede che si parla di cose che Pulcini conosce di prima mano. E ben conosce anche le dinamiche interne in un Teatro dell’Opera. Qui si parla della Scala di Milano, ma (e credo che la mia amica Nico me lo possa confermare) si potrebbe leggerne anche come l’Opera di Roma e via gorgheggiando.

Fatte queste dovute premesse, il romanzo in sé, invece, in quanto “noir” non regge, non ha spessore. Intanto, proprio per le conoscenze e le dovute spiegazioni filologiche e musicali, si perdono pagine e pagine in giri tortuosi, facendo sì che si perda il filo ed il ritmo della trama principale. Gli avvenimenti si srotolano in poco più di un mese, dall’uccisione del direttore d’orchestra il 1° novembre fino alla prima alla Scala che, come ognun sa, avviene il 7 dicembre di ogni anno.

Nell’anno di cui ci narra Pulcini, si decide di aprire la stagione con una chicca: l’Arianna di Claudio Monteverdi, misteriosamente ritrovata tra le pagine conservate di una antica casata nobiliare scaligera. L’interesse musicale e di scoperta è il fatto che, realmente, quest’opera è andata perduta, e quindi il suo ritrovamento porterebbe non solo onori e gloria, ma anche mucchi considerevoli di denaro. Alcuni elementi del romanzo sono di divertente ingegno: il commissario Abdul Calì, siciliano di nascita, con madre araba, e di religione mussulmana, sebbene non praticante; la segretaria di redazione Viola, con tutte le astuzie e le conoscenze di una brava segretaria, che tutto vede, molto sa, e nulla dice; il cammeo del commissario straordinario Perischella, che tra una battuta napoletana e l’altra, riesce a mettere tutti in riga, sfruttando le molteplice conoscenze delle pieghe ministeriali.

L’andamento della trama, che si trascina stancamente tra una cantata e l’altra, vede coinvolte molte persone nelle possibili tresche suscitate dall’opera e dall’Opera (mi scusa il calembour, ma si parla di Arianna e del mondo operistico, giusto?). C’è la famiglia Gentileschi che possiede il manoscritto, ma non conosce un acca di musica. Ci sono i due esperti che analizzano il testo: De Masi, il musicologo fino, che ne riconosce l’autenticità, e Trombetti, che ne capisce ma che, come molti sulla falsariga del sottoscritto, benché possano leggere uno spartito, ne seguono il suono solo se rappresentato. Ci sono i due gestori della Scala: Caponango, il ragioniere delle spese, e Ferri, l’estroso ed estroverso direttore artistico, forse gay o forse no, di sicuro sempre sopra le righe. Ci sono, infine, le cantanti: la prima donna, Iris, destinata alla parte di Arianna, e la rivale, la tedesca Monika (un nome che mi ricorda qualcosa) che è relegata nel ruolo di Venere. Su tutti, la figura di Oscar Mazza, il direttore esperto di antichità barocche. Sebbene sposato, non disdegna accompagnarsi con tutte le donne che incontra, tanto che sembra abbia messo incinta Iris (con notevole incazzatura del di lei fidanzato Achille), ma che ad un certo punto pare abbia una sbandata per una donna misteriosa, che per quasi 400 pagine sfugge alla ricerca del nostro Abdul.

Veniamo allora all’inchiesta: Abdul cerca, scava, interroga, ma soprattutto prende una sbandata, ricambiata, con Viola, e cerca di trovare la soluzione del problema seguendo una sua ipotesi. Ecco il motivo di base che ci lascia perplessi nell’andamento del “noir”. Dove per 500 pagine si cerca di scavare nei vari meandri delle relazioni reciproche (anche con qualche interesse, nonostante la già sottolineata prolissità), per poi assistere all’idea di Abdul che ci porterà il colpevole su di un piatto d’argento. Dato che il giorno della morte di Oscar era comunque un giorno di recite, e dato che alle recite assistono moltissimi stranieri, in particolare asiatici, ed in particolare, essendo una loro caratteristica peculiare, asiatici con il vizio delle foto, ecco che Abdul lancia una campagna mondiale alla ricerca di foto del Teatro, perché di sicuro, se non velate dalla notte scura, qualcuna (o almeno una) ci permetterà di vedere chi colpisce Oscar alla nuca. Peccato che questa brillante idea ci venga detta nelle ultime pagine, e ci porti alla soluzione del drammone, senza però che noi poveri lettori-investigatori abbiamo in mano altri elementi per dirimere il senso delle indagini.

Forse l’autore era interessato più ad un quadro rappresentante i vizi e le virtù del mondo operistico, aggiungendoci come ciliegina il mistero di un delitto. Ma è come una fetta d’ananas su di una pizza napoletana: non c’entra nulla e ne rovina il sapore. Se fossi più cattivo vi svelerei tutte le contorte vie che nelle precedenti 510 pagine Abdul percorre per cercare non di arrivare alla soluzione, ma per aspettare le risposte dalla sua ricerca sulle foto di tutto il mondo. Ma invece non vi dico nulla. Se amate la musica classica e non vi spaventa un po’ di prolissità, leggetelo. Altrimenti astenetevi.

“In ogni religione ci sono criminali, fanatici e imbecilli.” (236)

Mariano Sabatini “L’inganno dell’ippocastano” TEA euro 12

[A: 09/03/2018 – I: 15/09/2020 – T: 17/09/2020] - && e ¾

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332; anno 2016]

Interessante, anche se scontato. Interessante per l’ambientazione e per il personaggio centrale, il giornalista investigatore Leonardo (Leo) Malinverno. Ah, dicevo, l’ambientazione perché romana, dove molti personaggi gravitano nel quartiere Prati (il mio). Scontato invece nella trama gialla, che ci sono morti e misteri, ma poco prendono, sia nell’esecuzione che nella risoluzione. Comunque, cinque anni fa è stata l’opera prima dell’autore, il cinquantenne (ora) Mariano Sabatini. Romano, autore radio televisivo scoperto dal grande Luciano Rispoli per Tele Montecarlo. Un’opera prima di successo, nel suo piccolo, vincendo appunto il Premio Flaiano Opera Prima. Tanto che l’anno dopo fa uscire la seconda puntata delle avventure di Leo, sempre per l’editore Salani. Anche se qui, viene riproposto su licenza dalla TEA.

Altro punto interessante è il titolo, che ci confessa derivare da una bella poesia di Primo Levi (“Cuore di legno”) in cui si narra della dolenza dell’ippocastano che vuol farsi emulo del suo fratello di montagna. Rivelazione che ci fa subito pensare che ci sia qualche imboscamento, qualcuno e qualcosa che vuole farsi passare per altro.

L’ambientazione romana, poi, non può prescindere dalla presenza di malavita e malaffare, anche nei palazzi buoni, anche nelle sedi alte. Che sappiamo bene l’intreccio mortale che si svolge a Roma intorno a tutto ciò. Tutto partendo dalla morte del maturo Ascanio Restelli, ucciso alla vigilia della sua scesa in campo per la carica di Sindaco di Roma. Ucciso in modo barbaro nella sua villa (probabilmente tra Monte Mario e Cortina d’Ampezzo per chi conosce Roma), insieme ai suoi due fedeli servitori ed ai suoi due rottweiler. Ovvio che la morte scateni una ridda infinita di ipotesi, che Ascanio aveva le mani in pasta su tutto: costruzioni e appalti, droga e tangenti, ed altre amenità. Nonché, com’è ovvio, collegamenti con la malavita calabrese, che da anni sta mettendo le sue mani sulla capitale.

La morte viene scoperta da Olga, giornalista di testate femminili, in rotta dura con il marito, coinvolti in sessioni sessuali a tutto spiano, insieme ad un factotum, che poi risulta collegato anche ad Ascanio. Ma questo serve da introdurre il grande amico di Olga (con qualche venatura in più), Leo, per l’appunto. Fascinoso, sciupafemmine ma rispettoso. Soprattutto, gran conoscitore sia di Roma che del mezzo mondo che vi gira intorno.

Da qui si intrecciano momenti personali e momenti di indagine. Nonché momenti altri, che servono a collegare i vari piani. Leo ha scritto un reputato libro sulla compravendita dell’Oro a Roma, così che conosce molte persone. Ed è sodale al poliziotto Jacopo, incaricato delle indagini. Poliziotto in rotta con la moglie per questioni di bambini (chi li vuole e chi no). Conosciamo soprattutto la madre insegnante con la passione dei libri che tiene ovunque, al bagno.

C’è anche la presenza ingombrante della madre di Olga, forse in gioventù amante di Ascanio. E c’è Conversi, il sodale di Ascanio, la cui stretta amica è il caporedattore di Olga, ed insieme tutti e tre brigavano per acquistare, in modo fraudolento, il giornale su cui scrive Leo.

Ma questi sono tutti contorni, come contorno è la parentesi natalizia nella montagna abruzzese, dove al solito Leo si esibisce nella sua arte culinaria.

Comunque, è Leo che, puntino dopo puntino, ricostruisce possibili scenari. Aiutato anche da qualche collegamento improvvisato. La morte di un autista dell’ATAC, la scoperta che abitava in condomini taglieggiati da società di Ascanio, la comparsa del figlio di questi, allevatore di cani utilizzati per il trasporto della droga, stessi cani che facevano da guardia ad Ascanio, l’uso del factotum di Ascanio, quello morto, per i taglieggiamenti di cui sopra. Alla fine, le ipotesi si restringono a due soggetti: il figlio del factotum ed il figlio di Ascanio. Uno aveva apparenti buoni motivi e scarsi alibi, l’altro non aveva apparenti motivi e alibi solidi. Non vi dico né chi sia l’uno né chi sia l’altro, né come Leo risolverà il tutto. Infatti, la fine è un po’ trascinata, visto che parliamo della malavita romana (o di sue frange) e dei collegamenti di cui sopra, che molto rimane detto ma impossibile da dimostrare. Però, Leo risolverà il mistero e sarà pronto al secondo libro (“Prima venne Caino”, per chi fosse interessato).

Rimane questo libro, scorrevole e ben scritto, con alcune punte di interesse (culinario e libresco), nonché di memorie giovanili su castagne e ippocastani. Non eccelso, ma quasi a livello delle buone letture.

“Non aveva il vezzo dell’arredamento. Gli unici mobili che le interessavano erano le librerie, sistemate ovunque e stracolme.” (155)

Christine von Borries “Fuga di notizie” Guanda s.p. (prestito dalla biblioteca di Porto Ercole)

[A: 18/09/2020 – I: 20/09/2020 – T: 22/09/2020] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 192; anno: 2003]

A dispetto del nome e delle ipotesi fatte su di lei, ho ben presto scoperto che è una scrittrice (e non solo) italiana. Certo, di padre tedesco, ma di madre italiana. Nata, una cinquantina di anni fa (e non ci interessa perché) a Barcellona. Poi, prima, durante e dopo la sua avventura di scrittrice, iniziata appunto con questo libro nel 2003, pubblico ministero in varie località, per poi fermarsi in quel di Firenze.

Ne avevo adocchiato la copertina nei momenti di relax portercolesi, e l’ultima volta, a corto di altri libri, l’ho iniziato. Un libro estremamente facile in lettura, così che è stato ultimato nel giro di pochi giorni, al di fuori delle logiche di lettura usuali.

Una lettura estremamente rilassanti, con alcune punte di “divertissement”, in special modo quando la protagonista, Irene, si dedica alla lettura. Così che possiamo ripassare con lei sia un vecchio Camilleri (“La voce del violino”), sia un magistrale esempio di giallo moderno (“Casino totale” del compianto Jean-Claude Izzo). Essendo questo (come sottolinea lo stesso Camilleri nella postfazione) esso stesso un giallo moderno. Dove si seguono gli intrighi. E dove non c’è neanche il morto, anche se ci sono due tentativi di omicidio (che fortunatamente vengono sventati).

Ma per iniziare riprendendo i complimenti del grande siciliano, il primo non usuale elemento è l’attività della protagonista. Irene, infatti, è archivista in Polizia. E come ricorda Camilleri, può essere un mestiere che porta all’indagine, come Arthur Jelling, l’archivista di Boston protagonista di alcuni romanzi di Giorgio Scerbanenco. O come l’archivista di Scotland Yard, protagonista di una nutrita selva di racconti di un (per Camilleri) anonimo inglese. Sveliamo il mistero: si tratta di William Edward Vickers, che con lo pseudonimo di Roy Vickers, pubblica racconti che poi colleziona in una raccolta, dal titolo “Department of Dead Ends” (reso in italiano con “Servizio casi archiviati”, e che verranno alla ribalta dagli anni 2000 in poi con tutte le serie televisive inzeppate di “Cold Case”).

La nostra intrepida archivista viene coinvolta in un caso di ricerca di informazioni da parte dell’agente Roberto Taddei, alla ricerca delle modalità di fughe di notizie a favore di mafie ed altri malaffari. Anche se non coevi (ci saranno una dozzina d’anni tra i due), ed anche se Roberto è sposato, nasce tra i due prima una frequentazione e poi, ovvio, qualcosa in più.

Mentre, come è giusto, Taddei, anche senza farlo sapere in giro, con le informazioni di Irene arriva abbastanza vicino alla verità. Tanto vicino che viene ferito quasi mortalmente ed entra in coma. Da questo punto, sarà la nostra intrepida archivista che si fa motore primo della ricerca. Certo, è ben ostacolata: scippi, perquisizioni impreviste, inseguimenti. La nostra eroina riesce (quasi) sempre a sfuggire alle trappole. Solo per cacciarsi in trappole più grandi. Perché non ha capito (e noi glielo stiamo gridando dalle prime pagine) che se c’è una fuga di notizie, bisogna sospettare di tutti.

Con qualche forzatura, e qualche fortunata circostanza, anche se pare consegnarsi senza colpo ferire ai cattivi, qualcuno lungimirante c’è. Così che alla fine le prove da lei accumulate solo la nascosta regia del comatoso Roberto arriveranno al giusto procuratore. Tutti saranno incolpati al giusto grado. Mentre non ci viene risparmiato, alla fine, anche un po’ di happy end tra i protagonisti della vicenda.

Riprendo ancora le sagge parole di Camilleri, che, pur non dicendolo esplicitamente, ci fa capire che più che un noir, è un romanzo d’ambiente. Io rafforzo l’intuizione, dicendo che lo avrei visto bene anche in una uscita dei Gialli Mondadori, che sembra poterne avere l’andatura.

Ed una gradevole scrittura, tanto che la nostra Christine continuerà negli anni a scrivere, anche se non con una frequenza impossibile. Direi, a mente, un libro ogni tre o quattro anni, visto che bisogna pur lavorare.

Ultimo gradevole elemento, l’ambientazione romana della vicenda, che riconosciamo qua e là e che raggiunge il mio massimo affettivo quando, a pagina 86, Irene si reca a Campo de’ Fiori e incrocia la mitica libreria “Fahrenheit”).

Seconda trama di novembre, per cui ci si merita un bell’allegato dedicato alle letture dei trentenni (magari con qualche domanda).

Son già passati sette giorni e tutto sembra già lontano nel ricordo. Stringiamo i denti, che questa fine anno non sembra ancora riuscire a scardinare tutti i mali. Forse ce ne estirpiamo uno (americano), ma rimane ancora tanto da fare. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NOVEMBRE 2020

Come ovvio, anche io ho avuto trent’anni, anche se non da molto…

TRENT’ANNI, AVERE

Come a volte succede, un suggerimento senza commenti

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER TRENTENNI

Martin Amis             “London Fields”

William Burroughs     “La scimmia sulla schiena”

Italo Calvino             “La giornata di uno scrutatore”

Jeffrey Eugenides   “Middlesex”

Ernest Hemingway    “Fiesta”

Rona Jaffe                 “Il meglio della vita”

William S. Maugham “Schiavo d’amore”

Herman Melville        “Billy Budd”

Juan Carlos Onetti     “La vita breve”

Luigi Santucci           “Orfeo in Paradiso”

Bugiardino

Premessa scontata (che precisa l’incipit) è che trent’anni sono passati da un bel pezzo, eppure qualcosa rimane delle letture. Di certo Hemingway lo lessi molto prima, così come il “Billy Budd” di Melville (che tra l’altro piaceva molto a mio padre). Mentre di Burroughs e Maugham ho letto altro, e con alterni sentimenti. Così come di Amis (che non mi è mai piaciuto). Ho qualcosa di Onetti, per cui mi astengo. E confesso che non conosco, se non per sentito dire, Luigi Santucci. Ne rimangono tre. Eugenides è uno dei primi libri che ho commentato per iscritto, e si capisce dalla trama molto stringata. Calvino e Jaffe, dovete leggerne, e non vi dico altro.

Jeffrey Eugenides Middlesex Mondadori 8,40

[tramato il 24 dicembre 2006]

Grazie Luana di avermelo suggerito. Molto intrigante l’accavallarsi delle storie famigliari greco-turche-americane sull’ermafrodito, sulla sua scoperta di sé, sul sentire donna - sentire uomo … Mi sarebbe piaciuto un po’ più di partecipazione su Cal adulto.

Italo Calvino “La giornata d’uno scrutatore” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)

[tramato il 5 ottobre 2014]

E già, che ci sono una prefazione dell’autore alla prima edizione, ed una bella introduzione di Guido Piovene che risultano lunghi più di metà del racconto vero e proprio. Quindi, indichiamoli, che li abbiamo letti, anche se non ne commentiamo, che siamo qui per tramare di Calvino e noi di chi scrive su Calvino.

Calvino che, è bene dirlo subito, è una delle mie stelle fisse del panorama letterario. Non sempre alla stessa altezza, ma è uno dei primi autori, che, quindicenne, lessi quasi integralmente (quasi, che questa “giornata” era rimasta fuori ed ora rimedio). Tanto che sapevo quasi a memoria la storia di Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura. E se voi non sapete chi è, andate cinque minuti in punizione dietro la lavagna. Per poi passare, con gioia scientifico – letteraria, alle Cosmicomiche e a Ti con zero. Nella maturità, poi, avvicinando la sua all’altra imperitura stella di Raymond Queneau, mi innamorai della Letteratura Potenziale, di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Per finire, ancora una volta imparando a memoria, le “Lezioni americane”. Soprattutto la leggerezza, che spero rimanga sempre accanto a me.

Questo era rimasto fuori, anche se segna un punto importante nella storia dell’autore. Una svolta (ma forse meglio una cerniera) tra la passione letteraria e la passione civile. Non è un caso che impiega dieci anni a scriverlo. Non è un caso che, benché agile e corto, sia denso. Di significati, di messaggi, di premonizioni.

La trama, in sé, è volutamente semplice: un intellettuale comunista, Amerigo Ormea, passa una giornata come scrutatore durante le elezioni del 1953 alla Piccola Casa della Divina Provvidenza "Cottolengo" di Torino, un istituto religioso dove sono ricoverati migliaia di minorati fisici e mentali. Lì Amerigo assiste all'incredibile sfilata dei votanti che sono tutti individui "fuori dalla norma", sono persone malate e con gravi deformità che colpiscono molto il protagonista e lo inducono a una serie di riflessioni e pensieri per lui completamente nuovi. Si chiede se sia giusto che questi uomini possano votare o essere aiutati a votare, si chiede cosa sia l'umano e fino a che punto arrivi l'umano. Ma tutto questo mette in moto una serie di pensieri e riflessioni, che sono il fulcro del racconto.

C’è sicuramente la parte politica. Non a caso siamo nel 1953, anno della cosiddetta “legge Truffa”. C’è quindi il rapporto tra il comunista e l’istituzione religiosa. Dove vede sì il ruffiano democristiano arrivato per far carriera sulla pelle dei ricoverati. Ma vede anche i religiosi ed il loro atteggiamento più che umano. E vede l’aprirsi di una crisi nella sinistra, nei battibecchi con una scrutatrice socialista, con cui a volte è solidale, ma spesso anche no. Poi c’è il rapporto privato. Nei pochi momenti di pausa non fa che parlare al telefono con la sua compagna, con cui ha un rapporto lasco, ma presso cui è piacevole, a volte, rifugiarsi. E lei gli annuncia di essere incinta, innescando un’ulteriore riflessione in Amerigo sulla paternità, sull’aborto, su cosa vuole lui veramente.

Avvenendo tutta questa crisi tra pubblico e privato, è proprio il drammatico impatto con il Cottolengo che lo costringe ad una riflessione a tutto tondo. Sul senso delle proprie azioni, sulla vita stessa. Ideali e programmi politici, infatti, non hanno nulla a che fare con il dolore e la malattia dei poveri abitanti del Cottolengo e sicuramente non possono essere loro utili. Amerigo, sempre più colpito da questa crisi dei valori, spostandosi tra le corsie, scorge due figure che lo colpiscono nel profondo: una suora che dedica la propria vita alla cura dei malati e un anziano padre che passa ogni domenica seduto su una sedia a schiacciare mandorle per il figlio “deficiente”. Da questo momento in poi Amerigo e con lui Calvino, non smetterà più di mettere in crisi le proprie certezze. E quanto altro ci si potrebbe costruire intorno.

Quanto possiamo identificarci con Calvino, o meglio con Amerigo! Che non ha caso ha il nome dello scopritore del “Mondo Nuovo”, perché anche noi, con lui, stiamo entrando in un mondo nuovo. E come non sottolineare che il cognome Ormea non è che l’anagramma della parola “amore”! Calvino è sempre una “matrioska” letteraria, in cui nell’apparente leggerezza della scrittura, e nella profonda complessità dei temi trattati, trova sempre di mettere qualcosa in più. Sta a noi scoprirlo, farlo nostro, e ragionarci. Sempre senza certezze, sempre mettendoci in discussione.

“In quegli anni … il petto d’un singolo comunista poteva albergare due persone insieme: un rivoluzionario intransigente e un liberale olimpico.” (29)

“La sua biblioteca era ristretta. Col passare degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo. Il contrario che con le donne: la maturità gli portava insofferenza, una giostra di storie brevi e balorde che ogni volta si vedeva già che non andava. Era uno di quegli scapoli che per abitudine gli piace far l’amore il pomeriggio, e di notte dormir solo.” (47)

“Cominciò una discussione delle solite … per la sua abitudine a guardare le cose dal punto di vista dell’avversario e la sua riluttanza a esprimere concetti ovvi.” (51)

“Non ammetteva di collegare dei fatti oggettivi come la musica d’un disco a dei fatti soggettivi come il sentimento per chi aveva regalato il disco.” (53)

Rona Jaffe “Il meglio della vita” Beat euro 9

[tramato il 15 maggio 2016]

Considerato dai critici uno dei migliori romanzi per chi compie trenta anni, ho letto con piacere filologico questo quasi sessantenne romanzo della scrittrice americana Rona Jaffe. Probabilmente risente dell’età in qualche parte, pur rimanendo, con molti decenni di anticipo, un prodromo di “Sex and the city”.

Scritto e pensato con lucidità dalla non ancora trentenne Jaffe, che butta giù il romanzo quando anche lei, come la Caroline del libro, uscita dalla Radcliffe (una delle Università americane) trova lavoro presso una casa editrice, la “Fawcett Pubblications”. Edizioni non eccelse ma di importanza storica fondamentale: sono loro che hanno inventato i “tascabili”, e solo per questo dovrebbe avere un posto luminoso nel pantheon della scrittura. Senza contare che negli ultimi trenta anni hanno avuto nelle loro pubblicazioni autori polizieschi degni come Anne Perry o P.D. James.

Ma torniamo alla scrittrice. Negli ultimi tempi presso la Fawcett, Rona diventa amica di tal Jerry Wald, manager di un’altra casa editrice, che la spinge a scrivere, leggere, rileggere e poi ripulire il romanzo. Wald ne fa anche una campagna pubblicitaria serrata, prima ancora che il libro esca (potenza del marketing nella creazione dei best-seller). Fatto sta che nel ’58 il libro vede la luce, diventa per un paio d’anni un faro della classifica dei libri più venduti e diventa anche un film, non eccelso, ma diretto da uno dei maghi della sofisticated comedy, Jean Negulesco (autore, anche, di quel divertente film “Come sposare un milionario”, con Lauren Bacall e Marylin Monroe). Rona Jaffe continuerà a scrivere tutta la vita, anche se non raggiungerà la diffusione di questo primo libro (un giorno o l’altro, bisognerà parlare degli autori “di un solo libro”).

Intanto, in questi più di cinquecento pagine si snodano tre anni e molta vita di cinque ragazze americane, tutte poco oltre i venti anni. L’idea della scrittrice è di descriverci e farci vivere con loro alcuni grandi sogni americani, ma anche alcuni dei problemi, a volte insormontabili, che le donne devono affrontare. Seguiamo allora le loro vicende, dove le nostre cinque ragazze passano del tempo nella casa editrice Fabian.

Mary Agnes Russo è bruttina, capace di origliare ogni più piccolo pettegolezzo, dattilografa efficiente, ha l’unico scopo di mettere da parte i soldi per sposare il suo Bill, licenziarsi e vivere una serena (e squallida) vita familiare. Non ha grandi sogni, incarna la voglia di famiglia, ed il suo ottenimento usando il profilo più basso che c’è.

Barbara Lamont, diciottenne, aveva raggiunto il “traguardo” di Mary, con l’aggiunta di una bella bambina. Peccato che il marito si impaurisca e fugga. Barbara si rimbocca le maniche, lavora, con profitto alla Fabian, pensando di non poter trovare più l’amore. S’illude che il quarantenne Sidney possa darle il futuro ormai perduto. Ma Sidney, oltre che più grande (cosa marginale) è anche sposato. Dilemma: divorzierà per far felice Barbara o rimarranno due binari che s’incrociano per poi lasciarsi?

Gregg Adams vuole fare l’attrice, passa pochi giorni alla Fabian, tanto per sbarcare qualche mese d’affitto, e per convincere Caroline a dividere una casa troppo costosa. Lei s’innamora del regista David, che come (molta) gente di spettacolo è pieno di sé stesso e di problemi. David non vuole legami, non vuole controlli, ha forse avuto un amore maschile in gioventù, ma sa essere dolce con Gregg, quando i due convergono verso mete comuni. Tanto che Gregg non vede altro nella vita, avendo il torto, da innamorata obnubilata, di non mollare mai la presa, di dimenticare sé stessa per dedicarsi all’altare “David”. Così che quando lui, stufo, la molla, perde la testa. Anche lei non vede altro che il matrimonio con David, iniziando una vita da stalker che non potrà che finire male.

April Morrison è la “campagnola del Texas” che per il diploma chiede al padre 500 dollari ed il permesso di andare a New York fino a quando basteranno. Si prende tanto nella vita della City, che, prima della fine dei soldi, entra alla Fabian. April è una bellezza alla Marilyn, da togliere il fiato. Tanto che il porco Shalimar, dirigente della Fabian, tenta subito di metterle le mani addosso. Lei resiste, venendo ovviamente emarginata. Si rifà incontrando il ricco Dexter, che con lo specchietto dell’anello nuziale le fa fare quello che vuole. Sesso, innanzi tutto. Poi un aborto, quando lei rimane incinta. Ma Dexter ed April sono di classi sociali differenti, e Dexter non la porterà mai nella sua cerchia. Anzi, la umilierà pesantemente. April, distrutta, rischia di cadere nella monomania alla Gregg, ma si salva prima dandosi al sesso con tutti, poi trovano in Ronnie una spalla su cui appoggiarsi ed un bastone per uscire fuori dalle sabbie mobili.

Caroline Bender è sicuramente il personaggio più forte, ma anche più “colpito” dalle traversie. Dopo due anni di fidanzamento, Eddie la lascia per sposare una ricca signorina. Lei, per distrarsi, entra alla Fabian. È una lettrice accanita e competente, ed in una tale casa editrice, sgomitando un po’, ma senza ferire nessuno, pian pianino si fa strada. Ha rapporti con i colleghi, scontri con i superiori, però va avanti. Sino a quando, tre anni dopo, incontra nuovamente il mai dimenticato Eddie. Sempre sposato e non divorziante. Ci si avvia verso il suo dilemma finale: fare l’amante felice o continuare come donna in carriera?

Un bell’affresco, una coralità dosata con giusta alchimia. Tornando, al fine, alle domande iniziali, sulla donna – sposa, sul valore della verginità (siamo pur sempre negli anni Cinquanta), sul crinale tra carriere e famiglia. Un ultimo appunto agli editor italiani: perché “Il meglio della vita”, quando il titolo varrebbe “Il meglio di ogni cosa”. Deriva infatti dagli annunci di lavoro del NYT che invogliavano le signorine al lavoro, perché “You deserve the best of everything”,

“Le donne sono uguali agli uomini, solo che non vogliono ammetterlo … Noi uomini quando vediamo una bella ragazza che cammina per la strada … pensiamo: ‘Mi piacerebbe andare a letto con quella ragazza’. È una semplice constatazione, senza nessuno scopo preciso.” (121)

“Sposa soltanto qualcuno … del quale non puoi fare a meno. Ma soprattutto, sposa soltanto un uomo che rispetti.” (123)

“Ci vogliono sei anni per farsi un amico e sei minuti per perderlo.” (258)

“Tenersi per mano [è] un Braille inventato da quelli che ci vedono per capire cose che non si vedono.” (317)

“Ognuno ha diritto di comportarsi da idiota, se è veramente innamorato.” (403)

“Non siamo responsabili di aver incontrato le persone sbagliate; possiamo solo dirci fortunati quando incontriamo quelle giuste.” (463)

Conclusioni

Nulla da eccepire su alcuni titoli, ma forse avrei evitato Martin Amis e Luigi Santucci, inserendo, che so (tanto per fare esempi volanti) “La breve favolosa vita di Oscar Wao” di Junot Diaz o anche “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. Questa volta sono critico.

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