Alessandro Robecchi “Il tavolo” Repubblica “Italia in giallo” 10 s.p.
(omaggio di Repubblica)
[A: 15/11/2020 – I: 24/11/2020 – T:
24/11/2020] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno:
2014]
Tratto
da “Vacanze in giallo” di Sellerio del 2014, tradisce entrambi i presupposti:
sia vacanze sia giallo. Anche se la scrittura è la classica del primo Robecchi.
Non a caso è un racconto di sei anni fa. Quindi, largo al personaggio
principale ed iniziale del nostro, il buon Carlo Monterossi, autore televisivo
di programmi trash che mentalmente rifiuta ma che gli danno da vivere.
La
scrittura datata (per quanto conosciamo ora del “mondo Monterossi”) ci lascia
soltanto la presenza dell’amico Oscar, quello che sa un po’ di tutto, conosce
un po’ tutti, quindi (alla Tarantino) risolve i problemi, e quella di Katia, la
manager di Carlo, al tempo ancora ossequioso di chi le consente un tenore di
vita adeguato alle sue aspettative.
Dicevo
che non rispetta gli assunti della raccolta in cui fu inserito, che di vacanze
se ne parla soltanto. Certo siamo in una Milano agostana, per cui molta gente è
via, tanto che si trova anche parcheggio. Ma le vacanze finiscono lì, che certo
Carlo pensava di andarci, se non avesse ricevuto la notizia bomba: il suo
farlocco promotore finanziario era appena fuggito con i suoi (di Carlo) 350.000
euro. Quindi si tratta di capire dove, come, ed in base a quali oscure manovre,
si possa ritrovare il fuggiasco e soprattutto il malloppo.
In
diagonale (cioè non ancora con tutti i piedi e le scarpe) vediamo entrare
nell’agone il buon sovraintendente Ghezzi, sempre alle prese con la macchietta
dei primi tempi: travestimenti assurdi con velocità “alla Fregoli”. Darà anche
una mano finale alla riuscita del piano di Oscar, ma non è ancora il
personaggio pensoso ed irrisolto degli ultimi tempi. C’entra, ma non ha un
ruolo di primo piano.
Dicevo
anche, quindi, che mancava il giallo. Perché sappiamo chi ha rubato i soldi, e
sappiamo che (grazie ai buoni uffici di Oscar) il furfantello è ludopatico
(tanto che molti casinò l’hanno bandito dalle loro sale) e vuole giocarsi il
tutto in una mano di poker. Quindi, ci si domanda, dove potrà mai essere il
giallo? La serata verrà organizzata, e si troverà il modo di fregare il
promotore truffaldino.
Tutta
la suspense (se così si può dire) si concentra quindi su alcuni aspetti di
contorno: riuscirà Carlo a convincere Katia a sedersi al tavolo da gioco?
Riuscirà Oscar ad organizzare l’incontro in un terreno possibile, in cui poter
inventare qualche stratagemma risolutivo? Sarà una partita di poker leale o
sarà truccata? Visto che il ladro, oltre che ludopatico sembra essere anche un
piccolo baro, mi aspetto che ci sia la partita, che Katia, convinta a giocare,
aiutata come secondo dal buon Oscar, scopra come il tizio bari, e da lì ci sia
una “discesa agli inferi” con relativo recupero del malloppo.
Tutto
si complica che la sala pensata da Oscar non è disponibile, devono andare in
trasferta, ed allora capisco che il mio piano (che quello descritto era il mio
piano e non quello di Robecchi) era destinato a fallire in partenza.
Tuttavia,
le risorse di Oscar sono notevoli, e, una volta i pokeristi al tavolo verde,
trova una soluzione al problema che porta tutto dove deve andare. Soluzione che
non vi anticipo, ma che porta a quello che tutti sappiamo dovesse essere la
conclusione naturale del racconto.
Che
poi si intitoli “Il tavolo”, quando il nodo centrale è sì un tavolo ma di un
ben preciso colore, tanto che io lo avrei chiamato “Il tavolo verde”.
Ma io
non sono un editor, sono solo (e con mia gioia) un lettore che accumula pagine
su pagine. E che ha letto tutto il pubblicato romanzesco di Robecchi. Quindi
posso fare collegamenti e paragoni. Con il risultato che trovo sicuramente più
gradevole la tipologia dei personaggi dei primi romanzi di Carlo Monterossi e
compagnia. Ma trovo anche che questi non sono adatti al racconto. Mentre le
loro tipologie tarde ed attuali potrebbero anche sopravvivere bene nel numero
di pagine limitate di tali espressioni letterarie.
Devo
anche sottolineare che ci sono pochi giochi metaletterari e di rimando, poche o
nulle citazioni musicali. Insomma, un racconto di fattura industriale e non
artigianale. Con un gradimento di simpatia verso l’autore e poco altro.
Gaetano Savatteri “La città perfetta”
Repubblica “Italia in giallo” 12 s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 15/11/2020 – I: 29/11/2020 – T:
29/11/2020] &&&--
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno:
2018]
Savatteri con il suo scrittore detective
improvvisato nonché filosofo a tempo perso, si sta imponendo nelle mie memorie
di personaggi che ha un senso seguire nella loro evoluzione attraverso i libri.
Ho letto già qualcosa, specialmente racconti, ed un romanzo lungo (e vedo la
serie in tv, che non è affatto male). In tutti mi sono sempre trovato empatico
con il mondo che ne viene descritto. Non a caso ricordo che nell’unico romanzo
lungo c’era una citazione di Triscina che mi ha fatto fare un salto indietro
davvero con commozione.
Anche qui, l’ambiente è forse la cosa migliore. Che
tutto si svolge a Gibellina, sia vecchia che nuova. E soprattutto nella valle
(terremotata) del Belìce. Inciso: ebbene sì, questa è la pronuncia corretta,
derivante dal fiume che gli arabi chiamavano “U-Bilìk”. E da sempre, i locali
mettono l’accento sulla “i”. Fu colpa della RAI, nel ’68, ai tempi del
terremoto, che mandando incolti giornalisti sul posto, questi cominciarono a
pronunciare il nome all’italiana, con l’accento sulla “e”. Potenza dei media,
ora quasi nessuno chiama i posti con il nome corretto.
Questa disquisizione, e tutte le parole che Savatteri
spende per la città, per gli artisti, per le sculture ed i quadri, per il
terremoto, per il “cretto” di Burri, portano in alto il gradimento del breve e
veloce scritto. Che altrimenti avrebbe invece poco seguito e poca
considerazione.
Perché se d’Italia ce n’è, di giallo, di suspense,
non si vede nulla, neanche cercandolo tra le pieghe non dette delle righe. Il
motore della storia è la visita ai luoghi che fanno i nostri tre protagonisti
principali delle storie sicule di Savatteri: lo scrittore Saverio Lamanna, la
sua forse fidanzata ma di certo architetto Suleima, e l’amico nonché alter-ego
ruspante Peppe Piccionello. Visita propiziata da una presentazione libresca cui
deve partecipare Saverio. E che Suleima sfrutta per parlare della ricostruzione
di Gibellina, dell’architettura all’avanguardia di alcuni luoghi siciliani
(tipo lo ZEN di Palermo), che vengono poi degradati dal cattivo uso strutturale
che ne viene fatto.
Anche al convegno si parla, com’è ovvio, di
Gibellina. Suscitando l’ira di locali che vedono anche lì parole su parole, ma
nulla di concreto. Il “giallo” tra molte virgolette, è la scoperta poco dopo
della scomparsa dal museo cittadino di uno dei pezzi pregiati: un arazzo di
Boetti. Non entro nella descrizione né delle opere di Alighiero e Boetti (così
si firmava l’autore), né nella bellissima presentazione del “Cretto” di Burri
che ci fa Suleima. Altri esperti d’arte migliori di me ne possono e ne devono
parlare.
Qui torniamo al filo del discorso: furto, indagini
di Saverio, qualche evento collaterale, ma questa parte, che serve a
giustificare la “giallosità” del racconto, è inessenziale. Mentre è più
coinvolgente tuta la discussione sulla ricostruzione, sullo spostamento della
città nel nuovo sito, sulla tristezza delle vie vuote di vita della nuova
Gibellina, sulle possibilità, purtroppo non sfruttate, dei regali artistici
presenti. I Burri, i Boetti ma anche Fausto Pirandello, De Pisis, Rosai,
Guttuso, Carla Accardi, Mario Schifano. Un patrimonio di arte contemporanea di
assoluto valore. Ma il Museo è spesso chiuso, tanto che anche nella mia ultima
visita non sono riuscito a visitarlo.
Sono completamente solidale con le posizioni che
Savatteri mette in bocca ai suoi protagonisti, specialmente Suleima,
sull’occasione mancata che tutto ciò ha portato con sé. Si dovrebbero
organizzare, e con frequenza, visite ed altre iniziative, che il posto, le
opere, le idee sono bellissime. Peccato.
Ma qui si parla di libri, e se “la città perfetta”
è un buono spunto di discussione sociale, il testo rimane a livelli poco
coinvolgenti in tutta la parte non artistica. Comunque, andate a Gibellina,
andate e visitate il Belìce, e tutta la Sicilia. È sempre meravigliosa.
Marcello Fois “Ti ho fatto male” Repubblica
“Italia in giallo” 13 s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 28/11/2020 – I: 05/12/2020 – T:
05/12/2020] & e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno:
2016]
Erano
quattro anni che non leggevo romanzi di Fois, e un paio che dribblavo i suoi
racconti. Devo dire che, come ho scritto nelle ultime recensioni sui racconti,
non riesco a seguire bene l’evoluzione di Fois. I romanzi sardi, le storie tra
lo storico ed il reale, mi avevano discretamente coinvolto la testa. Ora c’è
invece poco. E qui quel poco scende ancora di mezzo gradino.
C’è un
po’ di atmosfera. C’è un po’ di suspense per cercare di dipanare la nebbia che
Fois solleva intorno agli avvenimenti. Ma non c’è una vera presa sul lettore,
non mi sono mai sentito coinvolto dalla trama. Si vede, si svolge il film delle
azioni, si capisce dalle prime pagine che sotto c’è qualche strano
rivolgimento. Comprensione accentuata dall’uso attento dei tempi verbali. Ma se
li si coniuga attentamente, poco rimane.
Alla
fine, veniamo a conoscenza, rimettendo a posto i pezzi del puzzle, della storia
del commissario Cosimo Spano. Sposato da anni, senza figli, un rapporto con la
moglie che si sta deteriorando a poco a poco. Tanto che, un po’ per noia, un
po’ per gigioneria (è sempre bello sentirsi piacenti e desiderati) comincia una
storia senza particolare futuro con una collega ispettrice.
Sappiamo
che Spano sul lavoro ha delle egregie capacità deduttive, tanto che aveva
risolto, brillantemente, l’intricata vicenda di un certo Alter, che, in maniera
rocambolesca, aveva ucciso delle persone, ingarbugliandone le vicende, tanto da
sembrare lui vittima piuttosto che carnefice.
Sappiamo
poi che la moglie viene trovata barbaramente uccisa, e che lui ne rimane
particolarmente sconvolto. Tanto che si allontana dalla questura, prende un
tempo, anche lungo, per riattaccare i suoi cocci personali. Ed in questa
“vacanza mentale”, ne seguiamo voli e ricordi.
Questi
intarsi sono, nelle descrizioni, nelle pitture mentali, nel modo che ha Fois di
proporceli, forse la parte migliore. Il viaggio in treno, con gli alberi
(betulle) che corrono ai lati dei vagoni, e che nella mente e nel ricordo si
trasformano nelle nervature gotiche di una cattedrale. Il senso di vergogna di
assistere alla lite tra i genitori, la rabbia interna che però non viene mai
fuori. Ed i silenzi stessi della cattedrale, dove Cosimo si siede nelle ultime
file, dove mulinano i suoi pensieri, dai quali si ricompone il quadro che ho
invece cercato di descrivere in maniera lineare.
Tuttavia,
tutti i personaggi non riescono mai a prendere un loro corpo pieno, una loro
dimensione. Seppur innegabile che Fois dietro le parole mette pensieri e modi
di scrittura che sono necessariamente di buon livello, ripeto che il testo non
prende, non si innalza, non ci porta nelle volute mentali dei personaggi. Di
Cosimo, della moglie, del questore, dell’ispettrice amante, insomma di tutte le
non molte persone che riempiono le poche pagine. Peccato.
Nella
lettura, mi ha solo rimandato ad un film in bianco e nero che vide allora sui
dieci-undici anni, quando, malato per una qualche influenza, rimasi a casa a
vedere le trasmissioni sperimentali per l’avvio di Rai 2 (mi sa che sono un po’
anziano, eh). Un film che, come tutti i giovanetti, mi aveva coinvolto perché
era un giallo ben fatto. Poi mi aveva deluso e devo dire spaventato per il
finale cui arrivava. Dico rimandato, ma solo nel ricordo, che qui paura e
thrilling tendono decisamente allo zero.
Giampaolo Simi “Il comandante Oberdan”
Repubblica “Italia in giallo” 14 s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 21/11/2020 – I: 07/12/2020 – T:
07/12/2020] &&&--
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno:
2019]
Un
altro racconto dalla scuderia Sellerio, proveniente dalla raccolta “Cinquanta
in blu” uscita nel 2019. Intanto, di Simi ho letto qualcosa un paio di anni fa,
e non ne sono rimasto particolarmente attratto. Buona scrittura, ma abbastanza
debole sul fronte del giallo.
Qui,
la storia si ripete. Buona l’idea, lo sviluppo, insomma tutta la scrittura. Ma
di giallo nemmeno una traccia, un’ombra. Dice la quarta: “un’indagine di Dario
Corbo”. Ovvio che Dario c’è, ma dell’indagine poche tracce.
Di
certo Simi non poteva cominciare in modo a me più congeniale il suo racconto,
visto che dedica un sentito, doveroso omaggio a MVM (Manuel Vazquez Montalban)
ed al grande Pepe Carvalho. Un autore che ho sempre amato, un investigatore che
mi ha sempre lasciato soddisfatto in tutte le opere. Anche se confesso il vezzo
di accendere il camino con i libri mi ha sempre un po’ spiazzato.
Tra
l’altro, il secondo omaggio a MVM nel corso del racconto, mi ha fatto sentire
anche più vicino. Qui Corbo ritrova una copia di un mitico Sellerio “Assassinio
al Comitato Centrale” autografato da MVM. Io ricordo ancora quando, durante un
antico festiva della Letteratura a Massenzio, portai con me “Yo maté Kennedy”,
e MVM lo firmò con un sorriso sulle labbra, da non dimenticare.
Nel
racconto, la memoria di MVM, si collega ad altre memorie, in particolare a
quella dell’amico di Dario, il comandante Oberdan del titolo. Amico di infanzie
e di liceo, sodale di passeggiate notturne, ma anche di un viaggio a
Barcellona, molto simile a quello che facemmo io ed Andrea. Amicizie che poi si
stemperano nel tempo, ma di cui rimane sempre traccia nella memoria. Così,
quando Dario ricerca Oberdan per restituirgli il libro autografato, si
innescano una serie di avventure e di situazioni che poi costituiscono
l’ossatura del testo.
Dario,
infatti, è diventato responsabile di una Fondazione, ha soldi da investire, ed
un capo, Nora, con cui forse ha del tenero (reciproco?). Oberdan ha poi fatto
il suo corso di studi, maturato al Nautico, poi imbarcatosi in navi pubbliche
poi private, diventando realmente “un comandante”.
L’atmosfera
si immerge nella realtà (odierna, italica), che abbiamo elezioni con candidati
improbabili, ma velatamente pentastellati. Ed abbiamo migranti lasciati in
mezzo al mare da governi compiacentemente ostili. Oberdan, da duro e puro, e
soprattutto, da uomo di mare, non può assistere impotente alla morte in mare di
migranti, qualunque essi siano. E tenta un gesto forte, un sequestro, per
spingere il governo a prendersi le responsabilità del caso.
Si
scambiano messaggio, Dario e Oberdan, e Dario convergerà sulla nave
sequestrata. Di certo la fine è già immaginabile, e non si comprende se, nei
tumulti delle azioni veloci (che non sono nelle corde di scrittura di Simi e
risultano assai confuse) ognuno agirà in modo corretto e coerente. Noi,
osservatori esterni, sappiamo di sì. Non si sa mai, quando si è interni
all’azione se la prospettiva sia la stessa.
Come
si intuisce, una trama decentemente solida ed italica. Amicizie, qualche amore,
gioventù e maturità, elezioni e immigrazione. Ma decisamente lontana dal giallo
che più non si può. Avrebbe infatti meritato anche di più, ma qualche pecca del
responsabile della collana ci porta a qualche linea negativa.
Nicola Fantini & Laura Pariani “Il
rasoio di Asimov” Repubblica “Italia in giallo” 16 s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 28/11/2020 – I: 09/12/2020 – T:
09/12/2020] & +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno:
2014]
Un
racconto veramente deludente, abbastanza sconclusionato, se preso in sé. Mi
dicono ricerche in rete che altrove, in altri libri, in altri romanzi, la
coppia di scrittore si esprime meglio e con più coinvolgimento. Qui, data la
brevità del testo ed il continuo rimando ad informazioni contenute altrove e qui
non decrittate, molte cose rimangono oscure ed immotivate.
Non avendo letto nulla dei due autori, né
singolarmente né in coppia, prendo quanto in rete con il beneficio
d’inventario, e mi riferisco a questo testo come unica mia pietra di paragone.
Intanto, premetto che di giallo c’è quasi un’ombra,
e poco di più. Dopo una serie di avvenimenti poco chiari, c’è un tentato
suicidio che porta allo smascheramento di una fantomatica setta, di bulli ed
altro, che si rifà a Rimbaud, utilizzando per motto una sua frase (“Questo è il
tempo degli Assassini”). Anche se la poesia “Matinée d'ivresse” termina con la
frase “Ecco il tempo degli Assassini”. E qui di giallo c’è poco.
I protagonisti del racconto sono Mirella
Cossati, sessantenne insegnante d’italiano, ed il marito Beppe Isnaghi,
pensionato. Da quello che si capisce tra le righe (ed è qui che saltano i
rimandi ai testi più estesi dei due), Beppe fa parte di qualche collettivo duro
e puro, con il mito dell’Unione Sovietica, di cui ne esalta le grandezze sportive
(tendenzialmente verso uno sport che in Italia è praticato da uno dei più
ristretti numeri di appassionati: l’hockey su ghiaccio), e con la tendenza a
produrre documenti criptici sulla situazione italiana e mondiale. Questo
collettivo viene indicato con l’acronimo “CSOVIA”, di cui non viene data
spiegazione e che non sono riuscito a identificare.
Mirella è molto presa dalla sua missione di
insegnare la lingua a classi sempre più eterogenee, direi multietniche. Laddove
a volte, gli extra milanesi sono più ferrati che i bamba locali (vedi la
ragazza di origini rumene). Correggendo il tema di una sua prima, dedicato alle
persone che mi stanno antipatiche, Mirella tira fuori un puzzle di informazioni
che convergono sulla personalità e sulle gesta di due ragazzi di terza, Leo e
William. Descritti come violenti, approfittatori, tendenzialmente maschilisti e
razzisti. Uno spunto, per indagare nel mondo giovanile, senza però né capirne i
motivi, né farceli capire a noi.
Certo, i due hanno il mito del pazzo norvegese
autore di una strage alcune anni fa. Si riuniscono in quel collettivo di marca
“Rimbaud” sopra citato, fanno incetta di CD pornografici, ma anche di soldi di
dubbia provenienza. Soldi che Mirella inavvertitamente requisisce, scatenando
la catena di eventi che, se ne avete voglia, potete seguire leggendolo. Anche
se, personalmente, non ve lo consiglio.
Rimane il mistero del titolo. Quando,
sommersa da tutte le informazioni derivanti dai temi, a Mirella viene la
sensazione che ci sia qualcosa di losco, Beppe tira fuori la citazione del
“rasoio di Occam”, esprimendolo come “le ipotesi più semplici sono le più
sensate”. Anche se la citazione originale di Occam sarebbe: “è futile fare con
più mezzi ciò che si può fare con meno”. Ma questo è il meno, perché Beppe è un
forte lettore di fantascienza, letture che il CSOVIA non approva molto (ricordo
che il titolo del suo intervento al comitato è “Ecosostenibilità del piano
quinquennale in quattro anni”). E da lì tira fuori il mio amato Asimov, dove,
per pareggiare il conto con Occam, utilizza come rasoio, cioè come elemento che
ronca le discussioni, il libro “Neanche gli dèi”.
Beh, forse non molti conoscono Asimov, e non
molti conoscono il romanzo citato, pur uno dei più belli, secondo me. Ma quello
che ancor meno gente sa, è da dove viene il titolo del romanzo. Che non è altro
che una citazione di Nietzsche, che dà il titolo ai tre capitoli del libro:
“Contro la stupidità, neanche gli dèi, possono nulla.”
Il minimo punto in più lo do per questa
citazione, che dovrebbe spiegare qualcosa, nell’intento degli autori, ma che,
rimanendo oscura, spiega forse qualcosa a me. Che è meglio tornare a leggere
Asimov ed evitare i libri dei nostri autori.
Come
ben sanno i miei lettori abituali, la quarta domenica del mese scivola via,
senza allegati e senza troppo numeri. Ma come si sa, è timo di ricordi e
pensieri. Così, e se non lo avete letto leggetene, penso a Richard Brautigan
che nel suo “American Dust – Prima che il vento si porti via tutto” così
esprimeva un mio pensiero: “sono ancora alla ricerca … di una risposta
anche solo parziale alla mia vita e, man mano che mi avvicino alla morte,
questa risposta si fa sempre più lontana”.
Per ora si avvicina solo la Pasqua, ed un altro mese di coprifuoco duro e puro. Non so se resisterò ancora per molto, ma di certo mi fa conforto e compagnia la vostra amicizia.