domenica 6 giugno 2021

Italo-selleriana - 30 maggio 2021

Come avevo accennato nell’ultima trama, per problemi di sincronia tra computer, ho dovuto invertire gli invii tra l’ultima di maggio e la prima di giugno.

Quindi, l’ultimo maggio, è dedicato alla casa Sellerio e ad alcuni dei suoi autori eponimi italiani. Abbiamo quindi l’ultimo Manzini con Rocco, di buon livello, e l’ultimo Robecchi con Carlo Monterossi, in calando. In mezzo, il recupero di alcuni racconti di Schiavone che servivano all’autore per ricongiungere le varie fasi del suo investigatore, ma non molto riusciti. Meglio, anche senza i vecchietti del barLume la seconda avventura del Pellegrino Artusi di Malvaldi.

Antonio Manzini “Ah l’amore l’amore” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)

[A: 27/01/2020 – I: 09/11/2020 – T: 10/11/2020] &&&--- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 335; anno: 2020]

Ed eccoci, con una velocità inaspettata, a leggere dell’ultima avventura di Rocco Schiavone. Con una buona dose di rimpianti. Perché se è sempre piacevole leggere delle avventure del nostro amato vicequestore (non commissario, per carità), rimane il rimpianto di una storia poco avvincente, quasi di congiunzione verso nuovi aspetti della vita valdostana.

Purtroppo, Manzini è rimasto troppo invischiato (anche se giustamente) dalla trasposizione televisiva di Rocco e dalla interpretazione di Galliani. Quindi anche qui, più che alla storia gialla in sé, sebbene presente, sembra costruire una scenografia per la prossima trasposizione in immagini del suo scritto.

Intanto, come tutti i buoni seriali, ci si collega alla precedente puntata, terminata con il ferimento del nostro, e con il dubbio che instillavo: c’è lo spazio per far morire Rocco e finirla qui, oppure per riprendere e continuare le vicende. Manzini sceglie (e gliene siamo grati) la seconda strada. Dove si scioglie uno degli interrogativi sospesi alla fine del precedente, ma ne sorgono altri.

Comunque, sia che Rocco essendo ferito sta in ospedale, sia che l’ospedale è sulla cresta dell’onda di questi tempi, ecco che buona parte della vicenda proprio lì si svolge. Sia la parte “nera” sia la parte rosa (o almeno parte della parte). Il lato “noir” della vicenda si incista sulla morte sul tavolo operatorio di tal Roberto Serchia (notate RS…) per uno scambio di sangue durante una nefrectomia. Colpa dei medici? Incuria? La soluzione viene già dalla seconda pagina (o almeno io lì avevo puntato il dito su… e di certo mica ve lo dico se ho indovinato). Tutto quello che fa Manzini è intorbidire le acque. Si scava sul passato del morto, sulle relazioni familiari (moglie freddina, figlio rampante, ex-amante agiata, figlio segreto, e via complicando). Questo dà modo di sviluppare i soliti temi di riflessione, pedinamento, scioglimento del mistero. È tuttavia la parte che coinvolge meno, purtroppo.

Poi ci sono il mondo di Rocco e tutte le relazioni personali ed interpersonali che si sono andate costruendo ne tempo intorno alla vicenda. Fortunatamente c’è poco di Rocco e Marina, che quel legame (forte, indissolubile, e che non potrà né dovrà essere dimenticato) lega troppo anche i comportamenti del nostro. Che in realtà qui tenta di portare avanti altri momenti ed altre storie, in particolare con quella che più volitiva si era dimostrata nelle precedenti puntate. La giornalista Sandra, che a Rocco non dispiace, e con cui proverà una storia. Come finirà si vedrà, un po’ qui ed un po’ là. Per fortuna non va avanti il possibile intreccio con Cecilia, che sarebbe stato deleterio, per lui e per Gabriele. Ma sullo sfondo rimane sempre il mistero “Caterina”, che a Rocco credo proprio sia rimasta nel cuore per alcuni aspetti e nel cervello per quelli poco simpatici. Sullo stesso versante troviamo risolto il mistero di chi ha sparato a Rocco (e qui ho fatto un buco nell’acqua, pensavo proprio ad altro), mentre si infittisce il problema della vendetta del pentito. L’amico Seba è sulle sue tracce, e l’ex-pentito è sempre in giro. Anche qui, si dovrà aspettare altri momenti.

Inciso (e preveggenza): se fosse per me legherei il comportamento di Caterina a questi fatti, risolvendolo in maniera positiva. Che so, uno scudo che si voleva mettere a protezione di Rocco, per provare a smantellare una qualche rete di cattivi.

Poi abbiamo gli altri personaggi della rete di Rocco. C’è il suo vecchio numero due, Italo, che però vediamo scivolare verso altri lidi ludopatici, come se Manzini volesse in qualche modo trovarne una via d’uscita, non riuscendo a fare evolvere il personaggio. C’è Casella, che si strugge d’amore per la bella vicina, e non trova di meglio che coinvolgere il di lei figlio in ricerche informatiche, così da starle vicino. Riuscirà in qualche modo a vincere la timidezza, e fare un grande passo? Passo che ha fatto l’anatomopatologa Michela (quella brava professionalmente ma dai complotti strani in testa) che sembra ormai di gran carriera accompagnarsi con il medico delle autopsie (come direbbe una pessima battuta, Dio li fa e poi li accoppa).

La gag meglio riuscita è però quella del viceispettore Antonio Scipioni, ormai il vero numero due di Rocco, dopo aver passato gli esami. Che si accoppiava con ben tre signore. Peccato che quelle, pur se di stanza in quel di Senigallia, quindi lontano dal campo minato aostano, erano due sorelle ed una cugina. Peccato inoltre, che, per una serie di circostanze si trovano quasi a convergere verso Antonio, costringendolo a fare una scelta: inventare altre bugie o sciogliere dei nodi? Forse questa parte ironica è l’unica che salverei in toto dal romanzo. Magari non eccelsa, ma più convincente ed in linea con le prime schermaglie “manziniane”.

L’autore comincia a far uscire anche altri scritti senza Schiavone, ma per ora non ho interesse a perseguirli e rimango attaccato al mitico personaggio. Finalino: avrete certo capito, date le ultime righe della mia tramatura del perché di questo titolo amorevole…

Antonio Manzini “L’anello mancante. Cinque indagini di Rocco Schiavone” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)

[A: 07/05/2018 – I: 07/01/2021 – T: 08/01/2021] && e ¾  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 244; anno: 2018]

Ovviamente sapevo che erano racconti, ed anche per questo, nonostante la benevolenza per il vicequestore Rocco Schiavone, ho fatto aspettare il suo turno a questo libro. Cui alla fine do un voto di stima, che in realtà nella sostanza, non è che mi sia piaciuto granché.

Innanzi tutto, nel testo, che non ci sono racconti veramente intriganti. Secondo poi, nel contesto, perché l’operazione di Sellerio che pubblica e ripubblica i racconti dei pupilli della sua scuderia è commercialmente valida, ma personalmente inqualificabile. In particolare, laddove si millanta che i racconti siano “un anello mancante” della storia di Rocco. Ora, a parte che la ricerca dell’anello mancante nella catena evolutiva è uno dei pezzi del puzzle darwiniano che ancora non convince tutti, come facciamo a restare sereni quando questa metodologia di indagine (per così dire) viene messa al servizio di una ricostruzione biografica di un personaggio fittizio.

Quindi, mentre le storie romane riempivano un vuoto della vita precedente di Rocco, prima del suo esilio aostano, qui siamo tra i monti ed il freddo. L’altro dato, è che, su cinque racconti, tre ne avevo già letti, con conseguente poco impegno nella lettura. Mancavano il primo ed il terzo, e per fortuna, proprio il primo è il meglio riuscito, mentre il terzo è assolutamente inutile.

Manzini fa un po’ di sforzo per situare e storicizzare i testi nell’introduzione, ma ci sarebbe voluto uno sforzo maggiore, magari intervallando i testi con commenti sull’evoluzione del personaggio.

Il primo L’anello mancante” (da “La crisi in giallo” 2015) si svolge tre settimane dopo l’arrivo di Rocco ad Aosta (quindi poco prima del primo libro “Pista nera”), ed il nostro è subito coinvolto in un mistero: esumando una salma (femminile) si trova insieme a lei un corpo maschile. Il racconto serve a dare un po’ di carattere a Rocco ed alla sua squadra. Ma il giallo è di poca fattura, basandosi sulla scomparsa di un anello (e quindi molto lontano dall’ipotesi di un collegamento con Darwin) e risolto abbastanza presto. Il testo serve solo a porre in evidenza, da subito, il modo personale di concludere le indagini di Rocco, quasi che la giustizia sia un suo affare privato.

Con il secondo testo “Castore e Polluce” (da “Turisti in giallo” 2015) ci si sposta un po’ avanti nel tempo, ed il nostro vicequestore viene immerso vieppiù nelle atmosfere montane della vallata. Ma di più non ne parlo, avendone scritto da poco ed in modo più articolato parlando della collana “Italia in Giallo” (uscita colà con il numero 2).

Dicevo del terzo “… e palla al centro” (da “Il calcio in giallo” 2016) come di un racconto assolutamente inutile. Le forze dell’ordine aostane allestiscono una partita di pallone di beneficenza tra poliziotti e magistrati. Rocco viene coinvolto a forza in questa rottura di palla del nono livello, e troverà il modo subdolo di vendicarsi. Ma di giallo non c’è nulla. Qualche elemento di “pittura” in più sulla squadra di Rocco, sembra però solo un giallo su commissione e forzatamente tematico.

Il quarto, “Senza fermate intermedie” (da “Viaggiare in giallo” 2017), è sicuramente più gradevole, per cui riporto quanto ne scrissi a suo tempo: “Qui troviamo Rocco che, per sfuggire a tediose commemorazioni, decide di fare un breve salto nella “sua” Roma, anche se per una riunione condominiale. Non ci perdiamo le colorite uscite del nostro, anche se, nel Frecciarossa, non si fuma. Soprattutto se, da Milano a Roma, non si fanno fermate. Ma Rocco ha modo di trovarsi all’interno di un piccolo furto (o grande, dipende dai gusti). Forse inspiegabile, ma che si ripete spesso, stante il personale delle ferrovie. Facendo un rapido confronto con i tabulati delle persone, con i posti delle stesse, e con l’inopinato fuori uso delle toilette (endemico problema dei treni), il caso è presto risolto. Con Rocco che, finalmente, potrà farsi una passeggiata nelle vie della città che mai non dimentica. Veloce ed indolore.”

L’ultimo, infine, “L’eremita” (da “Un anno in giallo” 2017) aveva un suo senso soprattutto nella catena di Sant’Antonio che era l’idea forte della raccolta: un racconto al mese, con un aggancio tra l’uno e l’altro. Questo era l’ultimo, cioè dicembre, e, per chiudere il cerchio con gennaio dedicato a Camilleri, il buon patologo Fumagalli, al nostro Rocco influenzato e convalescente, regala due storie di Montalbano. La storia in sé è abbastanza lineare, laddove muore un eremita, che si scopre essere stato un prete, scomunicato “latae sententiae” per aver violato il segreto confessionale. Una volta interpretata la sentenza apostolica, il resto è un ruscelletto che va da solo a valle, finendo con un’ulteriore prova, seppur laterale, dell’umanità di Rocco.

Alla fine, tuttavia, nulla aggiunge alle storie di Rocco meglio espresse nei romanzi lunghi. Né aumenta o diminuisce il mio senso di gratitudine verso Manzini per aver pensato e scritto la serie di romanzi con protagonista il vicequestore.

Marco Malvaldi “Il borghese Pellegrino” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 13,25 euro)

[A: 18/06/2020 – I: 08/01/2020 – T: 09/01/2020] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 276; anno: 2020]

Costretti in un forzato lockdown sorianese, parafrasando Troisi, direi “non ci resta che leggere”. Così i libri scorrono, uno dopo l’altro, molto velocemente. Anche se, per mia disposizione di lettura, sempre riesco ad entrare nell’atmosfera, nel tessuto narrativo. A volte mi piace e ne sono coinvolto, a volte ne leggo un po’ distaccato. Come in questo caso.

Se dal punto narrativo sono passati cinque anni, dal soggettivo dell’autore ne sono passati dieci da quando utilizzò per la prima volta Pellegrino Artusi in uno scritto di fiction giallo storica. In entrambi i casi si sente. Che la scrittura di Malvaldi è un po’ meno lieve, seppur rimanendo un fior di penna e di citazioni. Ma la soluzione del problema poliziesco avverrà utilizzando le ben note conoscenze di Malvaldi in campo scientifico. Nella fattispecie citando e ricordando la famosa “grotta del cane” di napoletana memoria.

Dicevo che si sente anche nell’Artusi, visto che ora siamo nell’ottobre del 1900, ed il nostro cuciniere è ormai ottantenne. Si mantiene bene, ma solo nel gusto e nell’olfatto, che tutte le altre pulsioni vitali ormai sono passate in cavalleria. Tuttavia, Artusi non si dimentica del suo libro e delle sue ricette. Come quella che darà il via alle riflessioni di Artusi e del delegato Artistico, che già avevamo visto sodale ed attore nel primo libro del Pellegrino. Ricetta che viene citata con il numero 176, ma che a me, nell’ultima versione de “La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene” viene riportata con il numero 212.

A proposito di ricette, poi, Malvaldi ne cita una che il turco Aliyan vuol cucinare per Artusi, non riuscendoci per vari motivi. Lì ne viene descritta la versione vegetariana, chiamata “Muhammara” (che deriva da “ahmar” rosso) dove ci sono peperoni arrostiti, conditi con noci e melograno. E si cita la versione con carne, chiamata “Acem Yashini”, dove ai peperoni si sostituisce il pollo. Alcune precisazioni, quella con i peperoni è siriana e non turca; mentre quella con il pollo è turca e citata da Jason Goodwin nel magnifico “L’albero dei giannizzeri” (vicenda che ho ricostruito dai ringraziamenti finali di Malvaldi, che potevano essere più espliciti).

Al solito, in questa tipologia di gialli, si devono mescolare storia e fiction. Così, oltre al Pellegrino, qui abbiamo due immissioni importanti: da un lato il fisiologo e igienista Paolo Mantegazza e dall’altra la struttura storica di gestione del debito pubblico turco e delle commesse tra Turchia ed altri stati denominata Consiglio di amministrazione del debito pubblico ottomano (CADPO). Della seconda ne ho trovato poca traccia, se non per una curiosa coincidenza, laddove intorno al 1890 ci fu un grosso contenzioso tra il CADPO e l’Italia, dove quest’ultima era guidata dall’ambasciatore in Turchia, conte Alberto Blanc, che pochi anni dopo comprò una vigna sulla via Nomentana, e vi costruì una bellissima villa liberty, la ormai per me famosa “Villa Blanc”.

Seppur il CADPO entri nella storia, altrettanto interessante è l’entrata di Paolo Mantegazza, sia perché, in veste di medico, convince Artusi ed Artistico che la morte del dottor D’Ancona non è naturale, sia per alcuni interventi, notoriamente a tavola, intorno alla fisiologia ed alla neurologia, propugnando e spingendo per l’acclamazione del darwinismo come dottrina esatta per la descrizione dell’evoluzione umana.

Il nodo del testo, dopo tutti questi svarioni laterali, si snoda intorno al mangiare. Il commendator Gazzolo vuole spingere per la vendita alla Turchia di carne in scatola, secondo una sua personalissima ricetta. Invita così nella sua magione l’Artusi, come maestro cuciniere, il dottor D’Ancona, delegato del CADPO, con il suo omologo turco Reza Kamal Aliyan, il ragionier Bonci, che vuole entrare in affari con i turchi, accompagnato dalla figlia Delia, ed il dottor Viterbo, revisore dei conti della società di Bonci.

Tra una tavolata e l’altra, si rivela che qualcuno sta cercando di truffare o frodare i turchi, ma prima che D’Ancona sveli il mistero, viene ucciso in una sorta di delitto della stanza chiusa. Delitto come detto che verrà svelato da Artusi ed Artistico. Senza per altro farci mancare molti elementi al contorno: Viterbo che, invaghito di Delia, non controlla bene i conti; Delia che cerca di sottrarsi dalle grinfie del padre, magari commettendo qualche sciocchezza con il bel turco; la presenza costante e partecipante dei domestici: il maggiordomo Bartolomeo, che incarna fino all’ossessione quella tipologia di maggiordomo ben descritta da Ishiguro in “Quel che resta del giorno”, e la cameriera Crocifissa detta Crocetta, ben attenta a quanto succede, pronta d’occhio e sveglia d’intelletto (sul comodino tiene un libro di Verga).

Malvaldi gioca con i personaggi, ed un po’ con noi. Come quando scimmiotta, ma fino ad un certo punto, una delle più alte vette del poliziesco di ogni tempo: “L’incubo” di Mary Roberts Rinehart (se lo conoscete, capirete perché; altrimenti ve lo dirò, ma in separata sede). E gioca con le poste, laddove il D’Ancona preferisce ai Servizi Postali, l’utilizzo di piccioni viaggiatori.

Come nell’altro libro, nell’epilogo finale, Malvaldi cerca di spiegare alcuni punti oscuri del testo, ma dovrebbe, forse, scrivere un nuovo libro a corredo per elencarli tutti. Io ricordo solo che un piccione nel 2009 ha trasportato più velocemente una scheda USB con 4 giga di info, rispetto ad un uploading tra computer via ADSL della stessa quantità d’informazioni.

Insomma, il testo è leggerino con qualche punta di divertimento; Malvaldi è piacevole da leggere; il giallo si annega troppo in un contorno a volte troppo ricco, e pieno di spunti di natura diversa.

Alessandro Robecchi “Flora” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

[A: 25/03/2021 – I: 04/04/2021 – T: 06/04/2021] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 364; anno: 2021]

Ed eccoci allora, cotto e mangiato, all’ultimo libro delle avventure di Carlo Monterossi e del suo clan. Un libro decisamente, se possibile, ancora meno avvincente del precedente, che risale solo per aver tolto dall’oblio un interessante poeta e patriota francese, il surrealista Robert Desnos. Per il mio gradimento, avrebbe meritato 4 librini per la storia di Desnos, ed 1 per la trama in sé (e per la sua realizzazione). Il risultato è la media che vedete.

Intanto, dobbiamo sottolineare, con dispiacere, che nel libro mancano totalmente i due sovraintendenti che erano stati il cuore del romanzo precedente. Di Carella, neanche un cenno, di Ghezzi si dice sia fuori sede, e finisce lì. Così che del clan di Carlo rimangano la bella Bianca, sempre più vicina a prendersi il ruolo definitivo di fidanzata fissa, la ”tata” Katerina, maga della tavola e sempre più devota alla sua “calamita santa”, con cui parla ed a cui chiede miracoli, nonché la coppia di improbabili investigatori, Oscar e Agatina (anzi Oscar e Cirrielli, che l’ex-poliziotta sempre per cognome viene indicata).

Robecchi parta forte e punta alto fin dall’inizio. Ma a parte l’idea di fondo, non riesce a portare avanti una trama che tiene. È improbabile, con sviluppi prevedibili, e con sparate troppo scontate contro televisioni commerciali e compagnia cantante.

L’idea di fondo, dicevo, è il rapimento di Flora De Pisis, mitica conduttrice del programma creato da Carlo, il famigerato “Crazy Love”. Per tutto il romanzo, seguiamo allora il doppio binario: un capitolo dedicato allo sviluppo della prigionia e dei momenti ad essa connessi, il seguente dedicato ai nostri, alle loro indagini, ufficiali e no. Le parti migliori sono quelli dedicati ai sequestratori, anzi al capo della banda tipo misterioso, facoltoso, e con un’idea in testa (e non solo da ora, ma a cui dedica tutta la vita). I nostri sono lì, presi nelle loro routine quotidiane, ognuno alla ricerca del suo spazio, senza troppa verve. Con il risultato che Robecchi trovo il modo di fare lì le sue disquisizioni sulla televisione, anzi sul Gran Circo di Merda, sulla insulsaggine dei grandi capi, mutuati dal mondo Mediaset (anche senza nominarlo). Ma rimangono sparate un po’ fini a sé stesse, e senza dubbio alquanto fuori luogo nel contesto di un libro che avrebbe potuto essere più centrato.

Certo, siamo sempre attenti (e contenti) quando Monterossi cita ogni tanto il suo amato Bob Dylan, e riandiamo con l’orecchio alla musicalità di certi testi. Certo siamo altresì appagati dai momenti conviviali del clan, dalle prelibatezze culinarie di Katrina, all’onestà interiore di Oscar, alla guida spericolata di Cirrielli, ai momenti di intimità di Carlo e Bianca. Tuttavia, ci manca il momento ironico, l’alzata d’ingegno di Carlo quando, nei primi libri, si veniva a trovare in situazioni strane e stranianti. Dobbiamo comunque convenire che Bianca migliora di libro in libro, e che qui è l’unica che ha un’idea originale, che permetterebbe, se si volesse, di risolvere anzi tempo il rebus del rapimento.

Ma la televisione commerciale, i media, anche le forze dell’ordine, sono d’altro avviso, ed il sequestro seguirà il suo corso. Un corso strano, che i sequestratori, anzi il capo banda e la sua aiutante, chiedono compensi economici, ma quello che vogliono è un’ora di televisione, senza interruzioni, condotta da Flora e da loro gestita. Ovvio che otterranno anche questo. Unico momento di “piccola” suspense è capire se riusciranno a farla franca, o verranno fermati, magari dopo la trasmissione (che il Circo Mediatico vuole comunque vedere cosa uscirà fuori).

Il bello, l’unica idea forte, è proprio la trasmissione. Un’ora surrealista dedicata ad uno dei grandi esponenti del movimento, purtroppo caduto nel dimenticatoio.

Il capo riesce ad imbastire una bella ora di trasmissione, che si regge solo per il contributo positivo di Flora, sulla vita e le opere di Robert Desnos, poeta, esteta, giornalista, ma anche patriota e membro attivo della Resistenza. Ne seguiamo, anche se non in modo organico, la vita. Per chi non lo conoscesse, Robert nasce a Parigi il 4 luglio 1900, entra a far parte negli anni Venti del movimento surrealista, legandosi a Breton e Marcel Duchamp. È sua la scrittura del mitico personaggio Rrose Sèlavy, creato da Duchamp. È sua in quegli anni la storia d’amore con Yvonne George, la “misteriosa”, la cantante belga che morirà nel 1930 a Genova per tubercolosi in seguito agli eccessi di droghe abusati per anni. Desnos però prosegue nel suo cammino nel mondo letterario e artistico parigino, dove conosce tutti, da Hemingway a Picasso. Si accompagna spesso al ricchissimo pittore franco-giapponese Léonard Tsuguharu Fujita (quello che dipinse un imperdibile nudo di Kiki di Montparnasse). Tanto che si innamora della di lui moglie, Lucie “Youki” Badoud. Youki sarà il suo “amour fou”, Youki lascia il giapponese e va a vivere con Robert. Desnos negli anni Trenta si allontana da Breton (troppo comunista), pur rimanendo nel mondo social-liberale del tempo. si fa giornalista per campare. Ed allo scoppio della guerra non scappa, ma resta a Parigi, fungendo da tramite con la Resistenza. Non cessando mai la sua vena polemica, tanto da parlar male di Céline, e di prendere a schiaffi un notorio collaborazionista. Nel febbraio del ’44 viene arrestato dalla Gestapo, trasferito in diversi campi di concentramento. Minato nel fisico, benché l’8 maggio del ’45 l’Armata Rossa lo liberi dal campo di concentramento di Terezin, l’8 giugno muore di tifo in Ospedale.

Devo ringraziare per tutta questa parte (che poi ho cercato e ricostruito su Internet) che ritengo la parte migliore del libro, la parte che non mi ha fatto abbandonare una scrittura altrimenti poco accattivante. Consiglierei anche a chi è interessato di cercare notizie su una trasmissione radiofonica del 1933 realizzata da Robert Desnos ed altri surrealisti, dedicata a “Fantomas”, e dove la musica dell’emissione è interpretata da Léo Ferré.

Un solo punto “infelice” è la citazione di pagina 143, dove viene per la prima volta indicata Youki con il suo vero nome. Che non è (come dice la Sellerio e come riporta Wikipedia Italia), Lucie Badoul, ma Lucie Badoud (se volete leggere, anche se in francese, la storia di Youki consiglio il sito http://www.apophtegme.com/ARTS/DESNOS/youki01.htm).

Sfumiamo qui nel finale, senza dire altro del libro, senza dire altro dei “soliti” protagonisti, ma porgendo un riverito ringraziamento a Robecchi per la riscoperta di Desnos (ed al capo dei rapitori per averne fatto una trasmissione televisiva).

Essendo la quinta uscita di maggio, in allegato diamo spazio al recupero di nuovi libri per vecchie cure.

Ritornando ancor al 2007, lessi con immenso piacere uno dei più bei libri che mi sono capitati tra le mani e dedicati al Sudafrica. Parlo de “La polvere dei sogni” di André Brink. Di cui potrei citare pagine di citazioni, che era tutto un dire ed un rimandare alla memoria. Ed allora, dovendo fare una scelta, ecco che ve ne rilancio solo alcuni: “Ma tu di me cosa sai in realtà?”, “Com’è sconcertante scoprire che … il presente può essere afferrato solo dopo che è già scivolato nel passato”, “Sono andato a trovare i miei morti… finché ci sono loro io posso sempre tornarci”, per finire con il più bello “Sei così vecchia? L’età non è una questione di anni, ma di stile”.

Avendo fatto i dovuti auguri a chi sa, avendo inoltre passato una bella seppur faticosa settimana, della quale si saprà, cosa meglio lasciar tutto il resto in sospensione, inviarvi montagne di abbracci.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MAGGIO-GIUGNO 2021

In anticipo sulla Festa della Repubblica, una cura per recuperare qualcosa di vecchie letture.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

PREMESTRUALE, SINDROME

Vi fanno male le gambe. Vi vengono i brividi. Meglio fare piano. Qualcosa di troppo impegnativo potrebbe ridurvi in lacrime. Oggi restate sotto il piumone con la borsa dell’acqua calda e un buon romanzo per ragazze: il miglior analgesico del mondo.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUEI CERTI GIORNI

Isabel Allende                “La casa degli spiriti”

Thomas Bernhard           “Perturbamento”

Luciano Bianciardi           “La vita agra”

Truman Capote              “A sangue freddo”

Arthur Conan Doyle         “Uno studio in rosso”

Jeffrey Eugenides           “Le vergini suicide”

Helen Fielding                  “Che pasticcio, Bridget Jones”

Yu Hua                          “Cronache di un venditore di sangue”

Anna Maria Ortese          “L’Iguana”

Giovanni Verga              “I Malavoglia”

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

Crepacuore, sindrome del

Giorgio Amendola   “Un’isola”

I giapponesi hanno dato uno strano nome a chi muore di dispiacere. Sembra un infarto, ma è un’altra cosa, spesso accade alle donne quando perdono una persona amata. Lo chiamano tako-tzubo e dicono che il cuore diventa simile all’ampolla con cui i pescatori catturano i polipi. Un’anfora dove si deposita tutto il dolore. Ci sono molti esempi, nella letteratura medica. Uno dei più belli è quello di Germaine Lecocq e Giorgio Amendola.              

Ma quando ci si innamora a Parigi, un 14 luglio degli anni Trenta, durante un ballo pubblico nelle strade, l’amore può sembrare una predestinazione, una promessa che legherà per la vita e per la morte. Sono le undici di sera e Giorgio attraversa da solo una piazza. Lo sguardo gli cade su una ragazza seduta vicino alla madre. Si avvicina di slancio e con un inchino cerimonioso, con tanto di sbatter di tacchi, chiede alla madre il permesso di far ballare sua figlia con lui. Stanno suonando un valzer veloce. Giorgio e Germaine, si chiama così la ragazza, muovono i primi passi insieme. Lei è di una bellezza trasparente, senza inganni o trucchi. Ha le mani “fini e asciutte, che rivelano una gran forza interiore”. I loro corpi si riconoscono al primo abbraccio, e si fidano l’uno dell’altro. Sembra un film di René Claire, ma in realtà è un film che René Claire deve ancora girare e che si chiamerà proprio “Quatorze Juillet”. Il loro amore nasce “in quella calda serata di festa popolare”. Con una mancia, Giorgio ottiene dall’orchestra due tanghi e dà il meglio di sé come ballerino. I due continueranno a ballare il giorno dopo, a un’altra festa, e poi durante una lunga passeggiata, la domenica, sull’isola della Senna, e poi al confino, nell’isola di Ponza, e poi ancora per altri cinquant’anni. Finché, pochi mesi dopo aver terminato di scrivere “Un’isola”, il libro in cui Amendola racconterà anche del loro primo incontro, Giorgio muore e Germaine non gli sopravvive più di ventiquattro ore.

Se si vuole cercare un segreto, in questa storia, bisogna tornare a quel quattordici luglio e a quel giro di valzer, quando il cuore era ancora un’anfora vuota e leggerissima.

Dolore, provare

Lars Gustafsson      “Morte di un apicultore”

Nessuna vita ne è priva. E se la medicina moderna offre vari modi per attenuarlo, e la letteratura può aiutarvi a sfuggirgli, la cosa più difficile è trovare dei libri che aiutino a sopportarlo e a conviverci.

“Morte di un apicultore” fa esattamente questo. Attraverso l’esperienza di Lars Westin, un ex insegnante divorziato che vive nella splendida, remota penisola del Vastmanland, in Svezia, con il suo cane e le sue api, impariamo a conoscere il mondo del dolore fisico - i momenti in cui è più acuto, la frequenza e i decibel - e scopriamo che cosa significa sopportarlo senza farmaci. Il dolore di Lars deriva da un cancro. All’inizio del disgelo l’uomo viene a sapere che probabilmente morirà prima dell’autunno, e decide di non andare in ospedale in città e farsi prescrivere una terapia antidolorifica, ma di restare dove si trova, perché quella è la sua vita e lui vuole viverla finché è possibile. E così, insieme al suo cane, fa lunghe passeggiate nel grigio paesaggio di febbraio, con gli alberi spogli e le case estive chiuse con delle assi, e impara a convivere con il dolore.

All’inizio arriva per lo più di notte, lo sogna ancora prima di esserne svegliato - e nei suoi sogni scopre che sta cercando, letteralmente, di voltarsi per non guardarlo. Il dolore lo rende maggiormente consapevole del proprio corpo - gli fa capire che lui è un corpo. Lars, tuttavia, proietta il dolore anche verso l’esterno. Nelle sue passeggiate, il paesaggio a volte prende la forma del suo dolore - così un albero diventa l’albero dove la schiena gli ha fatto davvero male, e il palo di un recinto diventa il punto che colpisce con la mano quando passa, e dove riesce, chissà come, a lasciare il proprio dolore “appeso al recinto” e ad andarsene via libero.

Ma quando il suo stato peggiora, facendogli ricordare il matrimonio e l’infanzia, entra in una fase in cui il dolore è così “assolutamente estraneo, incandescente e prepotente” che lui fa fatica a sopportarlo. Ed è allora che si rende conto che l’arte di sopportare il dolore è proprio quello - un’arte, come la musica o la poesia o l’erotismo o l’architettura, se non per il fatto che il suo “livello di difficoltà è così alto che nessuno riesce a praticarla”. Eppure, lui ci riesce - come fanno altri, giorno dopo giorno.

Se siete abbastanza sfortunati da provare dolore a questo livello, pensate a voi stessi come a un artista che si esercita in qualcosa di impegnativo e difficile, e che solo per la vostra sopportazione siete innalzati al rango di maestri. Lasciatevi guidare dall’apicultore che scopre anche quanto incolpare qualcun altro del vostro dolore, o addirittura lamentarsene, non serva. Insieme all’apicultore verrete a conoscenza di una verità terribile, eppure meravigliosa: che il dolore vi rende ancora più vivi.   

Ermafroditismo

Alicia Giménez-Bartlett    “Dove nessuno ti troverà”

L’identità, si sa, è un processo di formazione che de-termina il nostro posto nel mondo, il senso di appartenenza, l’inserimento nel consorzio umano e sociale. Ma i nostri tempi liquidi e virtuali ci stanno traghettando verso identità multiple ancora più complesse. Siamo l’esito finale di tante migrazioni e di tanti passaggi e più sarà veloce il riconoscimento di quante linee segnano le nostre impronte digitali, più potremo esorcizzare la miseria di una sola origine e i deliri della purezza Ma prima che si compia questa trasformazione e si realizzi l’utopia di una società davvero libera e cosmopolita, si segnalano parecchie interferenze nel campo, di vario ordine e grado, dalla possibilità di identificarsi in uno specchio, ai problemi di memoria con i documenti, a forme più o meno acute di schizofrenia quotidiana.

Per questo la vicenda della Pastora, nata come Teresa Pia Meseguer, è una sorta di compendio estremo. L’ha raccontata con grande empatia la scrittrice catalana Alicia Giménez-Bartlett nel suo libro “Dove nessuno ti troverà”. Nel 1956 partono alla sua ricerca uno psichiatra francese che lavora sui disturbi della personalità e un cinico e squattrinato giornalista spagnolo, che accetta di fargli da guida retribuita. La Pastora è una leggenda vivente, è l’assassina che la Guardia Civil di Franco non è mai riuscita a catturare. Si nasconde nelle montagne, in una natura inospitale e scostante. Non si sa quasi nulla di lei, se è donna o uomo. Si raccontano soltanto le sue imprese sanguinose, da quando ha aderito al maquis, la resistenza partigiana antifranchista che continuò ad operare armata contro il franchismo dopo la fine della Guerra Civile.

Il suo fu un famoso caso di pseudoermafroditismo. La malformazione genitale che impedì con chiarezza la sua attribuzione al genere maschile o femminile la allontanò dalla società. Era nata in una famiglia povera ed era stata registrata all’anagrafe come donna, ma solo per semplificare. Già dall’adolescenza, si condannò a un’esistenza marginale e solitaria insieme alle greggi. Eppure, quest’involontaria educazione alla linea imprecisa di un confine, all’ambiguità e alla fuga e la conoscenza quasi animalesca delle montagne della Spagna le favorirono la latitanza, quando decise di entrare in clandestinità. Soltanto un personaggio dall’identità tanto sfuggente e indefinita poteva diventare inafferrabile anche per la polizia franchista. Fu catturata solo per via di un tradimento, scontò 17 anni di carcere, venne amnistiata e morì con il nome di Florencio.

Gioco d’azzardo, dipendenza da

Juan Josè Saer        “Cicatrici”

Luke Reinheart        “L’uomo dei dadi”

Steinbeck diceva che la professione di scrivere libri fa apparire le corse dei cavalli un’attività solida, stabile. E davvero ci sono libri che lasciano cicatrici in chi li scrive e in chi li legge, com’è il titolo di un romanzo di uno scrittore argentino appartato e radicale, Juan José Saer. In una città brutta, acquosa, fredda, senza alcun fascino esotico o subtropicale, dove piove sempre e “le condizioni del tempo permangono invariate”, quattro voci raccontano tutte la stessa storia ma anche, ognuna a suo modo, la propria follia. Sergio Escalante è un avvocato con la locura del gioco e della filosofia che scrive occasionali saggi di filosofia sull’evoluzione ideologica di Topolino o sul professor Nietzsche e Clark Kent e si interroga di continuo su cosa è la realtà. Dopo avere puntato tutti i risparmi della sua serva quindicenne su un tavolo clandestino, avanza una teoria sul caos, il gioco e la letteratura. “La relazione tra il giocatore e il colpo ha due fasi: ipotesi e verifica. La verifica è sempre posteriore all’ipotesi. Diciamo che a livello di facoltà umane, l’ipotesi corrisponde a quella che si chiama immaginazione, la verifica a quella che si chiama percezione. Il giocatore deve puntare seguendo quello che gli dice la propria immaginazione. Punta sulla possibilità che ciò che ha immaginato succeda veramente. Percepisce la mano nel momento in cui si mostra, non in quello in cui accade. Perché una volta che le carte sono state disposte nel sabot, la mano e già accaduta”. Escalante sostiene quindi che nel gioco del punto banco o baccarat l’evidenza è un accessorio dell’accadere, non l’accadere stesso. Sembra un manifesto di poetica. Il giocatore è il romanziere che fa una puntata in base alla propria immaginazione. Questa è quella che il personaggio di Saer chiama ipotesi. Un romanzo è un’ipotesi, a cui segue la verifica o percezione della realtà, ma questa avviene quando le carte sono già state disposte sul tavolo e aspettano solo di essere girate. Il destino è già stato assegnato, le cose già accadute. Quello che il romanziere può fare è soltanto voltare quelle carte. L’unica realtà che può testimoniare è “la percezione tardiva di quell’avvenimento”. Ma, poiché la ripetizione non esiste, tutte le giocate sono irrazionali: solo per caso possono coincidere con la realtà. “È come sparare un colpo per aria senza alzare la testa e vedere cadere un’anatra selvatica”. La conclusione di questo ragionamento è obbligata: “Tutte le puntate sono puntate disperate. La speranza è un accessorio edificante ma inutile”.

Come scriveva Flaiano, la vita è un dado senza punti, e la letteratura il più pericoloso dei giochi d’azzardo.

Adesso prendete un dado anche voi. Scrivete sei cose che potreste fare oggi. Pensate a qualcosa di sublime. Pensate a qualcosa di ridicolo. Per esempio:

1.     Radersi tutto il corpo

2.     Invitare a cena la prossima persona che incontrate, a prescindere da età, sesso o specie

3.     Attaccare uno spillo a caso su una carta del mondo e partire per quel punto

4.     Spedire questo libro al vostro capo, evidenziando tutti i disturbi di cui soffre

5.     Prendere secchiello e paletta e andare a piedi fino al mare

6.     Leggere “L’uomo dei dadi” di Luke Rhinehart, per curarvi della vostra dipendenza dal gioco d’azzardo.

Promettete solennemente che farete quello che vi dirà il dado.

Ecco, ora sapete cosa fare.

Bugiardino

Avevo già parlato, e neanche tanto bene, della sindrome premestruale, ed ora non posso che ripetermi con il libro della Fielding. Di contro, ho trovato bellissimo il libro di Amendola, anche a prescindere dalla storia d’amore. E se vogliamo migliore Lars Gustafsson ed il suo apicultore. Inoltre, certo il libro di Alicia non è stato il massimo, ma pone domande, e si ha bell’agio nel leggerlo. Infine, datato e complesso, la ludopatia ha anch’essa un suo posto d’onore.

PREMESTRUALE, SINDROME

Helen Fielding “Che pasticcio, Bridget Jones!” BUR euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)

[tramato il 23 dicembre 2018]

Tre anni dopo il successo planetario del “Diario”, Helen prova a rinverdire la sua fama con questo secondo capitolo della saga. Un tentativo veramente poco riuscito ed alquanto prevedibile. Se nel primo romanzo c’era la freschezza della novità, l’ingenuità delle situazioni (con Bridget sempre leggermente fuori fase rispetto a quanto le capita intorno), questo secondo romanzo, non variando molto lo stile, risulta ripetitivo ed anche un po’ noioso.

La maggior parte dei protagonisti del primo si ripresentano qui con immutato stile, ripercorrendo senza troppe variazioni quanto di scellerato (dl punto di vista dell’attività umana quotidiana) facevano nel primo. Fortunatamente sparisce quasi del tutto “il bastardo Daniel”, con una puntatina dimenticabile. Dispiace invece la quasi totale assenza del “gay” Tom, troppo preso dai suoi amori americani. Invece le pagine sono piene di Jude e Shaz, con le loro improbabili ricette derivate dai libri di auto-aiuto (che la quarta di copertina lascia nell’inglese self-help). Sempre pronte a dare il consiglio sbagliato nel momento giusto. Precipitando sempre più in basso la stima e l’autocomprensione di Bridget.

Grande spazio, invece, prende l’odiosa Rebecca, subito pronta a cercare di soffiare il buon Mark alla nostra. Organizzando cene, viaggi, e quant’altro riesca a mettere in difficoltà la nostra eroina. Ma prima di passare a Mark, c’è la solita tirata sui genitori di Bridget. Con la madre con non vuole crescere, e questa volta passa dall’improbabile indiano al fasullo keniota. Fortunatamente non viene ripreso a lungo, anche perché ripercorrerebbe la stessa solfa del primo. Wellington invece appare, fa delle stupidate, dice cose sagge inascoltate e se ne torna tranquillo e felice nella sua Africa. Lasciando mamma Jones alle prese con l’alcolismo di papà Jones.

Unico momento esilarante: il rifiuto di rinnovare il passaporto da parte di mamma Jones, perché dovrebbe mettere una foto aggiornata, quindi “più matura”.

Mark, per riprendere il filo, sembra sempre uguale a sé stesso. Molto imbranato, molto innamorato, ma incapace a) di mostrare a Bridget quanto la ami e b) altrettanto incapace di capire il modo di comportarsi di Bridget. Ma se ami qualcuno, non puoi stare solo lì sulla porta a vedere passare quello che succede, senza mai una volta intervenire, dire, fare qualche cosa. Solo quando Bridget passa un brutto momento sembra rinsavire e capisce che sia bene fare qualcosa. E facendolo, tira finalmente fuori dai guai la nostra eroina.

In tutto questo Bridget prende al solito il centro della scena, ma continua a ripetere i suoi stereotipi: ingrassare/dimagrire, fumare/smettere di fumare, ubriacarsi, avere una fiducia cieca dell’altro che la porta ai tre momenti topici del libro. Il primo, unico, positivo ed esilarante, è l’intervista romana con il “vero” Colin Firth (e suggerisco di tornare ai film che ne sono tratti, con il momento double face: intervista con Colin e rapporti con Mark interpretato da Colin; gustoso). Il secondo è il conflitto con Gary il muratore, con la ristrutturazione di casa, con i soldi che mancano, e con la finale scoperta che Gary non è altro che un piccolo topo d’appartamenti, che ha l’unico intento di rubacchiare dove può (anche poco, vista l’imbranataggine palesata). Il terzo, e punto forte del libro, è invece il viaggio in Thailandia. Con tutto lo sballo di alcolici e funghi “eccitanti”, con la comparsa del perfido Jed, e con l’incastro che questi le procura nascondendole della droga nel trolley.

Qui Helen fa un’operazione che vorrebbe essere ridanciana, ma che, per chi legge giornali e sa del mondo, risulta quanto meno improbabile. Il possesso di droga in Thailandia è perseguito con una durezza estrema. E le descrizioni della settimana nelle carceri thailandesi sono una discreta presa in giro, per chi sa che, una volta finito in quel girone, difficilmente se ne esce prima di un congruo lasso di tempo (anni!). E non se ne esce mai bene. Visto che siamo (almeno nello scorrere temporale) nel 1997, non poteva mancare l’accenno alla morte di Diana. Che tuttavia avrei omesso per rispetto del personaggio.

Il tutto finisce poi come cominciato con Mark e Bridget che tornano insieme. Un po’ scontato. E non capsico, ne leggerò poi, perché i miei libri guida continuano a citare la Fielding nelle loro terapie.

Un’ultima considerazione: il titolo. Perché modificare l’originale “limite della ragione” con questo “pasticcio”? Certo, Bridget continua a non combinarne una buona, come abbiamo visto, ma credo che l’idea dell’autrice sia stata invece di procedere su quel solco fra razionale ed irrazionale, per continuare a sostenere la sua idea di fondo. Tutti siamo un po’ sbalestrati in questo mondo, ed è difficile procedere perseguendo una razionalità che non ci è propria. Così come non è propria per la nostra povera Bridget. Ne vedremo ancora, di sue avventure? Ai postumi l’ardua sentenza.

Crepacuore, sindrome del

Giorgio Amendola “Un’isola” Rizzoli s.p. (dalla Biblioteca di Proba Petronia)

[tramato il 18 ottobre 2020]

Durante il doloroso trasloco dei libri della casa genitoriale in altre sedi (Santamaura, Soriano e altri), ho trovato alcuni libri che mi ero segnato da leggere e che non avevo ancora iniziato. Questo è il primo della serie, che ho letto con piacere per una serie elencabile di motivi. È scritto in un italiano scorrevole, partecipato e che si legge con facilità. Parla, più o meno, di 10 anni della vita italiana, dal 1930 al 1940, in molti sensi eredi dell’inizio del secolo e forieri di messaggi per la ricostruzione. Ci coinvolge con le avventure pubbliche e private di una delle personalità di spicco del mondo italiano, soprattutto dal ’45 alla morte. Mi fa sentire vicine tutta una serie di voci, che hanno vibrato sin dalla mia infanzia, in particolare quella di mio padre Franco e di mio zio Adriano.

Con la straziante immagine di copertina, di un quadro di Germaine, seguiamo la metaforica isola anche in un contesto concreto. Abbiamo infatti tutta una serie di isole che vagano per l’universo italico in quegli anni, ed intorno alla persona di Amendola. C’è Giorgio isolato nella sua Napoli che non raccoglie l’eredità liberale del padre Giovanni, ma la prende e la spinge sempre più a sinistra. E poi Giorgio isolato nella fuga a Parigi, nell’inizio del lavoro clandestino di cucitura tra le varie anime della sinistra. Un lavoro di Sisifo, che non solo non avrà fine allora, ma che ancora adesso continua ad essere improbo ed irrealizzato. C’è l’isola d’amore che si spande intorno a Giorgio e Germaine (che mi piace pensare uniti, in quella doppia G, in quel “G&G”), quando si conoscono a Parigi nel 1931, quando si sposano nel 1934, fino a quando (anche se non è detto nel libro, ma noi lo sappiamo bene), moriranno a poche ore di distanza il 5 giugno del 1980. E c’è l’isola-isola, cioè Ponza. Isola di confinati dal regime, ma anche isola delle nozze di G&G.

Nelle parole vibranti di Amendola, seguiamo le vicende che partono dalla sua fuga da Napoli nel 1931. Ma anche, con una serie di piccoli flash, con quelle che successe prima proprio lì a Napoli. L’uccisione del padre nel ’26 dalle squadre fasciste, l’allontanarsi dall’Italia della madre lituana (sempre sull’esterofilia che contraddistinse la famiglia), le discussioni con gli amici, l’adesione al Partito Comunista. Poi appunto la fuga, con l’aiuto della rete clandestina, i lunghi giri in treno per sfuggire alla polizia, i documenti falsi.

La vita a Parigi, tra un tocco bohemienne e la vita di funzionario di partito (inciso personale ad uso dei miei amici più cari, un ricordo del funzioMario). Le discussioni feroci e gli incontri significativi. Come il viaggio ad Oxford per incontrare Sraffa e riportare a Togliatti alcune lettere di Gramsci. Ed ancora le discussioni, le aperture e le rotture. Il tentativo di Amendola, da sempre considerato vicino all’ala destra del Partito, di fare un fronte comune con i socialisti contro il fascismo. Tentativo mandato a monte dalle direttive di Mosca. Dove nessuno metteva in discussione gli ordini di Stalin. E ne vediamo i guasti: rotture interne, odio (ahi quanto immotivato) con troskisti e bordighiani. Le liti per accettare una direzione del partito all’estero prima affidata a Togliatti, e poi a Ruggero Grieco, con la sottomissione dello scalpitante Longo.

La lotta interna, mai sopita anche dopo la Guerra, tra Amendola e Pajetta. Le sconfitte dovute a tradimenti vari, che portano all’arresto di Amendola nel 1934, quando, su ordine del Partito, tenta di tornare in Italia per organizzare la lotta clandestina. Ed allora, eccoci a Ponza, alla vita da confinati, isolati, certo, ma in grado di leggere e studiare. Una strana contraddizione, in un’Italia purtroppo sempre più vicina alla Germania. Ma a Ponza arriva l’amata Germaine, arriva il matrimonio, ed arriverà anche la nascita dell’adorata figlia Ada. Qui Amendola, con tocco lieve ma fermo, ci riporta anche al lato privato della sua vita, alla presenza della suocera, al ritorno della madre, alle discussioni con la sorella, al sodalizio con il fratello Pietro. Pieni di umanità, i ritratti dei sodali al confino, dove ancora più forte si fa (e Amendola ben la sente sulla sua pelle) la differenza tra intellettuali ed operai. Ed infine l’amnistia, il ritorno a Roma, e la nuova ultima fuga verso Parigi, preceduto da Germaine e Ada. Qui i ricordi si fermano, accennando a poche cose, e adombrando l’avvicinarsi della Guerra. Qui sarebbe dovuto cominciare un nuovo capitolo, se la morte a soli 73 anni non lo avesse portato via.

Rimane nella mente un ultimo ricordo, con tutte le persone incontrate e nominate, cui Amendola, con tocco lieve, ne dice il futuro. Quasi tutti moriranno, chi nella Guerra Civile spagnola chi sul fronte della Resistenza partigiana. Si nota l’empatia che Amendola comunque ha per tutti. Per tutti quelli che, seguendo un’idea e le proprie convinzioni, hanno votato la vita ad un ideale di libertà. Un ricordo che per me rimarrà indelebile, anche per tutte le vicende private che, di lì a poco, avrebbero visto in prima linea una grossa fetta dei miei parenti. Consiglio quindi di far seguire a questa lettura quella di “Un’isola sul Tevere” di Adriano Ossicini.

“È necessario un ‘comunismo nazionale’ che parta dalle condizioni concrete esistenti nel nostro paese.” (58) [da una discussione con Rodolfo Morandi nel 1932]

“Preferivo starmene solo, conoscere Parigi … ero accusato di individualismo piccolo-borghese, ma me ne fregavo.” (78)

“Ogni crisi non può durare in eterno e deve avere uno sbocco, o rivoluzionario o capitalistico.” (123)

Dolore, provare

Lars Gustafsson “Morte di un apicultore” Corriere Boreali 14 euro 8,90

[tramato il 13 dicembre 2020]

Si può voler bene ad un libro che ti fa venire il mal di pancia mentre lo leggi? A me questo è successo con la lettura di questo che viene considerato un classico della letteratura svedese moderna.

Quindi iniziamo tributando i dovuti omaggi al Corriere per questa collana, ad Iperborea che ha introdotto Gustafsson in Italia ed a Carmen Giorgetti Cima per la traduzione e la postfazione.

Lars (che i nordici spesso preferiscono chiamarsi l’un l’altro con il nome, ed il grande svedese, tra l’altro, era anche lui un toro) ha attraversato e brillato nel panorama letterario scandinavo per oltre quaranta anni (e purtroppo ci ha lasciato cinque anni fa). È entrato anche nell’orbita del Premio Nobel, senza vincerlo. Ha scritto tanto, spesso in modo sperimentale. Quasi sempre con delle idee in testa.

Questo libro, il suo più noto, ed anche più amato, nasce ad esempio come capitolo finale di un insieme di cinque romanzi, cui l’autore dà il titolo complessivo di “Crepe nel muro”. Romanzi, come ci dice la traduttrice, che vogliono evidenziare le crepe nei muri delle istituzioni, delle ideologie, dell’animo umano. Romanzi dove il protagonista si chiama sempre Lars, come a sottolineare una presenza dell’autore dentro e fuori il testo.

Qui, Lars è al capitolo finale anche della sua esistenza. Maestro elementare, trovatosi in sovrannumero per il diminuire della natalità, decide di ritirarsi nel paese natio, di fare l’apicultore, anche a seguito della delusione successiva al divorzio dalla moglie. È giovane, sui quarant’anni come lo scrittore, ma sente dei dolori strani nel corpo. Dopo molti tentennamenti decide di fare delle analisi per capire la natura del male. Ma quando arriva il referto, sceglie di non leggerlo, di bruciarlo, di continuare la sua vita tra la speranza illusoria che sia un problema di calcoli renali e la certezza, intima e non provata, che sia un tumore. Nel suo buon rifugio, confida i suoi pensieri ad una serie di taccuini, ritrovati da un suo sodale dopo la morte di Lars. E ordinati in qualche maniera per evidenziare, doppiare, riproporre momenti salienti per lo scrivente.

Ricordiamo che è un testo del ’78, e che questo modo di scrivere e di proporre la scrittura era assolutamente non usuale al tempo. Così che l’avanzare nel tempo del Lars apicultore è scandito dalla scrittura del Lars autore. Vediamo con lui adombrarsi i suoi momenti salienti. L’infanzia, soprattutto, cui rimane legato, e che ora ritorna prepotentemente come momento fondante della sua vita. Come momenti di serenità, ma anche come momenti dove mise paletti della sua vita. Il matrimonio nato quasi per stanchezza e per stanchezza finito. La nascita di un amore esterno ed estraneo, che non porta fino in fondo, né nell’amore, né nel matrimonio. E la fine del matrimonio, e la fine del lavoro precedente. Il mondo attuale, popolato di campagne e di api. E poi tante parole e tanti pensieri sul dolore e sulla malattia. Soprattutto nell’accezione della comunicabilità.

È possibile descrivere il dolore, il proprio dolore? E dopo averlo descritto, è anche possibile comunicarlo, farlo comprendere? Ed allargando l’orizzonte, Lars si pone quindi il problema se sia altresì comunicabile la propria vita interiore. Certo, possiamo esternare i nostri pensieri. E purtuttavia mi domando se questa esternazione riesca a fare sentire all’altro il nostro sentire. Qualcuno, in saggi ed interviste, scomoda Wittgenstein, Nietzsche, Borges, Kundera, financo Camus. Io non arrivo a tanto.

A me arriva da un lato il Lars del testo che mi comunica la sensazione di essere un abitante di un universo in cui non si sentiva di casa. Dall’altro, una sensazione di grande solitudine, che Lars vive in modo grandioso, personale, crogiolandosi e comunicandoci i suoi ricordi. Quelli che si stratificano nel cervello, a volte addolcendosi con il passare degli anni, tramutandosi anche in piacevoli momenti, pure se all’epoca erano momenti dolorosi. Ma il bello, ed il cattivo ed il personale del romanzo continua per me ad essere questo senso della malattia, del modo di affrontarla, del modo di morire, lasciandoci, anche nell’ultimo istante, quel messaggio: “si può sempre sperare”.

Insomma, per me, un libro che mi ha colpito nel profondo, mi ha fatto pensare, mi ha fatto ragionare, mi ha colpito nel cuore, nel cervello, nella pancia. Che ho amato perché mi ha fatto stare male.

“Le persone destinate a diventare importanti nella nostra vita le incontriamo non una, ma almeno venti volte prima che incominciamo a prendere l’indicazione sul serio.” (45)

“Tutto finisce per avere il significato che noi stessi gli diamo.” (95)

“Io sono un corpo. Soltanto un corpo. Tutto quello che si deve fare, che si può fare, dev’essere fatto dentro questo corpo.” (117)

“Perché proprio io? … Perché proprio io questa sofferenza? … Perché …” (169)

Ermafroditismo

Alicia Giménez-Bartlett “Dove nessuno ti troverà” Sellerio euro 15

[tramato il 13 settembre 2020]

Non vorrei sbagliarmi, ma credo sia proprio il primo libro di Giménez-Bartlett che leggo dove non solo non è protagonista Pedra Delicado, ma non è neanche un giallo. È un robusto romanzo dedicato ad uno strano personaggio che attraversa molti anni della oscura storia spagnola nei giorni bui del franchismo. Ed è un’occasione per la scrittrice per dedicarsi ad alcuni temi interessanti: la Spagna degli anni ’50, l’amicizia, la solidarietà, la libertà, l’identità di genere.

Come altri libri di Alicia non gialli, c’è sempre una vena di “storicità” (a volte anche più di una vena). In questo caso la nostra valente e quasi settantenne scrittrice prende il via per raccontarci una grossa fetta della vita di Teresa Pla Meseguer, meglio nota come La Pastora, anche detta Teresot o Florencio.

Da tutta questa serie di nomi capite subito che è un personaggio complesso. Una persona che nasce tra i monti della Spagna, nel 1917, e non ha una sua identità di genere. Si scoprirà tardi nella sua vita che potrebbe essere di sesso maschile, ma con genitali non sviluppati, tanto che, al fine di evitarle vita difficile, la madre la registra come Teresa. Vedendo le foto in calce al libro ed in rete, si capisce che possa essere scambiata per qualsiasi cosa. Vive una vita sui monti, che certo non si andava a scuola a quel tempo. Poi, dopo la guerra, a fronte di insopportabili soprusi, si unisce a bande armate che cercano di resistere al franchismo. Diventa partigiana e resistente, anzi partigiano, che, per non essere comunque coinvolta in confusioni varie, decide di vestirsi sempre da uomo e di farsi chiamare Florencio. Effettua diverse azioni contro la guardia civile ed i collaborazionisti, riuscendo sempre a scappare, che i monti li conosce a memoria. Non a caso ottiene il soprannome di “La Pastora”.

Quando la Resistenza decide di gettare le armi e riparare in Francia, lei ed il suo sodale Francisco rimangono sui monti. Vengono loro attribuiti nefasti a bizzeffe, ma forse solo perché non sono franchisti e non si piegano. Dopo che anche Francisco muore, lei rimane solitaria ed intoccabile sui monti. La storia raccontata finisce così, raccontando, e vedremo come, il suo agire nei luoghi in cui nessuno potrà trovarla.

Sappiamo poi, da altro, che poco dopo verrà arrestata in Andorra, processata, condannata prima a morte, poi al carcere. Finirà graziata con la fine del franchismo, morendo solitaria ma indimenticata nel 2004, a 87 anni. Ma sarebbe troppo facile narrarne la biografia e basta (che giustamente Alicia rimanda al libro ben completo di José Calvo Segarra “Dal monte al mito”), così l’idea è di intrecciare narrati di Teresa con la ricerca dell’imprendibile Pastora da parte di uno psichiatra francese, interessato ad incontrarla e ad esplorare la sua “mente criminale”.

Lucien coinvolge nella ricerca un giornalista spagnolo, Carlos, e tutta una metà della narrazione si svolge sulle loro tracce, sulla ricerca territoriale che fanno, sugli incontri e sulle diverse peripezie. Le due narrazioni fittiziamente convergeranno, per rendere completa la narrazione (anche se la Pastora fu interrogata e narrò la sua storia solo una volta uscita dal carcere), finendo con un colpo di scena di cui vi lascio scoprire i dettagli.

Quello che interessa ad Alicia, e che rende a sua volta interessante la lettura, è il contorno. L’amicizia sia tra Lucien e Carlos sia tra Teresa e Francisco. Ma anche l’esposizione del clima che si respira in Spagna negli anni Cinquanta (la narrazione è ambientata da ottobre a fine dicembre del 1956). Dove il franchismo ormai impera, ma nei monti e nelle piccole cittadine si respirano anche altri climi. Non manca neanche, memori della Guerra Civile del ’36, un accenno alle divisioni della sinistra, che per molti anni non riuscirà a trovare un terreno comune di intervento.

Se da un lato poi c’è lo sguardo poliziesco della Guardia Civile e dei “carabineros”, dall’altro c’è l’umanità delle persone che comunque devono vivere la loro vita, in una povertà che le campagne povere accentuano a dismisura. Teresa incarna anche un sentimento di libertà, se non di ribellione, al fine di vivere in un mondo meno oppresso, pieno solo di piccoli elementi quotidiani: le pecore sui monti, la natura, i balli sull’aia, le piccole cose di non pessimo gusto. Ultimo, ma non meno importante strale all’arco della scrittrice è l’analisi dell’identità di genere. Teresa, secondo studio posteriori, sarebbe affetta da una forma di pseudoermafroditismo, in seguito ad una malformazione genitale. E quando l’autrice fa parlare Teresa in prima persona, molti sono i passaggi in cui lui/lei si interroga sulla sua identità, e soprattutto sul modo che il mondo circostante la vive. Di come non possa che subire continue umiliazioni, e di come solo nel rapporto con la natura possa sviluppare una serenità altrove introvata.

Tirando tutti i fili, politici, sociali e relazionali, rimane la domanda che riporto come prima citazione. Una domanda cui Alicia non risponde, giustamente, ed alla quale personalmente non saprei dare una risposta univoca. Forse, la normalità è solo vivere secondo la propria coscienza, rispettando sé stessi e gli altri. Alla fine, un libro interessante, anche se mi aspettavo un coinvolgimento emozionale maggiore.

“Molte volte … mi sono domandato che cosa sia normale e che cosa no, chi è pazzo e chi non lo è.” (158)

“Prima che gli uomini avvelenassero l’aria … questi posti erano i più belli del mondo. Niente tornerà più come prima.” (331)

Gioco d’azzardo, dipendenza da

Luke Rhinehart “L’uomo dei dadi” Marcos y Marcos euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)

[tramato il 14 ottobre 2018]

Un libro di culto della cultura “underground” americana degli anni Settanta, che non conoscevo, che mi ha sorpreso in alcune parti per la freschezza dell’inventiva, ma che, in altre, si guarda un po’ troppo l’ombelico, cercando sempre qualcosa per “épater le bourgeois” come direbbero i francesi.

Intanto di culto è anche l’autore, il cui vero nome è George Cockcroft, scrittore americano di ormai 85 anni. Dopo la laurea a 24 anni, il matrimonio a 26, il PhD a 32, inizia ad insegnare alla Columbia University (a Manhattan). Anche nell’insegnamento dimostra uno spiccato ecclettismo, che oltre a parlare di scrittura americana, mescola i suoi corsi con puntate su altre culture. Noti i suoi corsi sullo Zen e sulla letteratura europea. Ed anche nei suoi corsi, a volte, decide l’andamento degli stessi, o i libri di cui parlare, con un tiro di dadi.

Da questa idea bislacca, nasce un primo abbozzo di possibile romanzo basato proprio sui dadi, che porta con sé in una lunga vacanza a Majorca con la famiglia. Qui, entra in contatto con un editor londinese alle prime armi, che si innamora del manoscritto, spinge George a rifinirlo e completarlo, e, nei primi anni Settanta, lo pubblica. Dopo l’enorme successo, George, a 45 anni, si ritira in una fattoria nello stato di New York, dove vive da 40 anni. E da dove, in ogni caso continua saltuariamente a pubblicare. Ed a fare scherzi “stupidi”, come quando nel 2012, annunciò, falsamente, la propria morte.

Prima di entrare nello spirito del denso librone, cito ancora che la BBC lo ha indicato come “Uno dei 50 libri più influenti del XX secolo” e “The Telegraph” lo ha collocato come uno dei “50 libri di culto degli ultimi cento anni”.

Il libro, in realtà, non è riassumibile in una trama coerente, almeno non nel suo sviluppo complessivo. È scritto in maniera fiammeggiante, dove si passa dalla prima alla terza persona. Ci sono (finti) estratti di testi ritenuti autorevoli o sacri. Riproposizioni di registrazioni audio. Verbali di polizia e interventi in stile dottorale (da psichiatra, da avvocato). Insomma, un po’ un guazzabuglio. O meglio, un caleidoscopio.

L’idea centrale, che il nostro riesce a sostenere per quasi tutte le quasi settecento pagine, è quella di far guidare le azioni umane dal lancio di uno o più dadi. Il libro nasce come autobiografia di Luke Rhinehart, stimato psichiatra newyorkese, al quale un giorno viene fuori l’idea fulminante. Elenca sei possibili azioni e decide quale eseguire in base al lancio di un dado. Dalla riflessione su questa prima iniziativa, nasce tutta la sua teoria della “Religione del Dado”, cioè del progredire del comportamento umano seguendo i capricci del Dio a sei facce.

Certo che è sempre un uomo, quello che lancia il dado, che elenca le possibili varianti. Ma è anche vero che, quando si entra completamente nell’aleatoricità, il decidente si fa più ardito, e comincia ad inserire anche possibilità che non sono al massimo del suo piacere o delle sue volontà positive. Come dire, quando il caso entra nella tua vita, è “il caso”, altrimenti sarebbe tutto deterministico. Da queste premesse George-Luke tira fuori questo suo mondo futuro casualmente determinato, dove una delle varianti più spesso prese in considerazioni è quella dei rapporti sessuali. Devo corteggiare quella donna? Stuprarla? Fare l’amore in 27 posizioni diverse del kamasutra? Essere sottomesso? Essere volgare? Andare con persone del mio stesso sesso? Gustose pagine rasenti la comicità riguardano gli andamenti apodittici di questi rapporti.

Ma l’intento non è fare pornografia, ma rappresentare una possibile variante del mondo. Una variante in cui, pian pianino, l’uso del dado diventa una vera e propria religione, una setta, una variabile impazzita. Che mette in crisi i rapporti sociali. Che stravolge i rapporti personali. Quando una variante del dado ordina a Luke di tacere durante un’intervista si assiste ad un momento di estraniazione totale. Come quando il lanciatore di dadi decide di cambiare ogni dieci minuti la propria personalità. La finalità ultima dello scrittore è quella di mettere in crisi i “valori occidentali”, facendone uscire fuori tutta l’irragionevolezza. Una grossa fetta è poi dedicata, come ovvio, alla critica delle modalità psicoanalitiche tradizionali, tese ad uniformare l’uomo ad un comportamento ragionevole.

Mentre il dado dà spazio a tutti gli “io” presenti nella molteplicità di ognuno. Sfaccettature che vengono represse dall’io benpensante, ma che sarebbe “rivoluzionario” far uscire allo scoperto. Dirompente, anche pericoloso. Con una china finale che potrebbe far rotolare Luke, i suoi sodali, e tutto il mondo in baratri che vedranno purtroppo la luce trenta anni dopo. La bellezza del libro, e della scrittura, è che riesce a far sembrare logica la scelta, e coerenti le conseguenze. Tipica americanata, quella di far diventare tutto una religione, di monetizzarla, di parlarne in televisione. La pecca è che alla fine si incarta un po’, come se non riuscisse più a tirarsi fuori … dai dadi.

Ma d’altra parte, potrebbe essere stato un ulteriore lancio dei dadi che impone all’autore di finire la scrittura, senza una fine reale, magari scomparendo. Magari decidendo che per 30 anni non parlerà più in pubblico dei dadi. Anche se faticoso, capisco sia che ne è valsa la pena leggerne, sia come abbia fatto a diventare un libro di culto. Sia, infine, perché sia stato spesso messo all’indice, censurato, a volte completamente bandito. Eppure, ogni tanto, un bel lancio dei dadi non ci starebbe male…

“Credi di aver trovato la vetta assoluta … sei un caso classico … l’uomo che si gratifica non con quello che realizza ma con quello che sogna di realizzare.” (86)

“Successo e fallimento significano soltanto soddisfazione e frustrazione del desiderio.” (191)

Conclusioni

Al solito, quando vado al recupero, troppe sarebbero indicazioni e controindicazioni, per cui altro dirvi non vo’. Che la lettura, ch’anco tarda a venir, vi sia leggera.

  

 

 

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