Gianni Simoni “Omicidio senza colpa” TEA
euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 16/04/2018 – I: 29/12/2020 – T: 30/12/2020]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 241; anno 2015]
Nell’alternanza
degli scritti di Simoni, eccoci a tornare ai suoi personaggi, sei mesi dopo
l’ultima lettura, ma più di un anno dopo aver gustato, pur con qualche critica,
le avventure di questo suo secondo eroe.
Perché
qui, il personaggio principale è l’ispettore Andrea Lucchesi, che, come
sappiamo, è italiano ma di madre etiope, quindi con accento toscano e colorito
assai scuro. Come ormai assodato nelle serie di lunga durata, anche qui viriamo
molto sul personale, sulle vicende private di Lucchesi, sul suo infarto
pregresso e su quel cuore che potrebbe cedere da un momento all’altro. Il punto
fermo, che invece non mi aspettavo, è il consolidarsi del rapporto con
l’ispettrice Lucia Anticoli. Sembravano sempre sul tira e molla, qui, anche se
con le scontate dinamiche di chi ha forti personalità, e forti istinti, il
rapporto si consolida, e guarda tu, forse sfocerà anche in un matrimonio. Ah,
saperlo!
Ma se
sul versante privato siamo sulla buona strada, nella parte “poliziesca” giriamo
proprio verso numeri molto bassi. Simoni cerca anche di rimpolpare la storia di
base, con una seconda storia a corredo, ma questa è ancora meno intrigante,
anzi direi scontata. Tra l’altro, è laterale, e di breve durata, ma, non so
perché, è quella che si porta appresso il titolo.
Tanto
per chiudere i cerchi, Lucchesi vede un bambino di dieci anni che chiede
elemosina, scopre che è costretto dal racket, vi mette alla guardia
l’ispettrice Gregori (con cui aveva avuto una storia, ma ora basta che c’è
Lucia). Il piccolo Hamsy, per fuggire dalla situazione, dà fuoco alla baracca
dove viveva quasi segregato, fugge ma i suoi due aguzzini muoiono. La Gregori
capisce tutto, lo salva, trova il modo di non incriminarlo, e si avvia quasi a
adottarlo, anche se ha un tumore praticamente terminale. L’omicidio di Hamsy è
senza colpa, vedremo solo nella prossima puntata come finirà (è infatti uscito
il sesto titolo della serie Lucchesi che si chiama “Tiro al bersaglio”; se
capita vi aggiornerò).
Mentre
il filone principale è un altro omicidio, con molta colpa però. Un benestante
pensionato, che fa anche da baby-sitter alla vicina in difficoltà, viene
trovato morto impiccato. Ma l’anatomo-patologo scopre che era già morto prima,
anche se le analisi avvengono con difficoltà: la vicina ed un altro inquilino
avendo scoperto il cadavere, lo avevano tirato giù dal lampadario, tagliando la
fune da impiccagione. Così che i nostri devono fare un lungo percorso per
ricostruire come sia avvenuto il fatto. Il perché è chiaro: mancano una
collezione di tabacchiere d’argento ed un mucchio di euro nascosti dietro un
quadro.
Dato
che Lucia ha un ruolo di sparring partner, pensante ed ascoltante, vediamo
agire le rotelline nel cervello di Andrea. Che alla fine, arriva ad ipotizzare
tre scenari: la piacente vicina (che ha le chiavi) insieme al geometra giovane
inquilino (che frequenta qualche canna di troppo); l’ex-domestica inopinatamente
licenziata (che sa dove sono i soldi) aiutata dall’energumeno con cui si
accompagna (che sa aprire le porte chiuse); la nipote ed il di lei marito (che
non avrebbero problemi a farsi aprire e che sono in forti debiti per le perdite
al gioco).
Tutte
e tre le coppie potevano attuare il piano, ma quando Andrea (o meglio i suoi
“ragazzi”) risalgono alle tabacchiere, il gioco è fatto, i colpevoli sono
facilmente smascherabili e tutto si chiude in bellezza.
O
quasi, visto che la Gregori non credo ce la farà (parte negativa) mentre
migliora e diventa quasi radioso il rapporto tra Lucchesi e la figlia (era ora,
ed è sempre merito di Lucia; ci sarà un motivo…).
Certo,
i due omicidi hanno nel corpo persone deboli e indifese (un vecchio ed un
bambino). Ma mentre la quarta di copertina tende ad accumularli come se fossero
di un destino similare, vediamo bene che il vecchio muore ed il bambino uccide.
Certo senza colpe, ma le due storie sono di certo ben diverse.
Quindi,
ricapitolando, l’ex-magistrato ha sempre alcune buone frecce al suo arco:
rapporti interpersonali ben descritti, e saggiamente impostati, nonché una
capacità descrittiva di Milano e di alcune sue zone non sempre note che ci
fanno sentire “in città”. Purtroppo, la parte poliziesca denota sempre più stanchezza
e difficoltà di essere portata avanti.
Come
al solito, dato il mio sempre presente ottimismo, non posso che dire: vedremo…
Gianni Biondillo “L’incanto delle sirene”
TEA euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 07/05/2018 – I: 31/12/2020 – T: 01/01/2021]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 329; anno 2015]
Torniamo,
dopo tantissimo tempo, anche all’ispettore Michele Ferraro. Un tempo che, ho
controllato, si colloca su 5 anni almeno. Un po’ di più se ci riferiamo ai
romanzi.
Biondillo
affronta la scrittura sempre con un piglio sicuro, e si fa, mediamente, leggere.
Certo, ogni tanto svicola ed allarga il discorso su dei contorni che non sempre
sono funzionali alla trama. Che viene appesantita. Altre volte, e qui lo fa un
paio, si ferma su descrizione architettoniche, quasi a ricordarci che, in
fondo, lui proprio architetto nasce. Qui, pur fuori contesto narrativo,
apprezziamo senz’altro le descrizioni di piazza Gae Aulenti e della scenografia
delle sfilate, nonché scorci della Triennale.
Per
la parte narrativa, come già aveva fatto nell’ultimo letto, si lascia andare a
diversi ruscelli narrativi, a volta affluenti del fiume centrale, a volte solo
parenti.
Qui,
ad esempio, c’è tutta la storia della fuga della piccola Aisha dalla Libia in
fiamme del dopo Gheddafi, l’agonia in mare, il tentativo di risalire l’Italia,
dalla Sicilia fino alla Milano dove vive il fratello. Storia narrativa in
flashback, che comincia due anni prima del filone centrale. Culminante con
l’incontro tra la piccola “Occhiblu”, ed il vecchio Oreste, dropout milanese da
anni a Napoli, che cerca anche lui di tornare al Nord, che si sente verso la
fine di una vita piena di stenti e di accidenti. Il collegamento con Ferraro
avviene attraverso uno dei tanti abitanti di Quarto Oggiaro, lì da dove il
nostro ispettore viene. Sarà infatti Mimmo “O’ Animalo”, che riuscirà a salvare
Aisha e Oreste dai pericoli. Ci sono piccoli cammei interessanti in questa
parte, ma poco funzionali alla storia pretesa principale.
Come
poco funzionale è il ruscello laterale dove si narra delle occupazioni abusive
in quel di Quarto, della rabbia di Mimmo per gli sfruttatori di extracomunitari
senza casa. Anche qui con qualche piccolo cammeo (i “milanesi puri e duri” che
non vogliono gli extra, la Regione che non distribuisce le case, ed altre
piccole incursioni nel sociale). Ma solo perché c’è sempre Mimmo di mezzo, che
anche qui risolve le piccole e difficoltose situazioni.
Poi
c’è la storia centrale, laddove ovvio che ci sia anche un omicidio. Ben
orchestrato anche. Durante la sfilata dello stilista Veraldi, mentre c’è l’ovazione
finale, il “sarto d’élite” si china ed un colpo di fucile toglie la vita alla
modella Wendy. Qui parte l’inchiesta, dove viene inopinatamente coinvolto anche
Ferraro, dalla sua amica e “fashion trender” Lucia. Con la contentezza massima
della figlia Giulia, che è patita della moda, ed amica della modella Sofia, che
stava accanto a Wendy nella sfilata.
Ferraro
frequenta i party di Varaldi & co, conosce il figlio Giulio, che doveva
sposare Wendy, ma era in Cina a vendere quote dell’azienda, viene a sapere che
Wendy era incinta (di chi?), e tramite vie traverse riesce a risalire al
cecchino su commissione che ha premuto il grilletto.
Ci
sono vari siparietti, sia sulla moda del presente, sia su quella degli anni
’70, quella prima degli Armani e dei Versace, vediamo un po’ dal di dentro il
mondo della moda. Ma tutto è solamente descrittivo, non prende molto. Che si
capisce abbastanza presto, per una serie di inezie che i nostri poliziotti
scopriranno solo dopo 300 pagine, che il bersaglio non era Varaldi, ma…
I
siparietti comportano anche irruzioni nel mondo dei giovani e della
“comunicazione veloce”: WhatsApp in simultanea, salvataggi su cloud, ed altre
“diavolerie” informatiche (almeno per Ferraro). Ma sarà il nostro che riuscirà,
com’è ovvio, a congiungere i vari pezzi, arrivando ad una conclusione direi già
scritta da tempo. Con un ultimo ricongiungimento finale, di fronte alla bara di
Oreste, tra Mimmo, Ferraro e Lucia. I motivi ve li lascio leggere se ne avete
voglia.
Sono
contento di aver ritrovato la scrittura di Biondillo soprattutto nella fase
sociale (in fondo piace seguire le avventure di Mimmo) e nella fase familiare
(i pezzi casalinghi tra Ferraro e Giulia). Meno coinvolgente la parte
poliziesca, ma è una costante delle serie di lunga durata, che spesso si
incartano sul privato, che, visto che ne seguiamo le fila da tempo, diventa più
interessante. Non a caso questo è il settimo romanzo sull’ispettore. Ma
speriamo meglio in futuro.
“Da
quando a viveva … ogni mattina, cascasse il mondo … leggeva un quotidiano.”
(62) [identico!]
“Non
si apprezzano mai le cose, se non quando le hai perdute per sempre.” (181)
Andrea Fazioli “L’arte del fallimento” TEA
euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 07/05/2018 – I: 21/01/2021 – T: 23/01/2021]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 281; anno:
2016]
Sono
sempre indeciso se collocare Fazioli tra i giallisti italiani (perché scrive in
italiano) o tra i giallisti stranieri (perché è svizzero, anche se di
Bellinzona, capitale del Canton Ticino). Dato che l’alternanza può essere
divertente, visto che l’ultima volta era straniero, ora lo collochiamo tra gli
italiani.
Intanto
sono passati due anni dall’ultima lettura del buon ticinese, e questo romanzo
viene sei anni dopo l’ultimo romanzo. Nel mezzo qualche racconto. Facciamo così
un po’ di fatica a riprendere le fila, che Elia Contini, il protagonista,
l’avevamo lasciato in crisi di rapporto (con Francesca) e di lavoro (era stato
licenziato da tipografo, ma è tornato a fare l’investigatore).
Ma
prima di entrare nel testo, voglio ribadire quanto detto dell’autore. Niente di
travolgente come scrittura e come trama, ma un prodotto onesto, che si legge
facilmente e volentieri. Forse la trama gialla non è sempre all’altezza, come
anche in questo caso. Tuttavia, è quanto meno piacevole valleggiare con Elia e
gli altri personaggi tra Bellinzona e Cadenazzo, tra Cugnasco e Corvesco, tra
Giubiasco e Magadino, sempre vicino al Lago Maggiore. Quando poi non si svalica
andando a Lugano o a Paradiso.
Altro
elemento, non sempre presente, ma che qui ha un suo ruolo importante, la
musica. Su cui però torneremo alla fine.
Qui
ritroviamo appunto Elia nel suo ruolo di investigatore, spesso alle prese con
piccoli compiti quotidiani: qualche tradimento, la scomparsa di un gattino,
indagini prematrimoniali ed altro piccolo cabotaggio. Il ruolo di basso
profilo, però, si intreccia con le grandi storie. Il ticinese è sconvolto da
una serie di omicidi con un profilo analogo: efferato delitto, con il corpo poi
sommerso, contornato o altro di mobili distrutti. Certo, si sa, la zona è una
zona di mobilieri. Elia viene incaricato di trovare Mario, il rampollo della
famiglia Balmelli, proprietaria del mobilificio Dolcecasa. Compito facile e
facilmente risolto. Peccato che su e intorno a Dolcecasa si addensino i
suddetti omicidi, di quello che viene soprannominato dai giornali il “killer
dei traslochi”.
Si
insatura un buon rapporto tra Elia e Mario, tanto che quest’ultimo lo assume
per indagare se e come il mobilificio è coinvolto nelle morti. Anche perché il
mobilificio stesso è in precarietà economiche, tanto da essere preso in quasi
gestione dall’Ufficio Fallimentare. Ed anche perché ai due morti pregressi se
ne aggiunge un terzo, il fratello maggiore di Mario nonché primo motore
dell’azienda.
Da lì
in poi, molto (ed anche il titolo ne dà conto) ruota intorno ai fallimenti.
Mobilifici in crisi che falliscono e proprietà pluridecennali che passano di
mano. Esecutori fallimentari che forse invece che scongiurare le crisi, ne fomentano
alcuni passi. Infine, e qui Fazioli continua nella sua velata critica al
perbenismo svizzero, modalità di lavoro non sempre alla luce del sole.
Tangenti, lavori in nero, mazzette di ritorno.
Mentre
assistiamo ad un possibile escalation del giallo, Elia ragiona al solito con il
suo amico Giona l’eremita di Corvesco. Discussione che lo porta a riflettere
sul fatto che spesso guardiamo le cose e non le vediamo. Da questo piccolo
assunto, parte la tornata finale verso la soluzione del giallo principale (ed
anche di alcuni elementi laterali). Che ci si aspettava da un po’. Anche perché
vengono fuori dei nomi che si potevano accoppiare presto come coinvolti se
Fazioli non avesse il vezzo di tenerne per un po’ celata l’identità.
Nelle
more della trama, Elia riprende ad avere un buon rapporto (seppure a distanza)
con la bella Francesca. E nasce un’intesa di strano timbro tra Mario,
quarantenne, e la giovane e tatuata Lisa. Come altre storie laterali di altri
romanzi di Fazioli, si spera abbia seguito, ma qui non ne sapremo molto di più.
Finiamo
tronando alla musica. Se infatti (e questo era presente anche negli altri
romanzi) Elia continua a sentire i suoi chansonnier francesi, abbiamo una
potente colonna sonora jazz, alimentata dal fatto che Mario, oltre che designer,
è sassofonista amatoriale di livello. Così che ci porta a passeggio con Lester
Young e Dexter Gordon, Duke Ellington e Keith Jarrett. Dedicando inoltre una
bella discussione all’ultimo disco di un grande del sax, l’americano Michael
Brecker ed il suo album postumo “”Pilgrimage”. Finendo con il citare anche
un’incursione di Francesca che interrompe la routine continiana con “Gran
Canyon” dei canadesi Timber Timbre (se non li conoscete, provate a cercarne,
sono interessanti).
“Penso
che non perdere mai sia … peggio. Forse il successo è solo una forma più
raffinata di fallimento.” (202)
Enrico Pandiani “Polvere” Dea Planeta s.p.
(Natale degli Ossicini)
[A: 25/12/2019 – I: 19/02/2021 – T:
21/02/2021] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 430; anno:
2018]
Un libro non particolarmente né brutto né
bello. Forse in un’aurea mediocritas cui crogiolarsi un po’. Di certo, e senza
troppa difficoltà, ben lontano dal divertimento ed al coinvolgimento degli
scritti di Pandiani su “Les Italiens”.
Certo, Pandiani sa maneggiare i momenti “hard
boiled”, ma qui siamo ben lontani dalla maestria della sua serie principale.
C’è quasi un tocco di mestizia, come se, camuffando il capitano Mordenti della
polizia francese nello spiantato Pietro, avesse quasi un sentimento di
pensionamento dei momenti duri. Anche l’happy end finale, pur amaretto se
vogliamo, è quasi fuori linea. Ma è forse una cosa che gli perdono volentieri,
che anche per me il finale è quello.
Intanto, dalla rutilante Parigi, Pietro ci
sposta nella fredda e grigia Torino, vista qui appunto in tutti i suoi lati
negativi, laddove neanche un raggio di sole riesce a farci uscire dalla
tristezza cittadina. Pietro aveva un buon posto (responsabile della sicurezza
in una grande azienda), ma per aver salvato dei neri da problemi anche non
loro, senza nessun supporto, viene invischiato in problemi più alti, e
bellamente sacrificato. Neanche la sua compagna riesce a salvarlo del tutto.
Così Pietro si ritira nel suo buco di casa, dedicandosi principalmente al bere
ed annegare i ricordi. Lascia Rosaria, ed in un certo senso lascia il mondo. E
stando fermo, non può che ricoprire sé stesso ed il suo mondo di quella polvere
che diventa eponimo della vicenda.
Una polvere che è per lui principalmente
apatia del vivere, abbandono delle speranze. Un modo che, purtroppo, c’è ben
presente, in questa società dove si preferisce chiudere gli occhi o volgere lo
sguardo altrove, laddove si pensa non ci siano problemi. Sapendo, come noi
sappiamo, che i problemi rimangono, anche sotto la polvere.
Pietro viene scosso dal suo strato di polvere
dalla richiesta di una sua anziana vicina di casa che vuole capire i motivi ed
i modi della morte della figlia. Pietro, pima resiste, poi comincia a smuovere
qualche pedina, poi si lascia coinvolgere, in pieno e fino al midollo nella
storia della morte di Silvia.
In questo, coinvolto anche dall’arrivo della
sorella di Silvia, dall’esotico nome di Tundra. Una ex prostituta, che per
qualche via ignota Silvia era riuscita a far sganciare dal nodo del malaffare.
Silvia che lavora in una ditta di import dal Marocco. Immaginiamo subito che
dietro ci sia qualche losco giro di importazione anche di belle signorine da
avviare al “mestiere”.
Su questo filone di ricerca, si innesta anche
la vicenda Sebastião, immigrato regolare, ma senza mezzi, che aveva cercato di
far entrare in Italia da quei canali la bella moglie Jamali. Qui le cose, come
ovvio, si complicano. Primo, il ruffiano capo si invaghisce di Jamali e non la
vuole restituire al marito. Poi Jamali rimane incinta, e viene convolta Silvia,
con la promessa della liberazione di Tundra nel caso positivo di un aborto
riuscito. C’è anche un dropout dedito ai mille mestieri che viene a sapere
inavvertitamente della tratta di cui sopra.
Tutti i nodi vengono al pettine, prima o poi.
Il dropout che non si tira indietro coinvolge Silvia nella liberazione di
Jamali. Trucco che non riesce per motivi che non dico, ma che fa uscire per la
prima volta allo scoperto il vero capo dell’operazione. Così che, morti il
dropout e Silvia, sarà solo la pervicacia di Sebastião, di Tundra e di Pietro a
tentare un assalto finale per la soluzione del caso. In questo aiutati dai neri
che l’intervento sopra citato di Pietro aveva fatto uscire da una situazione
pericolosa.
Non vi dirò neanche come, perché ed in quale
maniera di arrivi alla fine. Ma ci si arriva. Sollevando, finalmente, molta di
quella polvere di cui si diceva. Volendo essere accondiscendenti, Pandiani
cerca di smuoverci, puntando l’indice contro l’indifferenza di chi sa ma non fa
niente per denunciare, così che presto si diventa complici. Una delle scene
migliori è il contraltare tra l’ora dell’aperitivo in centro e la descrizione
dei contrasti e delle difficoltà delle periferie.
Ritmo lento, ma bella scrittura. Qualche
freccia da scagliare contro il perbenismo di facciata. Ma Pandiani ci aveva
abituato ad altro, cui speriamo torni presto.
Seconda trama del mese, cui dedichiamo un
bell’allegato a chi ha o ha avuto venti anni.
Sempre
nel recupero di alcuni momenti che segnano punti di riflessione, oggi vi
riporto due frasi tratte dall’interessante “La diva Julia” di W.
Somerset Maugham. La prima ci fa riflettere sul rapporto con gli altri: “tutti
siamo inclini a pensare che gli altri possono avere le nostre virtù solo se
hanno anche i nostri vizi”. La seconda su tutto il nostro modo di essere: “tutto
il mondo è teatro … ma la realtà siamo noi, gli attori”.
È anche una domenica mesta, essendo sempre rivolta al compleanno che avrebbe portato mio padre verso i cento, se non fosse mancato ormai da più di 13 anni. Allora pensiamo, in questa campagna solatia, dove riposa e guarda verso un orizzonte per ora vasto. Che si spera, come orizzonte, si torni presto a praticare.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
GIUGNO 2021
Mi sa che ci vuole ora un po’ di
ottimismo, per vedere da lontano quell’età.
VENT’ANNI, AVERE
Corrado Alvaro “L’età
breve”
Honoré de Balzac “Papà
Goriot”
Mario Benedetti “Grazie per il fuoco”
Dino Buzzati “Il deserto dei tartari”
Ugo Foscolo “Le ultime lettere di Jacopo
Ortis”
Hubert Selby Jr. “Requiem per un sogno”
Cormac McCarthy “Cavalli selvaggi”
Herman Melville “Moby Dick”
John Steinbeck “Furore”
Jeanette Winterson “Il sesso delle ciliegie”
Bugiardino
Questa
volta le nostre libroterapeute ci fanno il solito elenco (decalogo per la
precisione) senza alcun commento. Ora, io, avendo avuto da lungo tempo l’età
suddetta, oltre ai libri in grassetto, ho letto (al liceo) Foscolo, poco dopo
Balzac e quasi venti anni fa Melville. Non conosco l’uruguagio Mario Benedetti,
mentre ho sentito parlare di Selby jr. (ma non ne ho letto nulla), ed
ovviamente di Corrado Alvaro (anche lui intoccato, ad ora).
Degli
altri quattro, ne riporto le mie trame in ordine di pubblicazione (di cui ben 3
lette nel 2012).
John Steinbeck “Furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato
il 12 febbraio 2012]
Sono ben due settimane che mi
porto appresso questo librone del Premio Nobel 62. Certo, le 400 e passa pagine
hanno il loro peso. Ma anche la scrittura e la trama in sé. Non che siano pese,
come direbbero i miei amici toscani. Di certo non sono agili, ma lo sforzo
meritava questa interessante lettura. Non lo inserisco nel mio olimpo privato,
che molto risente dei settanta anni trascorsi. Pur tuttavia ha fascino. E da
certi punti di vista, permette di guardare al mondo odierno e di darne qualche
chiave di lettura.
Cosa chiedere di più ad un, tutto
sommato, buon libro? Cominciamo dal titolo, forse il punto più dolente. Certo,
“Furore” è entrato nell’immaginario collettivo, ed è inscindibilmente legato
alla tipologia di vicenda delle rivolte dei poveri senza futuro. Ma anche “I
frutti della collera” come recita il titolo originale, non è che fosse lontano
da una bella descrizione del contenuto. Tra l’altro con cognizione, essendo una
citazione tratta dall’Apocalisse.
La scrittura di Steinbeck, poi,
consente di capire al meglio un grande numero di scrittori, o tipologie di
scrittori, americani di oggi. C’è questo suo alternare i capitoli: quelli
dispari parlano in generale, esaminano teorie e fatti universali, mentre quelli
pari seguono le vicende della famiglia Joad, presa a campione di tutte le
famiglie americane che attraversano questo grande momento di crisi, che saranno
gli Anni Trenta sul suolo americano. E queste due scritture, ci fanno capire le
tirate morali di DeLillo, la scrittura dura di Cormac McCarthy, l’impegno
sociale dei radical, il minimalismo post-carveriano. Insomma, si potrebbe
prendere il libro e tenerlo come antologia di migliaia di scrittori americani
che hanno scritto dal ’40 ad oggi.
La parte sociale pecca a volte di
ingenuità e buonismo, ma pone domande forti ed apre grandi piaghe: banche,
grandi società, con la forza del denaro e con l’industrializzazione forzata
delle campagne, invece di riconvertire i modi di produzione, preferiscono
creare nuovi poveri, che sono più facili da manovrare, da mettere uno contro
l’altro. E far arricchire di più i già ricchi. Che quando queste masse di senza
lavoro, scacciati dalle loro terre, come i Joad dall’Oklahoma, cercano nuovo
lavoro nelle piantagioni californiane, i grandi produttori non fanno altro che
sfruttarne la miseria per avere mano d’opera a basso prezzo.
E poiché se si ha fame si accetta
di tutto, questi nuovi poveri non hanno la forza, la capacità, di organizzarsi,
che solo facendo fronte comune potrebbero arginare l’arroganza del potere.
Arroganza ribadita dal potere costituito. Che polizie ed altre istituzioni da
una parte applicano la legge, facendo sì che i poveri non accedano a strutture
di sussidio. Dall’altra si schierano comunque con il potere, con il più forte,
con il denaro, e quindi arrestano e spesso uccidono chi tenta di ribellarsi,
chi tenta di unificare le debolezze. Come non leggere in controluce (e fatte le
debite proporzioni dovute al cambiamento della società da agricola ad industriale;
o a preindustriale, che se leggiamo bene, sacche di arretratezza italiane e
greche attuali, ancora lì sono ancorate) guasti dei modelli attuali. Lì il
denaro comperava le terre, e se ne serviva per altro. Qui il denaro compera il
denaro, ma anche qui il risultato finale è identico.
Certo, la critica di Steinbeck è
ancorata al New Deal rooseveltiano. Ma fatta salva la prospettiva storica, il
suo anelito a far fronte comune è sempre attuale. Tutta la storia poi, è
riversata nel concreto con l’epopea della famiglia Joad. Espropriata della
terra, come molti agricoltori dell’Est decide la grande traversata verso la
California, attraversando su macchine di fortuna più di 3000 km. La maestria di
Steinbeck è di far vivere alla famiglia tutti quei momenti di cui parla nei
capitoli dispari. L’arroganza delle banche, il depredare povero su povero
vendendo macchine scadenti, la fame, il ladrocinio dei proprietari
californiani. Ed anche le miserie private: la morte di dolore dei nonni, il
ribellarsi di Tom, il maturare di Al, la sfortunata gravidanza di Rosa Tea.
Su tutto, quasi ad ergersi come
baluardo, la presa di coscienza della madre, che a poco a poco diviene il
bastone della famiglia, senza la quale tutto potrebbe andare a rotoli. Ma è lei
che tiene uniti (appunto l’unione di cui sopra), ed è lei che fa vedere la
possibilità che in fondo al tunnel ci sia la luce. Sempre e soltanto se si
tiene in vita la luce della solidarietà.
Insomma, è un bel libro, faticoso
non nego, ma pieno di parole che ci fanno riflettere. E cosa chiedere di più?
Due notazioni per finire: la prima è musicale, come non ricordare il bellissimo
album di Bruce Springsteen dedicato all’eroe del romanzo (“The Ghost of Tom
Joad”); la seconda è di scrittura. Chi, se non un alto conoscitore delle
lingue, per descrivere i rovi che si attaccano alla lana delle pecore potrebbe
usare le seguenti parole: “i raffii rovi roncigli”? E come sarà l’originale?
Cormac McCarthy “Cavalli selvaggi” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato
il 06 aprile 2012]
C’è
tutto McCarthy in questi “graziosi cavalli” che vanno su e giù tra il Texas ed
il Messico. Le atmosfere, la natura, il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, il
rimpianto per un certo modo di vivere, il nuovo che avanza, i contrasti tra
generazioni, i contrasti tra ricchi e poveri. Una summa, scritta in quel suo
modo inconfondibile, senza le punteggiature dei dialoghi, che forse è l’elemento
cui mi abituo di meno.
Seguiamo
così la storia di un passaggio della linea d’ombra, come direbbe il non amato
Conrad. Della maturazione, presa di coscienza o simile del sedicenne John
Grady. Figlio di un giocatore d’azzardo che ha vinto e perso fortune al tavolo
da gioco e della bella ragazza della fattoria, che non ha mai amato, e da cui è
fuggita, lasciando tutto e tutti per andare a fare l’attrice in città. John
vive con il nonno e da lui impara l’amore per la terra, ma soprattutto per gli
animali, ed in particolare i cavalli. Muore il nonno, la madre vende tutto, e
John decide con il cugino Lacey che deve andare a trovare un posto per vivere
vicino ai cavalli.
Ne
seguiamo le peregrinazioni, l’incontro con il ragazzino Jimmy, quello fuori di
testa che ha paura di morire colpito da un fulmine. Fino a che non trovano una
momentanea pace nell’hacienda “La Purisima” in una sperduta vallata messicana.
Lì finalmente John ritrova i cavalli, trova il modo di farsi valere, e trova
anche il modo di innamorarsi di Alejandra, la figlia del padrone. E di
instaurare un rapporto di confidenza e stima con Donna Alfonsa, la zia che
tiene le redini del potere e della borsa. Ma è comunque un emigrante
rovesciato, che tutti cercano di andare dal Messico in America e non viceversa.
Questa
condizione di spaesato non può che portarlo fuori di pista. Che non conosce i
modi, anche brutali. Che pensa la verità sia sempre comprensibile a tutti. Non
sempre purtroppo è così. Soprattutto per chi non la vuole o non la sa capire.
Incolpevolmente coinvolto da Jimmy in una confusa storia di rapine e
contro-rapine di cavalli, si scontra con la (inesistente) giustizia messicana.
Con i bandidos, con le guardie. Ne uscirà a prezzi durissimi, indurito nel
corpo e nell’anima. E capiranno, prima Lacey, poi lui, che il Messico non può
essere il loro posto. John cerca ancora una via d’uscita, con un confronto duro
con Donna Alfonsa prima e con Alejandra poi. Ma non potrà che uscirne
sconfitto.
Dovrà
anche lui tornare in Texas, per saldare qualche debito. Ma non potrà rimanere
in quella terra (siamo più o meno negli anni Cinquanta) che sta scoprendo il
petrolio. Ed andrà alla ricerca di altri pascoli felici. Se tutta la prima
parte è giocata sul filo del rimpianto per un mondo che va scomparendo, lo
spartiacque si ha nello scontro con la polizia ed il carcere. E le ultime
sessanta pagine sono quante di più felice esce dalla penna del buon Charles
(che in gaelico si dice Cormac, e capiamo meglio i discorsi sulla modernità non
accettata).
Le
due lunghe tirate con le donne, l’anziana e la giovane, danno il senso al
romanzo. Con Donna Alfonsa che si lancia in un’analisi della rivoluzione di
Francisco Madero, attraverso la quale cerca di far capire a John un mondo che
John non ha gli strumenti per interpretare. Con Alejandra, scontrandosi la sua
incosciente irruenza con l’ardente pragmatismo della bella. E come detto, in
entrambi i casi verrà sconfitto.
Solo
i cavalli non lo deludono mai. Né lui li delude. Ma John tratta gli uomini come
i cavalli e vorrebbe essere ricambiato. Purtroppo, l’animale-uomo non ha
l’istinto di un cavallo, che comprende il cavaliere anche dall’odore. Di certo
non sono d’accordo nel piangere sul mondo che cambia. Perché non è certo stando
fermi che si riesce a mantenere quello che si ha o si è. Bisogna cambiare. O
meglio evolversi. Certo, e qui sono in sintonia, avendo rispetto.
Dell’ambiente. Dell’altro. Uno di quei libri che non è scritto nelle mie corde,
ma che è riuscito, pagina dopo pagina, a farmi entrare nel suo mondo. Ed a
rispettarlo.
Un’ultima
annotazione sulla casualità, come ne parla Donna Alfonsa. Che rifiuta
l’affidamento a destini appunto casuali, andando in profondità sul “testa e
croce” della moneta. Non solo è casuale quella di scelta. Ma a monte, è anche
casuale la scelta che fa il forgiatore di moneta, quando prendendo un tondino
metallico decide quale sia la testa e quale sia la croce. Se non lo avete
capito, che sono troppo conciso, possiamo aprirci un dibattito.
Infine,
non andate a vedere il film che ne è stato tratto con Matt Demon e Penelope
Cruz “Passione ribelle”, classico esempio di come fare un brutto film a partire
da un bel libro. Vi cito solo il commento del New York Times: sembra la brutta
copia della pubblicità della Marlboro.
“Non ti senti a disagio? … Ogni tanto. Se uno sta in un posto sbagliato
si sente a disagio.” (38)
“Io faccio sempre sogni strani … I sogni hanno vita lunga. Ancora oggi
sogno cose che sognavo da piccola.” (129)
“Non mi risulta che le difficoltà della vita rendano la gente più
compassionevole.” (219)
“Nella storia non ci sono gruppi di controllo [come negli esperimenti
di laboratorio] e nessuno può dire cosa sarebbe successo altrimenti.” (228)
Dino Buzzati “Il deserto dei Tartari” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato
il 20 maggio 2012]
Fino ad ora avevo letto solo
racconti o raccolti di racconti del milanese d’adozione Dino Buzzati. E si era
sempre sentito parlare, quasi come un eponimo, di questo deserto. Un titolo
diventato emblema di stati fisici e psichici. Ora, letto, ha una sua
ambivalenza. Da un lato conferma la forza interna dell’idea che diviene
simbolo. Dall’altra è comunque un romanzo tutto di testa, che ci fa riflettere
sulla vita (sulla nostra vita) ma non ha la forza di prendere altri sentimenti.
Niente moti, niente tatto, niente
gusto, e soprattutto, e men che mai, niente amore e sentimento. Anche la
vicenda, se così possiamo chiamarla, è lineare ed asciutto. Giovanni Drogo
nominato tenente a venti anni, viene destinato alla famosa (famigerata)
Fortezza Bastiani. L’ultimo baluardo di una civiltà, al di là del quale c’è una
grande e desolata pianura, chiamata deserto, da dove si favoleggia che un tempo
ci fu un’invasione di tartari.
Fortezza piena di militari,
ognuno con il suo compito, la sua routine, che aspettano succeda qualcosa. Essendo
militari, aspettano una guerra (ma non è un romanzo guerrafondaio). Ed in
quell’attesa, sperata e voluta, passano il tempo, aggrappandosi alla routine
quotidiana. Drogo non lascia grandi affetti o amicizie in città, si accorge
della desolazione del luogo, pensa di poter andare via. Ma dove? A poco a poco,
con piccoli moti dell’anima, piccoli spostamenti progressivi del dispiacere, si
incarta nel tempo della Fortezza. Si accende di volontà quando sembra che ci
sia realmente un nemico. Ma prima sono solo gente che mette pali di confine.
Poi un cavallo. Infine, operai che asfaltano e costruiscono una strada, che si
arresta a pochi chilometri della fortezza.
Il tempo trascorre, e mentre
Drogo pensa sempre che ci sia il modo, la possibilità di fare, anche se non
muove un dito in quella direzione, ecco che sono passati più di trenta anni.
Ormai è il comandante in seconda, quasi tutti sono andati via. Drogo si ammala
e si avvia nella china verso la morte, e mentre pensa di rassegnarsi anche a
questo, ecco che in effetti, arriva un nemico. Ma non è più il suo tempo, ha
mancato anche questo, come ha mancato tutti i possibili appuntamenti della
vita. E mentre altri ne saranno beneficiari, lui viene rimandato,
incurabilmente malato, a casa.
Perché non è un libro guerrafondaio?
Perché Buzzati utilizza la metafora della vita militare per rappresentare
qualcosa ben ordinato, con delle regole, cui è facile adagiarsi senza
domandare. Poteva scegliere altre vicende, altri scenari, ma questo, in realtà,
è proprio il più desolante che si possa avere. Poteva rifarsi alla vita di uno
scrivano che continua a scrivere e ricopiare pagine su pagine, senza capire
cosa siano e perché. Penso alla prima parte di Bartleby di Melville o a
Demetrio Pianelli (in quella magistrale interpretazione televisiva che ne diede
Paolo Stoppa).
Ma non è la storia che importa.
Quello che importa è il simbolo. La routine cui aggrapparsi per uscire dal
proprio nulla. Un nemico da inventare per darsi qualcosa cui sperare. La
chiusura degli occhi e di tutti gli altri sensi di fronte alla vita, che per
Buzzati è solitudine e priva di scopo. Talmente priva, che non vale la pena di
sforzarsi per modificare il lento binario che porta fino alla morte. Una
desolazione infinta.
Trenta anni nella fortezza, senza
neanche aver letto un libro, soltanto magari qualche partita a carte o a
scacchi con gli altri tenenti. E chissà di cosa vivono poi quei soldati, che
neanche hanno avuto un passato di cultura elementare come gli ufficiali. Come
un sogno, vedo passare i settanta anni dalla scrittura di questo deserto, e
vedo Drogo e gli altri davanti ad un televisore a “godersi” Grandi Fratelli,
Isole dei Famosi ed altre amenità.
Per fortuna, c’è altro nella
vita. Forse la solitudine rimane, ma non si può (non si deve) fermare le
rotelle del proprio cervello. Non dico che tutti, e sempre, abbiamo dei bei
sogni davanti, e la voglia di rischiare per metterli in pratica. Ma tutti,
tutti abbiamo la necessità, interiore, impellente, di dire fuori dal nostro sé.
Non fosse altro, che per essere noi stessi. E non mi ribattete che spesso ci
troviamo davanti muri invalicabili. E non è detto che si abbia la forza di
scalarli, o di aggirarli. Non è quello che importa. È importante, per il
proprio io, capire di essere davanti ad un muro e non far finta che ci sia
sempre qualcuno (magari un tartaro del Nord) che ci viene a salvare. Tutto, ma
non l’ignavia. Mi accorgo di aver fatto un lungo pistolone e forse anche fuori
contesto, ma che volete, questo mi ha ispirato Buzzati. E questo vi ripropone
il vostro narratore di trame.
“Si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono
sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro
può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per
questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la
solitudine della vita.” (160)
“Ha quindici anni da vivere in meno. Purtroppo, egli non si sente gran
che cambiato, il tempo è fuggito tanto velocemente che l’animo non è riuscito ad
invecchiare.” (164)
Jeanette Winterson “Il sesso delle ciliegie” Mondadori euro 9,50
[tramato
il 18 dicembre 2016]
Devo dire che mi lascia
alquanto perplesso l’idea delle “dottoresse dei libri” di inserire questo come
libro fondamentale per chi ha venti anni. Ho letto altro di Jeanette Winterson,
mi è discretamente piaciuto. Questo, lasciandomi anche abbastanza perplesso,
non credo lo consiglierei a molti. E di certo non ha chi abbia venti anni, cui
probabilmente suggerirei di dedicarsi ancora agli epigoni del giovane Holden.
Forse il solo elemento che un
ventenne potrebbe apprezzare è questo bandire il tempo. Non esiste passato o
futuro, c’è forse un eterno presente, che è quello che viviamo. Che, come un
pendolo, ci porta qua e là, riportandoci sempre, ed è questo il suggerimento
che direi di cogliere, verso noi stessi. Per gustare il libro, quindi, bisogna
mollare qualche freno, sganciarsi un po’ dalla pesantezza del nostro essere, e
far viaggiare la fantasia. Il tentativo della scrittrice inglese, tuttavia, non
mi ha convinto fino in fondo. Troppe e troppo intriganti le metafore, i salti,
anche le capriole. Tutto sembra da un lato ribadire un vezzo che trovo
deleterio negli scrittori moderni. Quanto sono bravo, vediamo se riesci a
seguire i miei voli pindarici. Per questo, a volte, preferisco tornare ad un
ruvido presente, magari chiazzato di giallo, come sanno bene i miei
appassionati, seppur pochi, estimatori.
Allora, veniamo quindi a noi,
a queste ciliegie, che per la maggior parte del tempo ci fanno vivere la
vicenda ai tempi di Cromwell. Dato poi che noi non siamo inglesi, un po’ di
fatica abbiamo a seguirne le trame nascoste, che la storia inglese non è pane
di tutti i giorni per me. Una vicenda quindi che si snoda, principalmente, poco
dopo la metà del 1600, tra le vicende della rivolta di Cromwell appunto (circa
1658) e la grande peste di Londra (che fece 75.000 morti intorno al 1665).
Almeno è così che l’autrice ci porta a leggere.
Ed in quel tempo vediamo
snodarsi la storia di Jordan e di sua madre. Una donna enorme, allevatrice di
cani, che salva un bimbo dalle acque del Tamigi (tipo Mosè salvato dalle acque)
e lo chiama Jordan (cioè Giordano). Vediamo Jordan crescere, vediamo la madre
adottiva fare mille attività, raccontarci mille episodi, anche truculenti, del
suo essere enorme. Vediamo infine Jordan trovare una propria strada, prima come
aiuto del giardiniere del Re. Poi, il Re deposto, ed altre vicende inglesi che
non vi sto a narrare, Jordan che parte su di una nave. Per tornare alla madre
solo in morte di quest’ultima.
Storia nella storia, c’è la
vicenda della ballerina e delle sue sorelle. Che Jordan vede (o sogna) di una
fantastica ballerina. La cercherà per tutto il mondo e per tutte le isole del
mondo. Veniamo così a conoscere la storia fantastica delle dodici principesse.
Che ogni notte fuggono dal loro letto per visitare una città sospesa in cielo.
Che vengono scoperte e date in moglie a dodici fratelli. Vediamo anche come
ognuna, a proprio modo, effettuerà una truculenta vendetta. Solo una però fugge
prima del matrimonio, vola su di una fune e non farà più ritorno. Anche quando
Jordan, innamorato, la cercherà ovunque.
Facile la metafora di una fuga
dai propri ruoli verso un’autentica libertà non solo di facciata. Poi nel
finale, l’autrice ci spiazza ancora, portandoci ad una storia del presente
(almeno del presente della scrittura). Dove ritroviamo, e senza troppa difficoltà
riconosciamo, tutti i personaggi della storia. Qui il cerchio si chiude. Qui la
storia, almeno per la scrittrice, dovrebbe avere un senso.
Il passato è un presente
traslato. Noi siamo qui ed ora, e le nostre vicende possono collocarsi ovunque
nel tempo. Anche nel futuro delle dodici sorelle. Anche, e soprattutto, nel
ruolo immaginario della ballerina. Dobbiamo seguire i nostri sogni, senza
condizionamenti. Dobbiamo essere noi stessi, sia se siamo sognatori come
Jordan. Sia se siamo enormi e sgraziati come la madre adottiva. Ci dice,
infine, che è anche l’amore (ed ovvio che l’amore e l’immaginazione vanno
sempre a braccetto) che ricongiunge luoghi e persone. L’amore opera miracoli.
L’amore ed il viaggio. Come non essere d’accordo? Sembra quasi che si parli di
me. Purtroppo, la scrittura non rende felice questo viaggio tra le pagine. Mi
sono appassionato all’idea. Mi ha sconcertato e raffreddato la sua
realizzazione. Allora, bando alla scrittura, e largo all’amore. Con tutto
quello che ne consegue.
Conclusioni
Come dicevo nel corpo delle
scritture, avrei meglio visto qualche epigono del giovane Holden. Ma soprattutto
avrei messo al posto d’onore Paul Nizan che comincia il suo bellissimo “ADEN,
ARABIA”, con le seguenti bellissime parole: "Avevo vent'anni. Non
permetterò a nessuno di dire che questo è il periodo migliore della vita".
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