Questa settimana, visto che siamo in tempi olimpici, vi propongo una sfida tra due grandi case editrici, tutta al femminile. Per Garzanti abbiamo una turca che parla di Brasile ed una spagnola che ci riporta a Barcellona. Per Sellerio, invece abbiamo la finta autobiografia di Petra ed un intrigante libro quasi “juvenilia” che viene dalla Francia. Alla fine, un salomonico pareggio, purtroppo neanche tanto eccelso.
Aslı Erdoğan “La città dal mantello rosso”
Garzanti s.p. (prestito di Fako)
[A:
03/06/2020– I: 19/01/2021 – T: 21/01/2021] - &&
[tit.
or.: Kırmızı Pelerinli Kent; ling. or.: turco; pagine: 151;
anno 1998]
Dopo
tanto tempo, una nuova scrittrice turca, letto sotto il solito perverso impulso
del mio amico Fako. Purtroppo, una piccola delusione che mi aspettavo qualcosa
in più, o diverso. La Erdoğan è un’attivista ben nota, e noi siamo con lei
(idealmente) nel contrastare il regime del suo omonimo non parente Recep Tayyip
Erdoğan.
È
anche nota e discretamente apprezzata come scrittrice, pur avendo seguito un
percorso decisamente ellittico per arrivare alla scrittura. Laureatasi in
Fisica all’Università del Bosforo, si specializza al CERN di Ginevra studiano
il bosone di Higgis, quindi ai avvia ad un dottorato di ricerca in Brasile.
Dove continuerà ad avere il suo gran colpo di fulmine verso la scrittura. Colpo
già iniziato da tempo, ma proprio a Rio de Janeiro maturato e portato (quasi)
ad un punto di non ritorno. Tornata in Turchia, intorno al ’96-’97 decide di
abbandonare l’Università e di dedicarsi completamente alla scrittura, terminando
la scrittura di questo romanzo che stiamo tramando e che prenderà la luce nel
1998.
Queste
notizie non sono peregrine ma servono ad inquadrare meglio anche lo scritto.
Per quanto riguarda invece la scrittrice, dall’uscita del libro, intraprende anche
la via giornalistica, unita, ovvio, alla protesta sociale. Per arrivare alla Aslı
oppositrice del regime che molti conoscono.
Il
libro si muove su due piani, e già questo non è facile da gestire, né per la
scrittrice né per il lettore. C’è il racconto della vita della protagonista,
cui l’autrice dà il nome significativo di Özgür (che in turco significa
“libera”). Intrecciato, c’è il racconto o meglio brani del libro che Özgür sta
scrivendo, questa “Città dal mantello rosso”, che noi stiamo leggendo. Özgür
arriva a Rio carica di aspettative: segue il suo corso di dottorando, e da
trentenne in cerca della sua strada, prova anche a mantenersi dando lezioni di
inglese (tanto che verrà presto chiamata “gringa”). Una volta inseritasi nelle
pieghe della città, la sua vita ed il modo di percepirsi cambia. Cambiando
anche lei, incuneandosi in un vortice di povertà, di solitudini, di privazioni
e di eccessi.
Non è
un caso, che Özgür si ritrovi alla fine a vivere in una favela, seppur non in
una delle peggiori. Lì sentirà (e questo cercherà spesso di esprimerlo parlando
delle passeggiate di un viaggiatore nella città) i denti della città che
cominciano a morderla. La scrittrice reale, la scrittrice fittizia, ed il
romanzo composito che stiamo leggendo, cominciano a descrivere allora quella
che è la Rio più reale e quotidiana: rapine all’ordine del giorno in molte
delle strade secondarie, morti, omicidi, stupri, traffici vari (droga e armi
soprattutto), scontri tra bande rivali, epidemie e soprattutto caldo, tanto caldo
che neanche i succhi di frutta gelati riescono a sedare.
Lì a
Rio, nelle favelas dove l’arrivo di un nuovo carico di droga viene salutato da
una selva di fucileria, si può essere uccisi per strada in qualsiasi momento.
Per strada dove vivono e giacciano senzatetto, per strada dove vagano bambini
affamati, con i segni delle percosse e di torture, persi nei meandri di
prostituzione infantile, bambini tubercolotici fin dall’infanzia. E le donne,
sensuali fino all’unghia. Ma anche le donne “ibride”, anime perse che sono
l’ossatura della città, brutali, violente e violentate. Con una descrizione
fenomenale nella sua non ortodossia, del Carnevale e del famoso “Sambodromo” di
Rio.
Tutto
porta Aslı a denunciare in fondo il contrasto immenso tra la città turistica,
la spiaggia di Copacabana, e i sobborghi malfamati, che poi sono l’80% di Rio
stessa. Ma la denuncia di Aslı è poi da un lato nota, dall’altro cosa apporta
al suo superamento. Sappiamo che è così, ma cosa si può fare? E soprattutto,
cosa può fare una turca con un libro, che non so quanto mercato abbia avuto
nello stesso Brasile.
Seguiamo
la vicenda di Özgür nelle non molte pagine, seguiamo idealmente il ritorno di Aslı
in Europa, ma la vicenda non prende, non decolla. Anche perché in Italia arriva
solo ora, venticinque anni dopo. Forse sono realmente troppi.
Poiché
quindi il libro in sé non mi ha entusiasmato, e pensando al mio amico Maurizio,
vi lascio con le raccomandazioni che Aslı fa ai viaggiatori: “Guardate il
tramonto dal Corcovado (quella famosa e colossale statua di Cristo), uno
spettacolo impressionante (ma veloce ai tropici) e provate sicuramente il succo
di papaia fresco. Ma vi raccomando di ricordare per un momento l'AIDS di Rio e
i record del crimine, di non vagare mai da soli in nessuna circostanza, di non
indossare mai orologi, oro o gioielli e di prendere tutti i tipi di precauzioni
razionali in modo che il sangue della città non ricada su di voi”.
Alicia
Giménez-Bartlett “Autobiografia di Petra Delicado” Sellerio euro 15 (in realtà,
scontato a 12,75 euro)
[A:
18/01/2021 – I: 14/02/2021 – T: 17/02/2021] - &&
[tit.
or.: Sin Meurtos; ling. or.: spagnolo; pagine: 455;
anno 2020]
Una
lettura immediata, senza troppo tempo dopo l’uscita, in base ad una nuova serie
di algoritmi di lettura. Anche perché appena uscito, è un libro che è balzato
ai primi posti delle classifiche di vendita. Sarà per l’effetto “Cortellesi”
dell’uscita televisiva, sarà per il nome di Alicia che in ogni caso attira.
Certo, una volta letto, mi ha lasciato un po’ deluso.
Innanzi
tutto, trovo molto più calzante il titolo spagnolo. In effetti, è un libro
senza morti, o comunque senza indagini. Certo, Petra scrive con la penna di
Alicia, raccontando la sua vita, dalle origini ai giorni nostri. Una
bio-fiction perfetta. Cioè, non una biografia inventata di una persona reale,
ma una biografia reale di una persona inventata. Magistrale.
Ma
una volta reso omaggio all’idea, non è che sia entusiasmante, o che sia
particolarmente coinvolgente. Perché noi attenti lettori degli scritti della
brava spagnola, già sappiamo quasi tutto di Petra. E questa lettura poco ci
aumenta nella conoscenza, ma in compenso ci priva delle storie e del quotidiano
di Petra e di Fermín.
Il
tentativo poteva anche avere una sua validità, o forse ce l’avrà per chi
conosce solo in parte la vita di Petra. Ma noi, i caposaldi del suo percorso di
vita li abbiamo seguito libro dopo libro, scoprendone alcuni, prendendo
conoscenza di altri. Come il fatto che si è sposata due volte prima di avere
questa forse ultima avventura con il buon Marcos. Con Hugo, il primo, in cui
rivedeva forse la figura paterna, o comunque qualcuno cui affidare il proprio
avvenire senza farsi tante domande. Laureandosi, senza tanta convinzione, in
Giurisprudenza, facendo per un po’ l’avvocato, per poi rendersi conto che
quella era la vita di Hugo, non la sua.
Quindi
il primo divorzio, la decisione di entrare in polizia, e quel passaggio verso
l’Ufficio Documentale, che non sembrava esserci altro per lei. E poi Pepe, dove
i ruoli si ribaltano, e Pepe vede in lei la figura genitoriale che gli era
mancata. Si, bello avere qualcuno che ammira sempre quello che fai. Ma meno
avere qualcuno che dipende sempre da te, anche per scegliere i calzini. E che
non ha mai una sua iniziativa propositiva.
Quindi
il secondo divorzio, meno traumatico, tanto che Pepe rimarrà sempre un amico
con la sua aria sfrontata ed un po’ tra le nuvole. Però questo coincide con il
passaggio alla Sezione Omicidi, con l’incontro fondamentale e reciprocamente
utile con Fermín. È inutile, qui, ripercorrere tutti i momenti della storia di
questa che diventerà l’amicizia di fondo della vita di Petra. L’abbiamo seguita
passo dopo passo. Abbiamo gioito quando Fermín decide di convolare con
l’esuberante Beatriz. Abbiamo penato quando non si sapeva se tra Marcos e Petra
c’era solo sesso. Ed abbiamo ringraziato Alicia di averli riportati su binari
altri, con l’ulteriore sfida, per Petra, non solo di accettare le condivisioni
con Marcos, ma anche le sue famiglie pregresse. E sappiamo bene, dai vari
libri, quanto poi si si affezionata ai gemelli ed a Marina.
Quello
che mancava, forse la sola parte di novità, anche se qualcuno si potrebbe
domandarne l’utilità, sono i primi venti anni di Petra. L’infanzia, le due
sorelle maggiori, la madre onnipresente ed onnigiudicante. I primi anni nella
scuola delle suore, le ribellioni velate. E poi la scoperta dell’Università, di
un mondo libero fuori dal mondo oppressivo, anche se liberale, di famiglie
comunque segnate sia dalla Guerra Civile, sia dai lunghi anni del franchismo
imperante.
Capiamo
di più e meglio alcuni tratti del carattere di Petra, delle sue piccole
ribellioni anche da adulta, del micro-femminismo che a volte mette nelle
indagini. E sì, che qualche accenno c’è, e non può non esserci, alle indagini
che ben conosciamo dai libri. Agli interrogatori duri, a volte più duri da
parte sua che da parte di Fermín.
Ma
alla fine, molte sono le domande che restano, e molte, purtroppo, forse senza
risposta.
Il
più importante, per me, è che benché collocata nel tempo, con precisi
riferimenti anche agli avvenimenti esterni, non si ha la percezione precisa di
quanti anni abbia Petra, e soprattutto di quando li abbia. Certo, i personaggi
letterari sono un po’ nebulosi. È raro che qualche scrittore riesca a farli
aderire alla realtà, passo dopo passo. Quindi, se ora, mettiamo, Petra potrebbe
avere una cinquantina d’anni, ne avrebbe avuti solo sei-sette alla morte di
Franco. E sarebbe andata all’Università in un clima molto post-franchista. Se
invece stiamo ai suoi racconti, allora dovrebbe avere almeno sessant’anni, se
non di più.
Se
facciamo un po’ di calcoli, all’inizio Petra dice di essere poco al di sopra
dei quaranta. Siamo in “Riti di morte” del 1996. In realtà arrivati a "Il
silenzio dei chiostri" (2009) la nostra protagonista avrebbe dovuto aver
superato abbondantemente i cinquanta! Infatti, nel primo libro, "Riti di
morte" dice di essere stata sposata 14 anni con Hugo, conosciuto
all'università, e che altri sette anni sono passati da allora: e fanno ventuno.
In "Un bastimento carico di riso" (2004) afferma di lavorare con
Fermín da sette anni. In "Nido vuoto" (2007) è passato ancora un
altro anno. Il conto è semplice: almeno 29 anni dal momento del primo
matrimonio, avvenuto dopo la laurea in giurisprudenza.
Ma
probabilmente sono io che sono un po’ “rompino”. Alicia fa dire a Petra, per
via traversa, che è nata negli anni Cinquanta. Così che ora si dovrebbe avviare
ai settanta. Ma i personaggi letterari godono della sospensione temporale, per
loro ogni anno sulla carta dura dure o tre anni reali.
Infine,
per non tediarvi troppo con le mie elucubrazioni, quanto di Alicia c’è in
Petra, visto che Alicia sì che è nata negli anni Cinquanta, per l’esattezza il
10 giugno del 1951, per cui quest’anno festeggeremo i suoi settanta bellissimi
anni
Carolina
Pobla “I gerani di Barcellona” Garzanti s.p. (Prestito di Alessandra)
[A:
19/08/2020 – I: 02/03/2021 – T: 05/03/2021] - &&
e ½
[tit.
or.: Geranios en el balcón; ling. or.: spagnolo; pagine: 407;
anno 2018]
Uno
dei tanti libri estivi di Alessandra, preso per l’estate passata che ci ha
visto un po’ fermi e quindi anche più leggente. Inserito anche nel filone delle
grandi storie familiari che l’anno scorso hanno un po’ dominato il mercato,
sull’onda di Stefania Auci e dei Florio.
Qui,
il tempo è più stringato, anche se comunque importante, visto che andiamo dal
1928 al 1953 (anno eponimo come non mai). Il solco narrativo è però sempre
simile, anche se, cambiando i nomi, l’autrice confessa di parlare dei suoi
nonni paterni. Facendo un po’ di conti, quindi, essendo Carolina del 1962,
dovrebbe essere figlia di quel Santiago nato agli inizi degli anni ’30.
La
vicenda si svolge (quasi) tutta in Catalogna, prendendo le mosse dal
capostipite della famiglia Torres, uomo dai mille mestieri che ora si trova a
governare traffici marittimi, con quattro figli a carico (per tradizione
familiare tutti con la R): quattro femmine, Rosario, Remedios, Roscio e Rosa,
ed un maschio, Rafaelito. Ovvio che comincia tutto con un dramma: la perdita
della nave, da cui però il signor Torres si ricicla andando a vivere
all’interno, e dedicandosi al commercio di armi da fuoco. Vediamo Rosario, la
maggiore, la più bella, che si fa abbindolare da un artista che le millanta
conoscenze e la spinge al canto per la sua comunque notevole voce. Vediamo la
seconda, Remedios, succube del fascino della sorella, dedicarsi ai giardini e
soprattutto ai gerani del titolo. Vediamo la terza, Roscio, sempre tra casa e
chiesa. Vedremo anche il dramma dei due piccoli. Che porteranno Roscio a
prendere le redini della casa, e chiudere per sempre con le due sorelle, che in
cerca di avventure, si trasferiscono a Barcellona.
Lì,
scoprono che il millantatore non aveva gran che da proporre loro se non una
vita presso una anziana ex-tenutaria di bordelli. Certo, la signora Paquina ha
ancora molte conoscenze, che istradano Remedios verso la sartoria, dove
conoscerà il suo futuro marito e con il quale avrà lunga vita altrove. Ma
conducono anche Rosario presso un imprenditore che, per farle fare strada nel
canto, non ha altro mezzo che “venderla” ad un anziano ricco signore. Rosario
inizierà la carriera facendosi chiamare Charito, avrà iniziali successi, fino a
che conoscerà il bel Tobias. Di lui, nella prima metà seguiamo vita e peripezie
in Canada, prima del ritorno a Barcellona, e l’incontro fatale con Charito.
Ci
meravigliamo forse che i due finiscono presto a letto? Che Rosario rimanga
incinta? Che debba decidere se previlegiare la famiglia o la carriera? Tutto un
po’ scontatello. Ma tant’è, la vita di tutti cambia. Anche perché si
approssima, e poi deflagra, la guerra civile. Questa è la parte più debole del
libro, che viene affrontata un po’ dal basso (e non sarebbe una brutta idea),
vedendo più le sofferenze quotidiane che le grandi manovre politiche. Ma questo
passa la scrittura.
Tobias
un po’ si barcamena, un po’ viene imprigionato, ma salvato da Magda, una
anziana amica di Rosario. Fuori dal carcere, Tobias si rifà una vita
lavorativa, riciclandosi in mille lavori, per poi finire l’ultima parte della
sua storia inseguendo collezioni di francobolli.
Remedios
sposa il suo Enrique, si trasferisce ad Alicante, dove la raggiunge la ormai
vecchia Paquina, che lì morirà, lasciando tutte le sue sostanze alla cameriera
Hortensia. Tobias e Rosario avranno intanto una seconda figlia, la bella
Soledad. Non ci meravigliamo neanche che durante gli anni ’40, Charito
incupisce, risvegliandosi solo al mattino, quando canta in casa accompagnata da
un pianoforte di ignota suonata. Ma quando il pianista muore, Charito entra in
depressione, andrà dentro e fuori istituti psichiatrici, uscendone dopo un
elettroshock, assai stordita.
Tanto
da non accorgersi che nel frattempo Tobias si consola con Juanita, che la mette
incinta. Con Juanita che muore di parto, la piccola affidata ad Hortensia, e
Tobias tornato nell’alveo familiare, accanto ad una Charito sempre più assente.
Una
saga di 25 anni, un po’ moscetta, anche se con qualche spunto da “fiction di
Rai1”. Anche i personaggi non hanno mai un rilievo forte, quasi attraversassero
la vita senza rendersi conto della vita che stanno vivendo.
Ritorno
solo sulla parte dedicata agli anni della Guerra Civile, che, per il modo in
cui incise nella vita spagnola per quasi quaranta anni, andrebbe forse trattata
in maniera meno “leggera”.
Penso
che rimarrà una lettura isolata, tanto per riposare i due neuroni affaticati.
Finisco
con la solita domanda: perché i gerani del balcone diventano “gerani di
Barcellona”? Certo la capitale catalana è ben presente nel racconto, ma il
titolo italiano dà un connotato alla vicenda che non è presente nel corso della
scrittura di Carolina.
Ingrid
Seyman “La piccola conformista” Sellerio euro 15 (consigliato d Robinson)
[A:
25/02/2021 – I: 13/04/2021 – T: 14/04/2021] - &&
e ½
[tit.
or.: La petite conformiste; ling. or.: francese; pagine: 187;
anno 2019]
Continuando nelle letture di libri nuovi
suggerite dal supplemento repubblicano, mi imbatto in questo libro che pensavo
nordico ed invece è francese. Opera prima di una giornalista da anni scrivente
su “Marie Claire”. Si vede che Ingrid sa sbrogliarsi da difficili momenti di
scrittura, come impara chi lavora ai periodici. Ma si vede anche il vezzo
giornalistico di affrontare mille e mille problemi, in un calderone a volte un
po’ pesante per la digestione.
Perché se è vero che la lettura scorre
leggera, è anche vero che si parla di rapporti familiari, adolescenti (o
infanti) in crescita, legami e dissapori tra religioni, ciclotimia, burrasche
psichiche, emigrazione, vittoria di Mitterand e delusioni della sinistra al
potere, pieds-noir e francesi doc. Vi basta? Forse troppo, vero?
Intanto, e di sicuro, non possiamo che
plaudire all’ambientazione. Una Marsiglia non solo Izzo, anche se piena di
contraddizioni. E lunghe puntate anche nei dintorni: Cassis e le calanche, La
Ciotat, fino alle spiagge naturiste di Port Grimaud. Alcune gite che fanno
tornare la voglia di frequentare di nuovo la costa mediterranea francese.
Tuttavia, la storia è imperniata, incistata
direi, intorno all’io-narrante (se volessi fare il sapiente parlerei di
narrativa autodiegetica, ma sorvoliamo), la piccola (quando inizia il romanzo) Esther
Dahan. Una narrazione che affronta (anche) tutti i problemi sopracitati con un
fare ironico ed a volte sapientemente comico. Esther che narra essere nata di
destra da una famiglia di sinistra. Nata il giorno di Natale da Babeth, una
madre atea ed hippie che ha fatto il ’68, e da Patrick, un padre ebreo non
molto praticamente. Che in effetti ricorda le sue origini solo in alcune
situazioni specifiche: per fare il bar mitzvah al fratello Jeremy, per litigare
con Esther quando questa vuole (e farà) il battesimo e la comunione. Per
sentirsi omologata nella scuola ipercattolica che frequenta, ma anche per fare
un dispetto ai suoi.
Che sempre in antagonismo con Patrick si
trova, ma sempre a Babeth che farà, involontariamente, del male. Patrick che
l’assilla, anche, con il fatto che, benché siamo alla fine degli anni ’70, c’è
sempre la possibilità che arrivino i cattivi e portino di nuovo tutti gli ebrei
nei campi di sterminio. Patrick che vive nel mito, molto campato in aria, delle
origini algerine della famiglia. Come stavano bene laggiù ad Orano, che vita si
faceva ad Algeri prima che la famiglia fosse costretta a tornare in Francia. Di
cui rimane solo un vaso di terracotta piena della terra del loro vecchio
giardino.
Vediamo Esther con le sue manie di ordine e
pulizia, che lei etichetta appunto di destra, in contrapposizione allo schema
libertario di vita della famiglia. Che Babeth e Patrick girano sempre nudi per
casa, non si fanno remore di darsi ad effusioni anche con i bambini in giro,
che parlano di tutto. Laddove Esther vuole andare a letto alle otto, ama la
grammatica, ordina i libri per argomento, anela vestitini blu e gonne a pieghe,
invece dei pantaloni a zampa d’elefante di Babeth. Vorrebbe musica e
televisione invece delle pantomime paterne, che si traveste da Alain Delon e si
registra mentre canta canzoni di Jacques Brel e Georges Brassens.
Una situazione forte, per una bimba che,
vessata e stressata, medita anche parricidi ed altre morti, immergendosi nella
lettura integrale di Agatha Christie per avere spunti.
Pur non essendo riuscito fino in fondo, di
sicuro merita una lettura per una serie di motivi. I siparietti comici: la circoncisione
di Jeremy e la storia del vaso algerino, le visite antagonistiche alle famiglie
borghesi ed i battibecchi con i nonni. Un modo di mettere alla berlina il
progressismo di un tempo ormai passato. La storia di una famiglia “diversa” ma
uguale tolstoianamente a tante altre, vista con gli occhi di una Esther
controrivoluzionaria interprete di una ribellione anticonformista alle
irrequietezze della sua famiglia e del mondo.
Ed il finale, che merita di essere letto
senza essere commentato, che solo arrivati alla fine si legge e si interpreta
quanto letto. Ma di ciò non dico altro, per tema di uscire dal seminato.
Personalmente, a volte trovo sbilanciato il
troppo riso, enfatizzato il comico a spese dell’analitico, per cui non mi ci sono
ritrovato fino in fondo. Mi sembrava promettesse molto nel primo capitolo. Ma
non sempre si riesce a mantenere a lungo quel modo di leggere la realtà, e di
viverla. Per cui, giudizio interlocutorio.
Essendo la quarta trama, vi faccio riposare
con allegati et similia, ma non posso dimenticare una bella frase, di un libro
che mi regalarono i miei compagni di lavoro quando andai in pensione. Ed era
una frase (anzi è) molto giusta. Il libro è “E poi siamo arrivati alla fine”
di Joshua Ferris che mi suggeriva: "È davvero irritante
lavorare con persone irritanti".
Anche luglio volge al termine, e le
incertezze, invece di diminuire, aumentano. Si riuscirà a partire? Ad agosto? A
settembre? E per dove? Che ansia…
Per fortuna che ci siete voi, miei amici e sodali, che posso abbracciare ed a cui posso inviare un bacio.