Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”
Repubblica Mondo 11 euro 9,90
[A: 04/02/2019 – I: 21/08/2021 – T: 23/08/2021]
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[tit. or.: Antes que anochezca
(Autobiografia); ling. or.: spagnolo; pagine: 347; anno 1990]
Un
libro veramente difficile. Non per la scrittura, ma per la tipologia dei
contenuti. Anche se la preponderante parte omosessuale, benché troppo esibita,
forse, ci può stare, la parte visceralmente anticomunista e anticastrista (che
si può capire) risulta forzosamente inserito. Una bandiera da esibire, senza
mai porse una domanda o macerare un dubbio (o almeno così salta fuori dalla
pagina).
Ora,
io non ritengo di avere nulla da opporre alla presentazione della vita, quale
che essa sia. Tuttavia, la vita di Reinaldo mi sembra da lui essere stata
troppo semplificata: sesso tanto, amore poco o nulla. Troppo squallido. Io so,
e vedo, amori omo, etero e bisessuali che vanno da grandi picchi a profondi
abissi. Qui, c’è solo sesso. E anche molto squallido. Anche perché, per
Reinaldo, tutti sono gay: i gay, le donne, gli uomini tutti, sposati o meno.
Troppo facile, troppo semplicistico. Quasi fosse solo un tentativo, come dicono
i francesi, per “èpater les bourgeois”.
Di
certo, non può mancare l’empatia con una persona che, malata di AIDS, trova la
forza, la volontà, di scrivere, di narrarsi, di mostrarsi nudo e a nudo. Con le
due pagine migliori e più forti che sono le ultime due. La descrizione della
luna sopra Cuba, lirica, bellissima. E la lettera di addio, di chi, capendo di
non farcela più, decide che “per lei lascia la vita”.
Il
volo d’uccello che ci impone l’autore, invece, all’inizio sembrava promettere e
bene. La descrizione dell’infanzia, povera ma felice. Il rapporto con la nonna,
e quello, mai risolto e forse irrisolvibile, con la madre. La campagna, il
fiume, gli animali, l’orto. E la scoperta della propria omosessualità. In modo
semplice e non traumatico. Anche se poi, il trauma, lo dovrà portare per tutta
la vita. O almeno per tutta la sua vita cubana.
Arenas
è del ’43, quindi ha tutta l’infanzia e la giovinezza per vivere la sciagurata
permanenza al potere del dittatore Fulgencio Batista. Quando Cuba era solo una
grande casinò per gli americani danarosi e per i mafiosi di ogni risma.
Soggettivamente, il periodo di Batista, porta un aumento della povertà nelle
campagne, tanto che la famiglia Arenas vende tutto e prova a reinventarsi una
vita possibile nella triste città di Holguin, nel sud di Cuba.
All’inizio,
come tutti d’altronde, si unisce alla rivoluzione. Ma dalle sue parole, scritte
anni ed anni dopo, traspare solo la delusione. Certo, il castrismo non fu rose
e fiori, come tutte le rivoluzioni. Come diceva tal Andreotti, “il potere
logora chi non ce l’ha”, ma corrompe che ce l’ha. Non entro, non voglio entrare
in polemica con l’autore. Mi sono limitato a leggerne le parole, a capire
quanto c’era di vero e quanto di iroso rimpianto. E non è facile.
I
regimi dittatoriali (ed anche a Cuba, c’è una dittatura, di sinistra, volendo,
ma con tutte le contraddizioni e le difficoltà di un popolo assediato, che
resiste, fino all’ultimo goccia di sudore, alle lusinghe americane) hanno
sempre mostrato poca propensione all’accettazione dei diversi. E di sicuro,
negli anni ’60 e ’70 anche per Cuba era lo stesso. Il machismo dei Caraibi è
ben noto. Ma dopo, ora, almeno nella Cuba che ho visto io, il clima mi è
sembrato diverso. Tuttavia, non essendo né cubano né omosessuale, forse ho
parametri di comprensione diversi.
Comunque,
la scrittura che ci riporta a tutte le traversie passate da Reinaldo per
cercare di allontanarsi da Cuba è ben partecipata. Si soffre con lui, pur
essendo da posizioni diverse. Ed in queste traversie, inizia a scrivere questo
testo, ma solo di giorno, perché la notte non c’è luce. Viene imprigionato,
condannato, rilasciato. Poi, nella grande confusione del 1980 con l’assalto
alle ambasciate, riesce, con uno stratagemma, a fuggire a Miami. Corregge a
penna il passaporto, cambiando Arenas in Arinas. E finalmente, dice, respira la
libertà.
Anche
fuori Cuba, però, avrà non poche delusioni. Quando i suoi scritti venivano
trafugati di nascosto, era diventato un simbolo. Ora che parla apertamente, in
giro per il mondo, scopre l’ipocrisia di tutta quella frangia radical-chic, che
non crede alle sue traversie. Noi ci crediamo? In mancanza di controprove, si.
Che comunque, è quello che Reinaldo sente. Quello che ci comunica, quello che
per dieci anni lo sostiene. Finché, anche l’AIDS lo stronca.
Alla
fine, uno scritto ambivalente. Umanamente, lo seguo. Politicamente, mi sorgono
interrogativi. Che sono sempre quelli legati agli sforzi per permettere
all’uomo di sviluppare le proprie capacità. Non so quale sia la ricetta giusta.
Forse non c’è. Di certo, l’unico parametro che mi sento di portare avanti a
tutto è il rispetto. Se c’è, si può cercare di migliorare. Se non c’è, rimane
la prevaricazione di chi urla più forte. E non è questo il mio mondo.
“Ho
sempre pensato che sia meglio conoscere gli scrittori da lontano, leggerli,
piuttosto che conoscerli personalmente, perché c’è il rischio di rimanere
terribilmente delusi.” (332)
Amitav Ghosh “Le linee d’ombra” Repubblica
Mondo 12 euro 9,90
[A: 24/02/2019 – I: 23/08/2021 – T: 25/08/2021]
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[tit. or.: The Shadow Lines; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 1988]
Torno
ancora una volta al sempre gradevole Ghosh ed alle sue storie indiane. Qui,
addirittura, siamo risaliti indietro sino al secondo libro da lui scritto, poco
più che trentenne. Se ne sente, a volte, un po’ di scrittura acerba. Che nelle
prove successive, pur mantenendo immutato un certo modo di porgere la storia,
il flusso narrativo risulta più lineare. In questa più che onesta prova, a
volte, pare necessario riprendere fila di un discorso non si sa dove
interrotto.
Non
siamo ancora alle grandi saghe della maturità della scrittura di Ghosh, né ai
reportage da tutte le zone asiatiche. Tuttavia, c’è un filo che collega questo
agli altri romanzi di Amitav. L’attenzione alla situazione locale, l’attenzione
ai rapporti tra hindu e muslim, ma anche tra indiani in genere e gli inglesi.
Attraversando nel tempo momenti topici della storia indiana.
Certo,
la non linearità della narrazione è uno degli elementi che a me disturbano
maggiormente, che alla fine devo ricostruire vicende e rapporti, alla luce di
quanto viene detto dopo ma che avviene prima. Ci sono infatti momenti di
difficoltà tra i personaggi, che si capiscono solo alla fine. Ma andiamo con
ordine.
La
storia coinvolge una grande famiglia indiana, originaria, agli inizi del
Novecento in quel di Dacca. E vedremo come sia importante. Due fratelli, che
litigano, si dividono la casa. Noi seguiamo uno dei due. Soprattutto, vediamo
cosa succede alle due figlie. Una, Maya, la più bella, trova presto un buon
matrimonio con un funzionario legato alla diplomazia, così che riuscirà a
girare il mondo. L’altra, la nonna del narratore, che sposa un ferroviere, che
vive a lungo in Birmania, ed alla morte del marito nel ’36, si reinventa
insegnante in una scuola a Calcutta.
Ed è
Kolkata una delle protagoniste della storia, così come esce dalla narrazione
del protagonista. L’altra è Londra, anche lei narrata dal piccoletto. E poi c’è
Dacca, che entra solo per narrazioni laterali, anche se ha una sua funzione
nella storia.
La
famiglia di Maya, nel ’39, per motivi medici, va in Inghilterra. Oltre i
genitori c’è Robi, il cugino poco presente, ma soprattutto Tridib, sognatori
con i suoi occhiali ovali dalla montatura dorata. Tridib che poi sarà il
mentore del narratore, che gli parlerà della storia inglese, di chi ha visto,
dove, e soprattutto gli parlerà di May Price, l’amica inglese di tutta la vita.
Il
narratore interviene solo negli anni ’50 (sappiamo che nasce nel ’52),
affascinato dalle storie del ventenne Tridib, che gira per la città, che beve
tè, che ha problemi di stomaco (e lo capisco bene). Ogni spunto è buono per lo
sfuggente Tridib, narrazioni archeologiche, tracce di ricordi, e soprattutto
una fervida immaginazione che quando non sa, inventa. E negli anni ’50
interviene anche Ila, la terza figlia di Maya, la cuginetta che sconvolgerà gli
affetti del narratore, ma che volerà per altri lidi.
Ghosh
riesce a dipingerci molto bene la vita a Calcutta di quegli anni. I rapporti,
il matriarcato, insomma tutte le tipologie classiche della “mitologia”
familiare indiana. Vediamo la nascita degli amori, vediamo la fine degli
stessi. Vediamo tante cose. Fino al momento topico, quando la famiglia di Maya
per lavoro torna a Dacca, e si porta dietro la nonna che vuole rivedere lo zio,
nonché Tridib e May Price in visita agli amici indiani. Siamo nel passaggio tra
il ’63 ed il ’64, ed è importante, dal punto di vista storico.
Come
sappiamo, nel ’48, con l’indipendenza, il continente indiano venne diviso nella
parte hindu (l’India) e nella parte mussulmana (il Pakistan). Questo secondo,
però era diviso in due: quello attuale, ed il Pakistan Orientale, con capitale
Dacca. Proprio nell’apice della storia, nascono i movimenti indipendentisti,
che riescono ad ottenerla a fronte di lotte e morti varie, così che in
quell’anno nasce il Bangladesh.
Anche
le nostre famiglie saranno coinvolte nei casini, e ne usciranno modificate per
sempre.
Ghosh
non prende posizione, narra, ma si vede che empatizza molto con tutti: gli
indiani, i bengalesi, financo gli inglesi. Che ognuno ha dei punti a favore, ed
anche dei momenti no. Come sottilmente ci fa intendere lo stesso autore,
richiamando nel titolo quel fondamentale testo di passaggio dall’infanzia alla
maturità che fu “La linea d’ombra” di Conrad.
Finisco
solo con un piccolo puntiglio filologico. Tutte le sommosse che portano alla
parte cruenta e finale del libro iniziano con il furto di una reliquia di
Maometto, conservata nel Kashmir, e poi al suo ritrovamento. Ma quella che mi
interessa è che Ghosh (ed i suoi traduttori) la indicano come Mu-i-Mubarak
mentre nella narrazione che si ritrova
cercando del mausoleo della moschea di Hazratbal viene indicato come Moi-e-Muqqadas.
Io mi astengo e chiedo a chi ne sa più di me.
Zachar Prilepin “San’kja” Repubblica Mondo
21 euro 9,90
[A: 15/04/2019 – I: 04/11/2021 – T: 06/11/2021] - &&
[tit. or.: San’kja; ling. or.: russo; pagine: 334; anno 2006]
Yevgeny Nikolayevich Prilepin detto Zachar è
uno scrittore russo che non avrei mai letto se non inserito in questa
panoramica di letteratura di tutto il mondo. Ed anche dopo averlo letto, credo
che mi asterrò da altri approfondimenti. Ora, non è che non sia scritto bene,
grazie anche all’ottima traduzione di Enzo Striano, e che non abbi potenti modi
di esprimere e di coinvolgere il lettore. Tuttavia, l’ideologia che esprime ed
il personaggio “Zachar” sono lontani anni luce dal mio modo di essere e di
pensare.
Tanto per dire, e qui chiudo la parentesi sull’autore,
è stato combattente nelle Forze Speciali russe, e poi volontario nella Guerra
di Cecenia nel ’96; è stato a lungo membro del Partito Nazionalista Bolscevico
(su cui torneremo), seguace a lungo di Limonov, e, come ultima uscita, ha
affermato che il COVID è una punizione divina contro l’Occidente per aver
legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Detto ciò, veniamo al libro, che segue le
gesta di un personaggio, Sasha Tishin detto San’kja, che in molti tratti
rispecchia il giovane Zachar. Sasha è discretamente giovane (direi tra i venti
ed i trenta), un po’ come lo scrittore all’epoca della scrittura. E come
Zachar, è disgustato dalla situazione in cui si trova la Russia al momento
della scrittura.
Facendo una facile traslazione, Sasha è
attivista di un movimento denominato “Unione dei creatori” (anche se il nome
completo sarebbe “Unione patriottica di sinistra radicale dei creatori”, ed è
tutto un programma), seguace del leader Kostenko, incarcerato da Putin. Come
non vedere lì dentro Limonov ed il suo Partito Nazionalista Bolscevico, poi
diventato “L’Altra Russi”?
Sasha è discretamente sbandato, anche se
proviene da una famiglia dotta. Con tutte le contraddizioni del caso: padre
professore universitario, morto per una ubriacatura lunga e continuata. Si
contorna di amici tra lo strafatto ed il nichilismo. C’è Vanja, sempre fuori di
testa per Vodka e marjuana. C’è Rogov, che sembra il più politico, ma sempre
poco concludente. C’è Nega, abbreviazione di Negativo, perché parla poco e vede
tutto sotto la luce peggiore (anche se ha un fratello chiacchierone detto
“Posi”, abbreviazione di Positivo).
I ragazzi partecipano a manifestazioni con
l’unico intento di fare casino e sollevare polveroni (dei Black Block russi?).
anche se dietro c’è un minimo di “militanza” politica. Nella persona di Jana,
donna molto ragionante, quasi una “Femen” anche se non si denuda, che riuscirà
nell’azione estrema di gettare un sacchetto di mondezza in faccia al
Presidente. E nella persona di Matvey, quello che organizza le azioni più
pericolose, l’unico in contatto con il detenuto Kostenko.
Sarà Matvey che spedisce Nega a Riga per un’azione
dimostrativa che porterà all’arresto del ragazzo, ed alla sua condanna a 15
anni. Sempre lui spedisce Sasha ad uccidere a Riga il giudice che ha condannato
Nega. Ma che morirà non per mano di Sasha.
Ogni tanto c’è qualche barlume di altro,
oltre al degrado che Zachar descrive sulla Russia attuale. La parte di ricordi
del villaggio dei nonni. Il lungo ed infruttuoso viaggio per seppellire il
padre. Le due o tre discussioni “politiche” tra Sasha e Bezletov, ex amico del
padre, le uniche che sembrano dare un senso alle azioni (o alle non azioni)
descritte.
Dopo l’azione di Jana e di Nega, le forze
dell’ordine del Presidente si scatenano contro gli attivisti dell’Unione. Per
evitare lo schiacciamento definitivo, Matvey (seguendo gli ordini di Kostenko)
ordina di “fare la Rivoluzione”. Ma le forze dell’Unione sono ben poca cosa, e
ben presto i personaggi di spicco sono arrestati o uccisi.
Rimane Sasha, con il suo manipolo, che ruba
armi alla Polizia, e si asserraglia nel palazzo del comune. Il libro si chiude
con la contrapposizione tra Sasha ed i suoi contro lo strapotere delle forze
armate. Già sappiamo, anche se Zachar non ce lo dice, come andrà a finire.
Quindi, certo, Prilepin descrive ben un
disagio forte del mondo russo attuale. Prendendo le parti di questi
“nazionalisti bolscevichi”, di cui ripete a macchinetta gli slogan. Senza però
riuscire non dico a convincere, ma neanche ad interessare me lettore “diverso
da lui”.
Tanto per finire in bellezza, ad esempio,
ricordo per chi fosse meno interessato alla politica russa, che il partito, di
Zachar e di Sasha, ha per vessillo una bandiera rossa con un cerchio bianco al
centro, dove sono presenti falce e martello. Bandiera che è l’unione del
vessillo stalinista con quello nazista. Qui mi fermo, sconsigliando un’inutile
(ed anche faticosa) lettura.
“Si può
discutere con chi cerca la verità. Con chi vuole restare della propria opinione
discutere è inutile.” (179)
Francisco Ovando “Tutta la luce del campo
aperto” Repubblica Mondo 34 euro 9,90
[A: 22/07/2019 – I: 20/11/2021 – T: 22/11/2021]
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[tit. or.: Casa volada; ling. or.: spagnolo; pagine: 172; anno 2013]
Anche se non sempre riconosciuta come tale,
la letteratura cilena è ben presente nella mia biblioteca (e nella mia mente).
Certo, anche se la poesia è difficile (per me) rimane la stella luminosa di
Neruda. Ma nella scia della sua cometa, ci sono alcuni che ci hanno lasciato (Roberto
Bolaño, Luis Sepúlveda) ed altri che ogni tanto ci omaggiano di un bel libro (Antonio
Skármeta, Roberto Ampuero, Marcela Serrano). In questo panorama di alto
profilo, si inserisce, ambiziosamente, il giovane Ovando (giovane che poco più
che trentenne). Purtroppo, questo libro, pur con degli elementi di interesse,
non lascia altri grandi segni.
Intanto partiamo dal titolo, che capisco non
sia di facile traduzione, in quanto il termine “volada” in spagnolo ha molti
significati. Il più semplice (“volata”) ha poco senso. Il più estremo
(“esplosa”) mi sembra appunto estremo. Un senso mediano, tipo “sballata”, quasi
tendente alla rovina, potrebbe andare. Gli editor italiani hanno invece preso
il titolo di un sotto capitolo (a pagina 125) per farne diventare un emblema.
Che rimanda alla fine di uno dei personaggi, e, di riflesso, a tutta la
schiera, esigua, di persone che avanzano sulle pagine. Io, tuttavia, rimango
nel dubbio che l’autore avesse voluto dire altro.
Premetto anche che la scrittura non è facile
da seguire, che l’autore, funambolo delle parole, salta registri, cambia
prospettive, scrive dentro la scrittura, entrando e uscendo dalla pagina.
Certo, un buon esercizio di padronanza della penna (che l’ottima traduttrice
Giorgia Esposito riesce mirabilmente a riprodurre), ma che alla fine porta
pochi risultati tangibili.
Noi seguiamo, lungo le pagine, lo sprofondare
verso l’irrisolutezza del protagonista, David Arqueros. Correttore di bozze,
malpagato e per lo più ignorato, ha un sogno nel cassetto: scrivere un libro su
un grande pittore cileno, anch’esso problematico. Da anni raccoglie notizie,
libri, manoscritti, e tutto quello che si può su Alfredo Valenzuela Puelma (1856
– 1909), per riscattarne la memoria e restituirgli onori che ebbe poi postumo,
ma che fu misconosciuto e trattato veramente male dal mondo delle arti cileno.
Ora, a più di cento anni della morte,
Valenzuela è riconosciuto come uno dei quattro grandi maestri della pittura
cilena. Ebbe anche il merito di dipingere il primo nudo della pittura cilena, ovviamente
suscitando scandalo. Eppur ebbe una mano interessante, visse a lungo a Parigi,
assorbendo il clima esuberante di fine Ottocento. Ma aveva una mente fragile,
che lo portò alla pazzia e quindi alla morte nel manicomio francese di
Villejuif. Solo posteriormente le sue ceneri furono traslate in Cile, dove
venne accolto trionfalmente.
Ovando allora prende il povero David e lo
inserisce in un turbine di pagine. Che seguiamo lo scritto attraverso diversi
modi di esposizione. C’è la vita dei protagonisti, ci sono le fonti storiche
della vita del pittore che David intercala alle sue esposizioni, capitoli del
libro che David sta scrivendo, soggettive di Valenzuela verso la pazzia, nonché
scenari onirici del mondo di David. Un mondo che al fine si riduce nella sua
anziana padrona di casa, Justiniana, appassionata di ornitomanzia (antica
pratica greca di leggere auspici nel comportamento degli uccelli) e, da metà
libro, della di lei nipote Alina, che, arrivando, manda all’aria tutti buoni
propositi di David.
Pur se abituati alle scene di “realismo
magico” della scrittura sudamericana, qui entrare ed uscire dal sogno,
immaginare scene e viverle come più reali del re, non ci dà quel sapore forte e
di condivisione di Amado o di Garcia Marquez. Rimaniamo ad aspettare che
qualcosa accada, e molto non accade. David prosegue, tra mille impedimenti, la
scrittura, Justiniana tristemente muore, Alina prende le redine della casa e
della vita di David. Il tutto convergente verso una fine annunciata. Non dico
bella, buona, brutta, quel che sia. È come ci si aspettava dalle prime pagine.
E così sarà nelle ultime.
Vorrei spendere solo qualche altra parola
sull’invenzione della vita di Valenzuela fatta da Ovando e messa sulla penna di
David. Che seppur vero quello sopra detto sul nudo in pittura, il quadro di cui
tanto si narra nel libro, “La perla del mercader”, venne dipinto nel 1884 a
Parigi durante il primo soggiorno europeo, e non, come si estrapola dallo
scritto, nell’ultimo periodo che portò Valenzuela alla morte. Non credo si
possa trattare di un errore, ma penso di una frecciata ai benpensanti cileni,
che nel 1884 inorridirono alla vista del quadro, che espone le rigogliose
nudità di una schiava orientale. Quasi a voler significare che da lì iniziò il
processo di poca salute mentale del pittore che lo portò, venticinque anni dopo
alla morte.
Ma decrittare questo (ed altri momenti) vuol
dire avere una conoscenza, certo superiore alla mia, del mondo delle arti in
generale, e di quello cileno in particolare. Dalla pagina tutto ciò esce poco
coinvolgendo, che magari una nota, una post-fazione avrebbero sistemato meglio
quanto si andava leggendo. Al fine, lasciatoci così, poco mi è piaciuto, della
storia, dello stile, del risultato finale. Unico merito, lo stimolo a cercare notizie
su cose di cui, prima, nulla sapevo.
‘Ala al-Aswani “Sono corso verso il Nilo”
Repubblica Mondo 22 euro 9,90
[A: 20/04/2019 – I: 23/11/2021 – T: 26/11/2021] - &&&&
[tit. or.: Jumhūriyya Ka'anna; ling. or.: arabo; pagine: 398; anno 2018]
In memoria di Giulio Regeni e per non dimenticarci
di Patrick Zaki.
Questi i maggiori motivi per un così alto
giudizio di questa quasi-fiction dello scrittore, dentista, attivista egiziano
‘Ala al-Aswani, per me al secondo libro letto, dopo l’interessante e
coinvolgente Palazzo Yacoubian. Anche perché, sul valore intrinseco del libro,
ho alcune riserve sulla scrittura, che non mi ha coinvolto così come invece mi
ha preso il senso di realtà descrittiva con cui l’autore ci fa partecipe della
rivolta egiziana del 2011, quella che portò alla caduta di Hosni Mubarak.
Una scrittura talmente forte che la
pubblicazione del libro è stata proibita in tutto il mondo arabo, eccetto che
in Libano, Marocco e Tunisia.
Il libro, è ovvio, è un romanzo, quindi i
“fatti” sono immaginati dall’autore. Ma noi sappiamo come questa finzione sia
altamente possibile. Perché lo dicono i fatti accertati, e lo dicono gli
avvenimenti successivi. L’autore, attraverso un racconto corale, ci porta a
piazza Tahir nell’ottobre di dieci anni fa. Con tutte le cose accedute che portano
al cambio del governo egiziano. Un cambio “alla democristiana”, dove cambia
tutto per non cambiare nulla. Dove i veri possessori del potere (militari,
faccendieri e imprenditori vari) cambiano cavallo in corsa, ma rimangono a
gestire il potere. Non solo, aprendo anche alle frange dell’estremismo
religioso, portando l’Egitto in una spirale violenza da cui non si è ancora
ripreso. Pensiamo ad al-Sisi e non diciamo altro, che abbiamo tutto ancora
negli occhi.
Il racconto, dicevamo, è corale, che seguiamo
i vari attori, i buoni ed i cattivi, nell’avanzare delle loro azioni. Un
racconto fatto anche di diverso materiale. Racconto in terza persona per
narrare fatti, interni ed esterni. Lettere, fisiche o elettroniche, scambiate
tra due dei protagonisti. Nonché testimonianze, inventate ma basate su fatti
reali, di soprusi subiti da uomini e donne durante la rivolta.
Abbiamo i giovani, ragazzi e trentenni, che
si riuniscono per dar vita a quei giorni di manifestazioni che porteranno alla
caduta di Mubarak. C’è Dania, studentessa in medicina, che all’Università
conosce Khaled, attivista di Kifaya (organizzazione reale, cui anche al-Aswani
partecipava). Entrambi si impegnano fino in fondo, lei anche a curare i feriti.
Ma Khaled sarà ucciso a sangue freddo da un tenente dell’Esercito. Morte che
porterà ad un processo, dove il tenente sarà assolto, cosa che non verrà mai
perdonata né accettata da Midani, il padre di Khaled, nonché autista
dell’imprenditore Issam Sha’lan.
Quest’ultimo, ex-comunista, ora dirige una fabbrica
di cemento che sarà un altro epicentro della rivolta, e dove lavora Mazen,
l’autore delle mail. Mazen è un attivista sindacale, anche lui in Kifaya, dove
conosce Asma, insegnante d’inglese, timidamente ribelle, l’altra autrice delle
mail. Asma, pur religiosa e mussulmana, non accetta il velo, motivo per cui
viene ostracizzata dal potere scolastico. I due faranno un lungo percorso, si
troveranno, ma saranno separati, lui in carcere, lei in esilio.
Di lato alla storia, c’è anche il vissuto
della famiglia di Asma, con il padre contabile in Arabia Saudita, dove fa i
soldi per mantenere la famiglia. Cosa che permette all’autore alcune
digressioni sul lavoro degli egiziani espatriati, che, per mantenere i parenti,
sottostanno alle peggiori angherie da parte degli arabi con i soldi.
Come altra storia, che sembra laterale, ma
che porta al cuore del problema è la famiglia di Dania. Il padre, Ahmed ‘Alwani,
è il capo della Sicurezza, e vedremo come riuscirà ad organizzare l’uscita di
scena di Mubarak, ma anche la ripresa da parte delle forze economiche
preponderanti, una volta finita la prima ondata di rivolta. In particolare,
organizzando una finta fuga dalle carceri, onde utilizzare i galeotti come
forza d’urto contro i manifestanti. Forza d’urto che in particolare si
accanisce contro i copti, la minoranza cristiana in Egitto. La strage dei copti
imprimerà la svolta decisiva al ritorno al potere dei militari.
Tra i copti, abbiamo invece una delle figure
più simpatiche del libro. Il maturo ex-attore Ashraf Wissa, che prenderà
coscienza della rivolta, abbandonando spinelli ed alcool, abbandonando la
moglie, ed andando a convivere, lui copto, con la mussulmana Ikram, una figura
bellissima nel discorso interreligioso di al-Aswani.
Ci rimane solo, di forte, la figura di Nourhan,
donna televisiva, che usa le sue bellezze per l’ascesa sociale, nonché per
l’ascesa televisiva. Finendo per dirigere la nuova rete televisiva nata per
sostenere il regime e spargere falsità su tutto il fronte dell’opposizione.
Ripeto non è una scrittura accogliente, a
volte troppo descrittiva, e troppo tesa alla dimostrazione di un assunto, che
noi sappiamo vero, ma che non lo sembra localmente. Tant’è che lo scrittore,
due anni fa, è stato citato in giudizio da militari che si sono sentiti diffamati
da questo scritto. Io non entro nel merito, ma se avete in mente Regeni (e
Zaki) non avrete dubbi su come collocare lo scritto.
Un’ultima parola sul titolo, che, in italiano
riprende la frase di un manifestante che, intossicato dai gas lacrimogeni della
polizia, cerca di salvarsi, appunto, “correndo verso il Nilo”. Ci può stare, ma
l’autore ha intitolato lo scritto “La Repubblica com’è”, un titolo che non ha
bisogno di ulteriori spiegazioni, e che avrebbe meritato il giusto risalto.
Visto che si parla di viaggi, mi sembra
appropriato appigliarsi a due citazione di Bruce
Chatwin, tratti da due suoi libri
epigoni, “In Patagonia” e “Ritorno
in Patagonia” il secondo scritto
con l’amico Paul Theroux. Nel primo libro, ricordando il grande
esploratore inglese Henry Hudson (quella della Baia nell’Artico), dice “Hudson
… conclude affermando che chi percorre il deserto scopre in sé stesso una calma
primitiva” (28). Mentre nel secondo, parlando della mia sempre cara terra patagonica,
ci ricorda che “non c’era nulla… solo il paradosso patagonico: minuscoli fiori
in uno spazio immenso … non c’era un campo intermedio di studio. O l’enormità
del deserto o la vista di un piccolissimo fiore. In Patagonia si deve scegliere
fra il minuscolo e l’immenso” (18)
Io,
tra il minuscolo e l’immenso non scelgo, li prendo entrambi, dalla piccola
stella alpina alle grandi dune del Sahara. Sperando che, per gioia o per amore,
le mete continuino ad esserci propizie. Per ora, continuo soltanto ad abbracciarvi
ed a mandarvi
un
bacio
Giovanni