Camara Laye “Un bambino nero” Aiep Editore
euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 25/12/2019 – I: 14/08/2021 – T:
15/08/2021] - && e ½
[tit. or.: L’enfant noir; ling. or.: francese; pagine: 143; anno 1953]
Uno dei tanti libri di cui non conoscevo
l’esistenza, e che le ormai mie mitiche “libropeute” me ne consigliarono, e non
invano, la lettura. Un libro che ci porta tanto lontano, nello spazio e nel
tempo. Nel tempo, che ci si muove in un’Africa della fine degli anni ’40. Nelo
spazio, che l’autore ci porta in Guinea. Anzi, per l’esattezza, in quella che
viene chiamata Guinea-Conakry, per distinguerla dall’altre Guinee. Ed ancor più
precisamente, nella cosiddetta “Alta Guinea”, la regione con capoluogo
Kourussa, ai confini con il Mali.
Camara scrive il libro agli inizi degli anni
’50, che mi porta a prima della mia infanzia, suscitando anche scalpore, per la
gentilezza con cui affrontava temi non molto alla moda, al tempo. Ma anche
perché qualcuno sostenne che fu aiutato da “scrittori ombra”. Noi ci
disinteressiamo delle polemiche, e vediamo il risultato di un libro che nel
tempo è divenuto un libro fondamentale della francofonia. Che la Guinea di
Camara era una colonia francese, al contrario della Guinea-Bissau portoghese o
della Guinea Equatoriale spagnola.
Lo scritto ci porta fino ai primi ricordi
dell’autore, alle sue esperienze presso la famiglia avita, nella campagna di
Tindican, e nella casa parentale di Kourussa, la capitale della regione. Quindi
seguiamo le parole di Camara, in primis accogliendo con riverenza la proprietà
di linguaggio. Si nota, anche nella traduzione, che si parte da una lingua non
propria ma ben introiettata, con uso corretto di sintassi e costruzioni varie.
Poi, vediamo che ci parla della città e della campagna, della famiglia con
tutte le sue estensioni, del lavoro del padre, orafo da sempre, legato al
mestiere e per questo riverito e ben voluto.
Seguiamo anche, nel corso degli eventi, quel
misto di fede mussulmana e di tradizioni animiste, ben presenti allora in
quest’Africa narrata, ma che è sempre viva in quella zona del mondo. D’altra
parte, Camara non pretende di raccontarci tutto il territorio (“L’Africa è
vasta”, scrive). Ma non ci addentriamo nella fede, se non per tornarci più
avanti, quanto ci immergiamo nell’atmosfera selvatica degli incontri che il
giovane Camara effettua nelle camminate verso la scuola. Un susseguirsi di
leoni, cinghiali, capre, scimmie. Spaesando la nostra percezione, o almeno
quella delle nostre campagne, dove tuttalpiù si incontravano conigli.
Ricco di riferimenti culturali di un mondo
che via via è scomparso, Camara arriva al punto cruciale, quando parla del
passaggio all’età adulta, che, come in ogni paese mussulmano, passa per le
pratiche mutilatorie. Si accenna, senza però approfondirla, alla escissione
femminile. Mentre si parla e si gira a lungo sulla circoncisione. Sui
sentimenti di attesa e di paura che provoca, sul fatto di sapere (forse) cosa
dovrebbe accadere, ma rimanerne tuttavia meravigliati, e poi scossi. Anche se
poi apprezziamo la bravura e la velocità del tagliatore di prepuzi che svolge
la sua opera su decine e decine di giovani in tempi rapidissimi.
Ma Camara sta stretto nella regione natia, e
trova il modo di volare alto. Prima nella capitale e poi addirittura in
Francia. E mentre ne seguiamo il percorso, apprezziamo la delicatezza con cui
ci parla di tante piccole cose: la nascita di sentimenti romantici verso
l’altro, la sua famiglia, complessa ed allargata, anche nella non facile convivenza
con le plurimogli del padre (fantastica la scena del regale della seconda
moglie per la sua partenza). Poi la scoperta della grande città, la descrizione
commossa di Conakry, sia al suo arrivo, ma in particolare durante le sue
passeggiate. Lì, ha la possibilità di ottenere una borsa di studio per Parigi.
Lì vediamo la difficoltà di convincere la madre alla partenza. Lì lo vediamo
partire insieme alla sua amica Marie.
Lì finisce la storia del ragazzo negro.
Forse comincerà quella dell’uomo. Ma sarà di certo un'altra, e scritta altrove.
Noi restiamo ad apprezzare un piccolo gioiellino, che serve ai giovani lettori
per addentrarsi nella lingua francese, ed a noi per evocare un mondo che solo
in parte non c’è più. Una buona prova, di certo, forse letto troppo tardi per
apprezzarne in pieno le sfumature. Ai giovani l’ardua sentenza.
In Koli Jean Bofane “Congo Inc. Il testamento
di Bismarck” Repubblica Mondo 27 euro 9,90
[A: 27/05/2019 – I: 10/12/2021 – T:
13/12/2021] - && +
[tit. or.: Congo Inc. Le testament de Bismarck 刚果公司 俾斯麥的意志; ling. or.: francese; pagine: 233; anno 2014]
Ma
non della Cina, parliamo ora, ma di Bofane e del suo libro. L’autore, quasi mio
coevo, ha vissuto tutte le peripezie della sua terra. L’occupazione belga, il
colonialismo, l’indipendenza, la nascita delle due diverse Repubbliche
(Congo-Kinshasa e Congo-Brazzaville), la dittatura di Mobutu. Tanto che prima
tutta la famiglia Bofane si rifugia in Belgio. Poi lo stesso Jean, dopo aver
tentato di tornare in patria (dove fonda una casa editrice di fumetti), dal ’93
è definitivamente rifugiato in Belgio. E da lì, ed in francese, scrive.
Non ci meravigliamo quindi che questo sia un
libro politico, ma anche una fotografia di un mondo strano, che si capisce solo
togliendo le nostre sovrastrutture, ed andando, umilmente, in loco. Cosa che
non fecero gli Occidentali nell’Ottocento, come riporta la citazione del
Cancelliere Bismarck pronunciata alla Conferenza di Berlino del 1885: “Il nuovo Stato del Congo è destinato a essere uno dei più importanti
esecutori dell’opera che intendiamo realizzare...”. L’opera era ovviamente la
civilizzazione dei nativi africani secondo i parametri europei. Una follia che
ci perseguita da più di 200 anni.
Il
romanzo segue la storia di Isookanga, un giovane mongo (una popolazione sparsa
intorno all’Equatore africano) di etnia ekonda, volgarmente detto pigmeo, con
due grossi problemi. La madre, ossessionata dall’altezza, lo aveva concepito
con un bantu (popolazione più alta degli Ekonda, anche se non giganti come i
Watussi), così che Isoo era troppo alto per la sua tribù e troppo basso per gli
altri congolesi. Inoltre, presa da altre faccende, non lo aveva fatto
circoncidere, creandogli perenni problemi nelle relazioni femminili.
Isoo,
tuttavia, è un figlio di capi, dovrà succedere al nonno, e vediamo pagine
bellissime che descrivono il rapporto tra i nativi e la loro terra, tra il nonno
ed il leopardo. Lui invece odia la foresta e si innamora della tecnologia.
Usando un portatile rubato, e sfruttando un ripetitore installato nella
foresta, diventa un mago di un gioco virtuale che ha per scopo di impadronirsi
delle riserve naturali africane, ingaggiando lotte all’ultimo sangue (virtuale)
per trionfare.
Impara
quindi le regole del capitalismo, e si trasferisce a Kinshasa per fare fortuna.
Lì si associa ad un cinese, Zangh, nostalgico della rivoluzione maoista. Fa
fortuna inventandosi la vendita di acqua in buste di plastica, addizionata con
erbe locali, per dargli un profumo “svizzero”.
I
due vivono per campare nel Grand Marché, territorio dei bambini di strada che
vivono di piccoli espedienti, più o meno leciti. Lì incontra i suoi nuovi
amici: Sasha la Iattanza, che per vi-vere si prostituisce; Omar doppia lama, un
bambino soldato affascinato dalle armi; Modogo, un grande fan dei film horror,
che pronuncia terribili profezia in inglese, imparate nei film sen-za capirne il
significato.
Conosce
anche Kiro Mizimungo, ex-signore della guerra in Kivu, teatro della lotta tra
congolesi e ruandesi. Kiro ora è il direttore di un parco nazionale, che
vorrebbe sfruttare per arricchirsi con i minerali lì presenti. Il “collasso”
avviene a seguito della morte di uno dei bambini del mercato. C’è una rivolta,
e Isoo viene scambiato per un bambino cresciuto e trattato da capo banda. Si
susseguono equivoci su equivoci, che portano Bofane a stigmatizzare tutti i
presenti: l’etnologa bianca presa dalla sessualità nera, i funzionari dell’ONU
che da New York pretendo-no di governare le “colonie”, i finti preti, come il
pastore della Chiesa della Moltiplicazione, eponimo di pastori truffaldini in
tutte le parti del globo.
In
un sussulto di indignazione, l’ONU mette le cose a posto, facendo fare (o
permettendolo) una giusta brutta fine ai cattivi. Isoo dovrà allora tornare
nella foresta, anche se non smetterà di rincorrere i sogni di denaro facile
attraverso lo sfruttamento della terra.
Alla
fine, le vicende di Congo Inc. gettano una luce diversa sul ruolo attuale
giocato dalle nazioni africane nell’economia del mondo globalizzato. Bofane ci
suggerisce di guardare al passato per costruire, insieme, un futuro diverso. La
sua scrittura, tuttavia, non riesce a coinvolgermi come le sue idee. Il misto
di orrore ed ironia è forse usato correttamente, ma lascia perplessi. Forse,
bisogna togliersi tutte le nostre sovrastrutture occidentali per entrare in
sintonia con il testo ed i suoi contenuti più profondi. E non è facile.
Hernán Ronsino “Biografia di un albero”
Repubblica Mondo 31 euro 9,90
[A: 23/06/2019 – I: 23/12/2021 – T: 26/12/2021]
- & e ½
[tit. or.: Lumbre; ling. or.: spagnolo; pagine: 252; anno 2013]
Ecco che torniamo ancora in Sud America, con
una lettura del mondo argentino. Un mondo per me sempre legato a Borges ed ai
suoi epigoni, fino a Cortazar e Manuel Puig. Per cui con interesse mi sono
immerso nella lettura di un autore giovane, e soprattutto poco noto, e non solo
a me.
Rilevo subito, oltre la difficoltà della
scrittura, il fatto che questo libro è il terzo volume di una trilogia
(chiamata in patria la “Trilogia della pampa”), dove prima di questo libro
Ronsino pubblica “La descomposición” e “Glaxo”. Ci sono spesso rimandi e
richiami, tanto che il libro a volte sembra perdersi in ricordi di altro.
Rilevo poi in seconda battuta che il titolo italiano che si riferisce ad un
albero (presenza latente, anche in immagini, ripetute identiche ad ogni
capitolo) è leggermente (ironia) diverso dallo spagnolo originario che, come
riportato, si chiama “Lumbre” (che ha a che vedere con il fuoco e con il
focolare).
Attraverso la trilogia, Ronsino ripensa alle
proprie radici, alla propria storia, trasponendosi nell’identità del poeta
Federico Souza, facendolo leggermente più anziano (il poeta ha 53 anni, mentre
lo scrittore, quando pone mano al romanzo ne ha 38). Ma costruendogli intorno
una cosmogonia simile alla propria. A cominciare dal luogo natio, la cittadina
di Chivilcoy, posta circa 180 km a nord di Buenos Aires, e raggiungibile dalla
capitale in un paio di ore.
Souza vive a Baires, nel quartiere di San
Telmo (che ben ricordo, un po’ degradato, ma con un mercatino molto carino
nella piazza principale), insieme ad una fotografa canadese, Helene, con cui
cerca di parlare per tutto il romanzo, senza riuscirci. Perché Federico torna a
Chivilcoy richiamato dal padre, conosciuto da tutti come il Vecchio, inseguito
alla morte di un lor conoscente, Fernando Lerù, detto “Pajarito” da quando,
giovane, la sua testa fu paragonata ad un uccellino.
Lerù ha lasciato a Federico, in eredità, una
vacca, anche se non è ben chiaro se la stessa sia mai stata del Pajarito, o fu
da questi rubata al Negrito Soza. Fatto sta che Federico arriva a Chivilcoy, va
a vivere dal padre, e lì passa tre giorni di rimembranze, dal 2 al 4 marzo 2002.
Dato importante, questo dei giorni, perché, come bolle di memoria, si dipartono
da quelli ricordi e avvenimenti di tanti strani personaggi che hanno popolato
la cittadina. Mescolando, quindi, realtà e finzione.
Abbiamo realtà nel ricordo dell’uccisione
del poeta Carlos Ortiz, avvenuta il 3 marzo 1910, per mano di sicari al soldo
del boss locale, che volevano impedire riunioni di politici ed intellettuali,
al fine di spingere il boss alle massime cariche cittadine. Peccato ci scappi
il morto. E da quel morto, Federico ricorda storie narrate dal padre, come la
realizzazione di un film, con attori locali, dedicato alla memoria di Ortiz.
Film realmente girato colà, nel 1946, per la regia di Ignacio Tankel (Tankelevich
il vero nome) e sceneggiato dal locale insegnante di lettere, il poi ben noto
Julio Cortázar (nel libro divenuto Julio Denis). E dal film riappaiono le
strane figure della professoressa Ravignani e del bidello Elvio Mangusi, di cui
vi lascio leggere le storie.
Poi vengono altre bolle. la stirpe degli
Areco, i poveri della città, di cui non si conosce il vero nome, e tutti
vengono chiamati con il cognome, e dove Federico si fa amico del più giovane, e
con lui si immerge nelle gare di nuoto, dove non vinceranno mai, ma saranno
sodali, per poi perdersi e non trovarsi, tanto che, incontrandosi, non si
riconoscono. O quella del ciclista Carlos Luna che fece il giro della città per
cinque giorni senza mai scendere dalla bici, immortalandosi in un record
singolare quanto bistrattato. Altri se ne incontrano, anche per un’intervista
che il nostro registra per la tv locale, e che gli dà ulteriore visibilità. Che
gli permette di confrontarsi con sé stesso, ma anche con suo padre, le sue
bugie, le sue storie strane.
Un dato caratteristico ed emblematico è un
documentario che vede in televisione, da cui riprende la frase che riporto, e
che ogni trenta- quaranta pagine, riporta di nuovo e di nuovo. Questa dà una
delle cifre del racconto. L’altra, ed è la più difficile, è la forte
localizzazione del testo. Il romanzo è molto argentino, pieno di rimandi anche
alla storia patria ed alla letteratura (i libri di Sarmiento, il colonnello
Borges, Belgrano, Urquiza, e tanti altri), che a me rimandano a strade locali,
ma che, probabilmente hanno altro impatto verso i sudamericani.
Alla fine, troppo interno risulta il tessuto
del romanzo. Non vola, e soprattutto, non prende e porta in giro per le
memorie. Non mi ci sono ritrovato, impiegando molta fatica a girare le pur non
molte pagine. Speriamo di leggere di meglio.
“Ogni pezzo di muro di questa città si
porta addosso, come una pelle, le tracce della mia storia.” (frasi citata più
volte, 13 la prima, 143 l’ultima)
Lyonel Trouillot “I figli degli eroi”
Repubblica Mondo 33 euro 9,90
[A: 07/07/2019 – I: 31/12/2021 – T:
02/01/2022] - && -
[tit. or.: Les enfants des héros; ling. or.: francese; pagine: 123; anno 2002]
Nel giro del mondo tra i libri, approdiamo
ora in un luogo ancora poco se non per nulla, frequentato, Haiti. Con uno
scrittore molto conosciuto in patria, soprattutto per le sue prese di posizione
politica. Trouillot, scrittore in una famiglia di scrittori ed intellettuali,
ha da sempre lottato per i diritti umani, si è ferocemente opposto ed esposto
contro la dittatura di Duvalier, e si è da sempre battuto contro le sette
evangeliche che hanno colonizzato la sua isola.
Detto quindi quanto di buono ci si può
aspettare dall’autore, devo dire che questo suo agile libretto mi ha poco
convinto. C’è una trama, c’è il dramma visto dagli occhi di un bambino, Colin,
il protagonista principale. Ma il testo non prende mai il volo, non ti trascina
nelle strade di Port-au-Prince. Rimani lì, a guardare il film che si sta
svolgendo sotto i tuoi occhi, ti dispiace un po’ se le cose non vanno bene, fai
anche un po’ il tifo per i “buoni”. Tuttavia, finita la lettura, passa tutto
altrove, e poco resta nella memoria.
Comunque, il problema principale dello
scritto è proprio la scelta del protagonista che parla in prima persona,
descrivendo i fatti (e questo lo fa con l’occhio del bambino) e poi lasciandosi
andare a considerazioni che di certo sarebbero state meglio pronunciate da
qualcun altro, foss’anche la sorella di Colin, Mariéla.
La
storia, in ogni caso, affonda le radici nel mondo povero e quasi senza
speranza, dei derelitti di Haiti, di queste famiglie che vivono nelle periferie
degradate di una città, di un paese già di per sé, molto a rischio di povertà e
malaffare.
La
storia della famiglia di Colin e Mariéla
deve essere vista dall’alto. Inizia con la nonna, Man Yvonne (Man sta per
Madame in creolo) che per qualche motivo che Colin non riesce a spiegare,
emigra in Florida, dove le viene versata un decente pensione che le consente di
vivere in America e di mandare, periodicamente, i soldi alla famiglia del
figlio Corazón.
Questi
era stato sempre scioccato dalla scomparsa del padre, era stato sempre, fin da
piccolo, una persona violenta, tanto che, per incanalare al sua rabbia, si era
dedicato alla boxe. O almeno, questo è quello che dice, dopo essere ritornato
da una discreta assenza, seduto al tavolino davanti casa, quando si ubriaca
insieme al postino. Lavora in un’officina meccanica, ma Colin scopre che non è
un meccanico, ma solo un uomo di fatica, anche lì maltrattato e bistrattato.
L’unica cosa che fa è intercettare i soldi che manda Man Yvonne, e spenderli
tutti in colossi bevute.
Bevute valle delle quali l’unico suo sfogo è
maltrattare, picchiare, insomma fare tutto il male possibile alla moglie
Josephine. Lei che lo ha sposato per puro amore, e che ancora, nonostante tutto
lo difende, anche quando viene riempita di botte. Inciso: questa parta, quando
si parla del rifiuto di Josephine di riconoscere il cattivo comportamento del
marito, andrebbe presa e discussa in tutti i femminicidi cui assistiamo;
bisogna riuscire ad entrare in questo tipo di deriva psicologica.
A fronte dell’ennesimo accanimento di
Corazón su Josephine, Colin e Mariéla
si ribellano e per fermare il padre, lo colpiscono con una chiave inglese.
Corazón muore ed i due scappano. In realtà è da qui che comincia il racconto e
tutto il resto avviene in retrospettiva nei ricordi di Colin. I due fuggono,
hanno una loro giornata di libertà. Incontrano i loro amici, Colin ne rievoca i
trascorsi. Conosciamo così anche altri abitanti della bidonville: Johnny
Bla-bla, cosiddetto per la balbuzie, e Maynard il ciccione, ovvio il
riferimento corporale.
Di
piccola poesia i pochi momenti di libertà dei due fratelli, con l’attardarsi
dei due nella piazza degli Eroi, dove si trovano le statue dei fondatori del
paese, come Toussaint Louverture. I nostri sono figli di quegli eroi, ma senza
eroismo. In ogni caso, la notizia della morte si diffonde presto, i due vengono
riconosciuti, inseguiti, presi, separati, avviandoci ad un finale da leggere
anche se non è quello che risalta.
Rimane
la povertà, l’inutilità della ribellione, e tante parole. Ma nessuna,
purtroppo, fa breccia nella nostra testa, rimanendo un buon esempio di
letteratura altra, senza salire troppo nel mio personale gradimento. Rimane
anche la voglia, prima o poi, di visitare anche Haiti.
Eka
Kurniawan “L’uomo tigre” Repubblica Emozione Noir 18 euro 7,90
[A: 14/10/2019 – I: 04/01/2022 – T:
06/01/2022] - & e ½
[tit. or.: Lelaki Harimau; ling. or.: indonesiano; pagine: 188; anno 2004]
La letteratura indonesiana ha due grosse
difficoltà per arrivare in occidente: non ha una lingua stabile, essendo
l’Indonesia la culla di due scritture linguistiche, indonesiano e malese, ed è,
come molte scritture asiatiche molto legata al territorio, quindi anche di
difficile interpretazione. Per queto ho accolto con interesse questo primo
testo locale, sperando di riuscire ad entrare in quel mondo. Purtroppo,
un’operazione non riuscita.
Il primo motivo deriva dalla collocazione
del testo, da parte dei curatori delle edizioni di Repubblica, in una collana
NOIR. Certo, il testo inizia con un morto, e ci si domanda le motivazioni
dell’omicidio, visto che sappiamo anche subito chi è l’assassino. Ma tutto il
testo serve ad entrare nel mondo, un testo pieno di risvolti psicologici ed
ambientali. Così che, una volta letto, l’ho collocato e ne parlo come un testo
non di genere, ma di letteratura, nella sezione dedicate alla scrittura
maschile d’autore.
Comunque, Eka Kurniawan è di sicuro un
interessante inizio per approdare in Indonesia. È infatti, considerato uno dei
nuovi scrittori di punta, erede dell’ancestrale tradizione locale. Sono stati
anche scomodati paragoni scomodi per la sua scrittura, che senz’altro si
inscrive nel mondo del “realismo magico”. È infine il primo scrittore
indonesiano ad essere inserito nella rosa dei pretendenti al “Man Booker
International Prize”. È anche giovane (41 anni), si occupa di letteratura ad
ampio raggio (scrittura, ma anche fumetti, saggi, giornalismo). Tutte premesse
interessanti. Non proprio mantenute in questo romanzo.
Forse anche per il mio approccio poco
sintonico con il realismo magico (di tipo sudamericano) e di sicuro poco
conoscitore dell’Indonesia (dove non sono ancora stato). Mi ha ricordato, pur
nella diversità, uno dei più brutti (per me) ma più acclamati (dalla critica)
tra i film asiatici: “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”.
Ma veniamo al testo. Che, come detto, si
apre con l’omicidio di un incallito donnaiolo, Anwar Sadat, perpetrato da
Margio, un ventenne in realtà assai disturbato. Quindi siamo già nella
psicologia: sappiamo chi muore, sappiamo chi uccide, ma perché? Ci vorranno
quasi duecento pagine per capirlo. Intanto, inusuale è anche la modalità della
morte: Margio morde al collo Anwar, fino a tranciargli la trachea, e farlo
morire dissanguato. Una modalità propria delle tigri, che tanto popolano tutta
la zona, rurale, dove si svolge il dramma.
Allora, da qui parte da un lato tutta una
descrizione sulla storia dei rapporti tra uomini e tigri. Ci si narra che nel
villaggio tutti avevano la propria tigre. Il nonno di Margio l’aveva ereditata
da suo padre, e questi da suo padre, e così via all’indietro. Ma bisognava
avere caratteristiche di correttezza (non dico di bontà) per entrare in
sintonia con le tigri. Che, secondo il mito locale, sono esseri superiori che
si offendono se l’uomo non le rispetta. Per questo il padre di Margio era stato
saltato. Padre manesco e indisponente. Qui parte anche tutta un’analisi dei
rapporti tra padre e figlio (duri e irrisolvibili), con la madre a fare da
capro espiatorio, se non quando trova delle piccole scappatoie che non vi narro.
Poi c’è la famiglia di Anwar, con le sue tre
figlie femmine, la cui ultima, studentessa nella grande città, è innamorata di
Margio, e forse ricambiata. Ma veniamo anche a contatto con il brutale machismo
di Anwar, che soggioga molte femmine del villaggio, per i suoi appetiti. Senza
tuttavia, mai amarne uno.
È tutta una descrizione, allora, degli usi e
costumi indonesiani, con le loro leggende, la magia, le influenze naturali e
soprannaturali. Entrando così in ballo i vari personaggi locali, di cui leggiamo,
m di cui non divento mai realmente partecipe. Comunque, passo dopo passo,
arriveremo anche all’agnizione finale, ed a capire i motivi del gesto di
Margio, lui che aveva ereditato la tigre dal nonno, la tigre bianca che aveva
saltato il padre.
Il tentativo di Kurniawan è denunciare il
mondo chiuso e sorpassato della famiglia tradizionale (rurale) indonesiano,
lanciando contemporaneamente strali alla schizofrenica società contemporanea
(urbana). Questa distrugge quella, mentre dovrebbero trovare una sintesi per
convivere. Un po’ quanto denunciato per il Congo da Bofane. Ma è un tentativo
che intuisco, ma che mi ha lasciato alquanto freddo nei risultati che prova a
raggiungere.
Siamo alla prima settimana di maggio, così
che ci si dedica alle letture di febbraio, dove sono presenti tre libri
interessanti da leggere. Un Simenon dei “romanzi duri”, il terzo uomo di
Greene, che ci riporta al bellissimo film, ed all’escursioni pittorica di
Gregorio Botta. In fondo alla scala un facile ma non convincente romanzo di
Nicolas Barreau (meglio la sua prima uscita).
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Eric
Ambler |
Epitaffio
per una spia |
Repubblica
Spy |
7,90 |
3 |
2 |
Georges
Simenon |
Il
fidanzamento del signor Hire |
Repubblica |
9,90 |
2,5 |
3 |
Maurizio
de Giovanni |
Le
parole di Sara |
Rizzoli |
14 |
3 |
4 |
Robert
Harris |
Enigma |
Repubblica
Spy |
7,90 |
2 |
5 |
Georges
Simenon |
Le
finestre di fronte |
Repubblica |
9,90 |
2 |
6 |
Alexander McCall Smith |
Salone di bellezza per piccoli ritocchi |
Repubblica
Noir |
7,90 |
2,5 |
7 |
Mika Waltari |
El Aventurero |
Éxito |
s.p. |
2,5 |
8 |
Georges
Simenon |
Il
grande male |
Repubblica |
9,90 |
4 |
9 |
Roberto Centazzo |
Operazione Portofino |
Repubblica
Noir |
7,90 |
2 |
10 |
Graham Greene |
Il terzo uomo |
Sellerio |
s.p. |
4 |
11 |
Maurizio
de Giovanni |
Una
lettera per Sara |
Rizzoli |
s.p. |
2,5 |
12 |
Gregorio Botta |
Pollock e Rothko |
Einaudi |
s.p. |
4 |
13 |
Maurizio
de Giovanni |
Gli
occhi di Sara |
Rizzoli |
s.p. |
2 |
14 |
Nicolas Barreau |
Il tempo delle ciliegie |
Feltrinelli |
s.p. |
1 |
15 |
Maurizio de Giovanni |
Angeli per i Bastardi di Pizzofalcone |
Einaudi |
s.p. |
2 |
Nient’altro prevede questo primo di maggio,
se non lunghe riflessioni su questo momento storico dilaniato da una guerra che
non ci doveva essere. Così che riandiamo nel pensiero ad un romanzo ecologico
di Carlo Lucarelli pubblicato a suo tempo in quella collana
ambientale chiamata “VerdeNero”. In quel suo “Navi a perdere” ci faceva
riflettere sulla memoria imperitura delle persone che continuano a farsi
domande, e che noi continuiamo dopo di loro: “gli uomini che cercano,
finché continuiamo a farci le loro domande, non muoiono mai” (102).
Anche noi si cerca, anche di essere felici, insieme, ed insieme a tutti i miei amici ed i miei lettori, che quindi saluto con un grande abbraccio.
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