domenica 1 maggio 2022

Viaggi deludenti - 01 maggio 2022

Ricordate, chi legge è un viaggiatore, ma questa settimana i viaggi letterari sono stati assai deludenti. Anche se le premesse sembravano interessanti: la Guinea-Conakry, il Congo-Kinshasa, l’Argentina, Haiti, l’Indonesia. E senza nessun scritto in inglese (e ben tre in francese). Tra l’altro, eccetto uno, sono tutti paesi che ancora devo visitare. Certo che se si seguono questi autori non sono proprio invitanti. Ed alla fine, il primo della lista risulta sempre la Guinea. Vedremo, ed intanto voi leggetene, che, in ogni caso, sono spesso sguardi non banali su posti non vicini.

Camara Laye “Un bambino nero” Aiep Editore euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)

[A: 25/12/2019 – I: 14/08/2021 – T: 15/08/2021] - && e ½ 

[tit. or.: L’enfant noir; ling. or.: francese; pagine: 143; anno 1953]

Uno dei tanti libri di cui non conoscevo l’esistenza, e che le ormai mie mitiche “libropeute” me ne consigliarono, e non invano, la lettura. Un libro che ci porta tanto lontano, nello spazio e nel tempo. Nel tempo, che ci si muove in un’Africa della fine degli anni ’40. Nelo spazio, che l’autore ci porta in Guinea. Anzi, per l’esattezza, in quella che viene chiamata Guinea-Conakry, per distinguerla dall’altre Guinee. Ed ancor più precisamente, nella cosiddetta “Alta Guinea”, la regione con capoluogo Kourussa, ai confini con il Mali.

Camara scrive il libro agli inizi degli anni ’50, che mi porta a prima della mia infanzia, suscitando anche scalpore, per la gentilezza con cui affrontava temi non molto alla moda, al tempo. Ma anche perché qualcuno sostenne che fu aiutato da “scrittori ombra”. Noi ci disinteressiamo delle polemiche, e vediamo il risultato di un libro che nel tempo è divenuto un libro fondamentale della francofonia. Che la Guinea di Camara era una colonia francese, al contrario della Guinea-Bissau portoghese o della Guinea Equatoriale spagnola.

Lo scritto ci porta fino ai primi ricordi dell’autore, alle sue esperienze presso la famiglia avita, nella campagna di Tindican, e nella casa parentale di Kourussa, la capitale della regione. Quindi seguiamo le parole di Camara, in primis accogliendo con riverenza la proprietà di linguaggio. Si nota, anche nella traduzione, che si parte da una lingua non propria ma ben introiettata, con uso corretto di sintassi e costruzioni varie. Poi, vediamo che ci parla della città e della campagna, della famiglia con tutte le sue estensioni, del lavoro del padre, orafo da sempre, legato al mestiere e per questo riverito e ben voluto.

Seguiamo anche, nel corso degli eventi, quel misto di fede mussulmana e di tradizioni animiste, ben presenti allora in quest’Africa narrata, ma che è sempre viva in quella zona del mondo. D’altra parte, Camara non pretende di raccontarci tutto il territorio (“L’Africa è vasta”, scrive). Ma non ci addentriamo nella fede, se non per tornarci più avanti, quanto ci immergiamo nell’atmosfera selvatica degli incontri che il giovane Camara effettua nelle camminate verso la scuola. Un susseguirsi di leoni, cinghiali, capre, scimmie. Spaesando la nostra percezione, o almeno quella delle nostre campagne, dove tuttalpiù si incontravano conigli.

Ricco di riferimenti culturali di un mondo che via via è scomparso, Camara arriva al punto cruciale, quando parla del passaggio all’età adulta, che, come in ogni paese mussulmano, passa per le pratiche mutilatorie. Si accenna, senza però approfondirla, alla escissione femminile. Mentre si parla e si gira a lungo sulla circoncisione. Sui sentimenti di attesa e di paura che provoca, sul fatto di sapere (forse) cosa dovrebbe accadere, ma rimanerne tuttavia meravigliati, e poi scossi. Anche se poi apprezziamo la bravura e la velocità del tagliatore di prepuzi che svolge la sua opera su decine e decine di giovani in tempi rapidissimi.

Ma Camara sta stretto nella regione natia, e trova il modo di volare alto. Prima nella capitale e poi addirittura in Francia. E mentre ne seguiamo il percorso, apprezziamo la delicatezza con cui ci parla di tante piccole cose: la nascita di sentimenti romantici verso l’altro, la sua famiglia, complessa ed allargata, anche nella non facile convivenza con le plurimogli del padre (fantastica la scena del regale della seconda moglie per la sua partenza). Poi la scoperta della grande città, la descrizione commossa di Conakry, sia al suo arrivo, ma in particolare durante le sue passeggiate. Lì, ha la possibilità di ottenere una borsa di studio per Parigi. Lì vediamo la difficoltà di convincere la madre alla partenza. Lì lo vediamo partire insieme alla sua amica Marie.

Lì finisce la storia del ragazzo negro. Forse comincerà quella dell’uomo. Ma sarà di certo un'altra, e scritta altrove. Noi restiamo ad apprezzare un piccolo gioiellino, che serve ai giovani lettori per addentrarsi nella lingua francese, ed a noi per evocare un mondo che solo in parte non c’è più. Una buona prova, di certo, forse letto troppo tardi per apprezzarne in pieno le sfumature. Ai giovani l’ardua sentenza.

In Koli Jean Bofane “Congo Inc. Il testamento di Bismarck” Repubblica Mondo 27 euro 9,90

[A: 27/05/2019 – I: 10/12/2021 – T: 13/12/2021] - && +

[tit. or.: Congo Inc. Le testament de Bismarck 刚果公 俾斯麥的意志; ling. or.: francese; pagine: 233; anno 2014]

Non meravigliatevi, intanto, dal titolo presentato anche in cinese. Così l’ha voluto l’autore, che ringrazia in chiusura Isabelle Rabut per le traduzioni in cinese dei titoli dei diversi capitoli (e del titolo del libro). Il perché ci sia tanto cinese lo si può capire un po’ leggendo questo libro, ed un po’ guardando alla politica estera cinese che tutti abbiamo davanti.

Ma non della Cina, parliamo ora, ma di Bofane e del suo libro. L’autore, quasi mio coevo, ha vissuto tutte le peripezie della sua terra. L’occupazione belga, il colonialismo, l’indipendenza, la nascita delle due diverse Repubbliche (Congo-Kinshasa e Congo-Brazzaville), la dittatura di Mobutu. Tanto che prima tutta la famiglia Bofane si rifugia in Belgio. Poi lo stesso Jean, dopo aver tentato di tornare in patria (dove fonda una casa editrice di fumetti), dal ’93 è definitivamente rifugiato in Belgio. E da lì, ed in francese, scrive.

Non ci meravigliamo quindi che questo sia un libro politico, ma anche una fotografia di un mondo strano, che si capisce solo togliendo le nostre sovrastrutture, ed andando, umilmente, in loco. Cosa che non fecero gli Occidentali nell’Ottocento, come riporta la citazione del Cancelliere Bismarck pronunciata alla Conferenza di Berlino del 1885: Il nuovo Stato del Congo è destinato a essere uno dei più importanti esecutori dell’opera che intendiamo realizzare...”. L’opera era ovviamente la civilizzazione dei nativi africani secondo i parametri europei. Una follia che ci perseguita da più di 200 anni.

Il romanzo segue la storia di Isookanga, un giovane mongo (una popolazione sparsa intorno all’Equatore africano) di etnia ekonda, volgarmente detto pigmeo, con due grossi problemi. La madre, ossessionata dall’altezza, lo aveva concepito con un bantu (popolazione più alta degli Ekonda, anche se non giganti come i Watussi), così che Isoo era troppo alto per la sua tribù e troppo basso per gli altri congolesi. Inoltre, presa da altre faccende, non lo aveva fatto circoncidere, creandogli perenni problemi nelle relazioni femminili.

Isoo, tuttavia, è un figlio di capi, dovrà succedere al nonno, e vediamo pagine bellissime che descrivono il rapporto tra i nativi e la loro terra, tra il nonno ed il leopardo. Lui invece odia la foresta e si innamora della tecnologia. Usando un portatile rubato, e sfruttando un ripetitore installato nella foresta, diventa un mago di un gioco virtuale che ha per scopo di impadronirsi delle riserve naturali africane, ingaggiando lotte all’ultimo sangue (virtuale) per trionfare.

Impara quindi le regole del capitalismo, e si trasferisce a Kinshasa per fare fortuna. Lì si associa ad un cinese, Zangh, nostalgico della rivoluzione maoista. Fa fortuna inventandosi la vendita di acqua in buste di plastica, addizionata con erbe locali, per dargli un profumo “svizzero”.

I due vivono per campare nel Grand Marché, territorio dei bambini di strada che vivono di piccoli espedienti, più o meno leciti. Lì incontra i suoi nuovi amici: Sasha la Iattanza, che per vi-vere si prostituisce; Omar doppia lama, un bambino soldato affascinato dalle armi; Modogo, un grande fan dei film horror, che pronuncia terribili profezia in inglese, imparate nei film sen-za capirne il significato.

Conosce anche Kiro Mizimungo, ex-signore della guerra in Kivu, teatro della lotta tra congolesi e ruandesi. Kiro ora è il direttore di un parco nazionale, che vorrebbe sfruttare per arricchirsi con i minerali lì presenti. Il “collasso” avviene a seguito della morte di uno dei bambini del mercato. C’è una rivolta, e Isoo viene scambiato per un bambino cresciuto e trattato da capo banda. Si susseguono equivoci su equivoci, che portano Bofane a stigmatizzare tutti i presenti: l’etnologa bianca presa dalla sessualità nera, i funzionari dell’ONU che da New York pretendo-no di governare le “colonie”, i finti preti, come il pastore della Chiesa della Moltiplicazione, eponimo di pastori truffaldini in tutte le parti del globo.

In un sussulto di indignazione, l’ONU mette le cose a posto, facendo fare (o permettendolo) una giusta brutta fine ai cattivi. Isoo dovrà allora tornare nella foresta, anche se non smetterà di rincorrere i sogni di denaro facile attraverso lo sfruttamento della terra.

Alla fine, le vicende di Congo Inc. gettano una luce diversa sul ruolo attuale giocato dalle nazioni africane nell’economia del mondo globalizzato. Bofane ci suggerisce di guardare al passato per costruire, insieme, un futuro diverso. La sua scrittura, tuttavia, non riesce a coinvolgermi come le sue idee. Il misto di orrore ed ironia è forse usato correttamente, ma lascia perplessi. Forse, bisogna togliersi tutte le nostre sovrastrutture occidentali per entrare in sintonia con il testo ed i suoi contenuti più profondi. E non è facile.

Hernán Ronsino “Biografia di un albero” Repubblica Mondo 31 euro 9,90

[A: 23/06/2019 – I: 23/12/2021 – T: 26/12/2021] - & e ½    

[tit. or.: Lumbre; ling. or.: spagnolo; pagine: 252; anno 2013]

Ecco che torniamo ancora in Sud America, con una lettura del mondo argentino. Un mondo per me sempre legato a Borges ed ai suoi epigoni, fino a Cortazar e Manuel Puig. Per cui con interesse mi sono immerso nella lettura di un autore giovane, e soprattutto poco noto, e non solo a me.

Rilevo subito, oltre la difficoltà della scrittura, il fatto che questo libro è il terzo volume di una trilogia (chiamata in patria la “Trilogia della pampa”), dove prima di questo libro Ronsino pubblica “La descomposición” e “Glaxo”. Ci sono spesso rimandi e richiami, tanto che il libro a volte sembra perdersi in ricordi di altro. Rilevo poi in seconda battuta che il titolo italiano che si riferisce ad un albero (presenza latente, anche in immagini, ripetute identiche ad ogni capitolo) è leggermente (ironia) diverso dallo spagnolo originario che, come riportato, si chiama “Lumbre” (che ha a che vedere con il fuoco e con il focolare).

Attraverso la trilogia, Ronsino ripensa alle proprie radici, alla propria storia, trasponendosi nell’identità del poeta Federico Souza, facendolo leggermente più anziano (il poeta ha 53 anni, mentre lo scrittore, quando pone mano al romanzo ne ha 38). Ma costruendogli intorno una cosmogonia simile alla propria. A cominciare dal luogo natio, la cittadina di Chivilcoy, posta circa 180 km a nord di Buenos Aires, e raggiungibile dalla capitale in un paio di ore.

Souza vive a Baires, nel quartiere di San Telmo (che ben ricordo, un po’ degradato, ma con un mercatino molto carino nella piazza principale), insieme ad una fotografa canadese, Helene, con cui cerca di parlare per tutto il romanzo, senza riuscirci. Perché Federico torna a Chivilcoy richiamato dal padre, conosciuto da tutti come il Vecchio, inseguito alla morte di un lor conoscente, Fernando Lerù, detto “Pajarito” da quando, giovane, la sua testa fu paragonata ad un uccellino.

Lerù ha lasciato a Federico, in eredità, una vacca, anche se non è ben chiaro se la stessa sia mai stata del Pajarito, o fu da questi rubata al Negrito Soza. Fatto sta che Federico arriva a Chivilcoy, va a vivere dal padre, e lì passa tre giorni di rimembranze, dal 2 al 4 marzo 2002. Dato importante, questo dei giorni, perché, come bolle di memoria, si dipartono da quelli ricordi e avvenimenti di tanti strani personaggi che hanno popolato la cittadina. Mescolando, quindi, realtà e finzione.

Abbiamo realtà nel ricordo dell’uccisione del poeta Carlos Ortiz, avvenuta il 3 marzo 1910, per mano di sicari al soldo del boss locale, che volevano impedire riunioni di politici ed intellettuali, al fine di spingere il boss alle massime cariche cittadine. Peccato ci scappi il morto. E da quel morto, Federico ricorda storie narrate dal padre, come la realizzazione di un film, con attori locali, dedicato alla memoria di Ortiz. Film realmente girato colà, nel 1946, per la regia di Ignacio Tankel (Tankelevich il vero nome) e sceneggiato dal locale insegnante di lettere, il poi ben noto Julio Cortázar (nel libro divenuto Julio Denis). E dal film riappaiono le strane figure della professoressa Ravignani e del bidello Elvio Mangusi, di cui vi lascio leggere le storie.

Poi vengono altre bolle. la stirpe degli Areco, i poveri della città, di cui non si conosce il vero nome, e tutti vengono chiamati con il cognome, e dove Federico si fa amico del più giovane, e con lui si immerge nelle gare di nuoto, dove non vinceranno mai, ma saranno sodali, per poi perdersi e non trovarsi, tanto che, incontrandosi, non si riconoscono. O quella del ciclista Carlos Luna che fece il giro della città per cinque giorni senza mai scendere dalla bici, immortalandosi in un record singolare quanto bistrattato. Altri se ne incontrano, anche per un’intervista che il nostro registra per la tv locale, e che gli dà ulteriore visibilità. Che gli permette di confrontarsi con sé stesso, ma anche con suo padre, le sue bugie, le sue storie strane.

Un dato caratteristico ed emblematico è un documentario che vede in televisione, da cui riprende la frase che riporto, e che ogni trenta- quaranta pagine, riporta di nuovo e di nuovo. Questa dà una delle cifre del racconto. L’altra, ed è la più difficile, è la forte localizzazione del testo. Il romanzo è molto argentino, pieno di rimandi anche alla storia patria ed alla letteratura (i libri di Sarmiento, il colonnello Borges, Belgrano, Urquiza, e tanti altri), che a me rimandano a strade locali, ma che, probabilmente hanno altro impatto verso i sudamericani.

Alla fine, troppo interno risulta il tessuto del romanzo. Non vola, e soprattutto, non prende e porta in giro per le memorie. Non mi ci sono ritrovato, impiegando molta fatica a girare le pur non molte pagine. Speriamo di leggere di meglio.

“Ogni pezzo di muro di questa città si porta addosso, come una pelle, le tracce della mia storia.” (frasi citata più volte, 13 la prima, 143 l’ultima)

Lyonel Trouillot “I figli degli eroi” Repubblica Mondo 33 euro 9,90

[A: 07/07/2019 – I: 31/12/2021 – T: 02/01/2022] - && -

[tit. or.: Les enfants des héros; ling. or.: francese; pagine: 123; anno 2002]

Nel giro del mondo tra i libri, approdiamo ora in un luogo ancora poco se non per nulla, frequentato, Haiti. Con uno scrittore molto conosciuto in patria, soprattutto per le sue prese di posizione politica. Trouillot, scrittore in una famiglia di scrittori ed intellettuali, ha da sempre lottato per i diritti umani, si è ferocemente opposto ed esposto contro la dittatura di Duvalier, e si è da sempre battuto contro le sette evangeliche che hanno colonizzato la sua isola.

Detto quindi quanto di buono ci si può aspettare dall’autore, devo dire che questo suo agile libretto mi ha poco convinto. C’è una trama, c’è il dramma visto dagli occhi di un bambino, Colin, il protagonista principale. Ma il testo non prende mai il volo, non ti trascina nelle strade di Port-au-Prince. Rimani lì, a guardare il film che si sta svolgendo sotto i tuoi occhi, ti dispiace un po’ se le cose non vanno bene, fai anche un po’ il tifo per i “buoni”. Tuttavia, finita la lettura, passa tutto altrove, e poco resta nella memoria.

Comunque, il problema principale dello scritto è proprio la scelta del protagonista che parla in prima persona, descrivendo i fatti (e questo lo fa con l’occhio del bambino) e poi lasciandosi andare a considerazioni che di certo sarebbero state meglio pronunciate da qualcun altro, foss’anche la sorella di Colin, Mariéla.

La storia, in ogni caso, affonda le radici nel mondo povero e quasi senza speranza, dei derelitti di Haiti, di queste famiglie che vivono nelle periferie degradate di una città, di un paese già di per sé, molto a rischio di povertà e malaffare.

La storia della famiglia di Colin e Mariéla deve essere vista dall’alto. Inizia con la nonna, Man Yvonne (Man sta per Madame in creolo) che per qualche motivo che Colin non riesce a spiegare, emigra in Florida, dove le viene versata un decente pensione che le consente di vivere in America e di mandare, periodicamente, i soldi alla famiglia del figlio Corazón.

Questi era stato sempre scioccato dalla scomparsa del padre, era stato sempre, fin da piccolo, una persona violenta, tanto che, per incanalare al sua rabbia, si era dedicato alla boxe. O almeno, questo è quello che dice, dopo essere ritornato da una discreta assenza, seduto al tavolino davanti casa, quando si ubriaca insieme al postino. Lavora in un’officina meccanica, ma Colin scopre che non è un meccanico, ma solo un uomo di fatica, anche lì maltrattato e bistrattato. L’unica cosa che fa è intercettare i soldi che manda Man Yvonne, e spenderli tutti in colossi bevute.

Bevute  valle delle quali l’unico suo sfogo è maltrattare, picchiare, insomma fare tutto il male possibile alla moglie Josephine. Lei che lo ha sposato per puro amore, e che ancora, nonostante tutto lo difende, anche quando viene riempita di botte. Inciso: questa parta, quando si parla del rifiuto di Josephine di riconoscere il cattivo comportamento del marito, andrebbe presa e discussa in tutti i femminicidi cui assistiamo; bisogna riuscire ad entrare in questo tipo di deriva psicologica.

A fronte dell’ennesimo accanimento di Corazón su Josephine, Colin e Mariéla si ribellano e per fermare il padre, lo colpiscono con una chiave inglese. Corazón muore ed i due scappano. In realtà è da qui che comincia il racconto e tutto il resto avviene in retrospettiva nei ricordi di Colin. I due fuggono, hanno una loro giornata di libertà. Incontrano i loro amici, Colin ne rievoca i trascorsi. Conosciamo così anche altri abitanti della bidonville: Johnny Bla-bla, cosiddetto per la balbuzie, e Maynard il ciccione, ovvio il riferimento corporale.

Di piccola poesia i pochi momenti di libertà dei due fratelli, con l’attardarsi dei due nella piazza degli Eroi, dove si trovano le statue dei fondatori del paese, come Toussaint Louverture. I nostri sono figli di quegli eroi, ma senza eroismo. In ogni caso, la notizia della morte si diffonde presto, i due vengono riconosciuti, inseguiti, presi, separati, avviandoci ad un finale da leggere anche se non è quello che risalta.

Rimane la povertà, l’inutilità della ribellione, e tante parole. Ma nessuna, purtroppo, fa breccia nella nostra testa, rimanendo un buon esempio di letteratura altra, senza salire troppo nel mio personale gradimento. Rimane anche la voglia, prima o poi, di visitare anche Haiti.

Eka Kurniawan “L’uomo tigre” Repubblica Emozione Noir 18 euro 7,90

[A: 14/10/2019 – I: 04/01/2022 – T: 06/01/2022] - & e ½  

[tit. or.: Lelaki Harimau; ling. or.: indonesiano; pagine: 188; anno 2004]

La letteratura indonesiana ha due grosse difficoltà per arrivare in occidente: non ha una lingua stabile, essendo l’Indonesia la culla di due scritture linguistiche, indonesiano e malese, ed è, come molte scritture asiatiche molto legata al territorio, quindi anche di difficile interpretazione. Per queto ho accolto con interesse questo primo testo locale, sperando di riuscire ad entrare in quel mondo. Purtroppo, un’operazione non riuscita.

Il primo motivo deriva dalla collocazione del testo, da parte dei curatori delle edizioni di Repubblica, in una collana NOIR. Certo, il testo inizia con un morto, e ci si domanda le motivazioni dell’omicidio, visto che sappiamo anche subito chi è l’assassino. Ma tutto il testo serve ad entrare nel mondo, un testo pieno di risvolti psicologici ed ambientali. Così che, una volta letto, l’ho collocato e ne parlo come un testo non di genere, ma di letteratura, nella sezione dedicate alla scrittura maschile d’autore.

Comunque, Eka Kurniawan è di sicuro un interessante inizio per approdare in Indonesia. È infatti, considerato uno dei nuovi scrittori di punta, erede dell’ancestrale tradizione locale. Sono stati anche scomodati paragoni scomodi per la sua scrittura, che senz’altro si inscrive nel mondo del “realismo magico”. È infine il primo scrittore indonesiano ad essere inserito nella rosa dei pretendenti al “Man Booker International Prize”. È anche giovane (41 anni), si occupa di letteratura ad ampio raggio (scrittura, ma anche fumetti, saggi, giornalismo). Tutte premesse interessanti. Non proprio mantenute in questo romanzo.

Forse anche per il mio approccio poco sintonico con il realismo magico (di tipo sudamericano) e di sicuro poco conoscitore dell’Indonesia (dove non sono ancora stato). Mi ha ricordato, pur nella diversità, uno dei più brutti (per me) ma più acclamati (dalla critica) tra i film asiatici: “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”.

Ma veniamo al testo. Che, come detto, si apre con l’omicidio di un incallito donnaiolo, Anwar Sadat, perpetrato da Margio, un ventenne in realtà assai disturbato. Quindi siamo già nella psicologia: sappiamo chi muore, sappiamo chi uccide, ma perché? Ci vorranno quasi duecento pagine per capirlo. Intanto, inusuale è anche la modalità della morte: Margio morde al collo Anwar, fino a tranciargli la trachea, e farlo morire dissanguato. Una modalità propria delle tigri, che tanto popolano tutta la zona, rurale, dove si svolge il dramma.

Allora, da qui parte da un lato tutta una descrizione sulla storia dei rapporti tra uomini e tigri. Ci si narra che nel villaggio tutti avevano la propria tigre. Il nonno di Margio l’aveva ereditata da suo padre, e questi da suo padre, e così via all’indietro. Ma bisognava avere caratteristiche di correttezza (non dico di bontà) per entrare in sintonia con le tigri. Che, secondo il mito locale, sono esseri superiori che si offendono se l’uomo non le rispetta. Per questo il padre di Margio era stato saltato. Padre manesco e indisponente. Qui parte anche tutta un’analisi dei rapporti tra padre e figlio (duri e irrisolvibili), con la madre a fare da capro espiatorio, se non quando trova delle piccole scappatoie che non vi narro.

Poi c’è la famiglia di Anwar, con le sue tre figlie femmine, la cui ultima, studentessa nella grande città, è innamorata di Margio, e forse ricambiata. Ma veniamo anche a contatto con il brutale machismo di Anwar, che soggioga molte femmine del villaggio, per i suoi appetiti. Senza tuttavia, mai amarne uno.

È tutta una descrizione, allora, degli usi e costumi indonesiani, con le loro leggende, la magia, le influenze naturali e soprannaturali. Entrando così in ballo i vari personaggi locali, di cui leggiamo, m di cui non divento mai realmente partecipe. Comunque, passo dopo passo, arriveremo anche all’agnizione finale, ed a capire i motivi del gesto di Margio, lui che aveva ereditato la tigre dal nonno, la tigre bianca che aveva saltato il padre.

Il tentativo di Kurniawan è denunciare il mondo chiuso e sorpassato della famiglia tradizionale (rurale) indonesiano, lanciando contemporaneamente strali alla schizofrenica società contemporanea (urbana). Questa distrugge quella, mentre dovrebbero trovare una sintesi per convivere. Un po’ quanto denunciato per il Congo da Bofane. Ma è un tentativo che intuisco, ma che mi ha lasciato alquanto freddo nei risultati che prova a raggiungere.

Siamo alla prima settimana di maggio, così che ci si dedica alle letture di febbraio, dove sono presenti tre libri interessanti da leggere. Un Simenon dei “romanzi duri”, il terzo uomo di Greene, che ci riporta al bellissimo film, ed all’escursioni pittorica di Gregorio Botta. In fondo alla scala un facile ma non convincente romanzo di Nicolas Barreau (meglio la sua prima uscita).

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Eric Ambler

Epitaffio per una spia

Repubblica Spy

7,90

3

2

Georges Simenon

Il fidanzamento del signor Hire

Repubblica

9,90

2,5

3

Maurizio de Giovanni

Le parole di Sara

Rizzoli

14

3

4

Robert Harris

Enigma

Repubblica Spy

7,90

2

5

Georges Simenon

Le finestre di fronte

Repubblica

9,90

2

6

Alexander McCall Smith

Salone di bellezza per piccoli ritocchi

Repubblica Noir

7,90

2,5

7

Mika Waltari

El Aventurero

Éxito

s.p.

2,5

8

Georges Simenon

Il grande male

Repubblica

9,90

4

9

Roberto Centazzo

Operazione Portofino

Repubblica Noir

7,90

2

10

Graham Greene

Il terzo uomo

Sellerio

s.p.

4

11

Maurizio de Giovanni

Una lettera per Sara

Rizzoli

s.p.

2,5

12

Gregorio Botta

Pollock e Rothko

Einaudi

s.p.

4

13

Maurizio de Giovanni

Gli occhi di Sara

Rizzoli

s.p.

2

14

Nicolas Barreau

Il tempo delle ciliegie

Feltrinelli

s.p.

1

15

Maurizio de Giovanni

Angeli per i Bastardi di Pizzofalcone

Einaudi

s.p.

2

 

Nient’altro prevede questo primo di maggio, se non lunghe riflessioni su questo momento storico dilaniato da una guerra che non ci doveva essere. Così che riandiamo nel pensiero ad un romanzo ecologico di Carlo Lucarelli pubblicato a suo tempo in quella collana ambientale chiamata “VerdeNero”. In quel suo “Navi a perdere” ci faceva riflettere sulla memoria imperitura delle persone che continuano a farsi domande, e che noi continuiamo dopo di loro: “gli uomini che cercano, finché continuiamo a farci le loro domande, non muoiono mai” (102).

Anche noi si cerca, anche di essere felici, insieme, ed insieme a tutti i miei amici ed i miei lettori, che quindi saluto con un grande abbraccio.

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