domenica 15 maggio 2022

La saga di Balistreri e ... - 15 maggio 2022

Una settimana dedicata massimamente al personaggio di Roberto Costantini, dove però cominciamo con un altro considerato (o che si considera) un maestro del giallo e del thriller. Torniamo alla lettura di Carrisi, con un libro che, pur con delle cadute, regge meglio l’arena thriller. Dopo di che cominciamo la poderosa lettura di Costantini. Interessante lo spunto, dove l’autore colloca l’ispettore in una funzione di alter-ego diversificato. Ma, come ne leggerete, la storia non decolla mai, anzi, con l’ultimo capitolo letto (e ce ne sono altri) scivola assai.

Donato Carrisi “Il tribunale delle anime” Corriere Thriller Psicologici 2 euro 7,90

[A: 10/08/2018 – I: 18/11/2021 – T: 19/11/2021] - && e ½

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 458; anno 2011]

Torniamo nuovamente, con molta cautela, su quello che le autocelebrazioni editoriali definiscono l’autore di thriller italiano più venduto nel mondo. Non entro nel merito, rilevo solo che questo è il terzo libro che ne leggo, e, ad ora, quello che, pur in un gradimento non eccelso, migliore la media dell’autore.

Di certo, con l’esperienza teatrale giovanile, è facile, infatti, vedere nella scrittura di Carrisi la semplicità nell’affrontare i dialoghi. Risulta meno coinvolgente quando si lancia in descrizioni, in paesaggistica varia, in approfondimenti psicologici. Il che fa sì, alla fine, che pur come detto migliorando il giudizio inizialmente poco felice sull’autore, non è che sia un capolavoro di piacere e di coinvolgimento.

Anche perché ci sono due elementi che mi disturbano: il solito vezzo di andare su e giù nel tempo, che consente di creare suspense, ma che, di converso, fa sì che l’autore si ritenga il deus ex-machina onnisciente e onnipotente, e la capacità di ingarbugliare talmente le trame che, da essere un pregio, rischia (come in questo caso) di essere un ostacolo alla piena fruibilità del testo.

Mentre infatti, da una prima partenza di lettura sembra tutto lineare, visto che si comincia “cinque giorni fa”, poi tutto si complica che, oltre a venire a ritroso fino all’oggi, poi si salta ad un anno prima per alcune importanti sequenze, ed ogni tanto si svaria altrove nel tempo e nello spazio. Ma per rimanere con i piedi a terra, diciamo che i personaggi principali che si muovono sul terreno sono due: Marcus, un penitenziere dotato di un grande talento investigativo, reduce da una ferita alla testa che gli ha fatto perdere parte della memoria, che cerca di ricostruire durante il romanzo, e Sandra, un’agente della polizia di Milano, il cui marito è stato ucciso a Roma e sulla cui morte lei comincia ad indagare.

Dall’accenno su Marcus si capisce già che un ruolo centrale ha la Penitenzieria Apostolica, composta da preti che hanno ricevuto il potere di giudicare peccati mortali (per questo soprannominata “tribunale delle anime”). La Penitenzieria, di sicuro ha uno dei più vasti archivi sui criminali, ma, e su questo mette il dito Carrisi, alcuni religiosi lavorano nell’ombra per scovare i killer, cacciare indietro le tenebre, ed anche, ma sarebbero quelli deviati, arrogandosi il diritto di arrivare laddove la giustizia umana si ferma.

Marcus, nell’indagine per scoprire il suo passato, scopre omicidi, assassini seriali, rapimenti, e cerca di trovarne gli artefici. Scoprendo anche che David, il marito di Sandra, anche lui, da fotoreporter, stava facendo una ricerca simile, ed aveva trovato un bandolo della matassa. Per questo le strade di Marcus e Sandra si intrecciano. E qui Carrisi mostra tutta la sua bravura di complicatore di trame semplici. Si infilano storie laterali di rapimenti e di uccisioni, qua e là nel tempo, che Marcus e Sandra, da soli o insieme, risolvono. Poi si innesta una storia che sembra trasversale ma che comincia a dare un senso al tutto.

Viene fuori un killer trasformista affetto dalla "sindrome del camaleonte", dove il soggetto imita in tutto l’altro: emozioni, posture, espressioni facciali, linguaggio. Questo serve a complicare ulteriormente il ruolo di Marcus. Cioè lui è lui o è il killer? Ed è lui che ha ucciso David che lo aveva smascherato o il vero killer che si era finito un altro ancora?

Tutti i nodi “semplici” della trama vengono alla fine brillantemente risolti. Rimangono due grandi quesiti: chi è Marcus e la risposta ad una domanda che viene posta ad un certo punto: "Il bene e il male sono innati in ognuno di noi, oppure dipendono dal percorso che ognuno compie nella propria vita?”. Sul primo ho un’idea. Sul secondo una certezza.

Allora veniamo a due punti finali. La prima riguarda i penitenzieri. Ora, l’Istituto Vaticano fu fondato intorno al 1210 dal papa Innocenzo III per alleviarlo nel lavoro di dirimere tutti i casi dei penitenti che venivano a Roma per sgravarsi da peccati gravi ed ottenere indulgenze. Il primo penitenziere fu Nicola di Tuscolo, meglio conosciuto come Nicola de Romanis. Abile prelato, creato cardinale nel 1204, lavorò molto in Inghilterra per ricomporre l’allontanamento dalla Chiesa di Roma da parte di Giovanni Senzaterra (che ricordo era il fratello di Riccardo Cuor di Leone, a noi ben noti per le vicende di Robin Hood). Dopo 800 anni, la Penitenzieria è ancora in piedi, attualmente guidata dal cardinale Mauro Piacenza, anche se è stata rifondata dalla Costituzione Apostolica di Giovanni Paolo II del 1988, dedicandola unicamente alla concessione di assoluzioni e penitenze riservate alle decisioni del Pontefice. 

L’altro punto maggiore del testo, è l’avermi trasportato in giro per Roma, tra luoghi ben noti ed altri meno, che cito un po’ alla rinfusa, ma con sincero affetto: il caffè della Pace, dietro piazza Navona, i dipinti del Caravaggio nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, Villa Glori, la cappella di a San Raimondo di Peñafort all’interno della Basilica di Santa Maria sopra Minerva al Pantheon, nonché, ultimo ma non meno vicino ai miei giri romani, il Museo delle anime del Purgatorio nella sacrestia della Chiesa del Sacro Cuore del Suffragio in Lungotevere Prati. Una passeggiata romana che consiglio vivamente di regalarsi.

Per finire quindi, certo stiamo migliorando, ma per me, ad ora Carrisi rimane ancora un oggetto da decifrare.

“Aveva imparato … che le case non mentono mai. Le persone, quando parlano di sé, sono capaci di crearsi intorno delle sovrastrutture a cui finiscono perfino per credere. Ma il luogo in cui scelgono di vivere, inevitabilmente, racconta tutto di loro.” (27)

Roberto Costantini “Tu sei il male” Feltrinelli Marsilio euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)

[A: 10/10/2020 – I: 07/10/2021 – T: 10/10/2021] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 667; anno: 2011]

Con questo si inaugura la lettura dei “libroni” dell’ex-manager ma ora insegnante alla Luiss, Roberto Costantini. Uno di quegli autori di cui non avevo una gran convinzione di lettura, primo perché i suoi romanzi navigano sempre intorno alle 500 pagine (o più come in questo caso), e poi perché non ne avevo sentito molto parlare in giro (nonostante le molte autocelebrazioni).

Devo dire che questa lettura da una parte conferma le mie perplessità, mentre dall’altra solletica una lettura critica ma comunque interessante di un testo complesso, nonché, probabilmente inserito in un contesto che l’autore ha sviluppato su più volumi.

In realtà, questo è il primo volume di una serie che viene battezzata come “La trilogia del Male”, cosa che ci fa capire, primo che sono tre volumi, secondo che sono collegati tra loro, e terzo che il filo conduttore è il Male, inteso con la M maiuscola.

Queste prime quasi settecento pagine servono a delineare tutti i personaggi, qualcuno più a fondo, qualcuno meno. Servono a descrivere una fetta di storia, politica e personale, della nostra Italia. Ma sarebbero servite anche a fornire materiale per diversi libri, mentre qui tutto viene collegato, anche se non condensato.

Intanto, dobbiamo fare la conoscenza di Michele Balistreri, poliziotto probabilmente di rango (seppur non sempre chiare siano le sue capacità investigative), con una storia assai complicata e tormentata sia alle spalle che di fronte a sé. Come Costantini, risulta nato a Tripoli, da cui viene cacciato nel 1970, insieme alla famiglia, dopo l’ascesa al potere di Gheddafi. Il parallelismo di date con l’autore sembra portare anche ad una similitudine di età (Costantini è del ’52), dato che Michele, negli anni ’70, frequenta l’Università della Sapienza in Roma. Vuoi per il modo di essere espulsi da Tripoli, vuoi per ragionamenti personali, Michele diventa un esponente di rango della destra fascista universitaria, vicina a Ordine Nuovo. Questa è la parte che mi ha reso dubitativo del personaggio. Non perché non si possano avere delle idee diverse dalle mie, ma perché queste ideologie non scompaiono mai del tutto dal personaggio, né diventano oggetto di revisioni critiche nel corso del tempo.

Già, il tempo. Che questa prima maxi-puntata si distende tra i due mondiali vinti dall’Italia: dal luglio 1982 al luglio 2006. Sarebbero ventiquattro anni, ma in realtà, la storia si sviluppa nel 1982, poi c’è un salto sino al 2005, e da lì si trascina sino alla fine. Un salto dove l’autore deve anche aggiornarci sui personaggi, che anche per loro sono passati gli anni.

Il contraltare di Michele lo conosciamo subito nelle prime pagine è Angelo Dioguardi. Cattolico, anche se con qualche divagazione, grande giocatore di poker (diventerà anche un campione del gioco). Nella prima parte è fidanzatissimo con Paola, mentre Michele è decisamente un puttaniere, che passa di donna in donna, pensando solo al sesso. Nella seconda, i ruoli si invertono abbastanza: dopo i fatti dell’82, Michele, anno dopo anno, si isola in sé stesso, relegando il sesso ad un ruolo episodico, mentre Angelo, lasciatosi con Paola, diventa non dico libertino, ma di certo più spregiudicato. Rimane solo una costante: le settimanali partite di poker (che per la loro routine mi ricordano le nostre periodiche partite di bridge).

L’episodio scatenante è, nella prima parte, l’uccisione di una bella signorina, Elisa. Lavora part-time in una struttura cattolica, con Angelo, per le attività di un cardinale. Il tutto in una villa di un conte monarchico afflitto dalla presenza di un figlio, Manfredi, affetto da un labbro leporino non curabile al momento, e di un ematoma facciale indelebile. La platea dell’82 è completata da Valerio, innamorato non corrisposto di Elisa. La morte avviene proprio nel giorno della finale, dove, per una serie di circostanze, Michele, presa sottogamba la vicenda, non riesce a venirne a capo. Tutto il teatro viene ben presentato, ma non si trova una via d’uscita, e la morte rimane senza nessun colpevole acclarato.

Ritroviamo tutti (i vivi, ovvio) dopo ventiquattro anni. C’è chi ha fatto carriera, chi si è sistemato, chi è rimasto ai margini. Fatto sta che dopo tanti anni, cominciano a fioccare morti su morti. Anzi, morte, che sono le donne a lasciarci. Spesso con una lettera incisa sulla pelle. Muore Samantha Rossi, figlia di una signora al tempo amica di Alina, una rumena che bazzicava le attività del cardinale, e che muore nell’83 in uno strano incidente di motorino. Muore una puttana che sembra entrarci come i cavoli a merenda. Muore (suicidio pare ma forse no), la madre di Elisa. Muore una tal Ornella, vedova di un ex-re delle slot machine, dopo aver avuto una lunga storia con tal Francesco (che ora gestisce l’impero dei video giochi). Francesco che sapremo poi essere stato al tempo fidanzato con la madre di Samantha.

Soprattutto compare come burattinaio un tal Marcus Hagi, anche lui rumeno, che era il marito di Alina. Nonché si intrufola nella vicenda Linda, una giornalista molto dotata, con tanti agganci anche non sempre puliti, e che scopriremo aver frequentato in gioventù la stessa scuola di Manfredi.

Costantini ingarbuglia la vicenda con tanti rivoli, inzeppandola anche di motivazioni para-politiche. Servizi di Stato tendenzialmente deviati, tentativi di addossare colpe a extra-comunitari in modo da fomentare rivolte razziali, finanze off-shore. Insomma, un guazzabuglio che la metà basta.

Rimane la possibilità che tutte le morti siano collegate, che qualcuno (il Male) tiri le fila. Ed abbiamo una serie di possibili indiziati: Hagi, che si inventa un’improbabile vendetta per la morte della moglie, Manfredi, che è roso dentro dalla sua bruttezza esteriore (anche se ora la chirurgia estetica ha fatto il suo dovere, e lui è diventato un eminente medico nell’esilio africano, che lascia solo in questo 2006), Angelo, che aveva avuto delle pause di presenza forse poco chiare, Valerio, vendicatore respinto e poi rimasto turbato dal rimorso, oppure qualcuno legato agli ambienti cattolico-monarchici del conte e del Cardinale che si muove come “Uomo Invisibile”.

L’efficacia del romanzo sta nel presentare tutti come colpevoli, nel mostrare che tutti hanno un alibi, e nello smontare, pagina dopo pagina, gli alibi e le motivazioni di ciascuno.

Non entro nelle mosse di Balistreri, che saranno poi quelle che ci porteranno alla soluzione, pur non essendo il nostro sempre al centro dell’attenzione. Ma mi aspetto che gli altri romanzi della serie serviranno a chiarirci anche questo personaggio. Magari facendolo crescere nel giudizio. Che invece, ad ora, rimane dubitativo. Non c’è un personaggio che emotivamente ci prende. Non c’è una storia che sia completamente chiarita. Sembra che lo scrittore ci voglia dire che tutto è brutto, e che tutti, chi più chi meno, sono colpevoli e cattivi.

Rispetto la capacità di portare avanti questa mole di lavoro, anche non essendo in concordanza con alcune tematiche. E avendo il dubbio che, in un romanzo, si debbano chiudere i fili aperti. Vedremo nel futuro.

Roberto Costantini “Alle radici del male” Feltrinelli Marsilio euro 12

[A: 05/09/2021 – I: 02/12/2021 – T: 04/12/2021] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 700; anno: 2012]

Siamo al secondo volume della trilogia di cui si parla sopra. Laddove, nella trilogia si parla del Male, con la M maiuscola, mentre i titoli dei vari libri prevedono la m minuscola. E questo è un prequel quasi sequel, nel fascino immutabile del terzo film della serie “Ritorno al futuro”.

Cioè, si colloca a cavallo del primo volume, qui essendo la prima parte precedente all’inizio del primo, e la seconda parte, subito dopo gli avvenimenti centrali del primo. Facendo un riassunto temporale, il primo aveva il nucleo centrale nel 1982, con una robusta appendice dopo il 2005. Qui, metà libro è consacrato alle vicende di Mike Balistreri dal 1958 al 1970, per poi dedicare la seconda parte ad avvenimenti subito successivi al nucleo precedente, praticamente dal 1982 ai primi mesi del 1983. Tutto per arrivare a riempire ben settecento pagine di romanzo. Che sono di certo eccessive, anche troppe nella prima parte (trecentonovanta pagine per arrivare agli anni Settanta, con una vicenda complessa, ma anche sfrondabile in qualcosa meno). Poi si dedicano trecento pagine alla vicenda poliziesca in senso stretto, con lo stesso marchio del precedente: molti possibili colpevoli, che vengono decolpevolizzati uno per volta, sino ad arrivare al nucleo centrale, quello di chi deve pagare il fio.

Ovvio sia il rimando all’autore stesso, che anche lui nacque in quel di Tripoli italiana. Quindi, c’è probabilmente molto dei ricordi e dei pensieri di Costantini stesso in tutta la parte relativa alla giovinezza e adolescenza di Mike in terra libica. Qui l’autore si imbarca in una trama complessa, laddove cerca di inserire i personaggi in una visione storica “reale” delle vicende. Il padre di Mike, faccendiere italiano di origini siciliane, sempre dedito ad affari al limite della liceità, tutto teso a trovare il modo di sfruttare il petrolio libico, in barba agli americani.

La parte libica si incentra quindi su tre famiglie: i Balistreri, dove oltre al padre, abbiamo la madre Italia, fascista dichiarata e mai doma, ed il fratello Alberto (ci sarebbe anche il nonno, ma andremo troppo in complicazioni); gli Hunt, i loro amici americani, William, legato agli ambienti militari, forse spia esso stesso, la bella e dissoluta moglie Marlene, e la figlia Laura; ed i libici, la famiglia Al Bakri, con il padre Mohammed, ed i figli, Farid e Salim, della prima moglie, Karim, Ahmed e Nadia, della seconda.

Come detto questa parte si spande dal festival di Sanremo del ’58 (quello di Modugno) che tutti vedono insieme, sino alla cacciata degli italiani dalla Libia nel ’70 da parte di Gheddafi. Vediamo nascere amicizia (tra Ahmed, Karim, Mike e Nico, il povero, balbuziente, figlio del benzinaio locale), momenti epici, crescite, amori (Mike sarà sempre innamorato di Laura, nonostante per rabbia vada a letto con la madre, perdendo sé stesso, Laura, la madre Italia e non so che altro), ma anche assassinii e morti.

C’è una donna nera uccisa con la figlia di nove mesi e ritrovata in un letamaio. C’è la morte di Nadia, seviziata e ritrovata senza il dito indice. Ci sono tanti possibili colpevoli, oltre quelli sopra citati. C’è don Eugenio, prete un po’ pedofilo e destinato ad una grande carriera, e c’è Emilio Busi, comunista con rolex, anche lui con molte ombre e poche luci. Mike cerca, da giovane impulsivo, di far luce sulla vicenda, ma tutti hanno un alibi, o cercano di coprirsi a vicenda. Anche Italia, che lo aiuta, sembra non trovare prove.

Tutto però è immerso nel brodo della politica, che Balistreri senior, con Busi ed altri, appoggerà la rivoluzione del giovane colonnello Gheddafi, mentre Hunt cercherà di fermarlo. Intrecci anche di gelosie ed amori tra le famiglie. Intrecci con i 4 amici, che riparano in Egitto, fanno fortuna. Ma Karim si avvicina troppo ai Fratelli Mussulmani, Mike viene coinvolto in un possibile attentato a Gheddafi, dove qualcuno lo ferma. Dove Italia sembra avere le prove del tradimento degli italiani, ma muore anch’essa, non si sa se suicida o altro. Insomma, un guazzabuglione in cui l’autore mette di tutto.

Poi tutti vanno in diaspora, o almeno i vivi, che nel frattempo, per motivi vari, Mike uccide Selim e Ahmed. E ritroviamo il nostro commissario di polizia nel 1982.

Qui si intreccia la vicenda da “Ritorno al futuro”, che Costantini piazza il clou della storia proprio nello stesso anno centrale del libro precedente. Quindi deve star attento a far coincidere azioni e sentimenti. Vediamo ricomparire Angelo, vediamo di sfuggita la storia della morte di Elisa, sopra narrata, ed iniziamo tutta un’altra storia, come se le prime 400 pagine fossero poco sufficienti.

C’è il mentore di Mike, il commissario Teodori che si avvia alla morte per cancro, e chiede a Mike di proteggere la figlia Claudia. Questa aveva provocato un incidente stradale dove muore la sua amica del cuore Deborah. Poco dopo viene trovata morta anche un’argentina di nome Anita Messi (fantasia sfrenata sui cognomi…). Tutte con l’indice monco. Così che il nostro Mike non si perita di trovare un super-collegamento tra le morti attuali e passate.

Tutta la seconda parte, poi, è immersa nel mondo della televisione. Dove vengono inseriti personaggi loschi (dediti allo spaccio), poco simpatici (dediti all’arrassement), e tronfi con moglie al seguito (lui le scopa una volta, poi le passa alla moglie). Il tutto legato al traffico della droga, a collegamenti con il Sudamerica, ma anche con le mafie siciliane, dove risbucano fuori anche gli zii del nostro Mike.

Un guazzabuglione che la metà basta. Certo Costantini riesce a non perdere la bussola, anche se la nostra ogni tanto va fuori rotta. Ci saranno morti inutili, ci sarà un collegamento lasco con la natia Tripoli, che però dovrà finire ben presto, ci sarà una vendetta che parte dal passato. Insomma, buona parte dei “misteri” vengono alla luce. Rimane sola la morte di Italia, la madre di Mike, che sempre più si avvicina al suicidio. Rimangono inoltre in ombra le possibili evoluzioni di vari personaggi (il prete, il faccendiere, il padre), che forse avranno soluzioni in altre uscite, aspettando di leggere il terzo volume.

Per noi cultori del genere, rimane il dispiacere dell’impossibilità di arrivare agli indizi base. Questi sembrano legati ad una scritta autografa di Italia: “controllare m”. Ora, in stampa si può fare poco, ma essendo autografa quell’m poteva destare dei sospetti. Mentre se si poteva utilizzare una scrittura orizzontale tipo

E

 si poteva destare qualche ipotesi maggiore sulla soluzione di qualche mistero.

Comunque, queste radici del male ci rimandano alla natura del personaggio “Balistreri” che, pur con dei tratti interessanti, per la sua evoluzione rimane ancora un elemento che non mi convince totalmente. Insomma, bella scrittura, capacità di gestire situazioni complesse, ma troppo teso a voler dire di tutto e di più non su di un giallo in sé, ma su tutto lo scibile umano. Un solo esempio: la foto di Gheddafi con Balistreri senior che getta un’ipotesi di complotto non verificato su tutta la vicenda libica.

Roberto Costantini “Il male non dimentica” Feltrinelli Marsilio euro 12

[A: 12/10/2021 – I: 15/01/2022 – T: 16/01/2022] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 525; anno: 2014]

Eccoci allora alla puntata conclusiva della grande saga del commissario Balistreri. Qui, a parte alcune variazioni sul tema, in pratica si ripercorrono i caposaldi dei primi due volumi per arrivare (o cercare di arrivare) alla conclusione che il personaggio principale cerca dalle prime righe: com’è morta la madre Italia?

Questa scritto, alla fine, risulta assai più debole delle precedenti puntate, sia perché non c’è un vero giallo che accompagna le indagini (si, ci sono morti, ma complementari al racconto di base) sia perché non fa altro che ripercorrere, su e giù per la scala temporale, quanto già detto nei libri precedenti. In un modo quasi complementare a “Ritorno al futuro – Parte III”, dove si rifanno tutte le vicende pregresse, dandone (finalmente) una versione definitiva.

Anche il personaggio di Balistreri non è che ne esce arricchito, ma in un certo senso quasi depauperato di quanto si era rivestito nel corso degli anni. Ne esce “nudo”, forse più umano, ma alla fine, sconfitto nella sua essenza, nella sua particolarità di uomo, di poliziotto integro e riflettente contraddizioni che molti hanno vissuto sulla propria pelle.

Il discorso di Costantini torna infatti sempre lì. Alla sua Libia, alle vicende della rivoluzione del ’69, qui arricchita dalle ultime fasi del mondo di Gheddafi (visto che l’azione si svolge nel 2011 terminando con la fine di un mondo senza la nascita di una nuova nazione). Quasi un tentativo di riscattare LA storia attraverso una storia.

I protagonisti, al fondo, sono sempre gli stessi: Michele Balistreri, la famiglia Hunt (Marlene e Laura, in particolare, ma anche William), la famiglia Al Bakri (Ahmed e Karim, nella fattispecie) e i quattro “cospiratori” Enrico Busi, don Eugenio, Mohammed Al Bakri e Salvatore Balistreri, il padre di Michele. Sparito nei meandri della storia Nico (e sappiamo perché). Ricomparsa, con un suo ruolo preciso, la giornalista Linda Nardi (centrale nella vicenda del 2006, ma all’epoca poco addentro alla trama, se non per una possibile ma improbabile tresca con il nostro tenebroso commissario).

La storia si addensa comunque sempre lì, al 31 agosto 1969. I cospiratori hanno brigato con i soldi dei finanzieri, in giro “per il mondo” al fine di portare Gheddafi al potere. L’agente della CIA, William lo sa, ma per consentire a Italia di salvare il marito Salvo le concede 48 ore. Nelle puntate precedente sono morte persone, anche vicine a Mike ed ai suoi amici. Il nostro ragazzo, all’epoca sedicenne, si avvicina troppo a verità scomode e tutti brigano per farlo desistere.

Sarà un complotto tra i giovani Al Bakri e la sua ragazza Laura (aiutati inconsapevolmente da Marlene) a mettere nella situazione che Michele si debba allontanare per sempre dalla Libia e da questi problemi. Anche se Mohammed è troppo vicino a Gheddafi, anche se Busi è troppo vicino a loschi affari, anche se don Eugenio è troppo vicino ai giovani ragazzi (capisci a me!).

Solo nel presente questi fili si annodano, visto che quel giorno del ’69 mamma Italia muore: suicidio o omicidio ben architettato? Ora, nel 2011, Linda è il motore della vicenda. Lavora vicino a ONG in Africa, scopre loschi affari per gli appalti di ospedali, e risalendo la china, intreccia i fili della colpevolezza dei quattro che, benché verso gli ottanta, sono ancora sulla cresta dell’onda. Purtroppo, le manovre di Linda mettono in moto una valanga che travolgerà tutti o quasi. Forse il solo Salvatore sembra avere una via d’uscita.

In tutto ciò, Michele fa la figura del tordo. Avanza, avanza, e non capisce un beneamato. Sta sempre lì, a pensare alla madre, a pensare a Ahmed cui sparò in Libia nel ’69, a Karim che fu sfregiato per colpa sua, a Laura che violentò (o quasi, visto che lei poi ammette che era quello che voleva fargli fare), all’andirivieni di persone, auto e motoscafi intorno all’isola della tragedia nei pressi di Tripoli.

Alla fine, avremo sciolto tutti i nodi del problema. Sapremo chi è morto e chi no, chi ha ucciso e chi è stato ucciso, scopriremo legami che l’autore cerca di mascherare ma che sono palesi dalla prima telefonata intercontinentale fatta. Costantini lascia solo qualche ombra all’interpretazione di noi lettori, che ognuno volgerà come meglio si sente.

Rimane un romanzo monco. Di giallo reale ce n’è poco. C’è molta politica, ma più interpretativa e soggettiva che reale. Certo, Gheddafi fu appoggiato da poteri finanziari forti nella sua scalata al potere. E di sicuro, gli stessi poteri ne decretarono la fine quando la sua presenza stava diventando ingombrante per i loro interessi economici. Far risalire tutti i nostri quattro cospiratori è tuttavia un’operazione troppo riduttiva per delineare uno scenario politico come sembra voler fare Costantini.

Di sicuro, la troppa vicinanza dell’autore ai problemi trattati ne distorce un po’ la visuale, rendendo un romanzo altrimenti quasi leggibile, un po’ troppo fantasmagorico, da un lato, ed un po’ troppo semplicistico dall’altro. Sono ora curioso di leggere gli altri libri con al centro il commissario Balistreri. Cosa si inventerà l’autore?

Roberto Costantini “Ballando nel buio” Repubblica Passione Noir 8 euro 7,90

[A: 10/08/2018 – I: 28/01/2022 – T: 30/01/2022] & 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 477; anno: 2017]

Finito il lungo excursus sulle vicende su e giù nel tempo per esorcizzare i demoni del passato libico dell’autore e del suo personaggio, in questo nuovo capitolo, Costantini prova a dare un senso al resto della vita di Michele Balistreri. Purtroppo, con risulti ancora minori rispetto ai precedenti libri. Il tentativo del docente della LUISS di ripercorrere le vicende italiche alla luce della sua personale esperienza, proiettandola nel suo alter ego poliziotto, risulta poco incisivo ed anche poco coinvolgente.

La pecca principale è la non indipendenza del personaggio centrale rispetto agli altri capitoli della saga. Alcune sue prese di posizione, alcuni suoi stati d’animo sono incomprensibili, o quantomeno travisabili, se non sapessimo del suo pregresso, di come sia morta la madre, di quale sia stato il suo rapporto con Laura, di quali siano stati e siano i suoi sentimenti verso la Libia, e l’Africa. La seconda è il repetita modus scrivendi dell’autore rispetto alla trama. Su e giù nel tempo, con due storie che si intrecciano, si complementano, ma, di nuovo, questa scrittura a flashback, alla fine, è più stancante che conclusiva.

Costantini, nel tentativo di dare una fisionomia finale (a tutto tondo, ci sentiremo di dire) a Balistreri, da un lato ci porta nel 1974, ed ai passi che fanno distaccare Michele dall’onda fascista in cui si era immerso quando, scacciato dalla Libia, torna a vivere in Italia. Dall’altro, ci fa trovare il Balestrieri già commissario, però sempre alle prese con i conti con il suo passato. Con il grosso dilemma: se hai impiegato tre libri e quasi duemila pagine per far uscire tutte le magagne del personaggio, e consegnarcelo con un dipinto completo, come ti viene in mente di tirar fuori nuove zone d’ombra, che erano marginali nei primi libri, e che qui sembrano diventare una condizione esiziale per comprendere l’agire di Michele “Mike” “Africa” Balistreri.

Tirando un po’ le fila, nelle storie del ’74, vediamo “Africa” bazzicare Ordine Nuovo, fino al suo scioglimento appunto nel ’74. Il suo amico Giulio “Ringo” Giuli vorrebbe farlo rientrare nel FUAN e nel MSI, ma lui, ed i suoi amici “Benvenuti” e “Boccino” rimangono fuori, anche se pensano di agire ai limiti (e fuori) della legge per “dare una lezione ai rossi” e lui anche per trovare gli assassini dei fratelli Mattei. Si capisce già che molta parte del testo sarà imbevuta di politica, ma con un piglio che non riesce a fare breccia nei ragionamenti del lettore (nonostante una excusatio non petita inserita dall’autore ad inizio libro).

Le cose si complicano con l’entrata in scena di due donne: Isabella, che ronza un po’ intorno a tutti, sembra volersi avvicinare a Michele, per poi inscenare a più riprese un balletto di tira e molla che lascia perplessi. E Viola, la ragazzina, che invece di Michele si innamora perdutamente, facendo follie per stargli vicino, anche come rivalsa verso il padre, un potente democristiano. Compare anche Carlo Giannini, un poliziotto educato presso i Servizi americani, esperto di antiterrorismo, che comincia a tirare Michele “dalla parte della ragione”.

Il punto cruciale (che però sembra quasi sottotono nel testo) è l’agosto del ’74, dopo la strage dell’Italicus. Giannini cerca di incastrare il padre di Viola nelle trame nere, utilizzano Michele. Che, nonostante ami Isabella, finge una passione per Viola. Succedono cose, tutte un po’ risibili (o molto complicate se vogliamo), per cui alla fine, Michele cerca di fuggire in Kenya con Isa, ma vengono fermati da Viola a Fiumicino, che cerca di ucciderli.

Risultato: le trame nere rimangono oscure, Viola si prende dodici anni per tentato omicidio (ma non sono troppi?), senza ragioni apparenti Isabella lascia Michele e sposa “Ringo”.

Nella parte dell’86, i nodi vengono al pettine, innescati dall’omicidio di Giulio Giuli. Che innesca una valanga di morti tra tutti quelli che facevano parte di quella cerchia sorta nel ’74. Perché proprio in quell’anno? Che stranamente coincide con la scarcerazione di Viola.

L’omicidio di Giuli è il più semplice da decifrare, basta pensare ai tanti simili di molte storie “noir”, dove alibi a posteriori vengono costruiti per nascondere azioni chiare da sole. Costantini qui si sforza di staccarsi dalle trame nere, facendo convergere tutti gli indizi su Viola. Con Isa che torna al centro della scena, da brava “vedova nera” della situazione.

Ma il nostro Michele è ben attento ai dettagli. Perché il profumo di Viola è sulla scena dell’omicidio di “Benvenuti”? Come fa Michele a capire che Isa e Giannini si conoscevano da tempo? Quando è coperta da alibi inattaccabili, perché gli indizi convergono su Michele?

Michele cerca di usare Giannini per scagionarsi. Ma quando anche il superpoliziotto viene ucciso, deve arrangiarsi da solo. Lo farà, e bene, con quella auto-giustizia che sembra mutuarsi dalle avventure di Rocco Schiavone. Si sa chi ha fatto cosa, perché, come. Ma non sempre la giustizia avrà il suo corso.

La fine è ingarbugliata, anche se vediamo Viola imbarcarsi per il Kenya con la sua laurea in medicina presa in carcere.

Chi si aspettava un poliziesco normale, rimarrà quindi deluso. È un giallo, fantapolitico ma non troppo. Che non spiega perché Michele entra in polizia. Dove i colpevoli non sembra saranno puniti, almeno quelli che restano in vita. Soprattutto on si spiega tutta la rabbia di Michele verso il padre di Viola, quando scopre che anche lui è implicato nella morte della madre, se non sappiamo già tutto quello che su quella morte sapremo dopo. Anche perché, nei primi libri, la certezza di chi ha fatto cosa nel ’69 l’abbiamo solo nel 2011 e non nel 1986.

Insomma, piccole incongruenze, che non portano a farci avere un buon rapporto con Michele e le sue storie. Complicate, nelle mie memorie, da altre piccole incongruenze con non mi spiego. Tra le più eclatanti, come fa un delinquentello di mezza tacca a voler andare a giocare a snooker alla Magliana nel’74, quando lo snooker, in Italia, è fenomeno solo televisivo, e solo negli anni 2000? Inoltre, seppur è vero che nell’86 cominciavano a girare calcolatori di prima generazione, i dati inseriti non consentivano di certo tutte le ricerche che effettua il vice di Michele, né tanto meno di poter scrivere un testo in Word. E lo so bene, che vi lavoravo, e che studiavo con altre società europee in quel di Bruxelles a come dematerializzare il lavoro d’ufficio.

Ecco, allora, un libro che poteva essere interessante, ma che, mettendo troppa carne al fuoco, ottiene l’unico risultato di bruciarla. 

Essendo la terza trama del mese, ed avendo per ora finito i “libri felici”, ci consoliamo con una serie di frasi che risalgono a libri di una dozzina di anni fa.

Per il resto, niente da segnalare. Certo, si prospetta un luglio viaggioso, anche se in Europa, ma come dire, a caval donato… E già penso ad un agosto di tutto riposo tra gli Etruschi. Staremo a vedere, e vi terrò informati. Intanto, approfitto per cumulare un augurio a tutti i maggiolini di questa prima metà del mese, e non sono pochi. 

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di maggio

Mi rimaneva un ultimo libro tramato alla fine del 2009, prima della partenza per il grande viaggio in Mali. E con le citazioni del Mali, unisco il denso mese di gennaio di quell’anno.

Il libro che mancava era ancora un dono di Chiara, ed un dono prezioso: François Lelord con il suo “Il viaggio di Hector o la ricerca della felicità”. Nella ricerca del titolo, Lelord condensava il suo pensiero in alcune lezioni, che mi colpì nella sua seconda: “Lezione n.2: la felicità arriva spesso di sorpresa” (27).

Parlando dei sentimenti e dell’atteggiamento umano, Lelord continuava con “sapere ed essere convinti sono due cose diverse, e quello che conta veramente è essere convinti” (96). Per poi terminare con un’affermazione che mi ha sempre trovato concorde: “da giovani qualche volta si è proprio cretini” (136).

Come detto, invece, il 2009 iniziò con un viaggio in Mali. Allora, non ci si può che affidare a Marco Aime, con due bellissimi libri. Nel primo “Diario Dogon” comincia con una sentenza che ben si addiceva al nostro gruppo: “Chi sceglie di recarsi in Mali (e non sono molti) difficilmente è un viaggiatore alle prime armi e quasi sempre è un individuo che nel viaggio cerca non solo momenti di svago, ma anche un’occasione di approfondimento e conoscenza” (19-20). Per poi ribadire (come noi avevamo ben sperimentato presso i Dogon): “Il turista che viene a visitare i Dogon non è un turista “mcdonaldizzato” che cerca e spera di trovare in ogni sua meta condizioni il più possibile simili a quelle di casa sua. Al contrario, è uno che cerca emozioni nuove e stupore” (39-40).

Ancora più vicino alle nostre esperienze è stato poi “Timbuctu”. Si comincia con la definizione del viaggio: “Si va a Timbuctu perché è lontana, la si crede isolata e si trova una fila di bianchi che attende di collegarsi a casa [ad un internet point]” (12). Poi, con lui ci affidiamo ad un grande viaggiatore: “Bruce Chatwin sostiene che esistono due Timbuctu; una reale e una mentale. La prima è quella città sfiancata dal caldo e siccità che molti trovano insignificante, se non addirittura brutta. La seconda vive in uno dei tanti miti di cui si nutre la nostra immaginazione: laggiù, sperduta ai margini del mondo, simbolo del chissà dove” (33). Anche il grande Todorov ci aiuta a definire il luogo del nostro viaggio: “Il turista è un visitatore frettoloso che preferisce i monumenti agli esseri umani, scriveva Tzvetan Todorov. A Timbuctu i monumenti non scarseggiano affatto, ma non sono come ce li aspettiamo.” (85).

Aime è feroce con il turismo di massa, di cui la città maliana è l’emblema eponimo: “Timbuctu evoca lontananza, mondi sperduti, luoghi quasi irraggiungibili, al limite del mondo. … [e poi] ci si trova di fronte a una città di terra, dove anche gli edifici più antichi … in fondo assomigliano a quelli costruiti qualche anno fa. … [qui non c’è] niente che ci faccia capire che di qui è passata la storia” (86); oppure “nella lista del patrimonio dell’umanità [dell’Unesco] Timbuctu è iscritta dal 1998. Nasce così la Timbuctu dei turisti, quelli che poi rimangono delusi, ma che possono raccontare di esserci stati, perché questo luogo ha talmente colonizzato la mente di noi occidentali, da avere ancora la forza di far nascere suggestioni da post- o pseudo esploratori” (177).

Alla fine, la cosa migliore è tornare a Calvino, che ci dice: “Di una città non godi le … meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda” (179).

Ma dopo la sbornia viaggiante, in un anniversario anodino, Alessandra mi regalato uno strano libro “C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo” di Efraim Medina Reyes.

Che alla fine, mi ha riempito di un mondo di pensieri sull’amore, che vi riporto senza commenti.

“Quando l’amore si spegne è più freddo della morte. Il problema è che le due parti in causa non si spengono contemporaneamente e quando sei la parte ancora accesa preferiresti essere morto” (29).

“A una certa ragazza piaceva la campagna, le piacevano le mucche, le piaceva l’erba bagnata. A me queste cose danno il voltastomaco” (30).

“Sei mai stato allo zoo? Io sì e ho imparato molto. Ho visto un macaco che si sbatteva la femmina e la femmina che gemeva di piacere… Perché non dovrei farlo bene io? … Stiamo parlando di donne, ti assicuro che una mosca è più complicata” (57)

“Se ti ostini a cercare qualcosa corri il rischio di trovarla. Non sai mai cosa ti manca finché non fa molto male” (84)

“L’ho vista solo pochi minuti ma credo di amarla. Non ho mai amato una donna prima, mi interessavano solo sessualmente. Anche lei mi eccita ma c’è qualcosa, una strana sensazione nei nervi e l’impressione che morirei soffocato se non dovessi rivederla” (87)

“Quando sono innamorato di una donna cerco di vederla il meno possibile…. Vorrei… dare il meglio di me… Il problema è che non so cosa sia il meglio di me, non sono sicuro che ci sia un meglio in me” (116)

“Secondo me amare una persona è forse più facile che capirla ma molto più pericoloso perché l’amore fa sempre male. Si può cercare di capire qualcuno ma non si può cercare di amarlo. L’amore nasce involontario. L’amore può aumentare o diminuire fino a sfumare del tutto ma non si può imporre. A volte ci piacerebbe amare una certa persona, possiamo addirittura dire che quella persona ha tutte le qualità perché ci innamoriamo di lei ma questo non accade. Con uno sforzo più o meno grande ci si abitua a chiunque, ma abituarsi non è amare” (148)

“Lei aveva più di quanto potessi sognare e credo che quello fosse il problema: per amare qualcuno quel qualcuno deve aver quanto basta. Un po’ di meno è insufficiente. Un po’ di più rovina tutto” (149)

“L’amore è bello finché dura ma a volte dura troppo…. Per fortuna quando le cose vanno male arriva qualcuno e le peggiora” (170)

In mezzo a tutto ciò, lo scrittore colombiano lancia una frase che metterei in ex ergo se dovessi scrivere un libro: “Se c’è una cosa che riesce a scioccarmi è questa mania di cambiare i titoli originali di libri e film con altri che fanno schifo” (146)

Un’analoga bella lettura, nella stessa tornata di trame, fu quella della canadese Joyce Carol Oates ed il suo “La madre che mi manca”. Una frase che fotografava la mia sfrenata voglia di muovermi: “mi mancava la pazienza, e la pazienza è sintomo di maturità” (295). Ed una seconda che descrive Alessandra da sempre e me stesso da qualche mese: “se non mi scrivo anche le più piccole cose me le dimentico. Così scrivo tutto e non dimentico niente” (303).

In un libro non particolarmente bello, ma che parla di un Giappone che avrei conosciuto dopo qualche anno, Arthur Golden affermava in “Memorie di una Geisha”: “A volte credo che le cose che ricordo siano più reali di quelle che vedo” (562). E poi una frase che non potevo che portare con me nel primo anniversario della morte di papà: “si era staccato da me … con la stessa naturalezza con cui le foglie cadono dagli alberi. … Anche ora che lui non c’è più, l’ho ancora con me, nella ricchezza dei miei ricordi” (563).

Come sapete, poi, spesso anche in libri inaspettati, come spesso i polizieschi, si trovano descrizioni che calzano a pennello con la tua immagine personale. Così Piers Marlowe ne “Il doppio tredici” dà il ritratto che sempre dava di me il mio amico Gianni: “Quando un uomo è curioso e vuole rendersi conto del perché di una cosa, non ha più tregua. Deve per forza trovare una risposta. Tu appartieni a quella specie di uomini che si cacciano nei guai per questo motivo. Ti butti dentro a capofitto” (34-35).

Oppure, in un poco noto e poco ricordabile libro di Ruggero Cappuccio (“La notte dei due silenzi”) ci si rapportava al modo di potersi comprendere tra due innamorati: “i grandi amori sono quelli che non elemosinano la comprensione. I grandi amori sono solo quelli che sanno ammettere il silenzio” (218).

Finisco poi come ho cominciato, con un altro libro regalatomi da Chiara. Un libro, devo dire, che non mi è piaciuto per nulla, come non mi è piaciuto, né allora né in altri scritti, l’autore.

Parliamo di Chuck Palahniuk e del suo “Survivor”. Che nella sua pessimistica visione del mondo, prima ci dice “se ti preoccupi sempre del peggio, è quello che finirai per avere” (48) e poi conclude: “l’unica cosa che ho imparato è che tutto quello che ami morirà.” (277)

Me lo sono segnato, ma non sono proprio in sintonia, con la seconda, anche se riconosco la verità della prima.

Per ora chiudiamo qui, se ne riparlerà tra un mese…

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