Donato Carrisi “Il tribunale delle anime”
Corriere Thriller Psicologici 2 euro 7,90
[A: 10/08/2018 – I: 18/11/2021 – T: 19/11/2021]
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e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 458; anno 2011]
Torniamo
nuovamente, con molta cautela, su quello che le autocelebrazioni editoriali
definiscono l’autore di thriller italiano più venduto nel mondo. Non entro nel
merito, rilevo solo che questo è il terzo libro che ne leggo, e, ad ora, quello
che, pur in un gradimento non eccelso, migliore la media dell’autore.
Di
certo, con l’esperienza teatrale giovanile, è facile, infatti, vedere nella
scrittura di Carrisi la semplicità nell’affrontare i dialoghi. Risulta meno
coinvolgente quando si lancia in descrizioni, in paesaggistica varia, in
approfondimenti psicologici. Il che fa sì, alla fine, che pur come detto
migliorando il giudizio inizialmente poco felice sull’autore, non è che sia un
capolavoro di piacere e di coinvolgimento.
Anche
perché ci sono due elementi che mi disturbano: il solito vezzo di andare su e
giù nel tempo, che consente di creare suspense, ma che, di converso, fa sì che
l’autore si ritenga il deus ex-machina onnisciente e onnipotente, e la capacità
di ingarbugliare talmente le trame che, da essere un pregio, rischia (come in
questo caso) di essere un ostacolo alla piena fruibilità del testo.
Mentre
infatti, da una prima partenza di lettura sembra tutto lineare, visto che si
comincia “cinque giorni fa”, poi tutto si complica che, oltre a venire a
ritroso fino all’oggi, poi si salta ad un anno prima per alcune importanti
sequenze, ed ogni tanto si svaria altrove nel tempo e nello spazio. Ma per
rimanere con i piedi a terra, diciamo che i personaggi principali che si
muovono sul terreno sono due: Marcus, un penitenziere dotato di un grande
talento investigativo, reduce da una ferita alla testa che gli ha fatto perdere
parte della memoria, che cerca di ricostruire durante il romanzo, e Sandra,
un’agente della polizia di Milano, il cui marito è stato ucciso a Roma e sulla
cui morte lei comincia ad indagare.
Dall’accenno
su Marcus si capisce già che un ruolo centrale ha la Penitenzieria Apostolica,
composta da preti che hanno ricevuto il potere di giudicare peccati mortali
(per questo soprannominata “tribunale delle anime”). La Penitenzieria, di
sicuro ha uno dei più vasti archivi sui criminali, ma, e su questo mette il
dito Carrisi, alcuni religiosi lavorano nell’ombra per scovare i killer,
cacciare indietro le tenebre, ed anche, ma sarebbero quelli deviati,
arrogandosi il diritto di arrivare laddove la giustizia umana si ferma.
Marcus,
nell’indagine per scoprire il suo passato, scopre omicidi, assassini seriali,
rapimenti, e cerca di trovarne gli artefici. Scoprendo anche che David, il marito
di Sandra, anche lui, da fotoreporter, stava facendo una ricerca simile, ed
aveva trovato un bandolo della matassa. Per questo le strade di Marcus e Sandra
si intrecciano. E qui Carrisi mostra tutta la sua bravura di complicatore di
trame semplici. Si infilano storie laterali di rapimenti e di uccisioni, qua e
là nel tempo, che Marcus e Sandra, da soli o insieme, risolvono. Poi si innesta
una storia che sembra trasversale ma che comincia a dare un senso al tutto.
Viene
fuori un killer trasformista affetto dalla "sindrome del camaleonte",
dove il soggetto imita in tutto l’altro: emozioni, posture, espressioni
facciali, linguaggio. Questo serve a complicare ulteriormente il ruolo di
Marcus. Cioè lui è lui o è il killer? Ed è lui che ha ucciso David che lo aveva
smascherato o il vero killer che si era finito un altro ancora?
Tutti
i nodi “semplici” della trama vengono alla fine brillantemente risolti.
Rimangono due grandi quesiti: chi è Marcus e la risposta ad una domanda che
viene posta ad un certo punto: "Il bene e il male sono innati in ognuno di
noi, oppure dipendono dal percorso che ognuno compie nella propria vita?”. Sul
primo ho un’idea. Sul secondo una certezza.
Allora
veniamo a due punti finali. La prima riguarda i penitenzieri. Ora, l’Istituto
Vaticano fu fondato intorno al 1210 dal papa Innocenzo III per alleviarlo nel
lavoro di dirimere tutti i casi dei penitenti che venivano a Roma per sgravarsi
da peccati gravi ed ottenere indulgenze. Il primo penitenziere fu Nicola di
Tuscolo, meglio conosciuto come Nicola de Romanis. Abile prelato, creato
cardinale nel 1204, lavorò molto in Inghilterra per ricomporre l’allontanamento
dalla Chiesa di Roma da parte di Giovanni Senzaterra (che ricordo era il
fratello di Riccardo Cuor di Leone, a noi ben noti per le vicende di Robin
Hood). Dopo 800 anni, la Penitenzieria è ancora in piedi, attualmente guidata
dal cardinale Mauro Piacenza, anche se è stata rifondata dalla Costituzione
Apostolica di Giovanni Paolo II del 1988, dedicandola unicamente alla
concessione di assoluzioni e penitenze riservate alle decisioni del
Pontefice.
L’altro
punto maggiore del testo, è l’avermi trasportato in giro per Roma, tra luoghi
ben noti ed altri meno, che cito un po’ alla rinfusa, ma con sincero affetto:
il caffè della Pace, dietro piazza Navona, i dipinti del Caravaggio nella
Chiesa di San Luigi dei Francesi, Villa Glori, la cappella di a San
Raimondo di Peñafort all’interno della Basilica di Santa Maria sopra Minerva al
Pantheon, nonché, ultimo ma non meno vicino ai miei giri romani, il Museo delle
anime del Purgatorio nella sacrestia della Chiesa del Sacro Cuore del Suffragio
in Lungotevere Prati. Una passeggiata romana che consiglio vivamente di
regalarsi.
Per finire quindi, certo stiamo migliorando,
ma per me, ad ora Carrisi rimane ancora un oggetto da decifrare.
“Aveva imparato … che le case non mentono
mai. Le persone, quando parlano di sé, sono capaci di crearsi intorno delle
sovrastrutture a cui finiscono perfino per credere. Ma il luogo in cui scelgono
di vivere, inevitabilmente, racconta tutto di loro.” (27)
Roberto Costantini “Tu sei il male”
Feltrinelli Marsilio euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 10/10/2020 – I: 07/10/2021 – T:
10/10/2021] && +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 667; anno:
2011]
Con
questo si inaugura la lettura dei “libroni” dell’ex-manager ma ora insegnante
alla Luiss, Roberto Costantini. Uno di quegli autori di cui non avevo una gran
convinzione di lettura, primo perché i suoi romanzi navigano sempre intorno
alle 500 pagine (o più come in questo caso), e poi perché non ne avevo sentito
molto parlare in giro (nonostante le molte autocelebrazioni).
Devo
dire che questa lettura da una parte conferma le mie perplessità, mentre
dall’altra solletica una lettura critica ma comunque interessante di un testo
complesso, nonché, probabilmente inserito in un contesto che l’autore ha
sviluppato su più volumi.
In
realtà, questo è il primo volume di una serie che viene battezzata come “La
trilogia del Male”, cosa che ci fa capire, primo che sono tre volumi, secondo
che sono collegati tra loro, e terzo che il filo conduttore è il Male, inteso
con la M maiuscola.
Queste
prime quasi settecento pagine servono a delineare tutti i personaggi, qualcuno
più a fondo, qualcuno meno. Servono a descrivere una fetta di storia, politica
e personale, della nostra Italia. Ma sarebbero servite anche a fornire
materiale per diversi libri, mentre qui tutto viene collegato, anche se non
condensato.
Intanto,
dobbiamo fare la conoscenza di Michele Balistreri, poliziotto probabilmente di
rango (seppur non sempre chiare siano le sue capacità investigative), con una
storia assai complicata e tormentata sia alle spalle che di fronte a sé. Come
Costantini, risulta nato a Tripoli, da cui viene cacciato nel 1970, insieme
alla famiglia, dopo l’ascesa al potere di Gheddafi. Il parallelismo di date con
l’autore sembra portare anche ad una similitudine di età (Costantini è del
’52), dato che Michele, negli anni ’70, frequenta l’Università della Sapienza
in Roma. Vuoi per il modo di essere espulsi da Tripoli, vuoi per ragionamenti
personali, Michele diventa un esponente di rango della destra fascista
universitaria, vicina a Ordine Nuovo. Questa è la parte che mi ha reso
dubitativo del personaggio. Non perché non si possano avere delle idee diverse
dalle mie, ma perché queste ideologie non scompaiono mai del tutto dal
personaggio, né diventano oggetto di revisioni critiche nel corso del tempo.
Già,
il tempo. Che questa prima maxi-puntata si distende tra i due mondiali vinti dall’Italia:
dal luglio 1982 al luglio 2006. Sarebbero ventiquattro anni, ma in realtà, la
storia si sviluppa nel 1982, poi c’è un salto sino al 2005, e da lì si trascina
sino alla fine. Un salto dove l’autore deve anche aggiornarci sui personaggi,
che anche per loro sono passati gli anni.
Il
contraltare di Michele lo conosciamo subito nelle prime pagine è Angelo
Dioguardi. Cattolico, anche se con qualche divagazione, grande giocatore di
poker (diventerà anche un campione del gioco). Nella prima parte è fidanzatissimo
con Paola, mentre Michele è decisamente un puttaniere, che passa di donna in
donna, pensando solo al sesso. Nella seconda, i ruoli si invertono abbastanza:
dopo i fatti dell’82, Michele, anno dopo anno, si isola in sé stesso, relegando
il sesso ad un ruolo episodico, mentre Angelo, lasciatosi con Paola, diventa
non dico libertino, ma di certo più spregiudicato. Rimane solo una costante: le
settimanali partite di poker (che per la loro routine mi ricordano le nostre
periodiche partite di bridge).
L’episodio
scatenante è, nella prima parte, l’uccisione di una bella signorina, Elisa.
Lavora part-time in una struttura cattolica, con Angelo, per le attività di un
cardinale. Il tutto in una villa di un conte monarchico afflitto dalla presenza
di un figlio, Manfredi, affetto da un labbro leporino non curabile al momento,
e di un ematoma facciale indelebile. La platea dell’82 è completata da Valerio,
innamorato non corrisposto di Elisa. La morte avviene proprio nel giorno della
finale, dove, per una serie di circostanze, Michele, presa sottogamba la
vicenda, non riesce a venirne a capo. Tutto il teatro viene ben presentato, ma
non si trova una via d’uscita, e la morte rimane senza nessun colpevole
acclarato.
Ritroviamo
tutti (i vivi, ovvio) dopo ventiquattro anni. C’è chi ha fatto carriera, chi si
è sistemato, chi è rimasto ai margini. Fatto sta che dopo tanti anni,
cominciano a fioccare morti su morti. Anzi, morte, che sono le donne a
lasciarci. Spesso con una lettera incisa sulla pelle. Muore Samantha Rossi,
figlia di una signora al tempo amica di Alina, una rumena che bazzicava le
attività del cardinale, e che muore nell’83 in uno strano incidente di
motorino. Muore una puttana che sembra entrarci come i cavoli a merenda. Muore
(suicidio pare ma forse no), la madre di Elisa. Muore una tal Ornella, vedova
di un ex-re delle slot machine, dopo aver avuto una lunga storia con tal
Francesco (che ora gestisce l’impero dei video giochi). Francesco che sapremo
poi essere stato al tempo fidanzato con la madre di Samantha.
Soprattutto
compare come burattinaio un tal Marcus Hagi, anche lui rumeno, che era il
marito di Alina. Nonché si intrufola nella vicenda Linda, una giornalista molto
dotata, con tanti agganci anche non sempre puliti, e che scopriremo aver
frequentato in gioventù la stessa scuola di Manfredi.
Costantini
ingarbuglia la vicenda con tanti rivoli, inzeppandola anche di motivazioni
para-politiche. Servizi di Stato tendenzialmente deviati, tentativi di
addossare colpe a extra-comunitari in modo da fomentare rivolte razziali,
finanze off-shore. Insomma, un guazzabuglio che la metà basta.
Rimane
la possibilità che tutte le morti siano collegate, che qualcuno (il Male) tiri
le fila. Ed abbiamo una serie di possibili indiziati: Hagi, che si inventa
un’improbabile vendetta per la morte della moglie, Manfredi, che è roso dentro
dalla sua bruttezza esteriore (anche se ora la chirurgia estetica ha fatto il
suo dovere, e lui è diventato un eminente medico nell’esilio africano, che
lascia solo in questo 2006), Angelo, che aveva avuto delle pause di presenza
forse poco chiare, Valerio, vendicatore respinto e poi rimasto turbato dal
rimorso, oppure qualcuno legato agli ambienti cattolico-monarchici del conte e
del Cardinale che si muove come “Uomo Invisibile”.
L’efficacia
del romanzo sta nel presentare tutti come colpevoli, nel mostrare che tutti
hanno un alibi, e nello smontare, pagina dopo pagina, gli alibi e le
motivazioni di ciascuno.
Non
entro nelle mosse di Balistreri, che saranno poi quelle che ci porteranno alla
soluzione, pur non essendo il nostro sempre al centro dell’attenzione. Ma mi
aspetto che gli altri romanzi della serie serviranno a chiarirci anche questo
personaggio. Magari facendolo crescere nel giudizio. Che invece, ad ora, rimane
dubitativo. Non c’è un personaggio che emotivamente ci prende. Non c’è una
storia che sia completamente chiarita. Sembra che lo scrittore ci voglia dire
che tutto è brutto, e che tutti, chi più chi meno, sono colpevoli e cattivi.
Rispetto
la capacità di portare avanti questa mole di lavoro, anche non essendo in
concordanza con alcune tematiche. E avendo il dubbio che, in un romanzo, si
debbano chiudere i fili aperti. Vedremo nel futuro.
Roberto Costantini “Alle radici del male”
Feltrinelli Marsilio euro 12
[A: 05/09/2021 – I: 02/12/2021 – T: 04/12/2021]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 700; anno:
2012]
Siamo
al secondo volume della trilogia di cui si parla sopra. Laddove, nella trilogia
si parla del Male, con la M maiuscola, mentre i titoli dei vari libri prevedono
la m minuscola. E questo è un prequel quasi sequel, nel fascino immutabile del
terzo film della serie “Ritorno al futuro”.
Cioè,
si colloca a cavallo del primo volume, qui essendo la prima parte precedente
all’inizio del primo, e la seconda parte, subito dopo gli avvenimenti centrali
del primo. Facendo un riassunto temporale, il primo aveva il nucleo centrale
nel 1982, con una robusta appendice dopo il 2005. Qui, metà libro è consacrato
alle vicende di Mike Balistreri dal 1958 al 1970, per poi dedicare la seconda
parte ad avvenimenti subito successivi al nucleo precedente, praticamente dal
1982 ai primi mesi del 1983. Tutto per arrivare a riempire ben settecento
pagine di romanzo. Che sono di certo eccessive, anche troppe nella prima parte
(trecentonovanta pagine per arrivare agli anni Settanta, con una vicenda
complessa, ma anche sfrondabile in qualcosa meno). Poi si dedicano trecento
pagine alla vicenda poliziesca in senso stretto, con lo stesso marchio del
precedente: molti possibili colpevoli, che vengono decolpevolizzati uno per
volta, sino ad arrivare al nucleo centrale, quello di chi deve pagare il fio.
Ovvio
sia il rimando all’autore stesso, che anche lui nacque in quel di Tripoli
italiana. Quindi, c’è probabilmente molto dei ricordi e dei pensieri di
Costantini stesso in tutta la parte relativa alla giovinezza e adolescenza di
Mike in terra libica. Qui l’autore si imbarca in una trama complessa, laddove
cerca di inserire i personaggi in una visione storica “reale” delle vicende. Il
padre di Mike, faccendiere italiano di origini siciliane, sempre dedito ad
affari al limite della liceità, tutto teso a trovare il modo di sfruttare il
petrolio libico, in barba agli americani.
La
parte libica si incentra quindi su tre famiglie: i Balistreri, dove oltre al
padre, abbiamo la madre Italia, fascista dichiarata e mai doma, ed il fratello
Alberto (ci sarebbe anche il nonno, ma andremo troppo in complicazioni); gli
Hunt, i loro amici americani, William, legato agli ambienti militari, forse
spia esso stesso, la bella e dissoluta moglie Marlene, e la figlia Laura; ed i
libici, la famiglia Al Bakri, con il padre Mohammed, ed i figli, Farid e Salim,
della prima moglie, Karim, Ahmed e Nadia, della seconda.
Come
detto questa parte si spande dal festival di Sanremo del ’58 (quello di
Modugno) che tutti vedono insieme, sino alla cacciata degli italiani dalla
Libia nel ’70 da parte di Gheddafi. Vediamo nascere amicizia (tra Ahmed, Karim,
Mike e Nico, il povero, balbuziente, figlio del benzinaio locale), momenti epici,
crescite, amori (Mike sarà sempre innamorato di Laura, nonostante per rabbia
vada a letto con la madre, perdendo sé stesso, Laura, la madre Italia e non so
che altro), ma anche assassinii e morti.
C’è
una donna nera uccisa con la figlia di nove mesi e ritrovata in un letamaio.
C’è la morte di Nadia, seviziata e ritrovata senza il dito indice. Ci sono
tanti possibili colpevoli, oltre quelli sopra citati. C’è don Eugenio, prete un
po’ pedofilo e destinato ad una grande carriera, e c’è Emilio Busi, comunista con
rolex, anche lui con molte ombre e poche luci. Mike cerca, da giovane
impulsivo, di far luce sulla vicenda, ma tutti hanno un alibi, o cercano di
coprirsi a vicenda. Anche Italia, che lo aiuta, sembra non trovare prove.
Tutto
però è immerso nel brodo della politica, che Balistreri senior, con Busi ed
altri, appoggerà la rivoluzione del giovane colonnello Gheddafi, mentre Hunt
cercherà di fermarlo. Intrecci anche di gelosie ed amori tra le famiglie.
Intrecci con i 4 amici, che riparano in Egitto, fanno fortuna. Ma Karim si
avvicina troppo ai Fratelli Mussulmani, Mike viene coinvolto in un possibile
attentato a Gheddafi, dove qualcuno lo ferma. Dove Italia sembra avere le prove
del tradimento degli italiani, ma muore anch’essa, non si sa se suicida o
altro. Insomma, un guazzabuglione in cui l’autore mette di tutto.
Poi
tutti vanno in diaspora, o almeno i vivi, che nel frattempo, per motivi vari,
Mike uccide Selim e Ahmed. E ritroviamo il nostro commissario di polizia nel
1982.
Qui
si intreccia la vicenda da “Ritorno al futuro”, che Costantini piazza il clou
della storia proprio nello stesso anno centrale del libro precedente. Quindi
deve star attento a far coincidere azioni e sentimenti. Vediamo ricomparire
Angelo, vediamo di sfuggita la storia della morte di Elisa, sopra narrata, ed
iniziamo tutta un’altra storia, come se le prime 400 pagine fossero poco
sufficienti.
C’è
il mentore di Mike, il commissario Teodori che si avvia alla morte per cancro,
e chiede a Mike di proteggere la figlia Claudia. Questa aveva provocato un
incidente stradale dove muore la sua amica del cuore Deborah. Poco dopo viene
trovata morta anche un’argentina di nome Anita Messi (fantasia sfrenata sui
cognomi…). Tutte con l’indice monco. Così che il nostro Mike non si perita di trovare
un super-collegamento tra le morti attuali e passate.
Tutta
la seconda parte, poi, è immersa nel mondo della televisione. Dove vengono
inseriti personaggi loschi (dediti allo spaccio), poco simpatici (dediti
all’arrassement), e tronfi con moglie al seguito (lui le scopa una volta, poi
le passa alla moglie). Il tutto legato al traffico della droga, a collegamenti
con il Sudamerica, ma anche con le mafie siciliane, dove risbucano fuori anche
gli zii del nostro Mike.
Un
guazzabuglione che la metà basta. Certo Costantini riesce a non perdere la
bussola, anche se la nostra ogni tanto va fuori rotta. Ci saranno morti
inutili, ci sarà un collegamento lasco con la natia Tripoli, che però dovrà
finire ben presto, ci sarà una vendetta che parte dal passato. Insomma, buona
parte dei “misteri” vengono alla luce. Rimane sola la morte di Italia, la madre
di Mike, che sempre più si avvicina al suicidio. Rimangono inoltre in ombra le
possibili evoluzioni di vari personaggi (il prete, il faccendiere, il padre),
che forse avranno soluzioni in altre uscite, aspettando di leggere il terzo
volume.
Per
noi cultori del genere, rimane il dispiacere dell’impossibilità di arrivare
agli indizi base. Questi sembrano legati ad una scritta autografa di Italia:
“controllare m”. Ora, in stampa si può fare poco, ma essendo autografa quell’m
poteva destare dei sospetti. Mentre se si poteva utilizzare una scrittura
orizzontale tipo E
Comunque,
queste radici del male ci rimandano alla natura del personaggio “Balistreri”
che, pur con dei tratti interessanti, per la sua evoluzione rimane ancora un
elemento che non mi convince totalmente. Insomma, bella scrittura, capacità di
gestire situazioni complesse, ma troppo teso a voler dire di tutto e di più non
su di un giallo in sé, ma su tutto lo scibile umano. Un solo esempio: la foto
di Gheddafi con Balistreri senior che getta un’ipotesi di complotto non
verificato su tutta la vicenda libica.
Roberto Costantini “Il male non dimentica”
Feltrinelli Marsilio euro 12
[A: 12/10/2021 – I: 15/01/2022 – T: 16/01/2022]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 525; anno:
2014]
Eccoci
allora alla puntata conclusiva della grande saga del commissario Balistreri.
Qui, a parte alcune variazioni sul tema, in pratica si ripercorrono i caposaldi
dei primi due volumi per arrivare (o cercare di arrivare) alla conclusione che
il personaggio principale cerca dalle prime righe: com’è morta la madre Italia?
Questa
scritto, alla fine, risulta assai più debole delle precedenti puntate, sia
perché non c’è un vero giallo che accompagna le indagini (si, ci sono morti, ma
complementari al racconto di base) sia perché non fa altro che ripercorrere, su
e giù per la scala temporale, quanto già detto nei libri precedenti. In un modo
quasi complementare a “Ritorno al futuro – Parte III”, dove si rifanno tutte le
vicende pregresse, dandone (finalmente) una versione definitiva.
Anche
il personaggio di Balistreri non è che ne esce arricchito, ma in un certo senso
quasi depauperato di quanto si era rivestito nel corso degli anni. Ne esce
“nudo”, forse più umano, ma alla fine, sconfitto nella sua essenza, nella sua
particolarità di uomo, di poliziotto integro e riflettente contraddizioni che
molti hanno vissuto sulla propria pelle.
Il
discorso di Costantini torna infatti sempre lì. Alla sua Libia, alle vicende
della rivoluzione del ’69, qui arricchita dalle ultime fasi del mondo di
Gheddafi (visto che l’azione si svolge nel 2011 terminando con la fine di un
mondo senza la nascita di una nuova nazione). Quasi un tentativo di riscattare
LA storia attraverso una storia.
I
protagonisti, al fondo, sono sempre gli stessi: Michele Balistreri, la famiglia
Hunt (Marlene e Laura, in particolare, ma anche William), la famiglia Al Bakri
(Ahmed e Karim, nella fattispecie) e i quattro “cospiratori” Enrico Busi, don
Eugenio, Mohammed Al Bakri e Salvatore Balistreri, il padre di Michele. Sparito
nei meandri della storia Nico (e sappiamo perché). Ricomparsa, con un suo ruolo
preciso, la giornalista Linda Nardi (centrale nella vicenda del 2006, ma
all’epoca poco addentro alla trama, se non per una possibile ma improbabile
tresca con il nostro tenebroso commissario).
La
storia si addensa comunque sempre lì, al 31 agosto 1969. I cospiratori hanno
brigato con i soldi dei finanzieri, in giro “per il mondo” al fine di portare
Gheddafi al potere. L’agente della CIA, William lo sa, ma per consentire a
Italia di salvare il marito Salvo le concede 48 ore. Nelle puntate precedente
sono morte persone, anche vicine a Mike ed ai suoi amici. Il nostro ragazzo,
all’epoca sedicenne, si avvicina troppo a verità scomode e tutti brigano per
farlo desistere.
Sarà
un complotto tra i giovani Al Bakri e la sua ragazza Laura (aiutati
inconsapevolmente da Marlene) a mettere nella situazione che Michele si debba
allontanare per sempre dalla Libia e da questi problemi. Anche se Mohammed è
troppo vicino a Gheddafi, anche se Busi è troppo vicino a loschi affari, anche
se don Eugenio è troppo vicino ai giovani ragazzi (capisci a me!).
Solo
nel presente questi fili si annodano, visto che quel giorno del ’69 mamma
Italia muore: suicidio o omicidio ben architettato? Ora, nel 2011, Linda è il
motore della vicenda. Lavora vicino a ONG in Africa, scopre loschi affari per
gli appalti di ospedali, e risalendo la china, intreccia i fili della
colpevolezza dei quattro che, benché verso gli ottanta, sono ancora sulla
cresta dell’onda. Purtroppo, le manovre di Linda mettono in moto una valanga
che travolgerà tutti o quasi. Forse il solo Salvatore sembra avere una via
d’uscita.
In
tutto ciò, Michele fa la figura del tordo. Avanza, avanza, e non capisce un
beneamato. Sta sempre lì, a pensare alla madre, a pensare a Ahmed cui sparò in
Libia nel ’69, a Karim che fu sfregiato per colpa sua, a Laura che violentò (o
quasi, visto che lei poi ammette che era quello che voleva fargli fare),
all’andirivieni di persone, auto e motoscafi intorno all’isola della tragedia
nei pressi di Tripoli.
Alla
fine, avremo sciolto tutti i nodi del problema. Sapremo chi è morto e chi no,
chi ha ucciso e chi è stato ucciso, scopriremo legami che l’autore cerca di
mascherare ma che sono palesi dalla prima telefonata intercontinentale fatta.
Costantini lascia solo qualche ombra all’interpretazione di noi lettori, che
ognuno volgerà come meglio si sente.
Rimane
un romanzo monco. Di giallo reale ce n’è poco. C’è molta politica, ma più
interpretativa e soggettiva che reale. Certo, Gheddafi fu appoggiato da poteri
finanziari forti nella sua scalata al potere. E di sicuro, gli stessi poteri ne
decretarono la fine quando la sua presenza stava diventando ingombrante per i
loro interessi economici. Far risalire tutti i nostri quattro cospiratori è
tuttavia un’operazione troppo riduttiva per delineare uno scenario politico
come sembra voler fare Costantini.
Di
sicuro, la troppa vicinanza dell’autore ai problemi trattati ne distorce un po’
la visuale, rendendo un romanzo altrimenti quasi leggibile, un po’ troppo
fantasmagorico, da un lato, ed un po’ troppo semplicistico dall’altro. Sono ora
curioso di leggere gli altri libri con al centro il commissario Balistreri.
Cosa si inventerà l’autore?
Roberto Costantini “Ballando nel buio” Repubblica
Passione Noir 8 euro 7,90
[A: 10/08/2018 – I: 28/01/2022 – T: 30/01/2022]
&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 477; anno:
2017]
Finito
il lungo excursus sulle vicende su e giù nel tempo per esorcizzare i demoni del
passato libico dell’autore e del suo personaggio, in questo nuovo capitolo,
Costantini prova a dare un senso al resto della vita di Michele Balistreri.
Purtroppo, con risulti ancora minori rispetto ai precedenti libri. Il tentativo
del docente della LUISS di ripercorrere le vicende italiche alla luce della sua
personale esperienza, proiettandola nel suo alter ego poliziotto, risulta poco
incisivo ed anche poco coinvolgente.
La
pecca principale è la non indipendenza del personaggio centrale rispetto agli
altri capitoli della saga. Alcune sue prese di posizione, alcuni suoi stati
d’animo sono incomprensibili, o quantomeno travisabili, se non sapessimo del
suo pregresso, di come sia morta la madre, di quale sia stato il suo rapporto
con Laura, di quali siano stati e siano i suoi sentimenti verso la Libia, e
l’Africa. La seconda è il repetita modus scrivendi dell’autore rispetto alla
trama. Su e giù nel tempo, con due storie che si intrecciano, si complementano,
ma, di nuovo, questa scrittura a flashback, alla fine, è più stancante che
conclusiva.
Costantini,
nel tentativo di dare una fisionomia finale (a tutto tondo, ci sentiremo di
dire) a Balistreri, da un lato ci porta nel 1974, ed ai passi che fanno
distaccare Michele dall’onda fascista in cui si era immerso quando, scacciato
dalla Libia, torna a vivere in Italia. Dall’altro, ci fa trovare il Balestrieri
già commissario, però sempre alle prese con i conti con il suo passato. Con il
grosso dilemma: se hai impiegato tre libri e quasi duemila pagine per far
uscire tutte le magagne del personaggio, e consegnarcelo con un dipinto
completo, come ti viene in mente di tirar fuori nuove zone d’ombra, che erano
marginali nei primi libri, e che qui sembrano diventare una condizione esiziale
per comprendere l’agire di Michele “Mike” “Africa” Balistreri.
Tirando
un po’ le fila, nelle storie del ’74, vediamo “Africa” bazzicare Ordine Nuovo,
fino al suo scioglimento appunto nel ’74. Il suo amico Giulio “Ringo” Giuli
vorrebbe farlo rientrare nel FUAN e nel MSI, ma lui, ed i suoi amici
“Benvenuti” e “Boccino” rimangono fuori, anche se pensano di agire ai limiti (e
fuori) della legge per “dare una lezione ai rossi” e lui anche per trovare gli
assassini dei fratelli Mattei. Si capisce già che molta parte del testo sarà
imbevuta di politica, ma con un piglio che non riesce a fare breccia nei
ragionamenti del lettore (nonostante una excusatio non petita inserita dall’autore
ad inizio libro).
Le
cose si complicano con l’entrata in scena di due donne: Isabella, che ronza un
po’ intorno a tutti, sembra volersi avvicinare a Michele, per poi inscenare a
più riprese un balletto di tira e molla che lascia perplessi. E Viola, la ragazzina,
che invece di Michele si innamora perdutamente, facendo follie per stargli
vicino, anche come rivalsa verso il padre, un potente democristiano. Compare
anche Carlo Giannini, un poliziotto educato presso i Servizi americani, esperto
di antiterrorismo, che comincia a tirare Michele “dalla parte della ragione”.
Il
punto cruciale (che però sembra quasi sottotono nel testo) è l’agosto del ’74,
dopo la strage dell’Italicus. Giannini cerca di incastrare il padre di Viola
nelle trame nere, utilizzano Michele. Che, nonostante ami Isabella, finge una
passione per Viola. Succedono cose, tutte un po’ risibili (o molto complicate
se vogliamo), per cui alla fine, Michele cerca di fuggire in Kenya con Isa, ma
vengono fermati da Viola a Fiumicino, che cerca di ucciderli.
Risultato:
le trame nere rimangono oscure, Viola si prende dodici anni per tentato
omicidio (ma non sono troppi?), senza ragioni apparenti Isabella lascia Michele
e sposa “Ringo”.
Nella
parte dell’86, i nodi vengono al pettine, innescati dall’omicidio di Giulio
Giuli. Che innesca una valanga di morti tra tutti quelli che facevano parte di
quella cerchia sorta nel ’74. Perché proprio in quell’anno? Che stranamente
coincide con la scarcerazione di Viola.
L’omicidio
di Giuli è il più semplice da decifrare, basta pensare ai tanti simili di molte
storie “noir”, dove alibi a posteriori vengono costruiti per nascondere azioni
chiare da sole. Costantini qui si sforza di staccarsi dalle trame nere, facendo
convergere tutti gli indizi su Viola. Con Isa che torna al centro della scena,
da brava “vedova nera” della situazione.
Ma il
nostro Michele è ben attento ai dettagli. Perché il profumo di Viola è sulla
scena dell’omicidio di “Benvenuti”? Come fa Michele a capire che Isa e Giannini
si conoscevano da tempo? Quando è coperta da alibi inattaccabili, perché gli
indizi convergono su Michele?
Michele
cerca di usare Giannini per scagionarsi. Ma quando anche il superpoliziotto
viene ucciso, deve arrangiarsi da solo. Lo farà, e bene, con quella
auto-giustizia che sembra mutuarsi dalle avventure di Rocco Schiavone. Si sa
chi ha fatto cosa, perché, come. Ma non sempre la giustizia avrà il suo corso.
La
fine è ingarbugliata, anche se vediamo Viola imbarcarsi per il Kenya con la sua
laurea in medicina presa in carcere.
Chi
si aspettava un poliziesco normale, rimarrà quindi deluso. È un giallo, fantapolitico
ma non troppo. Che non spiega perché Michele entra in polizia. Dove i colpevoli
non sembra saranno puniti, almeno quelli che restano in vita. Soprattutto on si
spiega tutta la rabbia di Michele verso il padre di Viola, quando scopre che
anche lui è implicato nella morte della madre, se non sappiamo già tutto quello
che su quella morte sapremo dopo. Anche perché, nei primi libri, la certezza di
chi ha fatto cosa nel ’69 l’abbiamo solo nel 2011 e non nel 1986.
Insomma,
piccole incongruenze, che non portano a farci avere un buon rapporto con
Michele e le sue storie. Complicate, nelle mie memorie, da altre piccole
incongruenze con non mi spiego. Tra le più eclatanti, come fa un delinquentello
di mezza tacca a voler andare a giocare a snooker alla Magliana nel’74, quando
lo snooker, in Italia, è fenomeno solo televisivo, e solo negli anni 2000?
Inoltre, seppur è vero che nell’86 cominciavano a girare calcolatori di prima
generazione, i dati inseriti non consentivano di certo tutte le ricerche che
effettua il vice di Michele, né tanto meno di poter scrivere un testo in Word.
E lo so bene, che vi lavoravo, e che studiavo con altre società europee in quel
di Bruxelles a come dematerializzare il lavoro d’ufficio.
Ecco,
allora, un libro che poteva essere interessante, ma che, mettendo troppa carne
al fuoco, ottiene l’unico risultato di bruciarla.
Essendo
la terza trama del mese, ed avendo per ora finito i “libri felici”, ci consoliamo
con una serie di frasi che risalgono a libri di una dozzina di anni fa.
Per il resto, niente da segnalare. Certo, si prospetta un luglio viaggioso, anche se in Europa, ma come dire, a caval donato… E già penso ad un agosto di tutto riposo tra gli Etruschi. Staremo a vedere, e vi terrò informati. Intanto, approfitto per cumulare un augurio a tutti i maggiolini di questa prima metà del mese, e non sono pochi.
Citazioni dagli appunti di
Giovanni
Citazioni di maggio
Mi
rimaneva un ultimo libro tramato alla fine del 2009, prima della partenza per
il grande viaggio in Mali. E con le citazioni del Mali, unisco il denso mese di
gennaio di quell’anno.
Il
libro che mancava era ancora un dono di Chiara, ed un dono prezioso: François
Lelord con
il suo “Il viaggio di Hector o la ricerca della felicità”. Nella
ricerca del titolo, Lelord condensava il suo pensiero in alcune lezioni, che mi
colpì nella sua seconda: “Lezione n.2: la
felicità arriva spesso di sorpresa” (27).
Parlando dei sentimenti e dell’atteggiamento umano,
Lelord continuava con “sapere ed essere convinti sono due cose diverse, e
quello che conta veramente è essere convinti” (96). Per poi terminare con un’affermazione
che mi ha sempre trovato concorde: “da giovani qualche volta si è proprio
cretini” (136).
Come detto, invece, il 2009 iniziò con un viaggio in
Mali. Allora, non ci si può che affidare a Marco
Aime, con due bellissimi libri. Nel
primo “Diario Dogon” comincia con una sentenza che ben si addiceva
al nostro gruppo: “Chi sceglie di recarsi in Mali (e non sono molti)
difficilmente è un viaggiatore alle prime armi e quasi sempre è un individuo
che nel viaggio cerca non solo momenti di svago, ma anche un’occasione di
approfondimento e conoscenza” (19-20). Per poi ribadire (come noi avevamo ben
sperimentato presso i Dogon): “Il turista che viene a visitare i Dogon non è un
turista “mcdonaldizzato” che cerca e spera di trovare in ogni sua meta
condizioni il più possibile simili a quelle di casa sua. Al contrario, è uno
che cerca emozioni nuove e stupore” (39-40).
Ancora più vicino alle nostre esperienze è stato poi “Timbuctu”. Si comincia con la definizione del viaggio: “Si va a Timbuctu perché è
lontana, la si crede isolata e si trova una fila di bianchi che attende di
collegarsi a casa [ad un internet point]” (12). Poi, con lui ci affidiamo ad un
grande viaggiatore: “Bruce Chatwin sostiene che esistono due Timbuctu;
una reale e una mentale. La prima è quella città sfiancata dal caldo e siccità
che molti trovano insignificante, se non addirittura brutta. La seconda vive in
uno dei tanti miti di cui si nutre la nostra immaginazione: laggiù, sperduta ai
margini del mondo, simbolo del chissà dove” (33). Anche il grande Todorov ci
aiuta a definire il luogo del nostro viaggio: “Il turista è un visitatore
frettoloso che preferisce i monumenti agli esseri umani, scriveva Tzvetan
Todorov. A Timbuctu i monumenti non scarseggiano affatto, ma non sono come ce
li aspettiamo.” (85).
Aime è feroce con il turismo di massa, di cui la città
maliana è l’emblema eponimo: “Timbuctu evoca lontananza, mondi sperduti, luoghi
quasi irraggiungibili, al limite del mondo. … [e poi] ci si trova di fronte a
una città di terra, dove anche gli edifici più antichi … in fondo assomigliano
a quelli costruiti qualche anno fa. … [qui non c’è] niente che ci faccia capire
che di qui è passata la storia” (86); oppure “nella lista del patrimonio
dell’umanità [dell’Unesco] Timbuctu è iscritta dal 1998. Nasce così la Timbuctu
dei turisti, quelli che poi rimangono delusi, ma che possono raccontare di
esserci stati, perché questo luogo ha talmente colonizzato la mente di noi
occidentali, da avere ancora la forza di far nascere suggestioni da post- o
pseudo esploratori” (177).
Alla fine, la cosa migliore è tornare a Calvino, che
ci dice: “Di una città non godi le … meraviglie, ma la risposta che dà a una
tua domanda” (179).
Ma dopo la sbornia viaggiante, in un anniversario
anodino, Alessandra mi regalato uno strano libro “C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo” di Efraim Medina Reyes.
Che alla fine, mi ha
riempito di un mondo di pensieri sull’amore, che vi riporto senza commenti.
“Quando l’amore si spegne è più freddo della morte. Il
problema è che le due parti in causa non si spengono contemporaneamente e
quando sei la parte ancora accesa preferiresti essere morto” (29).
“A una certa ragazza piaceva la campagna, le piacevano
le mucche, le piaceva l’erba bagnata. A me queste cose danno il voltastomaco”
(30).
“Sei mai stato allo zoo? Io sì e ho imparato molto. Ho
visto un macaco che si sbatteva la femmina e la femmina che gemeva di piacere…
Perché non dovrei farlo bene io? … Stiamo parlando di donne, ti assicuro che
una mosca è più complicata” (57)
“Se ti ostini a cercare qualcosa corri il rischio di
trovarla. Non sai mai cosa ti manca finché non fa molto male” (84)
“L’ho vista solo pochi minuti ma credo di amarla. Non
ho mai amato una donna prima, mi interessavano solo sessualmente. Anche lei mi
eccita ma c’è qualcosa, una strana sensazione nei nervi e l’impressione che
morirei soffocato se non dovessi rivederla” (87)
“Quando sono innamorato di una donna cerco di vederla
il meno possibile…. Vorrei… dare il meglio di me… Il problema è che non so cosa
sia il meglio di me, non sono sicuro che ci sia un meglio in me” (116)
“Secondo me amare una persona è forse più facile che
capirla ma molto più pericoloso perché l’amore fa sempre male. Si può cercare
di capire qualcuno ma non si può cercare di amarlo. L’amore nasce involontario.
L’amore può aumentare o diminuire fino a sfumare del tutto ma non si può
imporre. A volte ci piacerebbe amare una certa persona, possiamo addirittura
dire che quella persona ha tutte le qualità perché ci innamoriamo di lei ma
questo non accade. Con uno sforzo più o meno grande ci si abitua a chiunque, ma
abituarsi non è amare” (148)
“Lei aveva più di quanto potessi sognare e credo che
quello fosse il problema: per amare qualcuno quel qualcuno deve aver quanto basta.
Un po’ di meno è insufficiente. Un po’ di più rovina tutto” (149)
“L’amore è bello finché dura ma a volte dura troppo….
Per fortuna quando le cose vanno male arriva qualcuno e le peggiora” (170)
In mezzo a tutto ciò, lo scrittore colombiano lancia
una frase che metterei in ex ergo se dovessi scrivere un libro: “Se c’è una
cosa che riesce a scioccarmi è questa mania di cambiare i titoli originali di
libri e film con altri che fanno schifo” (146)
Un’analoga bella lettura, nella stessa tornata di
trame, fu quella della canadese Joyce
Carol Oates ed il suo “La madre che mi manca”. Una frase che fotografava la mia sfrenata
voglia di muovermi: “mi mancava la pazienza, e la pazienza è sintomo di
maturità” (295). Ed una seconda che descrive Alessandra da sempre e me stesso
da qualche mese: “se non mi scrivo anche le più piccole cose me le dimentico.
Così scrivo tutto e non dimentico niente” (303).
In un libro non particolarmente bello, ma che parla di
un Giappone che avrei conosciuto dopo qualche anno, Arthur Golden affermava in “Memorie di una Geisha”: “A volte credo
che le cose che ricordo siano più reali di quelle che vedo” (562). E poi una
frase che non potevo che portare con me nel primo anniversario della morte di
papà: “si era staccato da me … con la stessa naturalezza con cui le foglie
cadono dagli alberi. … Anche ora che lui non c’è più, l’ho ancora con me, nella
ricchezza dei miei ricordi” (563).
Come sapete, poi, spesso anche in libri inaspettati,
come spesso i polizieschi, si trovano descrizioni che calzano a pennello con la
tua immagine personale. Così Piers
Marlowe ne “Il doppio tredici” dà il ritratto che sempre dava di me il mio
amico Gianni: “Quando un uomo è curioso e vuole rendersi conto del
perché di una cosa, non ha più tregua. Deve per forza trovare una risposta. Tu
appartieni a quella specie di uomini che si cacciano nei guai per questo
motivo. Ti butti dentro a capofitto” (34-35).
Oppure, in un poco noto e poco ricordabile libro di Ruggero Cappuccio (“La notte dei due
silenzi”) ci si rapportava al modo
di potersi comprendere tra due innamorati: “i grandi amori sono quelli
che non elemosinano la comprensione. I grandi amori sono solo quelli che sanno
ammettere il silenzio” (218).
Finisco poi come ho cominciato, con un altro libro
regalatomi da Chiara. Un libro, devo dire, che non mi è piaciuto per nulla,
come non mi è piaciuto, né allora né in altri scritti, l’autore.
Parliamo di Chuck
Palahniuk e del suo “Survivor”. Che nella sua pessimistica visione del mondo, prima ci dice “se ti
preoccupi sempre del peggio, è quello che finirai per avere” (48) e poi
conclude: “l’unica cosa che ho imparato è che tutto quello che ami morirà.”
(277)
Me lo sono segnato, ma non sono proprio in sintonia,
con la seconda, anche se riconosco la verità della prima.
Per ora chiudiamo qui, se ne riparlerà tra un mese…
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