domenica 22 maggio 2022

La psicologia non si addice al thriller - 22 maggio 2022

Mi rendo conto di due cose: ultimamente riempio trame di libri che non mi sono piaciuto molto e vengono anche privilegiati libri cosiddetti “di genere”. Nel secondo caso, sarebbe interessante aprire un dibattito tra genere e letteratura, ma forse in altra sede. Nel primo caso rispondo che leggo, e, come dice un critico che non amo ma di cui condivido questo pensiero, dico quello che penso. Cioè dico anche che un libro mi ha convinto poco.

Come i primi tre thriller cella collana del Corriere, che ritengo siano stati sopravvalutati. Si risale un po’ con uno dei meno riusciti libri di Dürrenmatt, per finire con un discreto libro del romano emigrato Chirovici.

Comunque, non so se sia una tara della collana, o un problema intrinseco, ma l’accostamento tra thriller e psicologia, ad ora, mi convince poco.

Sebastian Fitzek “Il ladro di anime” Corriere Thriller Psicologici 3 euro 7,90

[A: 10/08/2018 – I: 01/11/2021 – T: 03/11/2021] - & +

[tit. or.: Der Seelenbrecher; ling. or.: tedesco; pagine: 298; anno 2008]

Seconda lettura di questa collana a suo tempo molto sbandierata dal Corriere, anche se risale alla metà del 2018. Purtroppo, costatiamo che siamo già in discesa. Se il primo titolo letto mi aveva lasciato qualche perplessa positività, questo mi è rimasto lontano e freddamente sorbito.

Pare (ma non ho controprove al momento) che Fitzek sia un autore ben quotato in patria, soprattutto per il suo primo romanzo (“La terapia” pubblicato in italiano da Elliot). Di certo un po’ di fame la ottiene, visto che dopo alcuni anni oscuri, passa da Elliot a Einaudi, segno di sciuro gradimento di pubblico. Ripeto comunque, essendo il primo libro che leggo del tedesco di Berlino, rimando altri giudizi ad eventuali (anche se improbabili) future letture.

Prima però un piccolo commento sulla collana che ad ora mi sembra offrire sì immagini del momento interiore delle persone (“psicologici” dice il sottotitolo) ma il thriller è di poca cosa. Qui, tra l’altro, è annegato in una scrittura volutamente ricercata, che cerca di riprodurre tormenti e pensieri di una persona disturbata. Ma il gioco è così scoperto che ci si domanda come i due studenti universitari che si prestano alla bisogna non capiscano tutto sin dalle prime battute. Non solo è ovvio come sia possibile collegare inizio e fine, dato che c’è un discreto, anche se non continuo, salto tra il tempo dell’azione ed il tempo della narrazione. Ma gli altri due “fantomatici misteri” sono palesi fin da pagina 7 (dell’inserto): quale siano le modalità del “distruttore” di anime (non ladro, che “Brecher” è colui che distrugge non colui che ruba) per annientare le sue vittime e chi possa essere il distruttore stesso. Questa seconda parte a fronte di un indovinello, che punta molto sull’indecidibilità di alcuni termini in tedesco, e che non è detto sia la stessa in italiano.

Tra l’altro, Fitzek gioca con i lettori, sia fingendo che il dossier che stiamo leggendo sia stato scritto da tal dottore Viktor Larenz (il protagonista del primo libro di Fitzek) sia che Larenz scrive la cartella clinica a fronte di sedute con una paziente schizofrenica che si fa chiamare Anna Spiegel, esattamente come nel primo libro. Mi sembrano autoreferenzialità inutili.

Il tutto ha inizio con un esperimento condotto da uno psicologo che propone ai suoi alunni di leggere il dossier relativo ad un certo Casper, colpito da amnesia e ricoverato presso la clinica del dottor Rassfeld. Il dossier racconta avvenimenti che si svolgono nella clinica una lontana Vigilia di Natale. Fitzek mette in campo tutti gli elementi di un thriller. Oltre a Casper, che recupera lentamente i ricordi, c’è una tempesta che isola la clinica. C’è un’ambulanza guidata da uno strano infermiere, che porta Bruck, un paziente con un coltello piantato in gola. C’è un’infermiera paurosa, un custode che legge libri di retorica, c’è Grace, una paziente anziana che risolve enigmi e sciarade. Nonché il dottor Rassfeld, molto autoritario, e la strana dottoressa Sophia, che sa qualcosa che però nasconde abilmente.

Il tutto in un momento in cui la cittadina è colpita da strane morti, di persone che, senza ferite apparenti, muoiono in preda ad indicibili angosce. Le tre vittime sono tutte donne, ed hanno in mano foglietti di carta con misteriosi rompicapi (in seguito brillantemente risolti da Grace). Le cose precipitano quando si scopre Sophia in apparente stato catatonico, e Bruck stranamente aggirantesi per la clinica. Poi ci saranno morti a grappolo, risvegli, agnizioni, nonché tutta una serie di rivelazioni. Fino alla fine del dossier, che lascia comunque punti aperti.

Punti che il professore discuterà con gli allievi in una lunga sequenza finale, che porta altri elementi alla confusione della trama, elementi che ruotano all’idea che si possa sottoporre ad ipnosi una persona anche contro la sua volontà. Il tutto verso una fine da un lato scontata, che abbiamo da centinaia di pagine gli elementi per decodificarla. Dall’altra assolutamente sospesa, che di una certa Lydia, che non vi dico che sia né perché, non si capisce come e cosa vada a finire alla fine.

Insomma, un romanzo da vorrei ma non posso, con tante idee, ma una scrittura che non le sorregge. Anzi che fa perdere il filo. Con una poco riuscita impaginazione, che il dossier ha una sua numerazione, il romanzo una diversa, così che mentre leggi passi da pagina 167 (del dossier) a pagina 183 (del libro) e ti domandi se per caso hai saltato qualcosa. Forse, sarebbe bene che ne saltaste la lettura, a meno di non essere interessati alla genesi di libri inutili.

Pierre Lemaitre “L’abito da sposo” Corriere Thriller Psicologici 2 euro 7,90

[A: 10/08/2018 – I: 22/11/2021 – T: 23/11/2021] - && --

[tit. or.: Robe de marié; ling. or.: francese; pagine: 331; anno 2009]

Secondo libro di uno dei “maestri emergenti” del polar francese. Che non mi ha convinto nel primo. Forse ancor meno in questo. Non che non abbia dei punti di merito, soprattutto nell’idea della costruzione della trama e del suo sviluppo, almeno iniziale. Poi però si perde in uno sviluppo sin troppo scontato. Se a questo aggiungiamo alcune sviste dell’autore ed alcuni errori del traduttore Giacomo Cuva, non ci si meraviglia del basso gradimento generale.

Cominciamo allora con alcuni errori marchiani dell’autore. A pagina 156 si dice che Sophie ha trent’anni, mentre due pagine prima viene indicato l’anno di nascita nel 1974. Essendo al momento dell’azione descritta l’anno 2000, Sophie ha 26 anni. Poi c’è il riferimento al titolo di un articolo giornalistico, indicato a pagina 71 con “Dov’è finita Sophie Duguet?” ed a pagina 231 come “Che fine ha fatto Sophie Duguet?”. Infine, c’è un refuso all’interno di un pamphlet che deve portare su false strade, che potrebbe essere voluto. Ma se così fosse, il lettore si accorgerebbe della falsità della costruzione. Si dice infatti a pagina 311 “Cogliendo le opportunità offerte dai gloriosi anni Trenta, nel 1959 crea la prima catena di supermercati in Francia”. Vent’anni di opportunità sono un bell’investimento.

Ci sono poi dei refusi di scrittura, che non vado a riportare per intero (ma ce ne sono). Infine, due traduzioni meravigliose. A pagina 41 la protagonista “si schernisce con un sorriso contratto”, cioè si prende in giro da sola? Ed a pagina 278 un “elle est sortie” rimane “quando sortiva”, ma invece se fosse uscita?

Passiamo allora alla trama vera e propria, che, giustamente, si inserisce in un filone di “angosce psicologiche”. Abbiamo la protagonista, Sophie, che incontriamo come baby-sitter di Leo, e vediamo subito che non sta benissimo. Sembra dimenticarsi cose, addormentarsi quando non deve, ed altre piccole turbe. Dopo uno di questi sonni, scopre che Leo è morto. Non ricorda nulla, ma subito scappa. L’autore cerca di farci salire l’adrenalina nella fuga, con alcuni cambi di rotta repentini. Poi viene aiutata da una certa Veronique, presso cui si addormenta per la fatica. Scoprendo al risveglio che anche Veronique è stata uccisa.

Fuga repentina, in modo rocambolesco, che non si capisce come una persona disturbata riesca a fare tutto ciò. Ma ci riesce, fa perdere le sue tracce per quasi un anno, laddove scopriamo alcuni retroscena (l’improvvisa morte della suocera, l’incidente stradale dell’amato marito, che, ridotto sulla sedia a rotelle, precipita, forse volontariamente, dall’ospedale e muore) che fanno aumentare il senso di disagio di Sophie. Trova però una via d’uscita: un falso certificato anagrafico ed un matrimonio che la portano ad un nuovo cognome e ad una nuova vita.

A questo punto, l’autore fa un balzo indietro di quattro anni, e ci fa vedere tutto dall’ottica di Frantz. Che per qualche motivo (che si scoprirà alla fine), prende di mira Sophie, le fa tutta una serie di inganni (furto di carta d’identità, furto delle chiavi di casa, spostamento di oggetto, scambio di pillole da innocue ad ansiolitiche). Capiamo allora perché Sophie sia strana, alterata ed alienata. Scopriamo anche che è Frantz che organizza ed esegue tutti gli assassinii. Da quello della suocera fino a Leo e Veronique. L’angoscia che ci vuol far nascere Lemaitre sale al suo massimo quando scopriamo che il marito che Sophie trova per rifarsi una vita, è proprio Frantz.

Qui comincia la parte finale, con Frantz che progressivamente cerca di portare alla morte Sophie e lei che, ad un certo punto, si accorge che è proprio Frantz il suo persecutore. Si ingaggia una lotta sotterranea e senza quartiere, dove si ribaltano le parti. Frantz, che fino ad allora era stato insuperabile viene a poco a poco messo all’angolo da Sophie. Che era invece sembrata farlocca ed incapace, mentre ora si rivela astuta e programmatrice.

L’unica domanda è: chi dei due vincerà? Frantz riuscirà al fine ad uccidere Sophie, per cui scopriremo anche i motivi che hanno innescato tutta la vicenda. Oppure, sempre scoprendo le occulte verità, sarà Sophie ad avere la meglio e costringere Frantz alla resa.

Questo certo non ve lo dico, anche se potete chiedermelo in separata sede, visto che sconsiglio abbastanza vivamente una lettura del libro. A meno che non siate appassionati di polizieschi, come il sottoscritto, o dei puri lettori masochistici, che vanno avanti nella lettura, pur a fronte di recensioni negative. D’altra parte, forse, a qualcuno è piaciuto, ed io ne rispetto le considerazioni.

Lars Kepler “L’ipnotista” Corriere Thriller Psicologici 4 euro 7,90

[A: 03/09/2018 – I: 06/12/2021 – T: 09/12/2021] - & e ½

[tit. or.: Hypnotisören; ling. or.: norvegese; pagine: 583; anno 2009]

Continuiamo a leggere questa collana del Corriere, ma ancora non c’è stato uno scatto di qualità. Anzi, più se ne legge, meno si apprezza. Anche qui, che avremmo dovuto incontrare una delle firme emergenti del panorama giallistico internazionale. Dove, invece, non solo la trama mi convince poco, ma anche la scrittura la trovo di una difficoltà esasperante.

Dicevo firma, che in realtà, questo è uno pseudonimo, adottato da una coppia di giallista che già altro scrivevano. Sono Alexander e Alexandra Coelho Ahndoril, che hanno deciso di unire i loro sforzi letterari, rendendo, con questo nome un doppio omaggio. Infatti, Lars è un tributo al capostipite della nuova scrittura svedese in fatto di gialli, cioè Stieg Larsson. Mentre Kepler è un sentito omaggio a Johannes Kepler (nome corretto del tedesco Giovanni Keplero, matematico e astronomo), precursore dei tempi, con i suoi calcoli che portarono alla misurazione delle orbite dei pianeti.

Detto che tutti gli scrittori svedesi degli ultimi trent’anni sono stati etichettati come eredi (o epigoni) di Larsson, e sottolineate che la campagna pubblicitaria, all’epoca dell’uscita, ed in successive ondate, ne parla come uno dei capolavori del thriller moderno, direi invece che siamo abbondantemente sotto media.

Ho trovato faticoso seguire l’andamento temporale, dove bisogna stare attenti ad ogni nuovo capitolo a quanto sottolineato in corsivo inziale (mattina, sera, ecc.), con l’aggravante che, spesso, dopo due o tre capitoli in sequenza, si fa un salto indietro di tre giorni, perdendo un po’ il filo. Inoltre, ad un certo punto, in modo quasi anodino, si fa un salto indietro di dieci anni, lungo più di cento pagine, che spezza il non già veloce ritmo dello scritto. Poi c’è un profluvio di medicine ed altre “ospedalerie”, di cui si perde bellamente nomi e funzioni (un po’ di accuratezza in più non guastava). Abbiamo anche uno dei protagonisti, l’emofiliaco Benjamin, che dovrebbe morire se non fa una puntura a settimana, mentre passano 9 giorni prima di avere la nuova dose. Infine, un altro dei protagonisti, Josef, ad un certo punto esce di scena, dove era stato al centro per giorno e giorni, quasi in sordina, esaurendo un filone di trama che per quattrocento pagine sembrava (o era) il nucleo della trama. Insomma, scrittura poco attraente, e qualche sciatteria, portano la confezione verso il basso, anche se alcune idee della trama, nonché alcune giravolte sono gradevoli ed innovative.

Infine, la cosa che più mi ha sorpreso è che questo viene considerato il primo capitolo delle storie di Joona Linna, il poliziotto incaricato delle indagini. Che certo ha un suo ruolo, ma non centrale, a parte il fatto di ripetere, ad ogni piè sospinto: “avevo ragione io”.

L’elemento centrale del racconto dovrebbe essere Erik Maria Bark, l’ipnotista del titolo. Uno psichiatra che usa l’ipnosi su pazienti traumatizzati. Non sono un medico, ma mi sembra un po’ forzato. Nell’inserto sapremo che in una cura di gruppo, viene accusato (ingiustamente) di aver indotto ricordi falsi nella paziente Lydia, anche se tutta la terapia gira intorno ad una certa Eva Blau. Comunque, viene sospeso e giura di non usare più l’ipnosi.

Tuttavia, quando si trova di fronte ad un efferato delitto, con un unico superstite in coma, viene indotto ad usare i suoi metodi per salvare una ragazza in pericolo. Questo scatena una serie di grossi problemi in una situazione già complessa. Il comatoso rivela di essere stato lui a commettere il massacro. Ma non può essere incriminato che la confessione sotto ipnosi non è giuridicamente valida.

Joona, a valle dell’intervento di Erik, riesce a salvare la ragazza, ma il paziente fugge dall’ospedale.

Intanto Erik a casa ha una situazione complessa. Convive con la moglie Simone che però non gli perdona un tradimento di anni e anni prima. Inoltre, il loro figlio Benjamin è emofiliaco e deve fare punture settimanali per tenere sotto controllo la malattia. In tutto ciò, qualcuno rapisce Benjamin, e Simone intreccia una storia con uno scultore.

Chi ha rapito Ben? C’entra forse la sua ragazza, Aida, ex-naziskin tenebrosa? O è stato il comatoso per vendicarsi della confessione estorta? O la famigerata Eva Blau di dieci anni prima? O Lydia, quella che lo aveva fatto sospendere?

Andiamo avanti per pagine e pagine su questo dilemma, aiutati più che da Joona, da Kenneth, il padre di Simone ed ex-poliziotto. Che, mettendo sul piatto due più due, sembra trovare la quadra. Anche se ad un certo punto, viene investito e sembra sul punto di morte, ma dieci pagine dopo è pimpante sulla scena.

Tutti i possibili colpevoli vengono eliminati ad uno ad uno, sia dalla colpevolezza, sia fisicamente, che muoiono quasi tutti. Sarà Erik che incastrando brandelli vari, anche grazie a Kenneth, ha l’idea vincente. Che non riuscirà a concretizzarsi se non con l’aiuto fondamentale di Joona, e con l’intervento di Ben che, rocambolescamente, era riuscito a fuggire ai rapitori.

Insomma, quanta carne al fuoco. Che alla fine risulta un po’ bruciaticcia e mal digeribile. Ringrazio gli autori del libro, perché scrivere è sempre una fatica, un lavoro improbo, ma non sono convinto del modo di porre le problematiche sul tappeto.

Friedrich Dürrenmatt “Giustizia” Corriere Thriller Psicologici 6 euro 7,90

[A: 10/09/2018 – I: 13/12/2021 – T: 16/12/2021] - && +

[tit. or.: Justiz; ling. or.: tedesco; pagine: 233; anno 1985]

Sinceramente, mi aspettavo di più e di meglio da parte dell’esimio scrittore svizzero tedesco, autore di opere che sono rimaste nel mio immaginario come pietre miliari di uno scrivere sempre teso a smontare il luogo comune. Sempre portato a farci vedere l’immane fatica di essere uomini senzienti in un mondo che non capiamo e che, probabilmente, abbiamo contribuito a costruire in modo a essere inconoscibile.

Qui, purtroppo, pur nella limpidezza di un teorema scientifico, siamo ben lontani da caposaldi come “La visita della vecchia signora”, “La panne”, “Greco cerca greca” o “La morte della Pizia”. Per non parlare di quello che ritengo un capolavoro assoluto: “La promessa. Un requiem per il romanzo giallo”. Qui siamo ancora nel campo delle riflessioni sulle istituzioni umane, ma anche per il modo in cui l’autore è arrivato alla stesura del testo, c’è qualche ruggine di troppo.

La genesi del romanzo, infatti, è complessa: Dürrenmatt inizia a lavorarci nel 1957, ma ad un certo punto si blocca, altri lavori gli prendono la teta e la mano. Il romanzo rimane lì, a volte ripreso, spesso ignorato. Prova a completarlo nel 1980, senza riuscire a entrare mentalmente nella trama. Solo nel 1985 riprende i frammenti del discorso, e completa il romanzo, forse con un senso diverso da quello originario. Ma questo è quello che ora leggiamo, ed apprezziamo, capendone, data la sua genesi, alcuni salti, alcune apparenti mancanze.

Il romanzo è scritto sotto due diverse prospettive soggettive. Nelle prime due sezioni parla l'avvocato Felix Spät che ci narra del caso più assurdo della sua carriera, che lo ha rovinato e condotto quasi fuori di testa. Nella terza sezione, che si svolge anni ed anni dopo, uno scrittore riceve le memorie di Spät, e per completarle effettua ricerche e finalmente chiarisce il caso al lettore.

Nella prima parte Spät ci narra i fatti. Il consigliere cantonale zurighese Isaak Kohler entra nel ristorante “Du  Theâtre”, saluta il professor Winter, quindi gli spara alla testa. Esce indisturbato dal ristorante, accompagna un ministro inglese all’aeroporto, dove viene arrestato. Non sembra esserci dubbi sull’accaduto, e benché con solo prove indiziarie e molte mancanti, Kohler viene condannato a 20 anni di carcere. Kohler accetta serenamente il carcere, dove si fa ben volere. E da lì chiama il giovane avvocato Spät e lo incarica di riesaminare il caso partendo dall’assunto che sia stato un altro a sparare. Spät è povero in canna, e accetta.

Nella seconda vediamo la discesa all’inferno dell’avvocato. Spät si muove abilmente, all’inizio. Incarica un detective di trovare prove. Lui imbastisce una memoria difensiva basandosi sull’insostenibilità legale del verdetto: nessuna arma del delitto trovata, nessuna  confessione palese, nessun movente, nessuna chiara registrazione delle testimonianze dei presenti al fatto. Si riapre il processo, e Kohler viene assolto, anche se Spät, per motivi di coscienza, rifiuta di patrocinarlo in aula. Da quel momento assistiamo alla discesa verso l’abisso di Spät, che sa di aver fatto assolvere un assassino anche se non ne ha le prove. Altri avvenimenti si succedono intorno: Benno, un ex-campione svizzero di tiro alla pistola, anche lui presente al ristorante, ed anche lui amico di Winter, si sucida. Una donna dai rapporti ambigui, amante di Benno ma anche della figlia di Kohler, muore. Spät capisce che la pistola sparì nella tasca del ministro inglese, che non venne mai perquisito all’aeroporto. Tormentato dai rimorsi, Spät decide che l’unico modo di ripristinare la giustizia è uccidere Kohler e suicidarsi.

La terza ci porta alla soluzione. Anni dopo, uno scrittore prende in mano il manoscritto di Spät, e indagando scopre che l'omicidio e il suicidio erano falliti, che Spät si ritira tra i monti e morirà alcolizzato. E sarà lo scrittore che arriverà a completare il quadro: il consigliere cantonale Kohler ha messo in scena un omicidio che era solo un pezzo del puzzle in una complessa e ben congegnata campagna di vendetta personale sfruttando abilmente le debolezze umane e i limiti del moderno apparato giudiziario. Quale sia il motivo della vendetta lascio ai volenterosi lettori di trovarlo.

Quindi siamo di fronte ad un’amara riflessione sul senso e sull’applicazione della giustizia. Perché, come fa notare Dürrenmatt, non è data giustizia umana se il mondo è governato dal caso. La mancanza, l’assenza di una possibile giustizia diventa al fine un elemento costitutivo del vivere degli uomini, non più un accidente della vita. Considerazioni che concluderei con una fondante domanda, a valle dei rapporti di Kohler con Spät e con gli altri burattini del testo: chi è il colpevole, chi dà l’incarico o chi lo accetta?

E. O. Chirovici “Il libro degli specchi” Corriere Thriller Psicologici 17 euro 7,90

[A: 19/11/2018 – I: 11/03/2022 – T: 13/03/2022] &&& --

[titolo: The Book of Mirrors; lingua: inglese; pagine: 268; anno: 2017]

In realtà il suo nome completo è Eugen Ovidiu Chirovici, ed è rumeno. Per una serie di motivi poi emigrato in Occidente, e questo è il primo libro scritto direttamente non nella lingua natia. Da cui, anche, la decisione di nascondere quei nomi propri un po’ troppo riconoscibili.

Uomo dalla vita interessante e poliedrica, Chirovici, all’improvviso a 48 anni, decide di lasciare la Romania, e di trasferirsi in Inghilterra, per seguire la sua passione per la scrittura. Impiegherà cinque anni per farsi conoscere con questo libro, e cominciare una carriera di discreta successo. Dove, casi della vita, dall’inizio della pandemia si stabilisce a Firenze.

Questo libro, che lo ha lanciato sul mercato, pur non eccelso, è di certo intrigante, ben congeniato. Ho faticato un po’ a collocarlo nel filone della sua uscita, tra i thriller psicologici, che, giustamente, è anche un thriller a pieno titolo. Ragionandoci sopra a libro chiuso, però, mi accorgo che il punto centrale non era “chi ha ucciso”, ma “perché”, e soprattutto è un romanzo sull’inattendibilità dei ricordi. Mi ha fatto al solito venire in mente “Il senso della fine” di Barnes, ma questa sarebbe tutta un’altra storia.

Intanto, Chirovici utilizza un buon impianto di scrittura, utilizzando tre voci, nelle tre parti del libro, portano avanti la storia. Ognuno diverso, ma conseguenti di modo che alla fine, il quadro risulta ben disegnato, e ben si segue nell’accidentato percorso della storia.

Il primo che incontriamo è Peter Katz, agente letterario alla ricerca di nuovi autori. Si trova nella posta uno strano manoscritto, dotato di una scrittura affascinante. Scritto da tal Richard Flynn, che narra di un famoso omicidio avvenuto trent’anni prima, e di cui, ora, lui svelerà la verità. Il manoscritto narra la storia di Richard, del suo amore per Laura e dei loro rapporti con il professor Wieder e con il suo tuttofare Derek. Manoscritto che però si interrompe, volutamente poco prima di rivelare chi ha ucciso, poco prima del Natale del 1987, il professor Wieder. Katz si mette alla ricerca di Richard, ma scopre che è morto da poco di tumore e nessuno conosce l’esistenza dello scritto.

Katz allora affida al giornalista John Keller di ricostruire la verità. Keller, abile cronista, racconta la sua ricerca in prima persona nella seconda parte. Scopre così che Wieder stava lavorando ad una rivoluzionaria ricerca sulla memoria, che però non venne mai pubblicata. Trova tutti i protagonisti della vicenda: Laura, che cambiato il cognome ora è lei stessa docente di psicologia; Derek, accusato a suo tempo di aver ucciso la moglie, finito in manicomio, e preso in cura da Wieder; Sarah, l’amica di Laura che gli fornì un alibi per la sera dell’omicidio; Roy Freeman, il detective in pensione che si occupò del caso. E qui gli specchi si deformano: Richard e Laura era solo amici, Richard era ossessionato dalla scrittura, il manoscritto di Wieder sparito.

Keller non riesce però a concludere, ma ha risvegliato l’interesse di Roy. Che riprende in mano il caso, e nell’ultima parte ci narra la sua ricerca finale. Smonta gli alibi di tutti, che Richard, Laura e Derek erano tutti presenti a casa Wieder la sera della morte. C’è anche una confessione estemporanea, che permette a Roy di chiudere finalmente il caso.

L’intrigante bellezza dello scritto, anche se non eccelso, è nel presentare le tre parti come incastrate in un gioco di specchi. Dove ognuno dice la sua verità, ritenendola assoluta, ma che alla fine non è altro che un gioco della memoria, in cui ricordi veri e falsi si mescolano a desideri di realtà.

Esemplare, per capire il romanzo, è il racconto della genesi interiore dell’autore che lui ci narra in post-fazione. L’idea gli venne parlando con la madre di un suo ricordo d’infanzia: il funerale di un giovane calciatore, di cui ricordava la bara con il pallone dentro. Ma la madre gli dimostra che lui era troppo piccolo all’epoca e quel ricordo non poteva essere suo, ma forse di qualcuno che glielo aveva narrato. Con tanta realtà che il racconto, da esterno, era diventato parte dei ricordi personali dello scrittore.

La memoria è un luogo affascinante, e tutti sappiamo quanto possa essere di una limpidezza cristallina, ma anche quanto possa diventare uno stagno torbido. Noi speriamo, con l’autore ed i suoi personaggi migliori, di poterla conservare sino alla fine. Che la lezione che traiamo, anche, da questo libro è che nulla è come sembra, tutto è da scoprire, forse dobbiamo anche scoprire chi siamo.

Quarte trama del mese, quindi riposano allegati ed altro, ed emerge dalla memoria una frase di un premio Nobel a me caro, l’egiziano Nagib Mahfuz che nel suo “Karnak Café” ci esortava al seguente pensiero: “è sempre inutile parlare delle storie d’amore con le persone direttamente interessate”. (31)

Scrivo queste righe al ritorno di un veloce ed interessante fine settimana parmense, per una visita al labirinto di Franco Maria Ricci in onore di Borges, ed alla bella mostra sull’aeropittura futurista. Nonché cullando il pensiero alla “palindromia corta” di oggi ed alla ripetitività numerica della trama. Ricordo infatti che, in notazione corta, oggi sarebbe il 22/5/22. E questa trama, come vedete dal titolo, è numerata come “2022 20”.

Se volete parliamo di numeri, altrimenti continuo, come immaginate, a lavorare alla programmazione estiva, con molti e quasi insormontabili problemi sugli alloggi islandesi. Finisco con un grande abbraccio per gli altri compleanni appena passati.

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