domenica 8 maggio 2022

Viaggi: finale in crescita - 08 maggio 2022

Ultima trama dedicata alle letterature “intorno al mondo”. Scrittura al femminile, giustamente nel giorno dedicato alla mamma. Una buona scrittura. Con alla testa la spagnola Montero e la persiana Ebadi. Poco sotto, ma tutte da leggere, la giapponese Kakuta, la ruandese Mukasonga e la siriana Yazbek. Scritture di conflitti, dove Samar Yazbek va letta anche nell’ottica dell’attuale conflitto in Ucraina. Ma non possiamo scordarci i conflitti in Ruanda o la lotta delle donne in Iran. E sempre nell’ottica femminile, il libro di Rosa Montero mi ha fatto molto riflettere.

Rosa Montero “La ridícula idea de no volver a verte” Planeta euro 7,95

[A: 01/10/202 – I: 06/10/2021 – T: 10/10/2021] - &&& +

[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 233; anno 2013]

Al termine de “las bodas andaluzas”, mi ritrovai, non in una selva oscura, ma in una spiaggia assolata, avendo letto tutti i libri che mi ero portato di scorta. Fortunatamente, trovai una rigogliosa libreria, dove, al termine di una ricerca serrata, scelsi questo libro per terminare il viaggio.

Una scelta fortuita, ma casualmente fortunata. Ho così incontrato questa scrittrice spagnola, che non conoscevo, prolifica autrice ben nota in patria per le sue scritture e per l’attività pluriennale nel giornalismo. Ma ho anche incontrato il personaggio storico al centro del romanzo, che, sfortunatamente sino ad ora, conoscevo solo di nome e per le sue scoperte: Maria Salomea Skłodowska, più conosciuta come Marie Curie.

Perché questo è un libro dalla strana costruzione. Una biografia di alcuni caposaldi della vita di Madame Curie, intrecciata a momenti e dolori della vita stessa di Rosa Montero. Una scrittura intrecciata, che fa risaltare, oltre la figura della scienziata, anche i suoi momenti privati. Così come si illuminano i momenti intensi del dolore di Rosa. Una sensazione di dolenza, che, come dice la frase in fondo, la pena del dolore cambia se si riesce a viverla.

Il libro nasce quasi da una concomitanza inaspettata, e di certo non voluta. Nel 2009 muore il compagno di una vita di Rosa, marito, esperto di piante, innamorati oltre il descrivibile. Mentre lotta con il suo dolore, un’editrice le propone di scrivere una prefazione ad un breve diario di Marie Curie, dove lei scrisse i suoi sentimenti privati per un anno dopo la morte per incidente del marito Pierre. Le due morti convergono in un sentimento di ripercorrere mondi e sensazioni, parlando del suo compagno, ma anche di arte, letteratura, vita in genere. Sentimenti che ritrova ripercorrendo la vita accidentata di Marie, dall’infanzia polacca, alla maturità e alla gloria, ma anche all’ostracismo scientifico per le sue scelte private.

La vita di Marie ci viene mostrata a sprazzi, a bozzetti. L’infanzia polacca, il tracollo economico paterno, il lavoro di istitutrice per pagarsi gli studi, la fortuna che la sorella si sposa a Parigi, dove Marie la raggiunge. Dove può riprendere a studiare, dove si laurea. Dove più che altro incontra la sua anima gemella. Il fisico Pierre Curie, di dieci anni più grande. Si innamorano, si sposano fanno due figlie. Ma più che altro lavorano alla ricerca nel campo delle radiazioni. In situazioni non certo ottimali. Tanto che vengono bombardati dalle radiazioni delle loro scoperte. Tanto che Pierre era già messo male, e pare non sarebbe vissuto a lungo. Tanto che Marie morirà a soli 67 anni. Pur essendo una famiglia longeva, tanto che la figlia Eva, l’unica che non si occuperà di scienza, arriverà a 102 anni.

Poi ci sono i riconoscimenti. Il Nobel in fisica con Pierre e Antoine Henri Becquerel nel 1903. Poi quello in chimica, da sola, nel 1911. Unica donna ad aver avuto due Premi Nobel nel campo scientifico. Una spigolatura sul primo premio. Gli Accademici svedesi volevano darlo solo ai due maschi. Ma Pierre si impuntò sui meriti di Marie, che fu nominata. Tuttavia, il premio economico venne diviso in due e non in tre. Quanta strada dovevano fare le donne!

E tanta anche per il secondo Nobel. Che in quello Marie intrecciò una relazione con il collega Paul Langevin. Lei era libera, vedova. Ma Paul era sposato e con quattro figli. Scandalo! Tanto che i soloni del Nobel volevano toglierglielo.

Quello che però più mi ha preso e coinvolto è il parallelo tra le due morti. Ci sono pagine di Rosa e Pablo che mostrano un amore ed un dolore di altezza himalaiane. Ci sono le pagine del diario di Marie che ce ne mostrano lo sgomento, il passaggio di vita che la vita cambia. I coniugi Curie sono in campagna, per le vacanze di Pasqua. Pierre gioca con le figlie, poi litiga con la cameriera che vorrebbe un aumento. Nervoso, Pierre torna a Parigi per lavorare, poi esce con i colleghi per pranzo. Piove, Pierre è anche provato dalle radiazioni, scivola sul bagnato, viene travolto da un carro e muore. Marie è casa ignara (è il 1906, niente telefoni ancora). Poi arrivano i colleghi del marito con il corpo esanime di Pierre. “Pierre è morto, che avevo visto uscire questa mattina, che mi aspettavo di stringere tra le braccia nel pomeriggio, che tornerò a vederlo solo morto, ed è finita, per sempre.” Due righe secche, che portano una montagna di riflessioni per tutta la vita.

Il libro è pieno anche di altro, di rapporti, di riflessioni sul ruolo delle donne, sulla malattia e sul dolore, sulla vecchiaia. Ed è bello anche per questo, ma non per questo mi è stato caro nel ritorno in Italia, nel riprendere i gesti quotidiani, nell’impostare una nuova parte della mia vita.

Mi ha fatto riflettere, sul mio io attuale, e sui rapporti tra il sé e gli altri. Una bella riflessione, che però ha altri spazi di sviluppo. Qui si parla, soprattutto, di letteratura.

E di una brava scrittrice. Rosa Montero.

“Lo expresó muy bien Ferdinando Pessoa: ‘La literatura, como el arte en general, es la demostración de que la vida no basta’. No basta, no. Por eso estoy redactando este libro. Por eso lo estás leyendo.” (32) [Ferdinando Pessoa lo ha espresso molto bene: “La letteratura, come l'arte in generale, è la dimostrazione che la vita non basta”. Non basta, no. Ecco perché sto scrivendo questo libro. Ecco perché lo stai leggendo.]

“La muerte forma parte de la vida y es parte del relato de una vida ... Para vivir tenemos que narranos.” (116) [La morte fa parte della vita ed è parte della storia di una vita... Per vivere bisogna narrarcela.]

“La pena es pura y sagrada, y hasta en la muerte puede haber belleza, si sabemos vivirla.” (172) [Il dolore è puro e sacro, e anche nella morte può esserci bellezza, se sappiamo viverla.]

Mitsuyo Kakuta “La ragazza dell’altra riva” Repubblica Mondo 23 euro 9,90

[A: 06/05/2019 – I: 28/11/2021 – T: 02/02/2021] - && e ½     

[tit. or.: 対岸の彼女 Taigan no Kanojo; ling. or.: giapponese; pagine: 302; anno 2004]

Pur avendo letto abbastanza di letterature giapponese, in fondo, ad ora, mi rimangono in testa solo Banana Yoshimoto e Haruki Murakami. Se vedete nelle mie scritture, vedrete invece che questo è il trentesimo libro tradotto dal giapponese di cui parlo. Certo, solo l’1% delle mie letture, ma è mediamente un risultato rilevante.

Mitsuyo è una (relativamente) giovane scrittrice, poco più che cinquantenne, ed è ben conosciuta in patria. Libri, premi, trasposizioni cinematografiche, vita familiare sotto i riflettori (il primo marito scrittore anche lui, il secondo musicista). Ma soprattutto, per me, una scrittura che mi riporta al Giappone che ho imparato a conoscere, dal mio mentore atletico Marco alle visite ben gradite in quel lontano paese.

Perché è veramente, anche se non mi convince del tutto, un libro pieno di “giapponesità”. Dai rapporti tra le persone, ai rapporti tra queste e le cose, dalle città grandi (Tokyo, Osaka) a quelle piccole e medie (Nagasaki, Hiroshima, o la prefettura di Gunna, dove si svolge parte della vicenda, 200 km a nord di Tokyo).

La parte meno “mia” di tutta la storia è l’irrisolutezza che alla fine prende i protagonisti delle vicende nipponiche. Forse è un marchio di fabbrica anch’esso del loro modo di scrivere e di presentare i fatti: lasciare ampie zone d’ombra, dove il lettore può continuare le storie, e farle evolvere secondo il proprio gusto. Non è sbagliato, ma non sempre porta risultati buoni. Qui, seppur con alcuni punti fermi, alla fine rimangono indecisioni e possibilità forse troppo ampie. Anche se, e devo confessarlo pur avendolo letto con una insolita lentezza, non è un libro che mi è dispiaciuto. Forse avrei preferito qualche dinamismo in più. Ma questo è il Giappone.

Altro punto controverso, ma solo per la mia quasi nulla conoscenza del giapponese, è il titolo che a volte viene tradotto come sopra, altre come “Lei dell’altra sponda”. Non so quale sia corretto, certo, il secondo getterebbe una luce, non so se corretta o forzata, su parte della vicenda. Ma anche tradotto così, io immagino solo una persona che ne guarda un’altra “oltre fiume”, ognuna con la propria vita che si incrocia solo guardandosi, e scorrendo altrove.

La storia poi si sviluppa su due piani temporali distinti. Nei capitoli dispari seguiamo l’evolversi della vita di Sayoko, trentacinquenne moglie di un indisponente Shujii e madre della piccola Akari, tre anni. Lei, introversa e solitaria, indispettita dalle ossessive dinamiche delle madri sue coetanee, pensa di rompere quel circolo opprimente (aggravato da una suocera tradizionalista e assai poco simpatica) trovando un lavoro. Che troverà, dopo molta fatica, solo nell’agenzia multiservizi di Aoi. Strana agenzia, che si occupa di viaggi e pulizia, dove Sayoko si farà il suo spazio come donna delle pulizie. Ma dove, soprattutto, entrerà in contatto con Aoi.

Nei capitoli pari, infatti, seguiamo invece la vicenda di Aoi al passato, cioè nella giovinezza di questa signorina, coetanea di Sayoko. Della sua incapacità di rapportarsi alle sue compagne di liceo, finché non trova una sponda in Nanako. Ragazza dallo spirito libero, che coinvolgerà nella smania di indipendenza Aoi, dove le due daranno vita ad una piccola ribellione, che non finirà certo bene, e che lascerà Nanako in un limbo che non scopriremo mai, ed Aoi in una vita piena sì di successi, ma dall’inconsistente risultato. Aoi sarà sempre pronta a buttarsi in nuove avventure, senza mai trovare un punto fermo nella sua vita.

L’incontro fra le due ragazze problematiche potrà portare entrambe a nuova vita, a nuovi slanci, a trovare un senso a tutto ciò. Ma, da brava giapponese, Mitsuyo lascia a noi il compito di pensare come andrà (e se andrà) avanti il loro rapporto, la loro amicizia. Con qualcosa in più? Non viene detto, ed in fondo ci interessa poco.

Il nodo centrale, quindi, è l’amicizia femminile, ma soprattutto i sogni e la propria crescita. Perché tentare di esaudire i propri sogni è forse una delle vie per arrivare alla felicità. Non certo fuggire dalle situazioni, non affrontarle. Fuggire è facile e adolescenziale. Più complicata è restare a guardare la realtà, ed affrontarla. Ma, per tornare al testo e chiudere, è il dualismo l’elemento trainante delle parole di Mitsuyo. Da un lato Sayoko, madre, moglie insoddisfatta, con un forte desiderio di libertà. Sull’altra sponda, una donna che non dipende da nessuno, che cade, ma si rialza sempre, e sempre più forte. L’incontro-scontro tra questi due mondi, porterà a comprendere, a loro ed a noi, la giusta priorità dei nostri desideri. E delle cose da affrontare e realizzare.

Shirin Ebadi “La gabbia d’oro” Repubblica Mondo 24 euro 9,90

[A: 06/05/2019 – I: 05/12/2021 – T: 06/12/2021] - &&& e ½  

[tit. or.: قفس طلایی; ling. or.: persiano; pagine: 219; anno 2008]

Se la memoria ed i miei appunti non mi ingannano, credo sia il primo libro tradotto dal persiano che entra nella mia biblioteca. Infatti, l’altro libro ambientato in Iran che ho letto, quello di Nazar Afisi venne scritto in inglese.

Qui inoltre abbiamo un punto in più da tenere in considerazione. L’autrice, infatti, non è una scrittrice qualsiasi, bensì una donna, avvocato per i diritti umani, nonché Premio Nobel per la pace nel 2003. Ebadi si è sempre battuta per un corretto vivere, nel proprio paese, e ovunque nel mondo, pur rimanendo sempre all’interno del perimetro islamico di riferimento. Proveniente da famiglia benestante, si laurea in Giurisprudenza, divenendo magistrato nel 1969 e ricoprendo, prima donna nel mondo islamico, il ruolo di giudice dal 1975 al 1979. Con la rivoluzione khomeinista, come tutte le donne in Iran, è costretta a lasciare il proprio posto, limitandosi ad attività marginali ed alla scrittura di libri. Solo nel 1992 ottiene l’autorizzazione a riprendere il ruolo di avvocato, sempre battendosi per i diritti civili. Anche con il Nobel non finiscono le persecuzioni nei suoi confronti, fino a mettere a repentaglio la vita sua e della sua famiglia. Così che dal 2009 vive in esilio a Londra.

Questo scritto, in gran parte anche autobiografico, attraverso la descrizione della vita di una famiglia molto amica della famiglia Ebadi, cerca di spezzare un’ulteriore lancia per una liberalizzazione del regime iraniano, lasciando a noi tristezza e sconforto per quanto poteva essere e non è stato. Non a caso, il sottotitolo italiano recita “Tre fratelli nell’incubo della rivoluzione iraniana”.

Quindi, mentre vediamo Shirin entrare ed uscire dal testo, quello che ci preme seguire, quello che lei ci invita a seguire, è la storia dei tre fratelli e della loro sorella, figli di Hussein e Simin, amici di famiglia di Muhammed Alì Ebadi.

Il più anziano è Abbas, nato nel ’40. Poi nel ’47 nasci Parì, l’amica del cuore di Shirin, e nel ’50 Javad. Solo a metà degli anni ’50 nasce infine Ali.

Ovvio che la vita delle famiglie iraniane si intrecci con l’evoluzione della situazione locale negli anni. L’avvento dello scià Mohammad Reza Pahlavi, ed il suo tentativo di modernizzazione, sotto l’impulso occidentale (o sotto il protettorato anglo-americano). La repressione dopo la caduta di Mohammad Mossadeq. La crisi che porta al ritorno in patria ed al governo religioso di Khomeini. La morte dell’ayatollah e le successive ondate di repressione e di pseudo-liberalizzazione con Rafsanjāni, con Khātami, con Ahmadinejad.

Abbas, il maggiore, frequenta l’élite vicina allo shah, ne rimane infatuato, e decide di intraprendere la carriera militare. Rimarrà sull’onda, monarchico fino alla fine. Travolto dalla rivoluzione fuggirà in America dai figli, dove, caduti tutti i suoi ideali, deciderà di porre fine alla sua vita.

Javad, curioso ed intraprendente sin da piccolo, si avvicinerà al partito comunista, diventerà un sostenitore non violento delle liberalizzazioni. Sarà però travolto anche lui dalle ondate repressive, entrando e uscendo dal carcere, fino a finire giustiziato senza motivi apparenti.

Ali, il piccolo, si avvicina ai fondamentalisti islamici, ai mullah, si fa crescere la barba, parteciperà alla guerra contro l’Iraq. Ma poi sarà deluso dalla deriva iraniana, fugge a Parigi, dove tuttavia sarà raggiunto dai servizi segreti iraniani all’estero, e ucciso.

Ebadi ci racconta il tutto dal suo punto di vista moderato ma liberale su tutta la vicenda. Non ha mai una posizione apertamente ribelle, ma, in nome della giustizia, non smetterà mai, nel libro come nella vita, di battersi per i diritti. Accetterà tutti i compromessi accettabili. Fino a che non sarà più possibile. E ci racconta insieme a tutto ciò il modo di vivere, l’evolversi del modo di vivere iraniano nel corso degli anni. Le feste, i pranzi, le riunioni con gli amici, le partite di backgammon, il gioco principe degli iraniani. Forse è proprio questa normalità, contrastando con la barbaria montante, che ci rende dolorosa la lettura del libro. Che ci fa infuriare, purtroppo senza molte possibilità di replica, di lavorare attivamente per cambiare.

Alla fine, viene meglio riferirsi al sottotitolo inglese, che invece di quello sopra riportato, proclamava in ex ergo: “Tre fratelli, tre scelte, un destino”. Da leggere.

Scholastique Mukasonga “Nostra Signora del Nilo” Repubblica Mondo 32 euro 9,90

[A: 01/07/2019 – I: 27/12/2021 – T: 29/12/2021] - && +

[tit. or.: Notre-Dame du Nil; ling. or.: francese; pagine: 187; anno 2012]

Ci stiamo avvicinando alle ultime letture della collana dedicata alla letteratura intorno al mondo. Letture che risultano sempre interessanti, anche quando non convincono in pieno. Qui siamo trasportati, come “letteratura” in Ruanda, anche se la scrittura è francese. Sia perché il paese è francofono (in quanto colonizzato dai belgi) sia, soprattutto, che l’autrice è fuggita dal Ruanda proprio alla fine del periodo narrato, e dopo varie vicissitudini, approda in Francia, dove vive tuttora in Normandia.

La scrittrice, attingendo ai suoi ricordi, ci fa vivere i prodromi di quello che da lì a venti anni sarebbe passato alla storia come il “genocidio del Ruanda”, il massacro di 1 milione di persone in meno di quattro mesi, dovuto alla feroce lotta tra le due etnie locali, gli Hutu e i Tutsi. Una lotta, per chi non ne ha memoria, che veniva da lontano e, soprattutto, veniva dai guasti perpetrati dai colonizzatori europei. Fino alla Prima guerra mondiale la zona era sotto il controllo tedesco, ma, nelle varie spartizioni, divenne un mandato belga. Ed i belgi, per mantenere il potere, decisero di appoggiarsi alla minoranza Tutsi rispetto alla maggioranza Hutu, di modo che alimentarono una divisione fittizia tra le tribù. Ancor peggio fecero quarant’anni dopo, cambiando le carte in tavola, e favorendo gli Hutu, che rimasero al potere e lo consolidarono con l’indipendenza del 1962. Pur non essendo controllori, i belgi rimangono nel paese, in particolare con le missioni cristiane. Ed ottengono che tutta la vita pubblica sia governata dalle quote: il 10% di ogni cosa dove appartenere ai Tutsi, il resto agli Hutu. Si può capire come tutto ciò non abbia favorito la distensione, anzi. Un primo pogrom ci fu nel 1973, un altro nel 1994 (genocidio), ed altro ancora, se andate a vedere la storia locale.

Mukasonga ci narra i fatti del ’73, dove lei, diciassettenne e Tutsi, era una collegiale. Ma a valle dei fatti, fugge in Burundi, e, come detto, poi in Francia.

La storia viene vista seguendo i vari personaggi presenti nel liceo femminile “Nostra Signora del Nilo”, sorto vicino alle sorgenti del fiume, e dove si venera una statua di una Madonna nera. Come ricostruiamo dalla visita verso gli ultimi capitoli, dei reali del Belgio, il re Baldovino e la regina Fabiola, siamo appunto verso la fine del 1972. Ogni capitolo ci presenta la storia di una ragazza, ma noi ne seguiamo solo alcune, cui i preti davano, all’arrivo al liceo, nomi occidentali, quasi a voler strappare le loro radici.

Ci sono le uniche studentesse Tutsi, Veronica e Virginia. La prima morirà violentata durante i tumulti, mentre Virginia viene salvata perché un vecchio santone convince lei e gli hutu che ragionano, che lei è l’incarnazione di una lontana regina che unificò il paese.

C’è soprattutto il “genio del potere”, Gloriosa, ferocemente anti-tutsi, che si inventa una aggressione da parte dei Tutsi, da cui avrà vita tutta una serie di cattive azioni che sfoceranno nelle violenze che conosciamo.

E poi c’è Goretti (quella si Santa Maria) l’antagonista di Gloriosa, anche lei hutu, ma interessata soprattutto ai gorilla che vivono nel nord del paese. E Frida, quella innamorata di un losco ambasciatore che la metterà incinta, e che morirà di parto. E Modesta, un mezzosangue che non sa da che parte stare. E Immacolata, che sembra pensare solo ai vestiti, ma che troverà il modo di salvare Virginia.

Una parte non brillante hanno poi i prelati e le suore, in particolare padre Herménégilde, più che altro teso a concupire le alunne. Ma è tutto l’impianto che grida contro i bianchi colonizzatori. E contro gli Hutu prevaricatori. Ci sono tante piccole storie, laddove la scrittrice, cominciando dai piccoli fatti quotidiani, e dalle piccole beghe, ci fa vivere l’escalation della violenza. Che rimane un punto forte della narrazione, anche se io ho gustato meglio “le piccole cose di pessimo gusto”, come direbbe Gozzano. I mercati, i guaritori, la “donna che comanda la pioggia”, i contrasti tra cibo occidentale e cibo locale.

Questi sono i punti migliori, anche perché, alla fine, più che la scrittura, rimane la storia sottesa e futura. Un orrore che non si dimentica, e di cui, qui, vediamo i germogli, in un altro capitolo di quello che, con Hannah Arendt, continueremo a chiamare “la banalità del male”.

Samar Yazbek “Passaggi in Siria” Repubblica Mondo 35 euro 9,90

[A: 22/07/2019 – I: 08/01/2022 – T: 11/01/2022] - && +

[tit. tr.: The Crossing. My journey to the shattered heart of Syria; ling. tr.: inglese; pagine: 284; anno 2015]

[tit. or.: بوابة أرض أل ادم Buwwabat ard al aadam; ling. or.: arabo]

Ultimo volume dell’interessante collana delle letterature del Mondo. Ci sono stati alti e bassi, ma complessivamente fornisce una visione anche “non occidentale” sulla scrittura.

Finiamo anche con una visione non banale su uno dei problemi attuali, scottanti ed ancora in corso: la guerra in Siria ed i problemi ad essa collegati; guerra civile iniziata dieci anni fa ed ancora in corso. Ma prima di entrare nella scrittura e nella trama, spendiamo un parola sulle righe di intestazione.

Il libro viene dall’arabo, essendo araba e siriana l’autrice, uscito con il titolo “Porta della terra di Adamo”, significando un’entrata in un posto che poteva essere l’Eden (la Siria di un tempo), ora lacerata da una guerra infinita, che fa precipitare la Siria stessa verso un girone infernale. Ma non è questo il testo usato, che viene invece presa la traduzione inglese, che modificò il titolo in “L’attraversamento. Il mio viaggio nel cuore infranto della Siria”. Che è diverso, ma significativo del testo. In Italia viene tradotto il testo inglese e modificato il titolo con quello sopra indicato, che sottolinea i diversi passaggi di Samar in Siria, attraversando (crossing) la frontiera con la Turchia. Misteri ed economie editoriali.

Samar era (è) una giornalista e scrittrice che dopo essere stata arrestata e detenuta per qualche mese dalla polizia segreta siriana nel 2011, riesce a fuggire dal paese e rifugiarsi a Parigi. Ma il suo cuore, la sua testa, tornano sempre al suo paese. Tanato che decide di documentare gli avvenimenti della guerra siriana, introducendosi illegalmente in Siria. Sono questi tre ingressi illegali che descrive qui, in questo reportage. I tre sconfinamenti avvengono attraverso il confine turco ad agosto 2012, febbraio 2013 e luglio 2013.

La penna di Samar è dolente, ma ci fa comunque entrare in questo mondo devastato dalle battaglie. Ne narra, di battaglie. Ma ci parla anche della vita quotidiana, delle sofferenze che si vivono, della dura vita di tutti, ma in particolare lo strazio dei bambini, vittime innocenti di una guerra che alcuni di loro non hanno neanch visto nascere. Di quelli che non sanno (e forse non sapranno mai) quanto bello era il loro paese.

Perché questo è uno degli strazi della guerra: la cultura, le opere d’arte, i paesaggi delicati e maestosi distrutti. Ogni passaggio verso la Siria è scandito dall’attraversamento del confine, dalla paura di essere presi, fermati, o dai turchi o dalle milizie di Assad. E noi con Samar, con il cuore in gola, corriamo verso gli amici che ci aspettano di là del confine.

Per portarci a visitare le due città simbolo del nord della Siria: Sarageb e Kafranbel. Città che i ribelli al regime di Assad hanno liberato, e che sono costantemente prese di mira da bombardamenti e incursioni. Città dove si riuniscono color che avevano iniziato pacificamente le rivolte, con cortei e manifestazioni. Ma che, per difendere sé stessi e la vita dei propri cari, sono costretti ad imbracciare il fucile, a lottare, spesso, purtroppo, a morire.

Questo l’altro aspetto terribile delle immagini che Samar ci restituisce. Non solo perché la rivoluzione pacifica si muta nella lotta armata. Ma soprattutto perché si inseriscono nelle pieghe della rivolta i miliziani jihadisti, con atteggiamenti sempre più estremisti. Samar ci mostra anche il progressivo mutare dei ribelli, che sempre più vengono da fuori, e sono sempre meno siriani.

L’orrore delle pagine è tuttavia in quei momenti in cui si vedono i villaggi voler rimanere attaccati a quello che c’era. Le donne che preparano banchetti anche quando manca il cibo. Donne che per sostenersi si inventano nuovi lavori. I bambini che giocano sotto le bombe. Persone che, nonostante tutto, si amano anche in questi tempi terribili. Sono pagine dure, ma sono pagine che ci danno una speranza: quando tutto ciò finirà, ci sarà qualcuno non pronto a ricominciare, ma che ha già ricominciato.

Manca un po’ un’analisi di motivi e situazioni attuali. Analisi non facile, ovvio, ma che avrebbe dato anche una prospettiva ragionata di uscita. Invece, alla fine, restiamo così, sapendo che le milizie islamiche stanno prendendo il sopravvento sui ribelli originari. E sapendo che anche ora, 6 anni dopo la scrittura, siamo ancora nel pieno della crisi.

Quanto vorrei tornare a Damasco, a vedere la Grande Moschea e la cappella di San Giovanni Battista. Speranza che non morirà mai, comunque.

Prima di qualche conclusione generica, affido un pensiero ad una frase presa da un libro che mi fece leggere tantissimo tempo fa la mia amica Chiara. Parlo di “Come sigillo sul tuo cuore” del grande studioso di religioni monoteiste Hafez Haidar. Perché ci vuole, parlare d’amore, e lui così scrive: “l’amore rende tutto possibile, abbattere le barriere e i pregiudizi, sopisce le ansie e le paure, rapisce il cuore e l’anima” (193)

Scrivo invece queste ultime righe al ritorno di un fine settimana festoso (chi lo sa non ha bisogno di altro), suggellato da un regalo de bodas quanto mai gradito. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MAGGIO 2022

Ultimo mese noto per recuperare vecchie trame. Cosa meglio dell’ottimismo, allora.

OTTIMISMO

Voltaire                  “Candido o l’ottimismo”

Kazuo Ishiguro        “Non lasciarmi”

Gli inguaribili ottimisti a volte hanno bisogno di mordere il verme nella mela per sentire in bocca il sapore della realtà. Mentre abbracciamo l’ottimismo con tutti noi stessi, sentiamo anche il bisogno di ricordare i pericoli dell’essere troppo positivi di fronte all’inevitabile ingiustizia e al dolore del mondo. Non si può, infatti, dare sempre per scontate le motivazioni più nobili dietro alle azioni o alle parole degli altri. Che succede, per esempio, se abbiamo bisogno di fuggire o di combattere? Tra ottimismo e ingenuità, a volte, si fa un sacco di fatica inutile.

Candido è un esempio calzante. Cresciuto in un Eden idilliaco, con Pangloss come maestro, a Candido è stato insegnato che «tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili». Così, quando assaggerà il mondo per la prima volta al di là delle mura che hanno protetto la sua infanzia avrà un discreto shock. Nipote illegittimo di un barone, si innamora perdutamente della figlia dello stesso, Cunegonda. Il barone, tuttavia, ha altri piani per la ragazza, e quando li scopre mentre si baciano allontana Candido, che non può offrirle molto, dal proprio castello. Questo è già abbastanza grave, ma il peggio deve ancora venire.

Arruolato di forza nell’esercito bulgaro, Candido assiste a una battaglia terribile e poi, dopo essere uscito dal campo per fare una passeggiata, viene brutalmente frustato come disertore. Le prove e le sofferenze continuano, ma il giovane non abbandona mai il proprio ottimismo. Solo verso la fine, dopo essere stato derubato di tutti i suoi beni ed essersi ritrovato a vivere con una Cunegonda molto cambiata, dopo che l’amato Pangloss è stato impiccato, squartato e picchiato a sangue (e nemmeno per lui sarà ancora finita); dopo che Cunegonda si domanda, a voce alta, se sia peggio essere violentata ripetutamente da orde di bulgari o continuare a fare quello che fa (cioè niente), questo ottimismo comincia a vacillare. Anche voi, sicuramente, vedrete la follia di continuare a sorridere sotto una pioggia di catastrofi.

Se il vostro ottimismo è ancora più ostinato di quello di Candido, tuttavia, vi garantiamo che “Non lasciarmi” di Kazuo Ishiguro lo scuoterà fin dalle fondamenta. Cresciuti nella misteriosa Hailsham House, Kathy, Tommy e Ruth sono incoraggiati a dare sfogo alla propria immaginazione, creare arte e stringere rapporti. Allo stesso tempo, tuttavia, vengono stranamente repressi e separati dal mondo. Non vi diremo altro, tanto siamo sicure che questa cura funzioni e pronte a scommettere il braccio destro che, alla fine del romanzo, non crederete più alla storia del migliore dei mondi possibili.

Bugiardino

Non credo di aver mai messo mano a scritti di Voltaire, mentre molto ho letto di Ishiguro, anche se non molto mi è piaciuto. Certo, poco questo libro, che, in realtà, risulta molto pessimista e poco propositivamente ottimista.

Kazuo Ishiguro “Non lasciarmi” Repubblica Duemila 21 euro 9,90

[pubblicato il 26 aprile 2020]

Continuo ad essere perplesso non della scrittura del premio Nobel, ma di alcune sue scelte espressive, del modo in cui pone ad ambienta i romanzi. Continuo a ritenere “Quel che resta del giorno” un capolavoro assoluto, mentre il secondo che ho letto (“Il gigante sepolto”) non mi ha lasciato una grande impressione. Questo risale decisamente nel gradimento, pur lasciando delle perplessità, che spero siano colmate anche dalle letture delle mie quasi esaurite “libropeute”.

Come spesso accade, ci sono almeno due letture del testo. Una filologica che segue gli avvenimenti, ed una di rimando. Che poi è quella che più mi ha interessato e lasciato pensare. Un rimando sulla finitezza della vita, sulla sensazione, sulla certezza della morte. Ed anche sull’amore, quello che serve comunque a farci sopportare questa vita ed andare avanti.

I protagonisti del romanzo sanno (consciamente o meno) che la loro vita è “finita”, cioè avrà un fine. Ma un conto è essere come noi, e saperlo ma ignorarlo. Un conto è averne la certezza perché si è impostati, perché tutta la propria vita è tesa alla salvezza degli altri ed alla propria morte. Kathy, Tommy e Ruth, diversamente e con diverse sensibilità, attraversano uno spazio finito dei nostri giorni, cercano di capirne il senso (e spesso non ci riusciranno), cercano di usare l’amore e il sesso per esorcizzarne il percorso. Ovvio che solo Kathy, voce narrante del romanzo, riuscirà a capire qualcosa, riuscirà a pensarne le positività, con quella canzone della giovinezza in collegio, che prima l’abbandona (ma credo siano i “tutor” a farla sparire) e poi ritrovarla casualmente. Ed è anche ovvio che la canzone sia “Never let me go” (che aggiunge un “mai” al titolo italiano che secondo modifica il senso della frase). Un “fictional hit” cantato da una improbabile Judy Bridgewater (mix tra Judy Garland e Dee Bridgewater), che serve da rasoio di Occam a Ishiguro.

Quando se ne parlerà, alla fine del romanzo, sembra un testo d’amore, di quello tra Ruth e Tommy o tra Tommy e Kathy. Quando Kathy ci pensa, lo immagina come un inno ad un bambino immaginario che mai non potrà avere, e che, se avesse la ventura di averlo, non vorrebbe che si allontanasse da lei. Ma tornando al testo ed al contesto, quella rimane la domanda di fondo. Quanto saremmo disposti a vivere se sapessimo che abbiamo una “dead line” marcata e quasi riconoscibile? E come affronteremo la vita?

La bravura di Ishiguro è nel rappresentare tutto ciò in maniera di farci pensare, senza mai porre una domanda, una frase, anche un semplice accenno che vada in questa direzione. Perché questo testo affonda in un contesto “altro”, quasi, anzi senz’altro, irreale. Ma possibile. In seguito ad avanzate ricerche mediche, si riesce, nel dopoguerra reale, ad avanzare le tecniche mediche, sino a realizzare dei cloni umani, che verranno utilizzati per effettuare donazioni compatibili a persone malate. Tutto è il contesto è per questi cloni, per come non sanno di esserlo, o lo sanno in maniera trasversa. Di come si dividano in donatori puri ed assistenti degli stessi. Che le donazioni debilitano ed alla fine consumano i cloni, rendendo necessaria la presenza di persone consapevoli che li aiutino, confortino, supportino sino alla fine.

La domanda che viene sottesa allora in questa parte è cosa sia la vita. Cosa sia la coscienza, la creatività, lo sviluppo mentale, più di quello fisico. Le due trame si intrecciano, e si infittiscono a mano a mano che si va avanti nella lettura e nella consapevolezza. Portati per mano dalla scrittura di Ishiguro, che con raffinata abilità, non sbava mai. Non prende mai posizioni decise, ma cerca di spingere il lettore a prendere lui posizione, a porsi lui le domande che i protagonisti del romanzo non fanno mai.

Chiudendo gli occhi, ci immaginiamo l’esistenza di Kathy, e dei suoi sodali, ognuno con il suo brandello di verità, ognuno andando avanti per una strada che solo noi, esternamente, sappiamo riconoscere. Personalmente, è stata l’idea del contesto che non sono riuscito sempre a seguire, a percorrere, a riconoscere percorribile. La dimentico, e penso a come Tommy sia ingenuo nei suoi sfoghi rabbiosi, di come Ruth sia fuorviata da una sua idea di bene, di come Kathy sia, nel fondo, capace di fare quel salto di qualità interna, ma che non farà mai. Per questo, alla fine, non sale tantissimo nella mia classifica gradimento, pur essendo un libro da leggere. E che mi rimarrà nel cuore per queste sue due domande inespresse.

Che cos’è la morte? E soprattutto, che cos’è la vita?

“Avete avuto una vita migliore di molti di quelli che vi hanno preceduto.” (324)

Conclusioni

Di sicuro, non è un tempo incline all’ottimismo (Gramsci mi scusi), ed io vi consiglierei soltanto, non per ottimismo, ma per la speranza di un futuro migliore, di dedicare del tempo alla lettura di alcune pagine di “Sobrietà” un vecchio libro di Francesco Gesualdi.

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