domenica 7 agosto 2022

Investigazioni - 07 agosto 2022

Di ritorno da un altro, ottimo, viaggio nel Nord Europa, riprendiamo le nostre scritture con alcuni investigatori di diversa natura e provenienza, ed ovviamente resa. In testa a tutti, l’ottimo ispettore Morse di Colin Dexter (anche se sono racconti). Purtroppo, sempre più in calo il tenente Martin Bora dell’italo americana Ben Pastor. Così come, e me ne dispiace che mi era sempre piaciuto, l’ispettore Llob di Yasmina Khadra. E non mi ha convinto il nuovo entrato, il commissario Courrèges di Martin Walker. Così, speriamo di poter introdurre un buon agosto.

Ben Pastor “La canzone del cavaliere” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12 euro)

[A: 13/09/2019 – I: 06/11/2021 – T: 09/11/2021] - && e ½

[tit. or.: The Horseman’ Song; ling. or.: inglese; pagine: 481; anno 2003]

BORA01

Riprendiamo, dopo un paio di anni, le letture della saga del “nazista poco convinto”, Martin-Heinz Douglas Wilhelm Friederick von Bora, familiarmente indicato come Martin Bora. Lo facciamo con quella che, cronologicamente, è la prima avventura in ordine temporale delle azioni di Martin, anche se, dal punto di vista della scrittura, risulta essere la quarta.

Un tassello importante, nella lettura e nella scrittura, anche se il risultato finale mi rimane un po’ al di sotto delle aspettative. Perché a queste avventure spesso farà riferimento Martin in azioni che si svolgeranno più avanti nel tempo. Con quella profezia che rimane sospesa e su cui torneremo. E con una caratteristica che da questo libro diventa fondante per comprendere il carattere di Martin. La sua dedizione alla scrittura, con quegli intarsi diaristici che saranno sempre più un contraltare delle azioni descritte.

Sempre per completezza e casualità, ne parlo a pochi giorni da quello che sarebbe il 108° compleanno di Martin, risultandoci nato l’11 novembre 1913. Mentre l’azione del romanzo si svolge nell’estate che porterà al ventiquattresimo compleanno del nostro, visto che siamo nel 1937, ed in Spagna.

Martin, figlio di una donna inglese (da cui prende il nome Douglas) e di un direttore d’orchestra tedesco, morto quando il piccolo ha solo sei mesi, vivrà a lungo con il patrigno, che sposa la madre quando lui ha quattro anni. Dopo un promettente inizio di studi, con laurea in filosofia, inaspettatamente (almeno per ora poi si saprà meglio) decide la carriera militare. In concomitanza con le Olimpiadi di Berlino, cui doveva partecipare nell’equitazione, ma l’addestramento lo porta lontano. Inoltre, parlando Martin diverse lingue (tedesco e inglese per nascita, greco e latino per gli studi classici, e poi francese, italiano e spagnolo), viene subito preso nell’Intelligence Militare tedesca, per la quale la sua prima missione sarà proprio in Spagna.

Qui dunque lo incontriamo, reduce dall’addestramento in Marocco, partecipare alla Guerra Civile, militando nel Tercio de Extranjeros, a fianco dei franchisti. Non c’è molta azione militare nel romanzo, che vediamo contrapposti la Legione Spagnola da un lato ed un battaglione di anarchici e comunisti dall’altro, senza un vero ingaggio militare. Sono lì che mantengono le postazioni, ogni tanto sparano, ogni tanto qualcuno muore (ma in maniera isolata).

Ora fin qui tutto più o meno bene, anche se la scrittrice ci fornisce qualche tocco di colore. Sia nell’arroganza dei militari spagnoli (esemplificati dal colonnello Serrano), sia nel crogiolo di destini e velleità incrociate che sottacciono alle formazioni civili (o para-militari). Quest’ultime sono un po’ colpite dagli strali della scrittura, così che risultano “negativizzate”: persone diverse, unite da ideali che non escono fuori, con un commissario del popolo di matrice russa (molto antipatico) ed un ergastolano che si fa anarchico, ma anche lui tratteggiato in negativo.

Fin qui sarebbe tutto in linea con gli altri scritti di Pastor, e con le (alterne) vicende di Martin. Ma qui, la scrittrice decide di inserire un elemento storico, controverso e poco dimostrabile. Legato alla morte, anzi all’assassinio di Federico Garcia Lorca. Secondo le fonti storiche, Lorca fu arrestato a Granada nel 1936, e fucilato dopo un processo sommario. Il problema che ha attanagliato da sempre gli storici è il non aver mai rinvenuto il corpo del poeta. Allora, Pastor decide di imbastire un’improbabile vicenda ucronica. Sono i Servizi Segreti tedeschi che liberano Lorca prima della morte, così che il poeta ha un altro anno di vita, rifugiatosi in Aragona, a Teruel. Tedeschi che vogliono usare Lorca per dare falsi messaggi ai Repubblicani.

Tutto il romanzo, quindi, si impernia sul ritrovamento del cadavere di Lorca da parte di Martin, sulle indagini che il nostro conduce per scoprire l’assassino (o gli assassini) del poeta, sul contatto tra Martin e Philip, capo dei Repubblicani, anche lui alla ricerca della soluzione del mistero. Il tutto condito da poesie di Lorca, inni probabili per i Repubblicani, spionaggi spagnoli e tedeschi che si ostacolano, ed altre amene invenzioni, di una rara improbabilità.

Se ci estraniamo dal contesto, e lo vediamo con un “noir”, alla fine Martin risolve il problema facendo unire tutti i pezzi del rompicapo. Avendo un incontro-scontro sia con il colonnello Serrano (che lo ostacola in tutti i modi) sia con il ribelle Philip. Ma tutta la costruzione intorno alla vicenda “Lorca” è molto povera di coinvolgimento. Non riesce il testo a convincerci che sia possibile un tale sviluppo.

Riamane, e l’ho lasciata alla fine, la figura di Remedios, la donna contesa da Philip e Martin, che non sceglie nessuno dei due, essendo “la bruja”, e quindi volendo altro. Certo, si capisce che Martin è più sulle sue corde. Ed a Martin rimarrà nel cuore, anche quando sposerà Dikta (ma di questo ho già detto altrove), per questo gli darà la profezia che accompagnerà il nostro per tutta la saga. Gli dirà “sette”. Su questo numero, Martin farà voli pindarici a non finire. Morirà tra sette giorni (falso in questo libro), tra sette mesi (falso nei vari libri della serie), tra sette anni (misterioso, che è vero, per ora, le storie terminano nel 1944, ma in un romanzo c’è un’appendice che non vi dico, e che ci fa ipotizzare un altro significato; ma se ne parlerà a suo tempo).

Non dispiace la scrittura di Pastor, anche perché siamo ancora agli inizi, ed a volte le ultime prove risultano un po’ incartatesi su sé stesse. Peccato la scelta del “lato storico”, che mi ha fatto disamorare subito del testo, senza riuscire più a rientrarne nelle corde.

Ben Pastor “La Sinagoga degli zingari” Sellerio s.p. (regalo di Raul&Vivi)

[A: 02/11/2021 – I: 01/03/2022 – T: 04/03/2022] - && --

[tit. or.: The Gypsy Synagogue; ling. or.: inglese; pagine: 659; anno 2021]

BORA07

Peccato che, progredendo nella scrittura (e questo è l’ultimo volume scritto dall’autrice) le vicende dell’eponimo “eroe” diventano ingarbugliate, tristi, e magari parlano di altro. Pur essendo quindi il tredicesimo volume, come cronologia si piazza in settima posizione, dato che l’autrice (ricordo che Ben è diminutivo dell’italo americana Verbena) va riempiendo i buchi temporali delle storie di Martin Bora. Con questo episodio copriamo gli episodi della Guerra in terra russa, dall’agosto del ‘42 al marzo del ‘43, e riprende aggiungendoci 600 pagine il racconto uscito 10 anni prima dal titolo “Il giaciglio d’acciaio”.

Non torno sulla storia completa di Martin Bora, cui forse dedicherò una scrittura puntuale, ricordo solo che, nelle sue storie, ci sono sempre due componenti: una vicenda gialla (o comunque un “mistero”) ed un progredire nell’analisi di un personaggio, militare convinto ma nazista riluttante (o forse poco o nulla politicizzato). Intreccio che nei primi libri usciti era ben equilibrato, mentre in questi ultimi si va sempre più deteriorando, restringendo a poco a poco i margini della parte “thriller”.

Qui ci si muove in terra russa, durante le due grandi operazioni offensiva e controffensiva denominate “Operazione Barbarossa” e “Operazione Urano”. La parte investigativa di finzione ruota intorno alla scomparsa di due scienziati rumeni, improbabili depositari di una formula per la produzione di carburante sintetico, elemento che avrebbe potuto sovvertire le sorti del conflitto. Sulle loro tracce, arrivandone all’eliminazione, si muovono tutte le forze in campo.

I rumeni che li vogliono indietro, ipotizzando che i due abbiano contrattato compensi illegali da altre forze in campo. Un colonnello ungherese, che li ritiene responsabili del suo deferimento per crimini perpetrati a Bucarest dal suo comando. Gli italiani, che li tengono d’occhio fin dai loro lavori in patria attraverso i Servizi Segreti, volendo anche loro avvantaggiarsi della scoperta ipotizzata. I tedeschi, con i quali i due avevano contrattato un grosso pagamento. I russi, infine, che, essendo convinti dell’inutilità della formula, vogliono toglierli di mezzi per far restare i nemici invasori con un palmo di naso.

Tutta la storia comincia nell’agosto del ’42, Bora viene coinvolto in quanto, anche, facente parte dei Servizi Militari germanici. E tra una ricerca e l’altra, tra un arresto ed un interrogatorio, Bora, benché solo molti mesi dopo, troverà la spiegazione ed i colpevoli.

Nel mezzo, abbiamo tutta la storia dell’avanzata tedesca dal Don verso il Volga, per occupare Stalingrado, e poi la controffensiva russa per accerchiare i tedeschi. Di certo, Pastor è ben documentata, presenta con realismo soprattutto le gerarchie tedesche, in primo piano con il generale Friedrich Paulus, ma anche con altre gerarchie e riferimenti storici (ad esempio, con il conducator rumeno Ion Antonescu o il generale tedesco Alexander von Hartmann).

Quello che interessa Pastor è rimandarci il clima di guerra, con tutte le fatiche ed i piccoli eroismi che vi sono stati vissuti. Ed è un leggere pesante in questi giorni dove, quasi sulle stesse porzioni di terra si svolgono combattimenti e morti. Ma, seppur ne capiamo i motivi, tutto il testo ne risulta fuorviato. Se voglio leggere della battaglia di Stalingrado, magari ne leggo da uno storico. Qui ci si aspetta che il luogo delle azioni sia un inciso nella vicenda globale. Anche se capiamo i motivi di Pastor per far risaltare al meglio la vicenda di Martin-Heinz Douglas Wilhelm Friederick von Bora, e del suo progressivo allontanamento dagli ideali teutonici (come abbiamo già visto in romanzi precedenti).

La storia di finzione che ci interessa si poteva trattare in cento – centocinquanta pagine. Magari aggiungendo qualche elemento psicologico interessante. Come il rapporto tra Bora ed il maggiore italiano Amerigo Galvani. E poco altro. Alla fine, il risultato è molto insoddisfacente.

Storia nella storia, ci sono alcuni riferimenti alle vicende familiari di Bora. In particolare, ad un lungo viaggio in Russia intrapreso dal padre naturale di Martin, il direttore d’orchestra Frederick Bora, alla ricerca di mescolare musica “alta” e canti popolari. Viaggio intrapreso con una sua amante russa. Nel viaggio, incontra, si unisce, diventa sodale (non si capisce bene) di un gruppo musicale ben noto all’epoca, denominato “il gruppo dei Cinque”. Secondo la storiografia accreditata, si formarono sotto la guida di Milij Alekseevič Balakirev (un allievo di Nikolaj Rimskij-Korsakov) e comprendeva Cezar' Kjui, Aleksandr Serov, Vladimir Stasov ed Aleksandr Dargomyžskij. Pastor ne riferisce utilizzando i primi tre, ed aggiungendovi altri due compositori minori Aleksandr Konstantinovič Glazunov e Michail Michajlovič Ippolitov-Ivanov. E ce ne domandiamo il motivo.

Ma questa storia diciamo “personale”, serve ad introdurre la composizione composta dal padre, insieme ai Cinque, ed intitolata “La Sinagoga degli Zingari”. Che, non so per quale iperbole narrativa, Pastor trasferisce nel titolo. Ora, Bora, a volte ha degli incubi in cui vede una sinagoga, pensa alla musica ed altri voli vari. Ma né la sinagoga né gli zingari entrano nella narrazione con un qualche peso specifico. Vorrei proprio capirne allora le motivazioni.

Forse che un accenno a problematiche ebraiche e di sterminio delle minoranze, zingari compresi, può rendere il testo più ricercabile, più vendibile? Non so, a me è sembrato un titolo sbagliato, per un testo, fondamentalmente, sbagliato anch’esso.

Dovrò recuperare i due testi mancanti alle mie storie di Martin Bora, prima di darne un giudizio definitivo. Qui, in ogni caso, non è andata molto bene.

“Dobbiamo guardare a lungo prima di vedere (da H.D. Thoreau).” (101)

“Da vecchi … hanno la macabra curiosità di sapere chi fra i loro conoscenti è morto o sta per morire. La morte di un altro conferma che loro sono ancora vivi, se non vegeti.” (572)

Colin Dexter “Il più grande mistero di Morse e altre storie” Sellerio s.p. (regalo di Raul&Vivi)

[A: 22/11/2021 – I: 04/03/2022 – T: 06/03/2022] - &&& +

[tit. or.: Morse’s Greatest Mystery and Other Stories; ling. or.: inglese; pagine: 215; anno 1993]

Pensavo che il più grande mistero di Morse fosse svelarci il significato del suo nome, che viene sempre presentato dall’autore come ispettore capo E. Morse. Ma non è ancora qui che si svela il mistero. Ma si svelano altre cose, per cui andiamo con ordine, ricominciando.

Sottolineando, innanzi tutto, che, benché come molti sanno, personalmente non ho una grande attrazione per i racconti, devo dire che qui Dexter riesce, anche nei corti, a creare attenzione, interesse nella trama, nei suoi sviluppi, e nelle trappole che l’esimio autore nonché grande enigmista cosparge i suoi scritti.

La ricerca di questi giochi, l’attenzione agli indizi cosparsi nel testo, è uno dei giochi intellettuali che mi hanno fatto innamorare di Morse. Intanto, il cognome del personaggio viene dal grande rivale di Dexter nella redazione dei cruciverba per il Times, Jeremy Morse. Nonché, l’assistente dell’ispettore, Lewis, è così chiamato da un’altra risolutrice di parole crociate, Barbara Lewis.

Altro dato straniante. È vero che abbiamo una coppia di detective, appunto Morse e Lewis. Ma non sono repliche tarde di coppie come Holmes e Watson, o Wolfe e Goodwin, tanto per citarne alcune. Morse è una sorta di detective gentiluomo, scapolo, abbastanza colto, seppur non supera l’esame per il titolo accademico all’Università di Oxford, come il poeta da lui amato ed ammirato Alfred Edward Housman (ci torneremo più avanti). Amante dell’opera, ed anche lui solutore dei cruciverba dei giornali inglesi, implacabile scopritore di errori di ortografia in scritti ed altri elementi pertinenti alla soluzione dei casi. Mentre Lewis è sposato, viene dal popolo, ed è gallese. Lewis cerca sempre di risolvere lui i casi, ma in genere le sue elucubrazioni servono a fornire a Morse le basi per la sua soluzione.

Soluzione dei casi che non sempre, specie nei racconti, è sempre interamente spiegata (manca lo spazio), ma è sempre indicata. Se non altro, la si capisce in ogni caso. Altro vezzo di Dexter è mettere citazioni in ex ergo ai capitoli, con evidenti intenti di indirizzare la mente del lettore. Laddove non ne trovi a suo gusto, si è inventato un esimio storico settecentesco, Diogenes Small. Quando tutto manca, sarà sempre presente un cenno a Diogene.

Andiamo allora a volo di uccello tra i vari testi presenti, anche senza entrare troppo in dettaglio nelle trame, magari cercando solo di capirne i metodi di scrittura e di analisi.

Cominciamo allora con “Il più grande mistero di Morse” [1987 Morse’s Greatest Mystery] dove per risolvere un furto ci addentriamo nella scoperta sulla natura (vera o falsa?) della taccagneria di Morse.

Ne “La sparizione del Dodo” [1991 Dead as a Dodo], Morse si cimenta sulla sparizione di una persona avvenuta molti anni prima. Girando intorno al nome della persona, Dodo, come il famoso uccello delle isole Mauritius, estinto nel XVII secolo. Anche qui, con una giocoleria basata su nomi, inziali e musica classica.

Non ci allontaniamo dalla musica nella “Ronda di quartiere” [1992 Neighbourhood Watch]. Morse e Lewis si appostano per risolvere un problema di rapine, segnalato da un suo conoscente. Morse si incaponisce sugli errori ortografici di un biglietto teatrale per l’opera wagneriana e deve cedere le armi a qualcuno più intelligente di lui.

Il più riuscito è senz’altro “Una storia privata” [1993 The Inside story], dove si indaga su di una morte. Dove la soluzione viene prima instradata da una citazione di Diogenes Small (vedi sopra), e incistata dall’utilizzo di una parola di certo poco usuale (quanti sanno il significato di “steatopigio”?). Ma il maggior divertimento è l’uso di un racconto nel racconto (la storia interna del titolo), quasi a costruire una matrioska di testi narrativi.

Anche “L’ultima chiamata” [1993 Last Call] ruota intorno ad una morte, che più di uno potrebbe aver voluto, che pochi avrebbero potuto realizzare, all’interno di una complicata sequenza di telefonate.

L’ultimo testo è quasi fuori contesto. Infatti, “Vale oro” [1994 As Good as Gold], come dice la data, è posteriore all’uscita in volume dei racconti (del ’93) ed aggiunto in una seconda edizione. Anche l’intreccio è poco coinvolgente, dove tutto ruota sull’arresto di un presunto terrorista e sulla difficoltà di incastrarlo con le prove accumulate. Morse inventerà un castello di azioni, e cercheremo di capire sia quali sia se siano realmente utili.

Un appunto per riprendere un elemento citato all’inizio. In un racconto, viene citata una poesia di Housman, autore caro a Morse. Ora, non solo lo stesso Housman è il protagonista di una commedia da me tramata or non è molto scritta da Tom Stoppard (“L’invenzione dell’amore”), ma la citazione risulta inviata dall’amante di una protagonista il 7 maggio 1992. No comment.

Il volume, infine, è corredato da una divertente nota di Marco Malvaldi che si aggira sulle trappole verbali di Dexter, anche se aggiunge poco al disvelamento dei meccanismi dexteriani.

Yasmina Khadra “Il pazzo col bisturi” Repubblica Emozione Noir 25 euro 7,90

[A: 02/12/2019 – I: 11/05/2022 – T: 12/05/2022] - && e ½

[tit. or.: Le Dingue au bistouri; ling. or.: francese; pagine: 150; anno 1990]

Credo, a memoria, sia il primo libro che l’algerino Khadra dedica alle inchieste ed alla vita dell’ispettore Llob. Prima di parlare dell’autore, sottolineo che questo libro, del ’90, solo cinque anni fa è stato pubblicato in Italia, e solo due anni dopo, grazie alle iniziative di Repubblica, ha avuto uno spazio più consono.

Per chi non avesse seguito le vicende del mondo arabo, cominciamo a dire che l’autore si firma con questo pseudonimo femminile, ma è un ex-comandante delle Forze Armate algerine (ex ora ma in carica al tempo della scrittura) di vero nome Mohammed Moulessehoul. Dopo alcune prove, ben viste dalla critica ma di scarso respiro, con questo libro, che riveste un indubbio interesse storico e filologico, pone mano ad una disamina critica del mondo algerino, non ancora investito dalla crisi della guerra civile che scoppierà da lì ad un anno, ma già pervaso da sentimenti e moti di rivolta verso il potere ed a favore di una rivincita religiosa.

Essendo un militare, quindi impossibilitato, per la struttura politica algerina, di esporsi con critiche esplicite, Moulessehoul decide di usare uno pseudonimo per i suoi scritti, adottando i due nomi di sua moglie per pubblicare. Creando comunque una confusione, o meglio la creò il suo editore. Pensando, infatti, che Yamina (il vero nome di sua moglie) fosse sbagliato, aggiunse una “s” (pensando che così potesse essere interpretato il nome, che, tradotto, significherebbe “Gelsomino Verde”; in realtà, la moglie era Yamina che significa “persona giusta” e Khadra per l’appunto verde in onore del colore simbolo dell’islam).

La confusione così creata permise al nostro di passare un decennio da scrittore, prima di dimettersi dall’esercito, andare a vivere in Francia e confessare, nel 2001, la sua vera identità.

Tornando al testo, questo, come detto, è la prima uscita delle storie del commissario Llob (che alla fine saranno sei), ma che toccheranno l’apice con quello che è noto come “Quartetto algerino” (di cui ho scritto più di dieci anni fa). Qui si sente l’immaturità, la difficoltà ad avere una propria strada, un percorso “duro e puro” come avverrà più avanti. Per intanto, facciamo la conoscenza con Llob ed il suo mondo. Lui, commissario di capacità, sempre messo in un angolo perché non si piega alla corruzione imperante. Tipico l’episodio in cui viene “costretto” a non perseguire il figlio di un riccone che, ubriaco, ha messo sotto ed ucciso con la sua macchina tre ragazzi. Vediamo il suo secondo, Lino, giovane algerino tipico, un po’ classico, un po’ alla ricerca di modi più occidentali di vita. Vediamo il tronfio e corretto capo della polizia, nonché alcuni poliziotti di contorno, solo un po’ abbozzati (e siamo d’accordo con l’autore, che avrebbe portato ad allungare inutilmente il testo). Scorriamo i figli di Llob, poco interessanti, e diamo uno sguardo più profondo a Mina, la moglie, intelligente, fedele, innamorata ancora dopo quasi trent’anni di matrimonio.

In questo primo episodio, la componente poliziesca, pur presente, non è l’asse portante del discorso. C’è un “pazzo” (e metto non a caso le virgolette) che commette una serie di omicidi, squartando le vittime con un bisturi e prelevandone il cuore. Ha il vezzo di chiamare, subito prima di ogni omicidio, proprio Llob, e non se ne comprende il motivo. Forse perché Llob è integerrimo nella professione, e forse perché, inconsciamente, vuole essere fermato.

Poiché non cava un ragno dal buco, Llob viene prima rimosso, poi reintegrato a forza che sembra l’unico ad avere un filo diretto con il maniaco. Alla fine, collegando le storie dei morti (tutti molto tempo prima legati a strutture ospedaliere) nonché fortuitamente scoprendo che il tizio perse moglie e figlio in un parto mal gestito, Llob arriverà faticosamente alla risoluzione del caso. Anche se il finale è forse un po’ affrettato.

Quello che interessa maggiormente allo scrittore è denunciare la situazione algerina agli inizi degli anni ’90. Dove i giovani non hanno aspirazioni (e presto saranno presi dagli estremisti islamici nei movimenti religiosi), dove non c’è lavoro, dove si va avanti solo se supini al potere e moderatamente corrotti. Descrizioni che Khadra fa con una punta di ironia e disincanto che riesce ad essere la parte migliore del testo.

Un testo, tra l’altro, pieno di riferimenti al mondo arabo, con una chicca in cui, parlando di scrittori e di scrittura, trova il modo di citare il suo vero nome come un esempio di espressione letteraria da seguire (a pagina 16).

Ultima notazione: ho letto molte critiche che, interpretando questo scritto avulso dalla data di scrittura, lamentavano la diversità con altre opere di Khadra, ipotizzando che questo fosse successivo, ad esempio, a “Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini”. Forse l’autore e la sua produzione meritano una maggiore attenzione.

“Condividi le gioie e tieni per te le tue pene.” (82)

Martin Walker “Grand Prix. Delitto doc per il commissario Courrèges” Repubblica Passione Noir 20 euro 7,90

[A: 01/11/2018 – I: 01/06/2022 – T: 02/06/2022] - &&--

[tit. or.: Fatal Pursuit. A Bruno, Chief of Police Novel; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 2016]

Strano tipo, lo scrittore scozzese Martin Walker. Giornalista giramondo, a sessant’anni decide di volgere la sua scrittura (anche) alla letteratura, inventandosi un (abbastanza) simpatico ispettore di polizia (o simile carica), però francese. Anche perché, finite le missioni e gli articoli per il New York Times, divide la sua vita tra Washington e la regione francese del Périgord. Ed è in quest’ultima che ambienta il suo personaggio, il capo della polizia locale Benoît "Brunò" Courrèges, cuoco di talento ed ex soldato ferito durante una missione di mantenimento della pace nei Balcani, che tornerà in numerosi suoi romanzi, dopo il primo che pubblica nel 2008.

Poco noto e poco tradotto in Italia, questo è il nono libro della serie, anche se ormai è arrivato a pubblicarne quattordici. Il che, quando ne leggiamo, ci lascia dei buchi di racconto, che incontriamo personaggi che hanno avuto peso nei romanzi precedenti, e che qui si muovono, con naturalezza, secondo la penna di Walker, lasciandoci tuttavia dubbi su cosa hanno fatto, su come ci si debbano presentare. Amici, nemici o neutri?

Ma facciamo un passo indietro e cominciamo dal titolo. Laddove al solito mi domando perché un inseguimento fatale possa trasformarsi in un gran premio. Dato anche che l’unica corsa reale di tutto il libro è una brevissima seppur intensa prova speciale di un rally. Ed anche se è vero, e ci torneremo, che molto della trama “noir” deriva da corse automobilistiche e relative automobili, il vero dell’inchiesta di Bruno è l’inseguimento di un fantasma, di una macchina bellissima e scomparsa, una Bugatti d’anteguerra. Inseguimento, cioè ricerca, che sarà per l’appunto fatale ad alcuni personaggi.

Ecco, siamo ai personaggi. Ci si perde un po’, ma ricostruendo nel piccolo villaggio di Saint-Denis, teatro delle vicende di Bruno, ci sono Hector, il suo cavallo, e Balzac, il suo bassethound. Pamela, ex-fidanzata di Bruno ed ora proprietaria di un maneggio. E poi ci sono una pletora di donne, Annette, Fabiola, Isabelle (che ha avuto una storia con Bruno, ma non è andata bene), Martine (che forse avrà una storia con Bruno e potrebbe andare meglio). Aggiungiamoci sindaci, giornalisti, aiuto ispettori ed abbiamo un teatro in cui ci perdiamo alla terza pagina.

Il nodo centrale, invece, sembra essere la ricerca di una mitica macchina, la Bugatti Type 57 Coupé Atlantic, un tipo di vettura prodotto in soli 4 esemplari, di cui due in essere, uno distrutto in un incidente ed uno perso durante la Seconda Guerra Mondiale. Al suo inseguimento si pone una strana coppia di rivenditori di automobili, il francese Sylvestre ed il suo sodale Freddy che si dice indiano; invece, è arabo e si chiama Farid, e l’inglese Young appassionato di automobili che, fin dall’inizio ha strani comportamenti.

La scena si complica con la morte di un ricercatore locale, che si scopre avvelenato dal cianuro. Poi dalle iniziative di Isabelle, che, da capo dell’Eurojust, sta imbastendo una rete di controlli per mettere fine ad un ricco giro di riciclaggio di denaro, forse facente capo a Farid. Inoltre, Sylvestre si scopre essere proprietario di una specie di casolare, inagibile perché contornato della proprietà di un suo cugino con il quale è in lite da decenni. Cugino che ha una bella figliola, Martine, che viene in quel di Saint-Denis per ipotizzare una futura corsa di vetture elettriche, sponsorizzabili come la corsa di Lascaux, dalle vicine grotte omonime.

Inoltre, c’è un simpatico ragazzino, Felix, che Bruno salva dalle grinfie di un suo collega bullizzatore. E sarà proprio Felix che troverà il bandolo della Bugatti scomparsa, non prima che Sylvestre ci lascerà le penne e che Farid, prima di essere arrestato da Isabelle, fuggirà in giro per l’Europa.

Alla fine, Bruno ricapitolerà i fatti e metterà tutti i puntini al loro posto. Ma la storia è lenta, la suspense quasi nulla, gli unici elementi di interesse sono le mangiate che si fanno nel Périgord e la storia delle Bugatti.

Per le prime vi lascio sfogliare le pagine del libro, se vi interessa, rimarcando solo che ad un certo punto si definisce un suntuoso piatto belga, il “waterzooi” come stufato di pollo, cosa che mi sembra un po’ riduttivo.

Per la Bugatti, invece, si tira fuori la storia di due piloti automobilistici, della scuderia Bugatti. William Grover-Williams, ricordato negli annali come il primo vincitore del Gran Premio automobilistico di Montecarlo nel 1929, e di Robert Benoist (che nel libro viene inopinatamente chiamato Benoît) vincitore con la Bugatti della 24 ore di Le Mans del 1937. I due divennero partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale, ma furono arrestati e morirono nei campi di concentramento tedeschi. La storia delle automobili, che Walker alla fine confessa essere stata il motore della sua scrittura, è in effetti la parte più intrigante, che consente di risalire ad un romanzo che, preso a sé, stava scivolando verso un’inesorabile bocciatura. Ed anche così, non risale poi di tanto.

“L’amore è come il cibo: cambia a seconda dei tempi di cottura.” (42)

“È nella pigrizia che nasce il genio perché le persone intelligenti cercano il modo più semplice di fare le cose.” (207)

Come i miei storici lettori sanno, la prima trama del mese viene condita con l’elenco dei libri letti tre mesi prima, cioè i 18 del mese di maggio. Un mese dalla media insolitamente alta, con due ottimi libri “non-Maigret” di Simenon ed uno Sciascia d’annata. Nella parte opposta della scala, il pamphlet giornalistico del poco gradevole Alfonso Berardinelli e l’inutile thriller di Claire Douglas.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Riccardo Finelli

Destinazione Santiago

Pickwick

s.p.

3

2

Simonetta Agnello Hornby

Boccamurata

Corriere Oggi

8,90

2,5

3

Leonardo Sciascia

L’affaire Moro

Repubblica

8,90

4

4

Marco Della Torre

Il testamento del capitano Grandi

Ares

s.p.

2

5

Michael Robotham

L’indiziato

Corriere Thriller

7,90

2

6

Alfonso Berardinelli

Giornalismo culturale

Il Saggiatore

s.p.

1,5

7

Georges Simenon

Senza via di scampo

Repubblica

9,90

4

8

Yasmina Khadra

Il pazzo col bisturi

Repubblica Emozione Noir

7,90

2,5

9

Valérie Perrin

Tre

E/O

s.p.

3

10

Georges Simenon

Il Sorcio

Repubblica

9,90

3

11

Ragnar Jonasson

I giorni del vulcano

Feltrinelli

9,50

3

12

Elio Catania

Confindustria nella Repubblica (1946-1975)

Mimesis

s.p.

2,5

13

Alphonse de Lamartine

Graziella

Nutrimenti

s.p.

3

14

Claire Douglas

Le sorelle

Corriere Thriller

7,90

1,5

15

Roberto Costantini

Da molto lontano

Feltrinelli

13

2,5

16

Patricia Highsmith

Il talento di Mr. Ripley

Corriere Thriller

7,90

3,5

17

Mariolina Venezia

Maltempo

Repubblica Emozione Noir

7,90

2,5

18

Georges Simenon

Corte d’Assise

Repubblica

9,90

4

 

Come detto, si sono passati due mesi viaggianti di ottimo livello, sia il primo portoghese che il secondo islandese. Motivo per cui, ora si passerà un mese di riposo campagnolo. Anche se riposo a metà, che ne sto approfittando per rimettere in ordine la mia biblioteca, impresa che devo dire non è di poca fatica.

Visto che di certo vi mancano un po’ le mie citazioni, ecco che vi invio una frase tratta da “La bambola cinese” di Renata Di Martino: “- Ma parli proprio tu che ti lamenti sempre? – Ma io mi lamento solo con te, per farmi consolare!” (78)

Quindi vi lascio con un grande abbraccio.

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