Ben Pastor “La
canzone del cavaliere” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12 euro)
[A: 13/09/2019 – I: 06/11/2021 – T: 09/11/2021]
- && e ½
[tit. or.: The Horseman’ Song; ling. or.: inglese; pagine: 481; anno 2003]
BORA01
Riprendiamo, dopo un paio di anni, le
letture della saga del “nazista poco convinto”, Martin-Heinz Douglas Wilhelm
Friederick von Bora, familiarmente indicato come Martin Bora. Lo facciamo con
quella che, cronologicamente, è la prima avventura in ordine temporale delle
azioni di Martin, anche se, dal punto di vista della scrittura, risulta essere
la quarta.
Un tassello importante, nella lettura e
nella scrittura, anche se il risultato finale mi rimane un po’ al di sotto delle
aspettative. Perché a queste avventure spesso farà riferimento Martin in azioni
che si svolgeranno più avanti nel tempo. Con quella profezia che rimane sospesa
e su cui torneremo. E con una caratteristica che da questo libro diventa
fondante per comprendere il carattere di Martin. La sua dedizione alla
scrittura, con quegli intarsi diaristici che saranno sempre più un contraltare
delle azioni descritte.
Sempre per completezza e casualità, ne parlo
a pochi giorni da quello che sarebbe il 108° compleanno di Martin, risultandoci
nato l’11 novembre 1913. Mentre l’azione del romanzo si svolge nell’estate che
porterà al ventiquattresimo compleanno del nostro, visto che siamo nel 1937, ed
in Spagna.
Martin, figlio di una donna inglese (da cui
prende il nome Douglas) e di un direttore d’orchestra tedesco, morto quando il
piccolo ha solo sei mesi, vivrà a lungo con il patrigno, che sposa la madre
quando lui ha quattro anni. Dopo un promettente inizio di studi, con laurea in
filosofia, inaspettatamente (almeno per ora poi si saprà meglio) decide la
carriera militare. In concomitanza con le Olimpiadi di Berlino, cui doveva
partecipare nell’equitazione, ma l’addestramento lo porta lontano. Inoltre,
parlando Martin diverse lingue (tedesco e inglese per nascita, greco e latino
per gli studi classici, e poi francese, italiano e spagnolo), viene subito
preso nell’Intelligence Militare tedesca, per la quale la sua prima missione
sarà proprio in Spagna.
Qui dunque lo incontriamo, reduce
dall’addestramento in Marocco, partecipare alla Guerra Civile, militando nel
Tercio de Extranjeros, a fianco dei franchisti. Non c’è molta azione militare
nel romanzo, che vediamo contrapposti la Legione Spagnola da un lato ed un
battaglione di anarchici e comunisti dall’altro, senza un vero ingaggio
militare. Sono lì che mantengono le postazioni, ogni tanto sparano, ogni tanto
qualcuno muore (ma in maniera isolata).
Ora fin qui tutto più o meno bene, anche se
la scrittrice ci fornisce qualche tocco di colore. Sia nell’arroganza dei
militari spagnoli (esemplificati dal colonnello Serrano), sia nel crogiolo di
destini e velleità incrociate che sottacciono alle formazioni civili (o
para-militari). Quest’ultime sono un po’ colpite dagli strali della scrittura,
così che risultano “negativizzate”: persone diverse, unite da ideali che non
escono fuori, con un commissario del popolo di matrice russa (molto antipatico)
ed un ergastolano che si fa anarchico, ma anche lui tratteggiato in negativo.
Fin qui sarebbe tutto in linea con gli altri
scritti di Pastor, e con le (alterne) vicende di Martin. Ma qui, la scrittrice
decide di inserire un elemento storico, controverso e poco dimostrabile. Legato
alla morte, anzi all’assassinio di Federico Garcia Lorca. Secondo le fonti
storiche, Lorca fu arrestato a Granada nel 1936, e fucilato dopo un processo
sommario. Il problema che ha attanagliato da sempre gli storici è il non aver
mai rinvenuto il corpo del poeta. Allora, Pastor decide di imbastire
un’improbabile vicenda ucronica. Sono i Servizi Segreti tedeschi che liberano
Lorca prima della morte, così che il poeta ha un altro anno di vita,
rifugiatosi in Aragona, a Teruel. Tedeschi che vogliono usare Lorca per dare
falsi messaggi ai Repubblicani.
Tutto il romanzo, quindi, si impernia sul
ritrovamento del cadavere di Lorca da parte di Martin, sulle indagini che il
nostro conduce per scoprire l’assassino (o gli assassini) del poeta, sul
contatto tra Martin e Philip, capo dei Repubblicani, anche lui alla ricerca
della soluzione del mistero. Il tutto condito da poesie di Lorca, inni
probabili per i Repubblicani, spionaggi spagnoli e tedeschi che si ostacolano,
ed altre amene invenzioni, di una rara improbabilità.
Se ci estraniamo dal contesto, e lo vediamo
con un “noir”, alla fine Martin risolve il problema facendo unire tutti i pezzi
del rompicapo. Avendo un incontro-scontro sia con il colonnello Serrano (che lo
ostacola in tutti i modi) sia con il ribelle Philip. Ma tutta la costruzione
intorno alla vicenda “Lorca” è molto povera di coinvolgimento. Non riesce il
testo a convincerci che sia possibile un tale sviluppo.
Riamane, e l’ho lasciata alla fine, la
figura di Remedios, la donna contesa da Philip e Martin, che non sceglie
nessuno dei due, essendo “la bruja”, e quindi volendo altro. Certo, si capisce
che Martin è più sulle sue corde. Ed a Martin rimarrà nel cuore, anche quando
sposerà Dikta (ma di questo ho già detto altrove), per questo gli darà la
profezia che accompagnerà il nostro per tutta la saga. Gli dirà “sette”. Su
questo numero, Martin farà voli pindarici a non finire. Morirà tra sette giorni
(falso in questo libro), tra sette mesi (falso nei vari libri della serie), tra
sette anni (misterioso, che è vero, per ora, le storie terminano nel 1944, ma
in un romanzo c’è un’appendice che non vi dico, e che ci fa ipotizzare un altro
significato; ma se ne parlerà a suo tempo).
Non dispiace la scrittura di Pastor, anche
perché siamo ancora agli inizi, ed a volte le ultime prove risultano un po’
incartatesi su sé stesse. Peccato la scelta del “lato storico”, che mi ha fatto
disamorare subito del testo, senza riuscire più a rientrarne nelle corde.
Ben
Pastor “La Sinagoga degli zingari” Sellerio s.p. (regalo di Raul&Vivi)
[A: 02/11/2021 – I: 01/03/2022 – T: 04/03/2022]
- && --
[tit. or.: The Gypsy Synagogue; ling. or.: inglese; pagine: 659; anno 2021]
BORA07
Peccato
che, progredendo nella scrittura (e questo è l’ultimo volume scritto
dall’autrice) le vicende dell’eponimo “eroe” diventano ingarbugliate, tristi, e
magari parlano di altro. Pur essendo quindi il tredicesimo volume, come
cronologia si piazza in settima posizione, dato che l’autrice (ricordo che Ben
è diminutivo dell’italo americana Verbena) va riempiendo i buchi temporali
delle storie di Martin Bora. Con questo episodio copriamo gli episodi della
Guerra in terra russa, dall’agosto del ‘42 al marzo del ‘43, e riprende
aggiungendoci 600 pagine il racconto uscito 10 anni prima dal titolo “Il
giaciglio d’acciaio”.
Non
torno sulla storia completa di Martin Bora, cui forse dedicherò una scrittura
puntuale, ricordo solo che, nelle sue storie, ci sono sempre due componenti:
una vicenda gialla (o comunque un “mistero”) ed un progredire nell’analisi di
un personaggio, militare convinto ma nazista riluttante (o forse poco o nulla
politicizzato). Intreccio che nei primi libri usciti era ben equilibrato,
mentre in questi ultimi si va sempre più deteriorando, restringendo a poco a
poco i margini della parte “thriller”.
Qui
ci si muove in terra russa, durante le due grandi operazioni offensiva e
controffensiva denominate “Operazione Barbarossa” e “Operazione Urano”. La
parte investigativa di finzione ruota intorno alla scomparsa di due scienziati
rumeni, improbabili depositari di una formula per la produzione di carburante
sintetico, elemento che avrebbe potuto sovvertire le sorti del conflitto. Sulle
loro tracce, arrivandone all’eliminazione, si muovono tutte le forze in campo.
I
rumeni che li vogliono indietro, ipotizzando che i due abbiano contrattato
compensi illegali da altre forze in campo. Un colonnello ungherese, che li
ritiene responsabili del suo deferimento per crimini perpetrati a Bucarest dal
suo comando. Gli italiani, che li tengono d’occhio fin dai loro lavori in
patria attraverso i Servizi Segreti, volendo anche loro avvantaggiarsi della
scoperta ipotizzata. I tedeschi, con i quali i due avevano contrattato un
grosso pagamento. I russi, infine, che, essendo convinti dell’inutilità della
formula, vogliono toglierli di mezzi per far restare i nemici invasori con un
palmo di naso.
Tutta
la storia comincia nell’agosto del ’42, Bora viene coinvolto in quanto, anche,
facente parte dei Servizi Militari germanici. E tra una ricerca e l’altra, tra
un arresto ed un interrogatorio, Bora, benché solo molti mesi dopo, troverà la
spiegazione ed i colpevoli.
Nel
mezzo, abbiamo tutta la storia dell’avanzata tedesca dal Don verso il Volga,
per occupare Stalingrado, e poi la controffensiva russa per accerchiare i
tedeschi. Di certo, Pastor è ben documentata, presenta con realismo soprattutto
le gerarchie tedesche, in primo piano con il generale Friedrich Paulus, ma
anche con altre gerarchie e riferimenti storici (ad esempio, con il conducator
rumeno Ion Antonescu o il generale tedesco Alexander von Hartmann).
Quello
che interessa Pastor è rimandarci il clima di guerra, con tutte le fatiche ed i
piccoli eroismi che vi sono stati vissuti. Ed è un leggere pesante in questi
giorni dove, quasi sulle stesse porzioni di terra si svolgono combattimenti e
morti. Ma, seppur ne capiamo i motivi, tutto il testo ne risulta fuorviato. Se
voglio leggere della battaglia di Stalingrado, magari ne leggo da uno storico.
Qui ci si aspetta che il luogo delle azioni sia un inciso nella vicenda
globale. Anche se capiamo i motivi di Pastor per far risaltare al meglio la
vicenda di Martin-Heinz Douglas Wilhelm Friederick von Bora, e del suo
progressivo allontanamento dagli ideali teutonici (come abbiamo già visto in
romanzi precedenti).
La
storia di finzione che ci interessa si poteva trattare in cento –
centocinquanta pagine. Magari aggiungendo qualche elemento psicologico
interessante. Come il rapporto tra Bora ed il maggiore italiano Amerigo
Galvani. E poco altro. Alla fine, il risultato è molto insoddisfacente.
Storia
nella storia, ci sono alcuni riferimenti alle vicende familiari di Bora. In particolare,
ad un lungo viaggio in Russia intrapreso dal padre naturale di Martin, il
direttore d’orchestra Frederick Bora, alla ricerca di mescolare musica “alta” e
canti popolari. Viaggio intrapreso con una sua amante russa. Nel viaggio,
incontra, si unisce, diventa sodale (non si capisce bene) di un gruppo musicale
ben noto all’epoca, denominato “il gruppo dei Cinque”. Secondo la storiografia
accreditata, si formarono sotto la guida di Milij Alekseevič Balakirev (un
allievo di Nikolaj Rimskij-Korsakov) e comprendeva Cezar' Kjui,
Aleksandr Serov, Vladimir Stasov ed Aleksandr Dargomyžskij. Pastor ne riferisce
utilizzando i primi tre, ed aggiungendovi altri due compositori minori Aleksandr
Konstantinovič Glazunov e Michail Michajlovič Ippolitov-Ivanov. E ce ne
domandiamo il motivo.
Ma questa storia diciamo “personale”, serve
ad introdurre la composizione composta dal padre, insieme ai Cinque, ed
intitolata “La Sinagoga degli Zingari”. Che, non so per quale iperbole
narrativa, Pastor trasferisce nel titolo. Ora, Bora, a volte ha degli incubi in
cui vede una sinagoga, pensa alla musica ed altri voli vari. Ma né la sinagoga
né gli zingari entrano nella narrazione con un qualche peso specifico. Vorrei
proprio capirne allora le motivazioni.
Forse che un accenno a problematiche
ebraiche e di sterminio delle minoranze, zingari compresi, può rendere il testo
più ricercabile, più vendibile? Non so, a me è sembrato un titolo sbagliato,
per un testo, fondamentalmente, sbagliato anch’esso.
Dovrò recuperare i due testi mancanti alle
mie storie di Martin Bora, prima di darne un giudizio definitivo. Qui, in ogni
caso, non è andata molto bene.
“Dobbiamo
guardare a lungo prima di vedere (da H.D. Thoreau).” (101)
“Da
vecchi … hanno la macabra curiosità di sapere chi fra i loro conoscenti è morto
o sta per morire. La morte di un altro conferma che loro sono ancora vivi, se
non vegeti.” (572)
Colin
Dexter “Il più grande mistero di Morse e altre storie” Sellerio s.p. (regalo di
Raul&Vivi)
[A: 22/11/2021 – I: 04/03/2022 – T:
06/03/2022] - &&& +
[tit. or.: Morse’s Greatest Mystery and Other Stories; ling. or.: inglese; pagine: 215; anno 1993]
Pensavo
che il più grande mistero di Morse fosse svelarci il significato del suo nome,
che viene sempre presentato dall’autore come ispettore capo E. Morse. Ma non è
ancora qui che si svela il mistero. Ma si svelano altre cose, per cui andiamo
con ordine, ricominciando.
Sottolineando,
innanzi tutto, che, benché come molti sanno, personalmente non ho una grande
attrazione per i racconti, devo dire che qui Dexter riesce, anche nei corti, a
creare attenzione, interesse nella trama, nei suoi sviluppi, e nelle trappole
che l’esimio autore nonché grande enigmista cosparge i suoi scritti.
La
ricerca di questi giochi, l’attenzione agli indizi cosparsi nel testo, è uno
dei giochi intellettuali che mi hanno fatto innamorare di Morse. Intanto, il
cognome del personaggio viene dal grande rivale di Dexter nella redazione dei
cruciverba per il Times, Jeremy Morse. Nonché, l’assistente dell’ispettore,
Lewis, è così chiamato da un’altra risolutrice di parole crociate, Barbara
Lewis.
Altro
dato straniante. È vero che abbiamo una coppia di detective, appunto Morse e
Lewis. Ma non sono repliche tarde di coppie come Holmes e Watson, o Wolfe e
Goodwin, tanto per citarne alcune. Morse è una sorta di detective gentiluomo,
scapolo, abbastanza colto, seppur non supera l’esame per il titolo accademico
all’Università di Oxford, come il poeta da lui amato ed ammirato Alfred Edward
Housman (ci torneremo più avanti). Amante dell’opera, ed anche lui solutore dei
cruciverba dei giornali inglesi, implacabile scopritore di errori di ortografia
in scritti ed altri elementi pertinenti alla soluzione dei casi. Mentre Lewis è
sposato, viene dal popolo, ed è gallese. Lewis cerca sempre di risolvere lui i
casi, ma in genere le sue elucubrazioni servono a fornire a Morse le basi per
la sua soluzione.
Soluzione
dei casi che non sempre, specie nei racconti, è sempre interamente spiegata
(manca lo spazio), ma è sempre indicata. Se non altro, la si capisce in ogni
caso. Altro vezzo di Dexter è mettere citazioni in ex ergo ai capitoli, con
evidenti intenti di indirizzare la mente del lettore. Laddove non ne trovi a
suo gusto, si è inventato un esimio storico settecentesco, Diogenes Small.
Quando tutto manca, sarà sempre presente un cenno a Diogene.
Andiamo
allora a volo di uccello tra i vari testi presenti, anche senza entrare troppo
in dettaglio nelle trame, magari cercando solo di capirne i metodi di scrittura
e di analisi.
Cominciamo
allora con “Il più grande mistero di Morse” [1987 Morse’s Greatest Mystery] dove per risolvere un furto ci addentriamo
nella scoperta sulla natura (vera o falsa?) della taccagneria di Morse.
Ne
“La
sparizione del Dodo”
[1991 Dead as a Dodo], Morse si cimenta sulla sparizione di una persona
avvenuta molti anni prima. Girando intorno al nome della persona, Dodo, come il
famoso uccello delle isole Mauritius, estinto nel XVII secolo. Anche qui, con
una giocoleria basata su nomi, inziali e musica classica.
Non
ci allontaniamo dalla musica nella “Ronda di quartiere” [1992 Neighbourhood
Watch]. Morse e Lewis si appostano per risolvere un problema di rapine,
segnalato da un suo conoscente. Morse si incaponisce sugli errori ortografici
di un biglietto teatrale per l’opera wagneriana e deve cedere le armi a
qualcuno più intelligente di lui.
Il
più riuscito è senz’altro “Una storia privata” [1993 The Inside story],
dove si indaga su di una morte. Dove la soluzione viene prima instradata da una
citazione di Diogenes Small (vedi sopra), e incistata dall’utilizzo di una
parola di certo poco usuale (quanti sanno il significato di “steatopigio”?). Ma
il maggior divertimento è l’uso di un racconto nel racconto (la storia interna
del titolo), quasi a costruire una matrioska di testi narrativi.
Anche
“L’ultima chiamata” [1993 Last Call] ruota intorno ad una morte,
che più di uno potrebbe aver voluto, che pochi avrebbero potuto realizzare,
all’interno di una complicata sequenza di telefonate.
L’ultimo
testo è quasi fuori contesto. Infatti, “Vale oro” [1994 As Good as
Gold], come dice la data, è posteriore all’uscita in volume dei racconti
(del ’93) ed aggiunto in una seconda edizione. Anche l’intreccio è poco
coinvolgente, dove tutto ruota sull’arresto di un presunto terrorista e sulla
difficoltà di incastrarlo con le prove accumulate. Morse inventerà un castello
di azioni, e cercheremo di capire sia quali sia se siano realmente utili.
Un
appunto per riprendere un elemento citato all’inizio. In un racconto, viene
citata una poesia di Housman, autore caro a Morse. Ora, non solo lo stesso
Housman è il protagonista di una commedia da me tramata or non è molto scritta
da Tom Stoppard (“L’invenzione dell’amore”), ma la citazione risulta inviata
dall’amante di una protagonista il 7 maggio 1992. No comment.
Il
volume, infine, è corredato da una divertente nota di Marco Malvaldi che si
aggira sulle trappole verbali di Dexter, anche se aggiunge poco al disvelamento
dei meccanismi dexteriani.
Yasmina
Khadra “Il pazzo col bisturi” Repubblica Emozione Noir 25 euro 7,90
[A: 02/12/2019
– I: 11/05/2022 – T: 12/05/2022] - &&
e ½
[tit.
or.: Le Dingue au bistouri; ling. or.: francese; pagine: 150;
anno 1990]
Credo,
a memoria, sia il primo libro che l’algerino Khadra dedica alle inchieste ed
alla vita dell’ispettore Llob. Prima di parlare dell’autore, sottolineo che
questo libro, del ’90, solo cinque anni fa è stato pubblicato in Italia, e solo
due anni dopo, grazie alle iniziative di Repubblica, ha avuto uno spazio più
consono.
Per
chi non avesse seguito le vicende del mondo arabo, cominciamo a dire che
l’autore si firma con questo pseudonimo femminile, ma è un ex-comandante delle
Forze Armate algerine (ex ora ma in carica al tempo della scrittura) di vero
nome Mohammed Moulessehoul. Dopo alcune prove, ben viste dalla critica ma di
scarso respiro, con questo libro, che riveste un indubbio interesse storico e
filologico, pone mano ad una disamina critica del mondo algerino, non ancora
investito dalla crisi della guerra civile che scoppierà da lì ad un anno, ma
già pervaso da sentimenti e moti di rivolta verso il potere ed a favore di una
rivincita religiosa.
Essendo
un militare, quindi impossibilitato, per la struttura politica algerina, di
esporsi con critiche esplicite, Moulessehoul decide di usare uno pseudonimo per
i suoi scritti, adottando i due nomi di sua moglie per pubblicare. Creando
comunque una confusione, o meglio la creò il suo editore. Pensando, infatti,
che Yamina (il vero nome di sua moglie) fosse sbagliato, aggiunse una “s”
(pensando che così potesse essere interpretato il nome, che, tradotto,
significherebbe “Gelsomino Verde”; in realtà, la moglie era Yamina che
significa “persona giusta” e Khadra per l’appunto verde in onore del colore
simbolo dell’islam).
La
confusione così creata permise al nostro di passare un decennio da scrittore,
prima di dimettersi dall’esercito, andare a vivere in Francia e confessare, nel
2001, la sua vera identità.
Tornando
al testo, questo, come detto, è la prima uscita delle storie del commissario
Llob (che alla fine saranno sei), ma che toccheranno l’apice con quello che è
noto come “Quartetto algerino” (di cui ho scritto più di dieci anni fa). Qui si
sente l’immaturità, la difficoltà ad avere una propria strada, un percorso
“duro e puro” come avverrà più avanti. Per intanto, facciamo la conoscenza con
Llob ed il suo mondo. Lui, commissario di capacità, sempre messo in un angolo
perché non si piega alla corruzione imperante. Tipico l’episodio in cui viene “costretto”
a non perseguire il figlio di un riccone che, ubriaco, ha messo sotto ed ucciso
con la sua macchina tre ragazzi. Vediamo il suo secondo, Lino, giovane algerino
tipico, un po’ classico, un po’ alla ricerca di modi più occidentali di vita.
Vediamo il tronfio e corretto capo della polizia, nonché alcuni poliziotti di
contorno, solo un po’ abbozzati (e siamo d’accordo con l’autore, che avrebbe
portato ad allungare inutilmente il testo). Scorriamo i figli di Llob, poco
interessanti, e diamo uno sguardo più profondo a Mina, la moglie, intelligente,
fedele, innamorata ancora dopo quasi trent’anni di matrimonio.
In
questo primo episodio, la componente poliziesca, pur presente, non è l’asse
portante del discorso. C’è un “pazzo” (e metto non a caso le virgolette) che
commette una serie di omicidi, squartando le vittime con un bisturi e
prelevandone il cuore. Ha il vezzo di chiamare, subito prima di ogni omicidio,
proprio Llob, e non se ne comprende il motivo. Forse perché Llob è integerrimo
nella professione, e forse perché, inconsciamente, vuole essere fermato.
Poiché
non cava un ragno dal buco, Llob viene prima rimosso, poi reintegrato a forza
che sembra l’unico ad avere un filo diretto con il maniaco. Alla fine,
collegando le storie dei morti (tutti molto tempo prima legati a strutture
ospedaliere) nonché fortuitamente scoprendo che il tizio perse moglie e figlio
in un parto mal gestito, Llob arriverà faticosamente alla risoluzione del caso.
Anche se il finale è forse un po’ affrettato.
Quello
che interessa maggiormente allo scrittore è denunciare la situazione algerina
agli inizi degli anni ’90. Dove i giovani non hanno aspirazioni (e presto
saranno presi dagli estremisti islamici nei movimenti religiosi), dove non c’è
lavoro, dove si va avanti solo se supini al potere e moderatamente corrotti.
Descrizioni che Khadra fa con una punta di ironia e disincanto che riesce ad
essere la parte migliore del testo.
Un
testo, tra l’altro, pieno di riferimenti al mondo arabo, con una chicca in cui,
parlando di scrittori e di scrittura, trova il modo di citare il suo vero nome
come un esempio di espressione letteraria da seguire (a pagina 16).
Ultima
notazione: ho letto molte critiche che, interpretando questo scritto avulso
dalla data di scrittura, lamentavano la diversità con altre opere di Khadra,
ipotizzando che questo fosse successivo, ad esempio, a “Cosa aspettano le
scimmie a diventare uomini”. Forse l’autore e la sua produzione meritano una
maggiore attenzione.
“Condividi
le gioie e tieni per te le tue pene.” (82)
Martin
Walker “Grand Prix. Delitto doc per il commissario Courrèges” Repubblica
Passione Noir 20 euro 7,90
[A: 01/11/2018 – I: 01/06/2022 – T:
02/06/2022] - &&--
[tit. or.: Fatal Pursuit. A Bruno, Chief of Police Novel; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 2016]
Strano tipo, lo scrittore scozzese Martin
Walker. Giornalista giramondo, a sessant’anni decide di volgere la sua
scrittura (anche) alla letteratura, inventandosi un (abbastanza) simpatico
ispettore di polizia (o simile carica), però francese. Anche perché, finite le
missioni e gli articoli per il New York Times, divide la sua vita tra
Washington e la regione francese del Périgord. Ed è in quest’ultima che
ambienta il suo personaggio, il capo della polizia locale Benoît
"Brunò" Courrèges, cuoco di talento ed ex soldato ferito durante una
missione di mantenimento della pace nei Balcani, che tornerà in numerosi suoi
romanzi, dopo il primo che pubblica nel 2008.
Poco noto e poco tradotto in Italia, questo è
il nono libro della serie, anche se ormai è arrivato a pubblicarne quattordici.
Il che, quando ne leggiamo, ci lascia dei buchi di racconto, che incontriamo
personaggi che hanno avuto peso nei romanzi precedenti, e che qui si muovono,
con naturalezza, secondo la penna di Walker, lasciandoci tuttavia dubbi su cosa
hanno fatto, su come ci si debbano presentare. Amici, nemici o neutri?
Ma facciamo un passo indietro e cominciamo
dal titolo. Laddove al solito mi domando perché un inseguimento fatale possa
trasformarsi in un gran premio. Dato anche che l’unica corsa reale di tutto il
libro è una brevissima seppur intensa prova speciale di un rally. Ed anche se è
vero, e ci torneremo, che molto della trama “noir” deriva da corse
automobilistiche e relative automobili, il vero dell’inchiesta di Bruno è l’inseguimento
di un fantasma, di una macchina bellissima e scomparsa, una Bugatti
d’anteguerra. Inseguimento, cioè ricerca, che sarà per l’appunto fatale ad
alcuni personaggi.
Ecco, siamo ai personaggi. Ci si perde un
po’, ma ricostruendo nel piccolo villaggio di Saint-Denis, teatro delle vicende
di Bruno, ci sono Hector, il suo cavallo, e Balzac, il suo bassethound. Pamela,
ex-fidanzata di Bruno ed ora proprietaria di un maneggio. E poi ci sono una
pletora di donne, Annette, Fabiola, Isabelle (che ha avuto una storia con
Bruno, ma non è andata bene), Martine (che forse avrà una storia con Bruno e
potrebbe andare meglio). Aggiungiamoci sindaci, giornalisti, aiuto ispettori ed
abbiamo un teatro in cui ci perdiamo alla terza pagina.
Il nodo centrale, invece, sembra essere la
ricerca di una mitica macchina, la Bugatti Type 57 Coupé Atlantic, un tipo di
vettura prodotto in soli 4 esemplari, di cui due in essere, uno distrutto in un
incidente ed uno perso durante la Seconda Guerra Mondiale. Al suo inseguimento
si pone una strana coppia di rivenditori di automobili, il francese Sylvestre
ed il suo sodale Freddy che si dice indiano; invece, è arabo e si chiama Farid,
e l’inglese Young appassionato di automobili che, fin dall’inizio ha strani
comportamenti.
La scena si complica con la morte di un
ricercatore locale, che si scopre avvelenato dal cianuro. Poi dalle iniziative
di Isabelle, che, da capo dell’Eurojust, sta imbastendo una rete di controlli
per mettere fine ad un ricco giro di riciclaggio di denaro, forse facente capo
a Farid. Inoltre, Sylvestre si scopre essere proprietario di una specie di
casolare, inagibile perché contornato della proprietà di un suo cugino con il
quale è in lite da decenni. Cugino che ha una bella figliola, Martine, che
viene in quel di Saint-Denis per ipotizzare una futura corsa di vetture
elettriche, sponsorizzabili come la corsa di Lascaux, dalle vicine grotte
omonime.
Inoltre, c’è un simpatico ragazzino, Felix,
che Bruno salva dalle grinfie di un suo collega bullizzatore. E sarà proprio Felix
che troverà il bandolo della Bugatti scomparsa, non prima che Sylvestre ci
lascerà le penne e che Farid, prima di essere arrestato da Isabelle, fuggirà in
giro per l’Europa.
Alla fine, Bruno ricapitolerà i fatti e
metterà tutti i puntini al loro posto. Ma la storia è lenta, la suspense quasi
nulla, gli unici elementi di interesse sono le mangiate che si fanno nel
Périgord e la storia delle Bugatti.
Per le prime vi lascio sfogliare le pagine
del libro, se vi interessa, rimarcando solo che ad un certo punto si definisce
un suntuoso piatto belga, il “waterzooi” come stufato di pollo, cosa che mi
sembra un po’ riduttivo.
Per la Bugatti, invece, si tira fuori la
storia di due piloti automobilistici, della scuderia Bugatti. William
Grover-Williams, ricordato negli annali come il primo vincitore del Gran Premio
automobilistico di Montecarlo nel 1929, e di Robert Benoist (che nel libro
viene inopinatamente chiamato Benoît) vincitore con la Bugatti della 24 ore di
Le Mans del 1937. I due divennero partigiani durante la Seconda Guerra
Mondiale, ma furono arrestati e morirono nei campi di concentramento tedeschi.
La storia delle automobili, che Walker alla fine confessa essere stata il
motore della sua scrittura, è in effetti la parte più intrigante, che consente di
risalire ad un romanzo che, preso a sé, stava scivolando verso un’inesorabile
bocciatura. Ed anche così, non risale poi di tanto.
“L’amore è come il cibo: cambia a seconda dei
tempi di cottura.” (42)
“È nella pigrizia che nasce il genio perché
le persone intelligenti cercano il modo più semplice di fare le cose.” (207)
Come i miei storici lettori sanno, la prima
trama del mese viene condita con l’elenco dei libri letti tre mesi prima, cioè
i 18 del mese di maggio. Un mese dalla media insolitamente alta, con due ottimi
libri “non-Maigret” di Simenon ed uno Sciascia d’annata. Nella parte opposta
della scala, il pamphlet giornalistico del poco gradevole Alfonso Berardinelli
e l’inutile thriller di Claire Douglas.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Riccardo Finelli |
Destinazione Santiago |
Pickwick |
s.p. |
3 |
2 |
Simonetta Agnello Hornby |
Boccamurata |
Corriere Oggi |
8,90 |
2,5 |
3 |
Leonardo Sciascia |
L’affaire Moro |
Repubblica |
8,90 |
4 |
4 |
Marco Della Torre |
Il testamento del capitano Grandi |
Ares |
s.p.
|
2 |
5 |
Michael
Robotham |
L’indiziato |
Corriere Thriller |
7,90 |
2 |
6 |
Alfonso Berardinelli |
Giornalismo culturale |
Il Saggiatore |
s.p.
|
1,5 |
7 |
Georges Simenon |
Senza via di scampo |
Repubblica |
9,90 |
4 |
8 |
Yasmina Khadra |
Il pazzo col bisturi |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
2,5 |
9 |
Valérie Perrin |
Tre |
E/O |
s.p.
|
3 |
10 |
Georges Simenon |
Il Sorcio |
Repubblica |
9,90 |
3 |
11 |
Ragnar Jonasson |
I giorni del vulcano |
Feltrinelli |
9,50 |
3 |
12 |
Elio Catania |
Confindustria nella Repubblica (1946-1975) |
Mimesis |
s.p.
|
2,5 |
13 |
Alphonse de Lamartine |
Graziella |
Nutrimenti |
s.p. |
3 |
14 |
Claire
Douglas |
Le
sorelle |
Corriere Thriller |
7,90 |
1,5 |
15 |
Roberto Costantini |
Da molto lontano |
Feltrinelli |
13 |
2,5 |
16 |
Patricia
Highsmith |
Il
talento di Mr. Ripley |
Corriere Thriller |
7,90 |
3,5 |
17 |
Mariolina Venezia |
Maltempo |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
2,5 |
18 |
Georges Simenon |
Corte d’Assise |
Repubblica |
9,90 |
4 |
Come detto, si sono passati due mesi
viaggianti di ottimo livello, sia il primo portoghese che il secondo islandese.
Motivo per cui, ora si passerà un mese di riposo campagnolo. Anche se riposo a
metà, che ne sto approfittando per rimettere in ordine la mia biblioteca,
impresa che devo dire non è di poca fatica.
Visto
che di certo vi mancano un po’ le mie citazioni, ecco che vi invio una frase
tratta da “La bambola cinese” di
Renata Di Martino: “- Ma parli proprio tu che ti lamenti sempre? – Ma io mi
lamento solo con te, per farmi consolare!” (78)
Quindi vi lascio con un grande abbraccio.
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