domenica 9 ottobre 2022

Vendredi c'est mieux - 06 ottobre 2022

Una settimana dedicata ai saggi, ed in particolare a quattro “tomi” che la munificenza di Giorgio Dell’Arti mi ha regalato affinché ne facessi una veloce e sintetica recensione. Ora, la veloce e sintetica la trovate in allegato a queste trame, laddove, invece, ne ripropongono la versione “estesa”. Dove, inoltre, ringrazio la cognata per un libro di viaggi che va sempre bene, ringrazio i miei passati fasti francesi che mi hanno fatto apprezzare Beretta Anguissola su tutti (tanto che ho francesizzato anche la trama), mentre gli altri saggi vanno dal galleggiamento intorno alla sufficienza all’illeggibilità (anche se non totale).

Alberto Beretta Anguissola “Il romanzo francese dell’Ottocento” Carocci editore s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 13/04/2022 – I: 17/04/2022 – T: 20/04/2022] &&& e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 232; anno: 2021]

Dopo aver dato mano ad una lotta fra due romanzi, una nuova tornata di Robinson mi propone di cimentarmi con due saggi. Ho affrontato subito, per mie affinità elettive, questo scritto di Beretta Anguissola, esimio francesista, ma anche, altro motivo di simpatia, professore emerito dell’Università della Tuscia (che, come ognun sa, è vicino al mio cuore sorianese).

E devo dire che il saggio mi ha coinvolto subito. Perché, pur affrontando una tematica vasta e complessa, di autori e periodi, ce la fa percorrere in modo obliquo. Se dalla terza decade dell’Ottocento il romanzo francese abbandona le vie del romanzo storico, per affrontarne, ed aprirne altre, un chiosatore classico avrebbe seguito l’evolversi delle varie correnti: Romanticismo, Realismo, Naturalismo, Decadentismo e via discorrendo. L’autore invece individua alcuni temi, otto per la precisione (amori, infiniti, guerre, vittime, Dio, soldi, morte, scienza) e si dedica a sviscerare come e qualmente gli autori ne abbiano utilizzato, ne abbiano parlato, ne abbiano narrato per coinvolgerci ed appassionarci ai loro scritti.

Come dice l’autore, e noi con lui, è di certo un approccio non convenzionale, ma consente accostamenti, rimandi, passaggi avanti ed indietro nel tempo, che danno una freschezza al narrato ed una sensazione di stimolo al lettore. Perché poi questo è quello che al fine rimane, dopo assaggi ed antipasti, qualche piatto forte ti fa venire voglia di leggerne (o di rileggerne).

Così viaggiamo per il XIX secolo, spizzicando Balzac, incuriosendoci ai motivi che l’hanno spinto a scrivere “Il giglio nella valle” tanto per far vedere a Sainte-Beuve (“Volupté”) come si scrive d’amore. O sbirciando nella mente di Georges Duroy del “Bel-Ami” di Maupassant per chiederci come faccia a lasciarsi amare da ben quattro donne: per la bellezza o per la sete di potere? Andiamo a braccetto con Fabrizio del Dongo e Stendhal per capire cosa stia succedendo nelle battaglie napoleoniche, cui lui vorrebbe ma non sa partecipare. Stiamo lì ad aspettare che Zola affronti il caso Dreyfuss, quando ci viene citato “La Faute de l’Abbé Mouret”, e questa storia prende ed intriga e se ne cerca di sapere di più.

Ci prende sempre un po’ in contropiede, l’autore. Anche lì, cerchiamo e ci rigiriamo con Flaubert, tra “Madame Bovary” e “L’educazione sentimentale”, e poi ci folgora una citazione del “Dictionnaire des idées reçues”, dove alla voce “Denaro” leggiamo “Causa di ogni male”. E ci dimentichiamo del resto. Per fortuna poi qualcosa ci rimane incollato, nella mente e nella penna. Edmond Dantés e il conte di Montecristo di Dumas o Jean Valjean dei Miserabili di Victor Hugo. E di certo non ci dimentichiamo di come Verne, nel suo “Dalla Terra alla luna”, indichi esattamente il luogo di partenza dei razzi spaziali in un intorno di quello che ora è Cap Canaveral. Per non dimenticare di autori che a volte sono considerati minori, ed a volte sono ignoti al grande pubblico. Così che consiglierei di leggere l’interessante disamina di “Un Prêtre marié” di Barbey d’Aurevilly: poche frasi che incuriosiscono e portano alla lettura.

Tentando con l’autore una sintesi, ne esce fuori il tentativo, attraverso il romanzo di rappresentare la vita quotidiana nella sua forma più serie, connettendo in modo imprescindibile l’individuo e l’ambiente in cui vive. C’è quindi una raffigurazione totale della società, attraverso una visione critica della realtà. Il tutto utilizzando la presenza di un narratore esterno che racconta le vicende e penetra nella psicologia dei personaggi.

Vorrei chiudere citando a mia volta la chiusa del libro, cui mi trovo totalmente d’accordo: “I nostri trisnonni sapevano distinguere e non si rifiutavano di leggere e apprezzare un libro perché l’autore vi esprimeva idee non condivise. I lettori liberali e progressisti sapevano ammirare i romanzi del reazionario Balzac, che non esitava a teorizzare il valore assoluto del trono e dell’altare. I lettori conservatori e “moderati” non si scandalizzavano per la difesa dei “comunards” coraggiosamente espressa da Hugo nelle sue ultime opere. Agli autori il pubblico concedeva un lasciapassare o, per meglio dire, una “licenza di pensare diversamente”, purché le loro opere fossero avvincenti e ben scritte. Stando così le cose, il tasso di libertà mentale era molto alto, forse più alto di quanto non sia oggi”.

Una mia adesione totale su queste righe sul bisogno attuale di una maggior libertà di invenzione, di un ritorno all’alto tasso di libertà di scrittura (e di pensiero) che sicuramente quegli scrittori avevano (e noi, ora, molto meno).

Riccardo Finelli “Destinazione Santiago” Pickwick s.p. (Regalo di Cristina)

[A: 13/04/2022 – I: 30/04/2022 – T: 01/05/2022] &&& --   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 277; anno: 2016]

Un regalo arrivato da una direzione inusuale (ed anche in un tempo non dedito ai regali), ma come spesso succede, ha colto in un segno (certo, dite voi, facile se si parla di viaggi…).

Posso comunque affermare che, se mi aspettavo qualcosa dal libro, mi è arrivata, ma in una direzione diversa. Ho sempre pensato (almeno da qualche anno) che sarebbe stato interessante percorrere il “Cammino di Santiago”. Finelli mi ha convinto che, forse, è un po’ tardi per me. Non per la fatica del camminare, che penso sia affrontabile, quanto per le situazioni logistiche di cui tener conto. Ovvio, e lo sanno bene i miei amici, io mi adatto a molte situazioni. Tuttavia, quelle descritte da Riccardo mi trovano in grossa difficoltà. Inoltre, dovrei passare lungo tempo per “allenarmi”, come ho visto fare alla mia amica Mariangela.

Una delle cose migliori e che porterò con me, è l’autodefinizione che si dà Finelli: viaggiatore seriale. Certo, anche giornalista (cosa che non sarò mai). Ma in quel serialismo mi ritrovo, alla grande. Pur con la diversità che, per età e storia, non sono più un camminatore di lunghe distanze. Ma per viaggiare c’è sempre modo, come ce ne sarà per andare a Compostella, forse non a piedi.

Pur sapendo la difficoltà di descrivere un percorso che non è soltanto camminare, la capacità della scrittura semplice e coinvolgente di Finelli è di farci percorrere questi 800 chilometri, da Roncisvalle a Santiago, in soli 20 giorni. Cioè con una media infattibile (parlo per me) di 40 km al giorno. Non è un caso che, nelle prime pagine, ci si allunghi nelle descrizioni dei problemi fisici che insorgono: soprattutto vesciche (da bucare subito), ed a seguire, tendiniti ed altri malanni muscolari. Tutto eventualmente superabile con delle ricche docce serali. Ma Finelli ci avverte subito: negli “hospitaleros” la sistemazione è spartana, i letti generalmente a castello, i bagni improbabili. Ecco che le mie necessità escono a galla…

Finelli sa bene, dopo averlo fatto, che è praticamente impossibile descrivere il Cammino non perché non sia possibile elencarne le tappe, ma perché un conto è il “dipinto” del viaggio, un altro è riuscire a comunicarne l’essenza, le motivazioni che spingono a camminare, le emozioni che si provano facendolo ed incontrando le persone che con te si muovono per le polverose strade spagnole. Perché camminare, lì ma anche altrove, anche solo per le strade di questa mia calda città, porta a riflessioni profonde, su di sé, sulle cose che si fanno, sui rapporti che si hanno con il resto del mondo, le cose, gli amici, gli amori.

Finelli parte anche sulla spinta di un dolore, la morte dell’amico Matteo. Cercando nel Cammino di elaborarne il lutto, cercando una fede che possa aiutare, spiegare, accompagnarci nei momenti della vita che portano strazio, ma soprattutto incomprensibilità. Torniamo sempre su quel tema, che ci suscitò già la lettura di Saramago, che tutti sanno di dover morire. Ma chi riesce realmente ad affrontare questo muro con serenità?

Fortunatamente, l’autore è abbastanza smaliziato da sapere che un incartarsi solo su sé stesso non avrebbe potuto produrre un libro che, in fondo, ha qualcosa da comunicare. Così, vediamo il testo che si dirama in rivoli diversi, in descrizioni storiche sui luoghi che si attraversano, che ne fanno presenze da scoprire. Con anche tutta l’autoironia di chi cammina ma sa che il Cammino non cancellerà le proprie contraddizioni. Tue e dei pellegrini che incontri (mirabili le descrizioni dei mille strampalati personaggi che si incrociano) ognuno con le sue motivazioni ed i suoi dubbi. Incontri che hanno la forza di uno scambio che porta, inevitabilmente, ad una seppur piccola condivisione, che magari sarà dimenticata dopo qualche chilometro, ma che, anche lì ha portato a nuove riflessioni e consapevolezze.

Un messaggio che alla fine condenserei in quella cognizione che ognuno di noi è un groviglio di contraddizioni e di quel groviglio dobbiamo vivere. Come illustra quel passo in cui Finelli, parlando con un’altra pellegrina dell’attestato che si ritira a Santiago, alla fine del Cammino, la “compostela” sostiene a lungo che lui non cammina per un pezzo di carta, non ne ha bisogno. Poi, arrivato a Santiago, farà riaprire l’ufficio ormai chiuso per avere la sua “compostela”, per avere quel pezzo di carta che, comunque, gli ricorderà visivamente, una volta tornato alla vita quotidiana, il percorso, fisico e mentale, fatto.

Non credo di aver ritrovato me stesso leggendo Finelli, anzi, come detto sopra, forse ho scoperto perché non farò il Cammino. Ma ho trovato un interessante giornalista viaggiatore. Che mi ha fatto piacere leggere.

Marco Dalla Torre “Il testamento del capitano Grandi” Ares s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 06/05/2022 – I: 06/05/2022 – T: 08/05/2022] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 240; anno: 2021]

Dopo un breve passaggio per la sezione romanzi, l’ottima iniziativa di Robinson su letture di libri vari, mi porta ad un primo confronto con il genere saggistico. Portandomi alla lettura di questa biografia del capitano degli alpini Giuseppe Grandi, scritta con passione da Marco Della Torre. A sua volta ex-alpino ed amante della montagna, come testimoniano altri sue libri alle alte cime dedicati (ad esempio nell’intenso inno ai monti nella biografia della poetessa Antonia Pozzi).

Qui, la lodevole iniziativa di Della Torre si aggira intorno alla vita, ma soprattutto alla morte, del capitano Grandi, incentrata in particolare nel sottotitolo “Vita breve di una «leggenda» degli Alpini”. Che infatti, il ricordo legato a Grandi deriva dalla “leggenda” intorno alla sua morte. Ferito durante la ritirata delle truppe italiane dal fronte russo intorno al Don, si narra faccia cantare ai suoi alpini l’aria “Il testamento del Capitano”. 

Ma seppur nata con buone intenzioni, e pur contenendo alcuni elementi interessanti (ed anche inediti), non riesce a far uscire a pieno il protagonista della vicenda. Che certo, l’interesse dell’autore è molto centrato sulla fine del capitano, ma poteva venire fuori meglio la “persona” Grandi, la sua storia privata, la sua maturazione.

Certo ne seguiamo i caposaldi. Grandi nasce a Limone Piemonte il 20 febbraio 1914, trasferitosi in Toscana, si diploma in ragioneria a Firenze (che festeggerà da amante dello sport scendendo l’Arno in canoa), per poi vincere il concorso ed entrare come sottotenente nella Regia Accademia di Cavalleria e Fanteria di Modena, dove tuttavia, dato il suo amore per la montagna, decide di entrare nel corpo degli Alpini. Tenente nel battaglione “Tirano” si distingue nelle battaglie sul fronte occidentale, per poi essere inviato nel 1942 sul Fronte Russo. Lì è comandante della 46a compagnia della “Tirano”. Viene ferito a morte il 26 gennaio del ’43 ad Arnautowo, dove muore il giorno seguente.

Nel ripercorrere la breve vita di Grandi, l’autore ce ne fa apprezzare il lato umano, l’empatia con i soldati, l’amore per la montagna, ed anche la difficoltà di combattere soprattutto in quel disagevole fronte russo. Dove di certo pensava spesso a Wally, la ragazza lasciata in Italia, che mai lo dimenticherà e mai si sposerà.

Ed è proprio sulle battaglie di quel gennaio del ’43 che Della Torre si tira un po’ in disparte, lasciando la descrizione di quelle terribili settimane ad altre voci. A don Carlo Gnocchi, cappellano militare che conosce il capitano e ne riceve le ultime parole. A Nuto Revelli, commilitone di Grandi, di cui riporta brani che sottolineano l’umanità di Grandi ed il suo muoversi sui campi di battaglia. Ma soprattutto, cede il passo ad un lungo brano, tratto da “Il cavallo rosso” di Eugenio Corti, che specificatamente narra del momento culminante della battaglia, del ferimento di Grandi, del trasporto a braccia fatto dai suoi soldati, delle parole leggendarie di Grandi che, per tirare su il morale ai suoi, fa loro intonare il famoso “Testamento del Capitano” (per i melomani, cito l’imperdibile incisione di Mina, che nel 1976, nel suo album “Singolare e Plurale” incise le diverse voci del coro, riproducendo la canzone senza alcuna parte strumentale; per tutti riporto il testo).

Coinvolgente questa parte, ma migliore il breve tratto cui si lascia spazio alla famiglia ed a Grandi: le lettere dal fronte, le risposte della famiglia, le lettere indirizzate alla famiglia dai suoi commilitoni dopo la morte, ed altre documentazioni inedite. Oltre alla parte ufficiale: Grandi viene promosso post-morte a Capitano, con decorrenza dal gennaio ’42, e viene insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Alla fine, più che una narrazione organica, risulta quasi una “compilation” (tanto per rimanere in tema musicale), senza avere una propria anima distintiva. Dispiacendo perché il tenente Grandi poteva uscir meglio delineato dalla pagina scritta. Anche se la forza di questi eroi “loro malgrado” è già di per sé significativa, come mi ha ben illustrato il mio amico Luciano, profondo conoscitore delle vicende militari di quel periodo. Ed a lui rimando volentieri, ed ai suoi scritti (in particolare alla biografia di Federico Ferrari “Resistenza a oltranza”).

“E il capitan della compagnia

e l'è ferito e sta per morir

e manda a dire ai suoi alpini

perché lo vengano a ritrovar

E i suoi alpini ghe manda a dire

che non han scarpe per camminar

"o con le scarpe, o senza scarpe

i miei alpini li voglio qua!"

"Cosa comanda sior capitano?

che noi adesso semo arrivà"

"E io comando che il mio corpo

in cinque pezzi sia taglià"

"Il primo pezzo alla mia patria

che si ricordi del suo alpin,

secondo pezzo al battaglion

che si ricordi del suo capitan,

il terzo pezzo alla mia mamma

che si ricordi del suo figliol

Il quarto pezzo alla mia bella

che si ricordi del suo primo amor

l'ultimo pezzo alle montagne

che lo fioriscano di rose e fior"

Alfonso Berardinelli “Giornalismo culturale” Il Saggiatore s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 13/04/2022 – I: 20/04/2022 – T: 10/05/2022] & e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 976; anno: 2021]

Non ci si meravigli del lungo tempo di lettura, ma un saggio di quasi mille pagine ha ovviamente tempi lunghi per essere digerito. Soprattutto quando questo poderoso libro di Alfonso Berardinelli è costituito da più di 300 articoli, che il giornalista ha scritto dal 2013 al 2020, ed usciti su varie testate (Il foglio, Il Sole 24 ore, Avvenire, “Il Venerdì”). Noto subito di passaggio che lo stile dell’autore, pur rimanendo sempre su di un registro polemico, si adatta naturalmente alla testata per cui scrive.

Articoli che compiono un mosaico di vita, un ritratto a tutto tondo di un giornalista di sicuro abile e di sicuro scomodo. Perché si parla di giornalismo culturale, non di articoli di cronaca o di politica (anche se si può obiettare che tutto è politica). Ma, come precisa Berardinelli, sono tasselli del suo essere, sempre, in attrito con i tempi. Eppur tuttavia molti articoli sono datati, facendo riferimento a fenomeni culturali (libri usciti) da poco e se ne perdono i contorni. Una critica nel 2013 ha un diverso impatto letta dieci anni dopo.

Anticipo quindi il finale, dicendo che, in linea generale, sono assolutamente d’accordo con gli esegeti del testo, sul fatto che il nucleo, o meglio tutte le articolazioni di queste quasi mille pagine sia la cultura (le idee, il linguaggio, ma anche film, televisione, e, sempre e comunque, politica). E par far questo la recensione, il saggio breve che usa Berardinelli è uno strumento impagabile: condensiamo in poche righe i nostri pensieri sparsi. E con l’autore, citando l’ultimo articolo, continuiamo a “Pensare il presente”.

Allora, diciamo anche che la forza polemica l’ho senz’altro apprezzata, pur non condividendo a volte i giudizi dell’autore. Ma sono pienamente d’accordo con lui quando afferma che di fronte ad un brutto libro, si può e si deve dire che è un brutto libro. Non sono però più in sintonia con l’autore quando si passa alla critica negativa sempre e comunque, quando nulla va bene.

Mi fermo e non condivido, quando a proposito di Camilleri parla di “insopportabile esibizionismo dialettalistico". E ricordo così, saltabeccando tra le righe, citando a campione, i giudizi negativi sul Gruppo 63 (pagina 46), ma con troppa enfasi su Eco e sul disaccordo verso di lui. Cito Calasso (69) che può non piacere (o piacere a tratti) e tuttavia ha fatto un enorme lavoro culturale. Mi urta la “cattiveria” con cui si scaglia verso Enzo Bianchi (117). Ma ci sono anche momenti che si devono salvare: riscoprire Hazlitt (588), leggere con angoscia dell’Europa (798), tanto per citare altro.

In alcuni punti mi sembra di potermi vedere tra qualche anno, come quando dice (231) che affitta case per trovare posto per i suoi libri. E quando, parlando delle biblioteche (491) non possiamo entrambi che plaudire alla fisicità del libro di carta. Una fisicità che nessun kindle riuscirà mai a sostituire.

C’è un altro vezzo che mi manda di traverso lo scritto, l’insistenza verso formulazioni dall’aria dotta e criptica, che hanno il solo pregio di allontanare il lettore. Parlando di “Intellettuali e religione” (577) dice ad esempio: “La metafisica … è un ramo della filosofia premoderna, che giustamente l’onesto Kant dichiarò impraticabile per un Occidente nel quale i tempi delle esperienze mistiche erano tramontati: diciamo, per capirci, dopo il proto esistenzialismo di Montaigne e l’empirismo radicale di Hume.” Oppure disquisendo di Nietzsche (868) chiosa: “La simbiosi Marx-Nietzsche, con l’aggiunta di Heidegger e del suo pseudomisticismo ontologico, ha poi prodotto quella certa pappa estremistica ed estetizzante che propone da tempo una critica del capitalismo così radicale da fondersi e identificarsi (in cifra esoterica) con una finta gnosi metafisica.”

Come in un libro giallo, farei un grosso passo di analisi nel prefinale, affiancandomi ad Elsa Morante, e chiedendo a Berardinelli (911): a che serve la critica? A che servi tu?

Finirei poi con la chiusa che lo stesso autore fa parlando (male) di Piperno: “Parlare di libri, liti-gare sui libri per farli esistere sia in sé stessi che al di qua e al di là di sé stessi. Questo mi sembra del tutto naturale e ce n’è bisogno.” (920)

“Letteratura è scrivere nel modo migliore qualcosa di interessante.” (69)

“Parlare di libri, litigare sui libri per farli esistere sia in sé stessi che al di qua e al di là di sé stessi. Questo mi sembra del tutto naturale e ce n’è bisogno.” (920)

Elio Catania “Confindustria nella Repubblica (1946-1975)” Mimesis s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 06/05/2022 – I: 14/05/2022 – T: 18/05/2022] && +   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 364; anno: 2021]

Ancora una lettura dei saggi che mi ha inviato Robinson per il torneo periodico dei libri organizzato dalla rivista. Torneo che mi ha coinvolto in molte letture, di libri che normalmente non avrei avuto modo o interesse di avvicinare. Anche perché non sono queste le tipologie di saggi che sono interessato a leggere.

In particolare, avrei avuto grosse difficoltà a superare la poca simpatia che ho dell’autore di questo testo, fin dai tempi dell’IBM, dove ne incrociai (ovviamente da lontano e per interposto strato manageriale) la carriera alla fine degli anni Ottanta. Pur tuttavia, devo riconoscergli il merito e la buona volontà di ripercorrere un lungo tratto della storia italiana, avendo come filo rosso appunto la nascita, la crescita, la scomparsa e la rinascita di quella che estesamente si dovrebbe chiamare “Confederazione generale dell'industria italiana”.

Che invece viene comunemente chiamata Confindustria, e, nelle parole dell’autore, se ne dovrebbe tratteggiare l’evoluzione nel periodo che va dalla sua rifondazione post-bellica (1946) ai grandi avvenimenti sindacali degli anni ’70. Non a caso, il sottotitolo recita: “Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione”. Ma è ovvio che non si può, e non lo fa neanche Catania, prescindere da quanto avviene prima del ’46 (e quindi, per coincidenza genealogica, prima della nascita dello stesso Catania, che appunto nasce il 5 giugno di quell’anno, risultando quindi per tre giorni, completamente repubblicano!).

Ma Catania sa che non può prescindere da quanto succede dalla fondazione della prima Confindustria (non a caso a Torino il 5 maggio 1910, data matematicamente significativa 5/5/10 e non c’è bisogno di altre spiegazioni) come sodalizio tra imprenditori che, durante il Ventennio, non farà che affiancare il potere politico, rimanendo intonsa anche alla caduta del fascismo, e continuando a svolgere (anche) un non irrilevante ruolo politico. Questo forse il maggior merito dello scritto, aver tolto l’ipocrito velo della discontinuità, ricostruendo fase e periodi che vedono quasi sempre gli industriali affiancare la destra più reazionaria, fino a sovvenzionarne tentativi golpisti (da Junio Valerio Borghese al “piano Solo”).

Idealmente e storicamente, come in tutte le situazioni plurime, c’è di fatto una destra confindustriale ed una sua sinistra. Quando poi vediamo che questa “sinistra” è capeggiata da Gianni Agnelli ci facciamo un sacco di risposte ad una sola domanda: ma di che stiamo a parlare?

Ovvio poi che, in vista anche del mio occhio privato e personale sulle vicende “attuali”, Catania individua alcuni punti forti della politica confindustriale del dopoguerra:

1.    La vertenza FIAT del ’46, con il primo accordo sindacale siglato da Angelo Costa;

2.    L’anno cruciale ’53 (sulla cui beltà non torno) sia per l’apertura dello stabilimento di Cornigliano, in pratica motore d’avvio del miracolo economico italiano, sia per la nascita dell’ENI di Enrico Mattei ed Eugenio Cefis;

3.    Il ’56, con l’uscita delle imprese pubbliche dalla Confindustria e la nascita del Ministero delle partecipazioni Statali;

4.    Il ’62 con la spinta di Fanfani verso la nazionalizzazione dell’energia elettrica;

5.    Il ’63 con i contrasti tra industriali e il ministro socialista al Bilancio, Antonio Giolitti;

6.    Il ’69 e il ’72 con i due “autunni caldi” ed il ’73 con l’occupazione delle fabbriche;

7.    Infine, ed ultimo (anche per questo qui si ferma Catania), il ’75 con l’accordo sul punto unico di contingenza della “scala mobile” tra i sindacati confederali Cgil-Cisl-Uil e la presidenza confindustriale di Gianni Agnelli.

Sperando di averne tratteggiato al meglio il percorso evolutivo dello scritto, rilevo solo che, pur comprendendone i motivi, l’abbondare di note e rimandi è di freno ad una narrazione più scorrevole. Quando poi ci sono piccole imprecisioni, e sviste che potevano essere evitate. Come, ad esempio, la riunione con il “principe nero” nel ’68 fu a Genova e non a La Spezia (pag. 253). Come il notevole ed interessante saggio sulle “Battaglie economiche tra le due Guerre” che è di Guarneri e non di Guarnieri (pag. 349, e ne avrei citato l’illuminate “cura artistica” del prof. Lu-ciano Zani).

Un saggio leggibile anche se non entusiasmante, e che ho letto, seguito, interpretato a volte, ma di certo non amato.

Visto poi che stiamo saltabeccando tra un continente e l’altro senza aver tempo di riflettere a lungo, questa settimana vi stordisco con alcune citazioni tratte dal libro “Chéri” di Colette. Alcune di contorno: “Ci siamo lasciati con eleganza, da buoni amici. Non poteva continuare tutta la vita. … ti confesso … che se non fosse stato per l’età…” (87); “Non annoiate gli amici quando siete nei guai, condividete con loro la vostra felicità.” (108); “Alla mia età non si tiene un amante per sette anni. … Una relazione che dura sette anni equivale a seguire il proprio marito … [all’estero] … e quando si torna nessuno ti riconosce” (116).

Ma una che si è fissata nella mia mente e non la caccerò più: “Non m’importa nulla di non essere stato il tuo primo amante. Avrei desiderato… di essere l’ultimo” (51). Ribadendo il concetto che ispira il mio ultimo pensiero, e mi rimanda all’analogo pensiero espresso da Piero Chiara in “Vedrò Singapore?”: “Non è il primo amore che conta, ma l’ultimo, quello che accompagna l’uomo alla morte, che lo aiuta a morire.” (75).

Intanto, tornati dal Perù ci si interroga se andare o meno di nuovo in Scozia. Ma perché no? C’è chi ritorna ancora in Islanda (ma riuscirò ad andarci di nuovo con amici ed amori?), io torno sempre quasi ovunque. Per questo non posso che continuare ad abbracciarvi.

Note sul libro di A. Beretta Anguissola

Un libro che un produttore di trame e sintesi letterarie vorrebbe aver scritto. In mancanza, va bene tenerlo sul comodino. L’autore, che certo non scopriamo per la sua profonda conoscenza della letteratura francese, ci porta per mano nei meandri della letteratura francese, facendoci fare un viaggio non temporale, non seguendo le varie tappe che normalmente seguono “i testi sacri”, ma individuando alcuni elementi topici di quella letteratura (in particolare gli amori, le guerre, le vittime e i soldi, per dire quelli che balzano subito all’occhio) e proponendo momenti dei romanzi che quei temi toccano. Così, viaggiamo per il XIX secolo a braccetto di Balzac e di Stendhal, di Zola e di Flaubert, di Dumas (padre) e di Hugo, ma anche di Maupassant, Barbey d’Aurevilly o Verne, spiluccando tra i vari testi, che ci vengono proposti nei loro momenti essenziali. Così che ne abbiamo un panorama, ed una voglia di leggerli, o di riprenderli e leggerli di nuovo (magari con una nuova ottica). Un amante, come il sottoscritto, della letteratura francese non poteva che uscirne innamorato. Con una menzione in più, su quelle righe finali, che sottoscrivo in pieno, sul bisogno attuale di una maggior libertà di invenzione, di un ritorno all’alto tasso di libertà di scrittura (e di pensiero) che sicuramente quegli scrittori avevano (e noi, ora, molto meno).

Note sul libro di M. Della Torre

Un tentativo interessante, di innestare un profilo di un personaggio non molto noto (almeno con il suo nome) in una storia assai noto, se non popolare. La storia del tenente Grandi, morto durante la ritirata delle truppe italiane dal Don durante la Seconda Guerra Mondiale, ricordato per aver intonato “Il testamento del capitano”, famosa canzone alpina, mentre stava morendo, al fine di rincuorare i suoi sottoposti. Purtroppo, un tentativo non pienamente riuscito. Nel senso che, fors’anche per pochi documenti, l’autore non riesce a darci un profilo di Giuseppe Grandi. Inoltre, il libro si basa troppo sugli scritti di Nuto Revelli, alpino e partigiano, che insieme a Grandi era in quegli anni in Russia. E sul libro di Corti, quello che fa nascere la “leggenda” di Grandi. Alla fine, rimane un interessante, e poliedrico, panorama in particolare degli avvenimenti sul Don dal settembre ’42 al febbraio ’43. Ma se questo era l’intento, fuorviante risulta il titolo, anche e soprattutto nel sottotitolo che recita “Vita breve di una «leggenda» degli Alpini”. L’uso, inoltre, di tante citazioni, pur encomiabile, alla fine fa risultare il libro una “compilation” (come direbbe un musicista), ma senza una sua proprio fisionomia.

Note sul libro di Belardinelli

Il poderoso libro di Alfonso Berardinelli è, per l’appunto, poderoso. Quasi 1000 pagine, più di 300 articoli scritti dal giornalista dal 2013 al 2020, ed usciti su varie testate (Il foglio, Il Sole 24 ore, Avvenire, “Il Venerdì”). Articoli che compiono un mosaico di vita, un ritratto a tutto tondo di un giornalista di sicuro abile e di sicuro scomodo. Perché si parla di giornalismo culturale, non di articoli di cronaca o di politica (anche se si può obiettare che tutto è politica). Ma, come precisa Berardinelli, sono tasselli del suo essere, sempre, in attrito con i tempi. Personalmente, ne ho apprezzato la forza polemica, che sono pienamente d’accordo con lui quando, di fronte ad un brutto libro, si può e si deve dire che è un brutto libro. Non sono però più in sintonia con l’autore quando si passa alla critica sempre e comunque, quando nulla va bene. Così, a campione, penso ai giudizi negativi sul Gruppo 63 (pagina 46), ma con troppa enfasi su Eco e sul disaccordo verso di lui. Cito Calasso (69) che può non piacere (o piacere a tratti) e tuttavia ha fatto un enorme lavoro culturale. Mi urta la “cattiveria” con cui si scaglia verso Enzo Bianchi (117). Ma ci sono anche momenti che si devono salvare: riscoprire Hazlitt (588), leggere con angoscia dell’Europa (798), tanto per citare altro. Chiuderei con la chiusa che lo stesso autore fa parlando (male) di Piperno: “Parlare di libri, litigare sui libri per farli esistere sia in sé stessi che al di qua e al di là di sé stessi. Questo mi sembra del tutto naturale e ce n’è bisogno.” (920)

Note sul libro di E. Catania

Non posso proprio dire che il libro di Catania mi sia piaciuto, anche se ne devo riconoscere meriti e buona volontà. L’autore, encomiabilmente, cerca di colmare  un vuoto, tratteggiando un ritratto impietoso della Confindustria (ricordiamo che il nome completo sarebbe “Confederazione generale dell'industria italiana”) dal 1946 al 1975, vedendone la continuità con le associazioni imprenditoriali padronali prima e durante il fascismo, e la costante presenza, al fianco dei “poteri forti” in tutte le occasioni. Il merito di Catania è nell’aver tolto il velo all’ipocrisia che voleva una rottura della continuità a far data del Primo dopoguerra. Ed anche di non aver taciuto le connivenze con i settori più retrogradi della destra politica, negli anni della ricostruzione prima e delle rivendicazioni dell’autunno caldo poi. C’era certo una destra ed una sinistra, all’interno di quella Confindustria, ma se la sinistra degli industriali era da ascrivere a Gianni Agnelli, capiamo bene di cosa si stia parlando. Capisco poi, anche se non è nel mio stile massimo di gradimento, che siano necessari lunghi riferimenti a documenti ed atti, talvolta poco noti o di difficile accesso. Anche se ne avrei preferito una rielaborazione personale, eventualmente aumentando il peso delle note. Infine, purtroppo, alcuni errori o sviste potevano essere evitati. Ad esempio, la riunione con il “principe nero” nel ’68 fu a Genova e non a La Spezia (pag. 253). Come il notevole ed interessante saggio sulle “Battaglie economiche tra le due Guerre” è di Guarneri e non di Guarnieri (pag. 349, e ne avrei citato l’illuminate “cura artistica” del prof. Luciano Zani).

  

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