Una settimana dedicata ai saggi, ed in
particolare a quattro “tomi” che la munificenza di Giorgio Dell’Arti mi ha
regalato affinché ne facessi una veloce e sintetica recensione. Ora, la veloce
e sintetica la trovate in allegato a queste trame, laddove, invece, ne
ripropongono la versione “estesa”. Dove, inoltre, ringrazio la cognata per un
libro di viaggi che va sempre bene, ringrazio i miei passati fasti francesi che
mi hanno fatto apprezzare Beretta Anguissola su tutti (tanto che ho francesizzato
anche la trama), mentre gli altri saggi vanno dal galleggiamento intorno alla
sufficienza all’illeggibilità (anche se non totale).
Alberto Beretta Anguissola “Il romanzo
francese dell’Ottocento” Carocci editore s.p. (Regalo “Torneo Letterario
Robinson”)
[A: 13/04/2022
– I: 17/04/2022 – T: 20/04/2022] &&&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 232; anno: 2021]
Dopo
aver dato mano ad una lotta fra due romanzi, una nuova tornata di Robinson mi
propone di cimentarmi con due saggi. Ho affrontato subito, per mie affinità
elettive, questo scritto di Beretta Anguissola, esimio francesista, ma anche,
altro motivo di simpatia, professore emerito dell’Università della Tuscia (che,
come ognun sa, è vicino al mio cuore sorianese).
E
devo dire che il saggio mi ha coinvolto subito. Perché, pur affrontando una
tematica vasta e complessa, di autori e periodi, ce la fa percorrere in modo
obliquo. Se dalla terza decade dell’Ottocento il romanzo francese abbandona le
vie del romanzo storico, per affrontarne, ed aprirne altre, un chiosatore
classico avrebbe seguito l’evolversi delle varie correnti: Romanticismo,
Realismo, Naturalismo, Decadentismo e via discorrendo. L’autore invece
individua alcuni temi, otto per la precisione (amori, infiniti, guerre,
vittime, Dio, soldi, morte, scienza) e si dedica a sviscerare come e qualmente
gli autori ne abbiano utilizzato, ne abbiano parlato, ne abbiano narrato per
coinvolgerci ed appassionarci ai loro scritti.
Come
dice l’autore, e noi con lui, è di certo un approccio non convenzionale, ma
consente accostamenti, rimandi, passaggi avanti ed indietro nel tempo, che
danno una freschezza al narrato ed una sensazione di stimolo al lettore. Perché
poi questo è quello che al fine rimane, dopo assaggi ed antipasti, qualche
piatto forte ti fa venire voglia di leggerne (o di rileggerne).
Così
viaggiamo per il XIX secolo, spizzicando Balzac, incuriosendoci ai motivi che
l’hanno spinto a scrivere “Il giglio nella valle” tanto per far vedere a
Sainte-Beuve (“Volupté”) come si scrive d’amore. O sbirciando nella mente di
Georges Duroy del “Bel-Ami” di Maupassant per chiederci come faccia a lasciarsi
amare da ben quattro donne: per la bellezza o per la sete di potere? Andiamo a
braccetto con Fabrizio del Dongo e Stendhal per capire cosa stia succedendo
nelle battaglie napoleoniche, cui lui vorrebbe ma non sa partecipare. Stiamo lì
ad aspettare che Zola affronti il caso Dreyfuss, quando ci viene citato “La
Faute de l’Abbé Mouret”, e questa storia prende ed intriga e se ne cerca di
sapere di più.
Ci
prende sempre un po’ in contropiede, l’autore. Anche lì, cerchiamo e ci
rigiriamo con Flaubert, tra “Madame Bovary” e “L’educazione sentimentale”, e
poi ci folgora una citazione del “Dictionnaire des idées reçues”, dove alla
voce “Denaro” leggiamo “Causa di ogni male”. E ci dimentichiamo del resto. Per
fortuna poi qualcosa ci rimane incollato, nella mente e nella penna. Edmond
Dantés e il conte di Montecristo di Dumas o Jean Valjean dei Miserabili di
Victor Hugo. E di certo non ci dimentichiamo di come Verne, nel suo “Dalla
Terra alla luna”, indichi esattamente il luogo di partenza dei razzi spaziali
in un intorno di quello che ora è Cap Canaveral. Per non dimenticare di autori
che a volte sono considerati minori, ed a volte sono ignoti al grande pubblico.
Così che consiglierei di leggere l’interessante disamina di “Un Prêtre marié”
di Barbey d’Aurevilly: poche frasi che incuriosiscono e portano alla lettura.
Tentando
con l’autore una sintesi, ne esce fuori il tentativo, attraverso il romanzo di
rappresentare la vita quotidiana nella sua forma più serie, connettendo in modo
imprescindibile l’individuo e l’ambiente in cui vive. C’è quindi una raffigurazione
totale della società, attraverso una visione critica della realtà. Il tutto
utilizzando la presenza di un narratore esterno che racconta le vicende e
penetra nella psicologia dei personaggi.
Vorrei
chiudere citando a mia volta la chiusa del libro, cui mi trovo totalmente
d’accordo: “I nostri trisnonni sapevano distinguere e
non si rifiutavano di leggere e apprezzare un libro perché l’autore vi
esprimeva idee non condivise. I lettori liberali e progressisti sapevano
ammirare i romanzi del reazionario Balzac, che non esitava a teorizzare il
valore assoluto del trono e dell’altare. I lettori conservatori e “moderati”
non si scandalizzavano per la difesa dei “comunards” coraggiosamente espressa
da Hugo nelle sue ultime opere. Agli autori il pubblico concedeva un
lasciapassare o, per meglio dire, una “licenza di pensare diversamente”, purché
le loro opere fossero avvincenti e ben scritte. Stando così le cose, il tasso
di libertà mentale era molto alto, forse più alto di quanto non sia oggi”.
Una mia adesione totale su queste righe sul
bisogno attuale di una maggior libertà di invenzione, di un ritorno all’alto
tasso di libertà di scrittura (e di pensiero) che sicuramente quegli scrittori
avevano (e noi, ora, molto meno).
Riccardo
Finelli “Destinazione Santiago” Pickwick s.p. (Regalo di Cristina)
[A: 13/04/2022
– I: 30/04/2022 – T: 01/05/2022] &&&
--
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 277; anno: 2016]
Un
regalo arrivato da una direzione inusuale (ed anche in un tempo non dedito ai
regali), ma come spesso succede, ha colto in un segno (certo, dite voi, facile
se si parla di viaggi…).
Posso
comunque affermare che, se mi aspettavo qualcosa dal libro, mi è arrivata, ma
in una direzione diversa. Ho sempre pensato (almeno da qualche anno) che
sarebbe stato interessante percorrere il “Cammino di Santiago”. Finelli mi ha
convinto che, forse, è un po’ tardi per me. Non per la fatica del camminare,
che penso sia affrontabile, quanto per le situazioni logistiche di cui tener
conto. Ovvio, e lo sanno bene i miei amici, io mi adatto a molte situazioni.
Tuttavia, quelle descritte da Riccardo mi trovano in grossa difficoltà.
Inoltre, dovrei passare lungo tempo per “allenarmi”, come ho visto fare alla
mia amica Mariangela.
Una
delle cose migliori e che porterò con me, è l’autodefinizione che si dà
Finelli: viaggiatore seriale. Certo, anche giornalista (cosa che non sarò mai).
Ma in quel serialismo mi ritrovo, alla grande. Pur con la diversità che, per
età e storia, non sono più un camminatore di lunghe distanze. Ma per viaggiare
c’è sempre modo, come ce ne sarà per andare a Compostella, forse non a piedi.
Pur
sapendo la difficoltà di descrivere un percorso che non è soltanto camminare,
la capacità della scrittura semplice e coinvolgente di Finelli è di farci
percorrere questi 800 chilometri, da Roncisvalle a Santiago, in soli 20 giorni.
Cioè con una media infattibile (parlo per me) di 40 km al giorno. Non è un caso
che, nelle prime pagine, ci si allunghi nelle descrizioni dei problemi fisici
che insorgono: soprattutto vesciche (da bucare subito), ed a seguire, tendiniti
ed altri malanni muscolari. Tutto eventualmente superabile con delle ricche
docce serali. Ma Finelli ci avverte subito: negli “hospitaleros” la sistemazione
è spartana, i letti generalmente a castello, i bagni improbabili. Ecco che le
mie necessità escono a galla…
Finelli
sa bene, dopo averlo fatto, che è praticamente impossibile descrivere il
Cammino non perché non sia possibile elencarne le tappe, ma perché un conto è il
“dipinto” del viaggio, un altro è riuscire a comunicarne l’essenza, le
motivazioni che spingono a camminare, le emozioni che si provano facendolo ed
incontrando le persone che con te si muovono per le polverose strade spagnole.
Perché camminare, lì ma anche altrove, anche solo per le strade di questa mia
calda città, porta a riflessioni profonde, su di sé, sulle cose che si fanno,
sui rapporti che si hanno con il resto del mondo, le cose, gli amici, gli
amori.
Finelli
parte anche sulla spinta di un dolore, la morte dell’amico Matteo. Cercando nel
Cammino di elaborarne il lutto, cercando una fede che possa aiutare, spiegare,
accompagnarci nei momenti della vita che portano strazio, ma soprattutto
incomprensibilità. Torniamo sempre su quel tema, che ci suscitò già la lettura
di Saramago, che tutti sanno di dover morire. Ma chi riesce realmente ad
affrontare questo muro con serenità?
Fortunatamente,
l’autore è abbastanza smaliziato da sapere che un incartarsi solo su sé stesso
non avrebbe potuto produrre un libro che, in fondo, ha qualcosa da comunicare.
Così, vediamo il testo che si dirama in rivoli diversi, in descrizioni storiche
sui luoghi che si attraversano, che ne fanno presenze da scoprire. Con anche
tutta l’autoironia di chi cammina ma sa che il Cammino non cancellerà le
proprie contraddizioni. Tue e dei pellegrini che incontri (mirabili le
descrizioni dei mille strampalati personaggi che si incrociano) ognuno con le
sue motivazioni ed i suoi dubbi. Incontri che hanno la forza di uno scambio che
porta, inevitabilmente, ad una seppur piccola condivisione, che magari sarà
dimenticata dopo qualche chilometro, ma che, anche lì ha portato a nuove riflessioni
e consapevolezze.
Un
messaggio che alla fine condenserei in quella cognizione che ognuno di noi è un
groviglio di contraddizioni e di quel groviglio dobbiamo vivere. Come illustra
quel passo in cui Finelli, parlando con un’altra pellegrina dell’attestato che
si ritira a Santiago, alla fine del Cammino, la “compostela” sostiene a lungo
che lui non cammina per un pezzo di carta, non ne ha bisogno. Poi, arrivato a
Santiago, farà riaprire l’ufficio ormai chiuso per avere la sua “compostela”,
per avere quel pezzo di carta che, comunque, gli ricorderà visivamente, una
volta tornato alla vita quotidiana, il percorso, fisico e mentale, fatto.
Non
credo di aver ritrovato me stesso leggendo Finelli, anzi, come detto sopra,
forse ho scoperto perché non farò il Cammino. Ma ho trovato un interessante
giornalista viaggiatore. Che mi ha fatto piacere leggere.
Marco
Dalla Torre “Il testamento del capitano Grandi” Ares s.p. (Regalo “Torneo
Letterario Robinson”)
[A: 06/05/2022
– I: 06/05/2022 – T: 08/05/2022] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 240; anno: 2021]
Dopo
un breve passaggio per la sezione romanzi, l’ottima iniziativa di Robinson su
letture di libri vari, mi porta ad un primo confronto con il genere saggistico.
Portandomi alla lettura di questa biografia del capitano degli alpini Giuseppe
Grandi, scritta con passione da Marco Della Torre. A sua volta ex-alpino ed
amante della montagna, come testimoniano altri sue libri alle alte cime
dedicati (ad esempio nell’intenso inno ai monti nella biografia della poetessa
Antonia Pozzi).
Qui,
la lodevole iniziativa di Della Torre si aggira intorno alla vita, ma
soprattutto alla morte, del capitano Grandi, incentrata in particolare nel
sottotitolo “Vita breve di una «leggenda» degli Alpini”. Che infatti, il
ricordo legato a Grandi deriva dalla “leggenda” intorno alla sua morte. Ferito
durante la ritirata delle truppe italiane dal fronte russo intorno al Don, si
narra faccia cantare ai suoi alpini l’aria “Il testamento del Capitano”.
Ma
seppur nata con buone intenzioni, e pur contenendo alcuni elementi interessanti
(ed anche inediti), non riesce a far uscire a pieno il protagonista della
vicenda. Che certo, l’interesse dell’autore è molto centrato sulla fine del
capitano, ma poteva venire fuori meglio la “persona” Grandi, la sua storia
privata, la sua maturazione.
Certo
ne seguiamo i caposaldi. Grandi nasce a Limone Piemonte il 20 febbraio 1914,
trasferitosi in Toscana, si diploma in ragioneria a Firenze (che festeggerà da
amante dello sport scendendo l’Arno in canoa), per poi vincere il concorso ed
entrare come sottotenente nella Regia Accademia di Cavalleria e Fanteria di
Modena, dove tuttavia, dato il suo amore per la montagna, decide di entrare nel
corpo degli Alpini. Tenente nel battaglione “Tirano” si distingue nelle
battaglie sul fronte occidentale, per poi essere inviato nel 1942 sul Fronte
Russo. Lì è comandante della 46a compagnia della “Tirano”. Viene
ferito a morte il 26 gennaio del ’43 ad Arnautowo, dove muore il giorno
seguente.
Nel
ripercorrere la breve vita di Grandi, l’autore ce ne fa apprezzare il lato umano,
l’empatia con i soldati, l’amore per la montagna, ed anche la difficoltà di
combattere soprattutto in quel disagevole fronte russo. Dove di certo pensava
spesso a Wally, la ragazza lasciata in Italia, che mai lo dimenticherà e mai si
sposerà.
Ed
è proprio sulle battaglie di quel gennaio del ’43 che Della Torre si tira un
po’ in disparte, lasciando la descrizione di quelle terribili settimane ad
altre voci. A don Carlo Gnocchi, cappellano militare che conosce il capitano e
ne riceve le ultime parole. A Nuto Revelli, commilitone di Grandi, di cui
riporta brani che sottolineano l’umanità di Grandi ed il suo muoversi sui campi
di battaglia. Ma soprattutto, cede il passo ad un lungo brano, tratto da “Il
cavallo rosso” di Eugenio Corti, che specificatamente narra del momento
culminante della battaglia, del ferimento di Grandi, del trasporto a braccia
fatto dai suoi soldati, delle parole leggendarie di Grandi che, per tirare su
il morale ai suoi, fa loro intonare il famoso “Testamento del Capitano” (per i melomani,
cito l’imperdibile incisione di Mina, che nel 1976, nel suo album “Singolare e
Plurale” incise le diverse voci del coro, riproducendo la canzone senza alcuna
parte strumentale; per tutti riporto il testo).
Coinvolgente
questa parte, ma migliore il breve tratto cui si lascia spazio alla famiglia ed
a Grandi: le lettere dal fronte, le risposte della famiglia, le lettere
indirizzate alla famiglia dai suoi commilitoni dopo la morte, ed altre
documentazioni inedite. Oltre alla parte ufficiale: Grandi viene promosso post-morte
a Capitano, con decorrenza dal gennaio ’42, e viene insignito della Medaglia
d’Oro al Valor Militare.
Alla
fine, più che una narrazione organica, risulta quasi una “compilation” (tanto
per rimanere in tema musicale), senza avere una propria anima distintiva. Dispiacendo
perché il tenente Grandi poteva uscir meglio delineato dalla pagina scritta.
Anche se la forza di questi eroi “loro malgrado” è già di per sé significativa,
come mi ha ben illustrato il mio amico Luciano, profondo conoscitore delle
vicende militari di quel periodo. Ed a lui rimando volentieri, ed ai suoi
scritti (in particolare alla biografia di Federico Ferrari “Resistenza a
oltranza”).
“E
il capitan della compagnia
e
l'è ferito e sta per morir
e
manda a dire ai suoi alpini
perché
lo vengano a ritrovar
E
i suoi alpini ghe manda a dire
che
non han scarpe per camminar
"o
con le scarpe, o senza scarpe
i
miei alpini li voglio qua!"
"Cosa
comanda sior capitano?
che
noi adesso semo arrivà"
"E
io comando che il mio corpo
in
cinque pezzi sia taglià"
"Il
primo pezzo alla mia patria
che
si ricordi del suo alpin,
secondo
pezzo al battaglion
che
si ricordi del suo capitan,
il
terzo pezzo alla mia mamma
che
si ricordi del suo figliol
Il
quarto pezzo alla mia bella
che
si ricordi del suo primo amor
l'ultimo
pezzo alle montagne
che
lo fioriscano di rose e fior"
[A: 13/04/2022
– I: 20/04/2022 – T: 10/05/2022] & e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 976; anno: 2021]
Non
ci si meravigli del lungo tempo di lettura, ma un saggio di quasi mille pagine
ha ovviamente tempi lunghi per essere digerito. Soprattutto quando questo
poderoso libro di Alfonso Berardinelli è costituito da più di 300 articoli, che
il giornalista ha scritto dal 2013 al 2020, ed usciti su varie testate (Il
foglio, Il Sole 24 ore, Avvenire, “Il Venerdì”). Noto subito di passaggio che
lo stile dell’autore, pur rimanendo sempre su di un registro polemico, si
adatta naturalmente alla testata per cui scrive.
Articoli che compiono un mosaico di vita, un
ritratto a tutto tondo di un giornalista di sicuro abile e di sicuro scomodo.
Perché si parla di giornalismo culturale, non di articoli di cronaca o di
politica (anche se si può obiettare che tutto è politica). Ma, come precisa
Berardinelli, sono tasselli del suo essere, sempre, in attrito con i tempi.
Eppur tuttavia molti articoli sono datati, facendo riferimento a fenomeni
culturali (libri usciti) da poco e se ne perdono i contorni. Una critica nel
2013 ha un diverso impatto letta dieci anni dopo.
Anticipo
quindi il finale, dicendo che, in linea generale, sono assolutamente d’accordo
con gli esegeti del testo, sul fatto che il nucleo, o meglio tutte le
articolazioni di queste quasi mille pagine sia la cultura (le idee, il
linguaggio, ma anche film, televisione, e, sempre e comunque, politica). E par
far questo la recensione, il saggio breve che usa Berardinelli è uno strumento
impagabile: condensiamo in poche righe i nostri pensieri sparsi. E con
l’autore, citando l’ultimo articolo, continuiamo a “Pensare il presente”.
Allora, diciamo anche che la forza polemica
l’ho senz’altro apprezzata, pur non condividendo a volte i giudizi dell’autore.
Ma sono pienamente d’accordo con lui quando afferma che di fronte ad un brutto
libro, si può e si deve dire che è un brutto libro. Non sono però più in
sintonia con l’autore quando si passa alla critica negativa sempre e comunque,
quando nulla va bene.
Mi fermo e non condivido, quando a proposito
di Camilleri parla di “insopportabile esibizionismo dialettalistico". E
ricordo così, saltabeccando tra le righe, citando a campione, i giudizi
negativi sul Gruppo 63 (pagina 46), ma con troppa enfasi su Eco e sul
disaccordo verso di lui. Cito Calasso (69) che può non piacere (o piacere a
tratti) e tuttavia ha fatto un enorme lavoro culturale. Mi urta la “cattiveria”
con cui si scaglia verso Enzo Bianchi (117). Ma ci sono anche momenti che si
devono salvare: riscoprire Hazlitt (588), leggere con angoscia dell’Europa
(798), tanto per citare altro.
In alcuni punti mi sembra di potermi vedere
tra qualche anno, come quando dice (231) che affitta case per trovare posto per
i suoi libri. E quando, parlando delle biblioteche (491) non possiamo entrambi
che plaudire alla fisicità del libro di carta. Una fisicità che nessun kindle
riuscirà mai a sostituire.
C’è un altro vezzo che mi manda di traverso
lo scritto, l’insistenza verso formulazioni dall’aria dotta e criptica, che
hanno il solo pregio di allontanare il lettore. Parlando di “Intellettuali e
religione” (577) dice ad esempio: “La metafisica … è un ramo della filosofia
premoderna, che giustamente l’onesto Kant dichiarò impraticabile per un
Occidente nel quale i tempi delle esperienze mistiche erano tramontati:
diciamo, per capirci, dopo il proto esistenzialismo di Montaigne e l’empirismo
radicale di Hume.” Oppure disquisendo di Nietzsche (868) chiosa: “La simbiosi
Marx-Nietzsche, con l’aggiunta di Heidegger e del suo pseudomisticismo
ontologico, ha poi prodotto quella certa pappa estremistica ed estetizzante che
propone da tempo una critica del capitalismo così radicale da fondersi e
identificarsi (in cifra esoterica) con una finta gnosi metafisica.”
Come
in un libro giallo, farei un grosso passo di analisi nel prefinale,
affiancandomi ad Elsa Morante, e chiedendo a Berardinelli (911): a che serve la
critica? A che servi tu?
Finirei
poi con la chiusa che lo stesso autore fa parlando (male) di Piperno: “Parlare
di libri, liti-gare sui libri per farli esistere sia in sé stessi che al di qua
e al di là di sé stessi. Questo mi sembra del tutto naturale e ce n’è bisogno.”
(920)
“Letteratura è
scrivere nel modo migliore qualcosa di interessante.” (69)
“Parlare
di libri, litigare sui libri per farli esistere sia in sé stessi che al di qua
e al di là di sé stessi. Questo mi sembra del tutto naturale e ce n’è bisogno.”
(920)
Elio
Catania “Confindustria nella Repubblica (1946-1975)” Mimesis s.p. (Regalo
“Torneo Letterario Robinson”)
[A: 06/05/2022
– I: 14/05/2022 – T: 18/05/2022] &&
+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 364; anno: 2021]
Ancora
una lettura dei saggi che mi ha inviato Robinson per il torneo periodico dei
libri organizzato dalla rivista. Torneo che mi ha coinvolto in molte letture,
di libri che normalmente non avrei avuto modo o interesse di avvicinare. Anche
perché non sono queste le tipologie di saggi che sono interessato a leggere.
In
particolare, avrei avuto grosse difficoltà a superare la poca simpatia che ho
dell’autore di questo testo, fin dai tempi dell’IBM, dove ne incrociai
(ovviamente da lontano e per interposto strato manageriale) la carriera alla
fine degli anni Ottanta. Pur tuttavia, devo riconoscergli il merito e la buona
volontà di ripercorrere un lungo tratto della storia italiana, avendo come filo
rosso appunto la nascita, la crescita, la scomparsa e la rinascita di quella
che estesamente si dovrebbe chiamare “Confederazione generale dell'industria
italiana”.
Che
invece viene comunemente chiamata Confindustria, e, nelle parole dell’autore,
se ne dovrebbe tratteggiare l’evoluzione nel periodo che va dalla sua
rifondazione post-bellica (1946) ai grandi avvenimenti sindacali degli anni
’70. Non a caso, il sottotitolo recita: “Storia politica degli industriali italiani
dal dopoguerra alla strategia della tensione”. Ma è ovvio che non si può, e non
lo fa neanche Catania, prescindere da quanto avviene prima del ’46 (e quindi,
per coincidenza genealogica, prima della nascita dello stesso Catania, che
appunto nasce il 5 giugno di quell’anno, risultando quindi per tre giorni,
completamente repubblicano!).
Ma Catania sa che non può prescindere da
quanto succede dalla fondazione della prima Confindustria (non a caso a Torino
il 5 maggio 1910, data matematicamente significativa 5/5/10 e non c’è bisogno
di altre spiegazioni) come sodalizio tra imprenditori che, durante il
Ventennio, non farà che affiancare il potere politico, rimanendo intonsa anche
alla caduta del fascismo, e continuando a svolgere (anche) un non irrilevante
ruolo politico. Questo forse il maggior merito dello scritto, aver tolto
l’ipocrito velo della discontinuità, ricostruendo fase e periodi che vedono
quasi sempre gli industriali affiancare la destra più reazionaria, fino a sovvenzionarne
tentativi golpisti (da Junio Valerio Borghese al “piano Solo”).
Idealmente e storicamente, come in tutte le
situazioni plurime, c’è di fatto una destra confindustriale ed una sua
sinistra. Quando poi vediamo che questa “sinistra” è capeggiata da Gianni
Agnelli ci facciamo un sacco di risposte ad una sola domanda: ma di che stiamo
a parlare?
Ovvio poi che, in vista anche del mio occhio
privato e personale sulle vicende “attuali”, Catania individua alcuni punti
forti della politica confindustriale del dopoguerra:
1.
La
vertenza FIAT del ’46, con il primo accordo sindacale siglato da Angelo Costa;
2.
L’anno
cruciale ’53 (sulla cui beltà non torno) sia per l’apertura dello stabilimento
di Cornigliano, in pratica motore d’avvio del miracolo economico italiano, sia
per la nascita dell’ENI di Enrico Mattei ed Eugenio Cefis;
3.
Il ’56,
con l’uscita delle imprese pubbliche dalla Confindustria e la nascita del Ministero
delle partecipazioni Statali;
4.
Il ’62
con la spinta di Fanfani verso la nazionalizzazione dell’energia elettrica;
5.
Il ’63
con i contrasti tra industriali e il ministro socialista al Bilancio, Antonio
Giolitti;
6.
Il ’69
e il ’72 con i due “autunni caldi” ed il ’73 con l’occupazione delle fabbriche;
7.
Infine,
ed ultimo (anche per questo qui si ferma Catania), il ’75 con l’accordo sul
punto unico di contingenza della “scala mobile” tra i sindacati confederali
Cgil-Cisl-Uil e la presidenza confindustriale di Gianni Agnelli.
Sperando di averne tratteggiato al meglio il
percorso evolutivo dello scritto, rilevo solo che, pur comprendendone i motivi,
l’abbondare di note e rimandi è di freno ad una narrazione più scorrevole.
Quando poi ci sono piccole imprecisioni, e sviste che potevano essere evitate.
Come, ad esempio, la riunione con il “principe nero” nel ’68 fu a Genova e non
a La Spezia (pag. 253). Come il notevole ed interessante saggio sulle
“Battaglie economiche tra le due Guerre” che è di Guarneri e non di Guarnieri
(pag. 349, e ne avrei citato l’illuminate “cura artistica” del prof. Lu-ciano
Zani).
Un saggio leggibile anche se non
entusiasmante, e che ho letto, seguito, interpretato a volte, ma di certo non
amato.
Visto poi che stiamo saltabeccando tra un
continente e l’altro senza aver tempo di riflettere a lungo, questa settimana
vi stordisco con alcune citazioni tratte dal libro “Chéri” di Colette. Alcune di contorno: “Ci siamo lasciati con eleganza, da buoni
amici. Non poteva continuare tutta la vita. … ti confesso … che se non fosse
stato per l’età…” (87); “Non annoiate gli amici quando siete nei guai,
condividete con loro la vostra felicità.” (108); “Alla mia età non si tiene un
amante per sette anni. … Una relazione che dura sette anni equivale a seguire
il proprio marito … [all’estero] … e quando si torna nessuno ti riconosce”
(116).
Ma
una che si è fissata nella mia mente e non la caccerò più: “Non m’importa nulla
di non essere stato il tuo primo amante. Avrei desiderato… di essere l’ultimo”
(51). Ribadendo il concetto che ispira il mio ultimo pensiero, e mi rimanda all’analogo
pensiero espresso da Piero Chiara in “Vedrò Singapore?”: “Non è il primo amore
che conta, ma l’ultimo, quello che accompagna l’uomo alla morte, che lo aiuta a
morire.” (75).
Intanto, tornati dal Perù ci si interroga se andare o meno di nuovo in Scozia. Ma perché no? C’è chi ritorna ancora in Islanda (ma riuscirò ad andarci di nuovo con amici ed amori?), io torno sempre quasi ovunque. Per questo non posso che continuare ad abbracciarvi.
Note sul libro di A. Beretta Anguissola
Un libro che un produttore di
trame e sintesi letterarie vorrebbe aver scritto. In mancanza, va bene tenerlo
sul comodino. L’autore, che certo non scopriamo per la sua profonda conoscenza
della letteratura francese, ci porta per mano nei meandri della letteratura
francese, facendoci fare un viaggio non temporale, non seguendo le varie tappe
che normalmente seguono “i testi sacri”, ma individuando alcuni elementi topici
di quella letteratura (in particolare gli amori, le guerre, le vittime e i
soldi, per dire quelli che balzano subito all’occhio) e proponendo momenti dei
romanzi che quei temi toccano. Così, viaggiamo per il XIX secolo a braccetto di
Balzac e di Stendhal, di Zola e di Flaubert, di Dumas (padre) e di Hugo, ma
anche di Maupassant, Barbey d’Aurevilly o Verne, spiluccando tra i vari testi,
che ci vengono proposti nei loro momenti essenziali. Così che ne abbiamo un
panorama, ed una voglia di leggerli, o di riprenderli e leggerli di nuovo
(magari con una nuova ottica). Un amante, come il sottoscritto, della
letteratura francese non poteva che uscirne innamorato. Con una menzione in
più, su quelle righe finali, che sottoscrivo in pieno, sul bisogno attuale di
una maggior libertà di invenzione, di un ritorno all’alto tasso di libertà di
scrittura (e di pensiero) che sicuramente quegli scrittori avevano (e noi, ora,
molto meno).
Note
sul libro di M. Della Torre
Un tentativo interessante, di innestare
un profilo di un personaggio non molto noto (almeno con il suo nome) in una
storia assai noto, se non popolare. La storia del tenente Grandi, morto durante
la ritirata delle truppe italiane dal Don durante la Seconda Guerra Mondiale,
ricordato per aver intonato “Il testamento del capitano”, famosa canzone
alpina, mentre stava morendo, al fine di rincuorare i suoi sottoposti.
Purtroppo, un tentativo non pienamente riuscito. Nel senso che, fors’anche per
pochi documenti, l’autore non riesce a darci un profilo di Giuseppe Grandi.
Inoltre, il libro si basa troppo sugli scritti di Nuto Revelli, alpino e
partigiano, che insieme a Grandi era in quegli anni in Russia. E sul libro di
Corti, quello che fa nascere la “leggenda” di Grandi. Alla fine, rimane un
interessante, e poliedrico, panorama in particolare degli avvenimenti sul Don
dal settembre ’42 al febbraio ’43. Ma se questo era l’intento, fuorviante
risulta il titolo, anche e soprattutto nel sottotitolo che recita “Vita breve
di una «leggenda» degli Alpini”. L’uso, inoltre, di tante citazioni, pur
encomiabile, alla fine fa risultare il libro una “compilation” (come direbbe un
musicista), ma senza una sua proprio fisionomia.
Note
sul libro di Belardinelli
Il poderoso libro di Alfonso
Berardinelli è, per l’appunto, poderoso. Quasi 1000 pagine, più di 300 articoli
scritti dal giornalista dal 2013 al 2020, ed usciti su varie testate (Il foglio, Il Sole 24 ore, Avvenire, “Il Venerdì”). Articoli che compiono un mosaico di vita, un ritratto a
tutto tondo di un giornalista di sicuro abile e di sicuro scomodo. Perché si
parla di giornalismo culturale, non di articoli di cronaca o di politica (anche
se si può obiettare che tutto è politica). Ma, come precisa Berardinelli, sono
tasselli del suo essere, sempre, in attrito con i tempi. Personalmente, ne
ho apprezzato la forza polemica, che sono pienamente d’accordo con lui quando, di fronte ad un brutto libro, si può e si deve dire che è
un brutto libro. Non sono però più in sintonia con
l’autore quando si passa alla critica sempre e comunque, quando nulla va bene. Così, a campione, penso ai giudizi negativi sul Gruppo 63
(pagina 46), ma con troppa enfasi su Eco e sul disaccordo verso di lui. Cito
Calasso (69) che può non piacere (o piacere a tratti) e tuttavia ha fatto un
enorme lavoro culturale. Mi urta la “cattiveria” con cui si scaglia verso Enzo
Bianchi (117). Ma ci sono anche momenti che si devono salvare: riscoprire
Hazlitt (588), leggere con angoscia dell’Europa (798), tanto per citare altro. Chiuderei con la chiusa che lo stesso autore fa parlando
(male) di Piperno: “Parlare di libri, litigare sui libri per farli esistere sia
in sé stessi che al di qua e al di là di sé stessi. Questo mi sembra del tutto
naturale e ce n’è bisogno.” (920)
Note sul libro
di E. Catania
Non posso proprio dire che il
libro di Catania mi sia piaciuto, anche se ne devo riconoscere meriti e buona
volontà. L’autore, encomiabilmente, cerca di colmare un vuoto, tratteggiando un ritratto impietoso
della Confindustria (ricordiamo che il nome completo sarebbe “Confederazione
generale dell'industria italiana”) dal 1946 al 1975, vedendone la continuità
con le associazioni imprenditoriali padronali prima e durante il fascismo, e la
costante presenza, al fianco dei “poteri forti” in tutte le occasioni. Il merito
di Catania è nell’aver tolto il velo all’ipocrisia che voleva una rottura della
continuità a far data del Primo dopoguerra. Ed anche di non aver taciuto le
connivenze con i settori più retrogradi della destra politica, negli anni della
ricostruzione prima e delle rivendicazioni dell’autunno caldo poi. C’era certo
una destra ed una sinistra, all’interno di quella Confindustria, ma se la
sinistra degli industriali era da ascrivere a Gianni Agnelli, capiamo bene di
cosa si stia parlando. Capisco poi, anche se non è nel mio stile massimo di
gradimento, che siano necessari lunghi riferimenti a documenti ed atti,
talvolta poco noti o di difficile accesso. Anche se ne avrei preferito una
rielaborazione personale, eventualmente aumentando il peso delle note. Infine,
purtroppo, alcuni errori o sviste potevano essere evitati. Ad esempio, la
riunione con il “principe nero” nel ’68 fu a Genova e non a La Spezia (pag.
253). Come il notevole ed interessante saggio sulle “Battaglie economiche tra
le due Guerre” è di Guarneri e non di Guarnieri (pag. 349, e ne avrei citato
l’illuminate “cura artistica” del prof. Luciano Zani).
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