domenica 16 ottobre 2022

Saghe e persone - 16 ottobre 2022

Cinque trame di donne, che parlano di persone (donne che parlano di donne, e già mi sembra un buon inizio) o che narrano saghe familiari e locali (sull’onda del successo siciliano di Stefania Auci). Comunque, è la caraibica Jean Rhys che si stacca dal gruppo italico, dove fanno una buona riuscita Marina Collaci, con il dramma storico ambientato in Puglia, e Veronica Raimo, con la sua (forse finta) autobiografia. In secondo piano proprio quelle saghe tanto in voga, che, sebbene Valentina Cebeni sia facile da leggere, la saga dei Fontamara non prende più di tanto, soprattutto nel secondo volume.

Marina Collaci “Scialomm Mussolini” Castelvecchi s.p. (libro in dono per la partecipazione al “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 14/03/2022 – I: 15/03/2022 – T: 16/03/2022] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 192; anno: 2021]

Introduzione comune al torneo: era da tempo immemorabile (mi pare più di un anno), che scrissi a Giorgio Dell’Arti per propormi come lettore e giurato in una delle tante edizioni dei tornei da lui organizzati per la testa “Robinson” del gruppo GEDI. Finalmente, sono stato contattato, e queto è uno dei due libri che mi sono stati proposti per lettura e giudizio, chiedendomi di rispondere entro due settimane. Capite bene che, data la mia velocità di lettura (accentuata dal periodo pandemico), ho letto i due libri in due giorni.

Qui parliamo di questo, scritto dalla giornalista under ’60 della WDR (Westdeutscher Rundfunk Köln). Non la conoscevo, ho cercato le poche notizie presenti in rete, ma credo sia meglio rappresentata dalla sua scrittura. E da un libro che ho gradito, sia, appunto, per la facilità con cui si segue, sia per la scelta dell’argomento, uno dei tanti piccoli puntini della storia, seguendo i quali, unendoli ad uno ad uno, si disegna (anche) la Storia.

Qui seguiamo le vicende di un paesino pugliese, fittiziamente chiamato Civitella di Puglia, dove convergono alcune storie, intorno alla metà degli anni Trenta. Quella di Freddy Amoruso, l’emigrato americano che torna in veste di spia fascista. Quella di Don Ciccio l’arciprete. Quella di Lucetta, perpetua a mezzo servizio con figlia un po’ in ritardo, su cui torniamo. Ma soprattutto quella di Ippazio, contadino che legge, che recita il “Conte di Montecristo” per gli altri semianalfabeti locali, che ha una grande visione mistica. Ha letto la Bibbia, ed è convinto che il Vecchio Testamento sia base e fondamento di tutto il creato. Motivo per cui, si convince di essere ebreo, e vuole convertire a quella religione i suoi concittadini.

Questo è il punto cruciale: dichiararsi ebrei in un paese che sta per adottare le leggi razziali con tutto quello che ne consegue. Ed in particolare in un paesino del Sud, di certo molto cattolico. Non è mio interesse seguire tutti i percorsi dei vari personaggi, che in ogni caso escono bene dalla penna della scrittrice.

Vorrei poter tornare però su Lucetta, emarginata come ragazza-madre, trova nella nuova religione uno sbocco alle sue capacità, un rispetto per lei e per la figlia. Le due attraverseranno i pericoli e le insidie che metteranno sul cammino Freddy il fascista e Don Ciccio il cattolico. Ed alla fine, sarà forse l’unica ad avere uno spiraglio di futuro, decidendo, alla fine della guerra, di emigrare in Israele.

A parte le finzioni adottate, comunque, la storia si basa su fatti reali. Quelli della comunità legata al pugliese Donato Manduzio che a San Nicandro Garganico costituì, negli anni descritti, una comunità di convertiti. Che si salvò solo in quanto, per le difficoltà del tempo, non riuscì ad essere accettata come “Ghiur” (letteralmente “proselita”) dal rabbinato romano.

Ma devo ringraziare la Collaci per aver tirato fuori questa storia, con la quale, in fondo, ci pone due difficili domande: qual è la propria appartenenza? Come si fa (e si deve) mantenere il rispetto dell’altro? Una domanda, la seconda, che in questi tempi è di un fondamento epocale.

Poiché infine, mi si chiedeva un giudizio per il torneo, ve lo riporto, laddove, è vero, dico cose come le sopracitate, ma mi fa piacere condividerlo con voi.

Valentina Cebeni “Una nuova vita” Sperling&Kupfer s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 15/02/2022 – I: 08/04/2022 – T: 10/04/2022] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 621; anno: 2021]

Non conoscevo l’autrice, ma, leggendone in giro, mi è sembrato un libro che sarebbe piaciuto ad Ale. Che a sua volta, dopo la lettura, pur non essendone entusiasta, mi ha chiesto di leggerne. Una lettura agevole, senza tanti fronzoli, che forse sarebbe stata bene nella collana a suo tempo uscita in edicola sulle grandi saghe familiari.

In effetti, sembra proprio che ci sia un gran proliferare di questo tipo di letteratura, magari sull’onda degli scritti sui Florio di Stefania Auci, ed altre autrici similari.

Comunque, Valentina Cebeni, pur giovane e non sulla punta dell’onda, ha scritto un discreto numero di libri, con un suo pubblico ed una diffusione buona, anche fuori dei confini italici.

Qui, l’idea è discreta, anche se l’intreccio segue un suo filone abbastanza scontato. I vari personaggi si comportano come ci si aspetta, e noi si legge cercando di capire se ci sia qualche salto emozionale, che, purtroppo, tarda ad arrivare. Seguiamo quindi la storia della famiglia Fontamara, come dice il sottotitolo, ed in particolare quella delle donne del romanzo. Non è ben chiaro, tuttavia, perché l’origine del romanzo venga collocato nella Cuba degli Anni Trenta, anche se poi ben presto, ci si trasferisce in Italia. In un momento particolare, visto che il nocciolo duro dell’azione avviene tra la fine del ’36 e il settembre del ’38.

La struttura familiare di riferimento è di quelle esemplari di quegli anni. Ci sono i vecchi Fontamara, Alfredo e Sophia, padroni di un fiorente zuccherificio in quel di Cuba. Hanno quattro figli: Fernando, Giacomo, Tommaso e Lia. Il primo sposa Eva Morris, un’oriunda italo-americana, strappandola a Miguel, un fazendeiro tanto ricco quanto antipatico e dispotico. I nostri avranno a lor volta quattro figli: Diana, Myriam, Gabriel e Clio. Giacomo, rancoroso e secondo in tutto, viene mandato in Italia, dove sposa la ricca Ottavia Principi, erede di una famosa ed avviata fabbrica di biscotti (che ricorda alla lontana, ma solo per collocazione e materiali prodotti, la bellissima fabbrica Pietro Gentilini). Giacomo e Ottavia hanno a loro volta due figli, Ernesto e Angela, nonché riconoscono Viola, frutto di una scappatella di Giacomo con una cameriera. In Italia viene presto mandato anche Tommaso, in quanto palesemente gay, e quindi poco in linea con la rigidità di Alfredo. Mentre Lia rimane in casa, quasi a far da servente tuttofare per Eva.

Allo scatenare della scrittura, vediamo che Fernando è misteriosamente morto in Italia, che Miguel cerca di riprendersi Eva, in gioventù sua fidanzata. Ma i suoi modi poco leciti, convincono Alfredo ad inviare Eva & company in Italia. Assistiamo quindi alla prima parte di spaesamento: i Fontamara d’oltremare si trovano di colpo in un Italia fascista ed illiberale. Con Giacomo molto vicino al regime, ma dedito più al gioco ed alle donne che agli affari.

Seguiamo allora le parabole dei “nostri” Fontamara. Diana, costretta a lasciare un amore cubano, si comporta da ribelle e da “attira guai”. È bella, e sfrutta la sua bellezza per ottenere quello che vuole. Anche se poi finirà irretita da un professore malandrino, in una storia che non potrà che finire male. Myriam è quella più normale, anche se non sa che strada prendere: studiare, fare l’attrice, scrivere. Non ha molti grilli per la testa, ma, per ora, non ha neanche molta spina dorsale. Dovrà aspettare di conoscere un baldo giovane, per esserne spronata. Ovviamente, il giovane si chiama Giovanni. Gabriel è perso nei suoi sogni poetici, anche se leggere Garcia Lorca nell’Italia fascista non ti pone in bella vista.

Ma noi seguiamo ovviamente Eva. Che consola Ottavia dopo un aborto spontaneo, la porta ad allontanarsi dal perfido Giacomo, per entrare nelle grazie del profumiere Raffaele. Lei, Eva, si dedica invece al forno Pacifici. Ne constata le possibilità, ma anche le carenze, dovute alla sciagurata gestione di Giacomo. In tutto questo, immersa nei problemi della fabbrica, trova anche il modo di avvicinarsi di nuovo all’amore, nella persona del capo operaio Pierfrancesco.

C’è tutto un susseguirsi di luoghi comuni, nel percorrere le più di 600 pagine del libro. Rancori tra Angela e le cugine, botte ripetute a Tommaso ed al suo amante gay, liti tra Diana e Myriam, liti tra Ernesto e Gabriel, con il condimento dei tarocchi e dei fondi di caffè che la buona Lia legge per indicare la strada ai suoi. Ma soprattutto, assistiamo alla lotta senza quartiere tra Giacomo ed Eva. Dove si spera, fin dall’inizio, che la nostra eroina trovi il modo di sconfiggere il cattivone. Vittoria che arriverà, ma a duro prezzo.

Sembra che tutto, dopo molti casini, possa risolversi al meglio. Peccato che Angela sposi l’ebreo Gino, che Gabriel si innamori dell’ebrea Rachele, che le cameriere di casa Fontamara siano ebree. E che tutto si chiuda con l’approvazione da parte del governo Mussolini delle “Leggi in difesa della razza”.

Molte parentesi Cebeni le chiude, ma questa no, ed è facile pensare che presto avremo una seconda puntata della saga.

Dicevo, la buona penna di Valentina tocca molti punti dolenti, sia storici che sempiterni. I diritti degli omosessuali, il ruolo della donna nella società, le persecuzioni verso gli ebrei, la tracotanza fascista. Ma sempre senza andare troppo nel profondo. Per questo, alla fine, non può che stare abbastanza lontano dalla media, anche se in una posizione di tutto rispetto.

Valentina Cebeni “Un mondo libero” Sperling&Kupfer s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 18/05/2022 – I: 05/08/2022 – T: 08/08/2022] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 508; anno: 2022]

Come avevo supposto, eccoci che, un anno dopo il primo, compare il secondo volume della saga dei Fontamara. In fondo era abbastanza semplice pensarlo, che troppi punti erano rimasti sospesi. Purtroppo, pur avendo alcune punte di buona leggibilità e due punti di interesse di cui parlerò in finale, anche questa scrittura risulta non affondare troppo il coltello nella piaga. Tocca temi vari, ma in alcuni punti rimane forse troppo in superficie. In altri, forse, si limita a considerazioni di buon senso che dal punto di vista storico hanno invece richiesto anni ed anni e scritti di approfondimento.

Intanto, Valentina ci fa fare un bel salto che, dalla chiusura sulle leggi razziali del primo volume, il secondo si apre nell’ottobre del ’42, cioè quattro anni dopo. Uno iato importante, che le protagoniste del primo volume evolvono e si maturano anche quando non ne leggiamo. Qui, inoltre, diventano le protagoniste assolute, ognuna con le sue forze, le sue debolezze, le sue azioni, non sempre positive, anche se sempre pensate per il bene.

Rispetto ai tre pilastri del racconto, vediamo subito di sgomberare il campo delle donne brave, belle ma “attrici non protagoniste”, se vogliamo parlare in termini cinematografiche (non penso sia difficile ipotizzare anche una realizzazione televisiva della serie). C’è la cognata Ottavia, che dopo aver messo fine alla storia con Giacomo (e sappiamo come) sposa il dolce Raffaele, si ricostruisce una vita, ma presto muore di cancro. Sparisce così il ramo Pacifici della storia, tra l’altro con Raffaele che, dall’oggi al domani, scompare anche dal racconto. C’è la sorella Lia, quella della caffeomanzia, relegata in campagna a fare da tata alle giovani Clio e Viola (che poco compaiono), che soffre della morte in guerra del marito, e che alla fine della guerra prenderà la prima nave per tornare a Cuba, ed ipotizziamo anche perché.

C’è Rachele, la fidanzata del figlio Gabriel, che rimane in Italia per sposarlo, ma Gabriel è con l’esercito in Grecia, dove si rifà una vita. Rachele, allora, viene coinvolta nella vita aziendale, sotto gli auspici della matriarca, ed affianca Andrea, il buono lasciato senza validi motivi da Diana. Nasce un amore, ma Rachele verrà presa, spedita in Germania, ed Andrea non ne uscirà. C’è infine la cugina Angela, che tanto aveva fatto soffrire, che inopinatamente sposò l’ebreo Gino. Sposo che, denunciato in maniera inconscia da Diana, vivrà lunghe sofferenze in carcere portandolo a scelte “leviane”. Angela non si riprende, e nel finale di partita, decide di uccidere il maggior numero di militari possibili, morendo lei stessa e lasciando il piccolo Mosè alle cure della cugina “buona”.

Veniamo allora al nucleo Fontamara.

Il primo che tiriamo fuori dal mazzo è Tommaso, sempre dolente della sua omosessualità, per molto tempo in rimpianto della perdita di Roberto. Trova il suo spazio nel marketing dell’azienda, ma la guerra lo trova relegato in secondo piano. Fino all’incontro con il partigiano Matteo, con cui rinasce l’amore e la volontà di lottare. Ne faranno di molti colori, ma arriveranno salvi alla fine della guerra, forse con la promessa di trovare anche loro una nuova vita tornando nella sua tanto amata Cuba.

Sempre tra il buono ed il cattivo invece c’è Diana, quella che sembra (e forse lo fa) pensare solo a sé stessa. Lascia Andrea per un capriccio, frequenta loschi fascisti. Poi mette la testa a posto quando capisce i disegni della madre, ritorna in azienda. Si prodiga, ma rimane sempre la farfalla indecisa di sempre. Anche quando troverà un rapporto stabile con il dottore partigiano Giovanni, che dopo un’iniziale sbandata per Myriam, si dedica ad attentati ed a Diana. Con una conclusione che lascia molti dubbi, una settimana dopo la liberazione di Roma, i due si sposano. Se c’è un terzo volume, non credo sia un matrimonio che resisterà a lungo.

Una parte centrale, anche perché occupa più spazio di altri, viene data a Myriam. Che aveva sposato il suo musicista, con cui era stata in Francia, per poi tornare in famiglia (non ne sappiamo i motivi). Il suo amore verrà internato ed ucciso dai nazisti, e lei non si riprenderà più dal lato sentimentale. Non dal lato operativo, che diventa infermiera al Fatebenefratelli, che dopo il luglio ’43 si impegna nella lotta partigiana, dalla parte cattolica. Lasciandosi andare, nelle discussioni con il rosso Giovanni, a considerazioni un po’ superficiali sulla lotta armata e sul modo di impegnarsi di ognuno. Alla fine, si ritroverà senza amore umano, ma con molta carità cattolica, e la vedremo in futuro prendersi cura del nipote Mosè.

Infine, c’è lei, Eva, il pilastro, la donna d’affari sempre un passo avanti agli altri. Che usa i suoi contatti fascisti per permettere all’azienda di barcamenarsi nella guerra. Ma che deciderà, quando serve, di usare questo suo potere per aiutare ebrei e poveri senza speranza, impiegandoli nel forno. Un po’ Schindler alla lontana. Dovrà parare i colpi della sorte, proteggendo Diana da sé stessa (fino a dove si può), sostenendo Myriam, stendendo un velo di protezione anche verso le donne rifuggiate in campagna. Colpita dalla morte del padre, dovrà decidere, alla fine della guerra, come risolvere la questione cubana, laddove ritorna a galla anche l’amato-odiato Miguel Ferrer.

Detto quindi a grandi linee lo sviluppo del romanzo (che termina nel luglio del ’44), ribadisco la sensazione che parlare di Resistenza e Fascismo in toni troppo salottieri può far sorgere curiosità, ma non suscita riflessioni che sarebbe necessario fare.

Veniamo allora ai due punti personali che tocca Valentina. Il primo è assai palese, laddove a pagina 390, per impedire irruzioni naziste all’ospedale, il primario parla del terribile “Morbo K”. Una panzana storicamente valida alla cui invenzione contribuì mio zio Adriano (e ne potrete leggere in rete meglio di quanto ne possa dire io). Il secondo è ancora più personale nel suo sviluppo. A pagina 449 si parla dell’arresto di don Pecoraro in seguito alle proteste per l’uccisione di Teresa Gullace. Il fatto è storico, ma di più c’è che don Paolo fu il mentore, privato e politico, di mio padre. Pur avendo solo sette anni di più, ne fu il maestro di religione (ricordo che mio padre ne raccontava gli scappellotti quando lui si metteva a guardare le signorine). E poi di politica, che don Paolo era sodale di mio zio, ed introdusse il giovane Franco nel clan degli Ossicini, dove conobbe mia madre Agnese. Tanto altro c’è dietro don Paolo, ma questo basta per farmi tornare alla cura dei miei cari, e a ricordi che non andranno mai via.

Veronica Raimo “Niente di vero” Einaudi euro 18 (in realtà, scontato a 16,20 euro)

[A: 12/04/2022 – I: 23/04/2022 – T: 26/04/2022] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 163; anno: 2022]

Conoscevo di nome e di attività Christian Raimo (scrittore nonché assessore alla cultura del Municipio Roma III), ma non avevo notizia della famiglia, che qui scopro leggendo il libro della sorella Veronica, anch’essa scrittrice, che ho inserito nella mia biblioteca come novità in quanto uno dei dodici libri finalisti al Premio Strega 2022.

Non è un caso che sia partita dal fratello, che è una presenza costante (ed a volte ingombrate, ma sempre con affetto) del testo autobiografico (ma forse neanche tanto, e ne parleremo avanti) della scrittrice romana. Come presente è tutta la famiglia. Che magistrali pennellate parlando della madre, sempre con l’angoscia che la prende e la pervade: attaccata alla radio, magari ci fossero brutte notizie, sempre pronta al telefono. Telefonando al figlio maschio (si sa che il maschio è il maschio) adombrandosi che lui non risponde mai. Tempestando di telefonate la figlia, soprattutto quando questa si trova “in dolce compagnia”, provocando il terrore di tutti i suoi amici e/o fidanzati. Il padre, poi, con quella mania di tirar su tramezzi per tutta casa pensando a ritagliare spazi in una casa già piccola, ma rendendola ancora più minuscola.

Ma non è solo la famiglia che seguiamo, è tutto il percorso dell’io narrante, dall’infanzia all’età adulta. Con i rapporti familiari, di cui si è accennato, ma anche con le descrizioni delle frequentazioni, degli amici, dei luoghi in cui si vive. Un modo per dipingere il mondo della nostra vita, la cui percezione ci dà il senso del nostro essere al mondo.

Anche con l’ironia ed il sarcasmo che pervade ogni riga, seguiamo con piacere lo snocciolarsi della vita della Veronica di carta. Gli amori, i lutti, la scoperta del sesso, la difficoltà non tanto e non solo di fare amicizie ma di mantenerle, di farle protrarre nel tempo. Il ritorno, sovente ma non sempre con piacere, del fratello che fa tutto bene. Che è bravo in tutto. Che ti fa venire la rabbia di non essere così. Situazioni che tutti, anche a ruoli invertiti, abbiamo provato.

Narrazioni che si allargano anche oltre la prima cerchia di familiari e amici, verso i parenti sempre più lontani. Come un sasso in un lago, le onde si allargano e si allontanano. Cullandomi, anche, verso le mie onde familiari, l’infanzia aventiniana e l’adolescenza olimpica.

Cercando, ma non volendo mai fino in fondo, capire l’autenticità delle storie false, laddove si dice che il diavolo fa le pentole ma non i copechi. Invece, le storie false funzionano perché, come dice l’autrice, il diavolo fa le pentole e, se lo lasciate fare, prima o poi farà anche i coperchi. Allora perché non costruirsi anche un falso io infantile. Magistrale mi è parsa la descrizione della scrittura del diario da adolescente. Non per narrare a sé stessa il proprio vissuto, ma per costruirsi un io diverso ad uso e consumo della madre che si sa troverà il modo di leggere quelle pagine, e farsi un’idea (che ovvio è falsa) della propria figlia.

Alla fine, alcune cose rimangono da tutte le vere menzogne della scrittrice. La noia dell’infanzia (che io sublimavo tartassando mamma di domande, guidate dalla domanda principe: “ed ora che faccio?”), i problemi al bagno (e chi non ha mai sofferto di stitichezza non potrà capire), le frasi che diventano emblemi. Se c’è mamma Francesca che telefona a ogni piè sospinto, a lei, al fratello, agli amici dei figli, e ci si fissa con quel “C’è Francesca al telefono”, la frase diventa emblema di altro, di tutto quello, soprattutto di poco bello e buono che si sta facendo. Così che Veronica e la sua cerchia la usa come un codice per indicare “la sensazione che qualcuna di noi stesse facendo una cazzata”.

Insomma, un libro che mi è piaciuto leggere, che mi ha fatto entrare nelle pieghe di una vita che poteva essere la mia, ma non lo è stata. E già questo è un bel risultato.

Poi, c’è quel titolo, di cui accennavo, e che riprendo. Quale titolo più adatto, in un testo (che non è autobiografico, né auto-fiction, ma solo candidamente un romanzo) che parla e si aggira intorno alla menzogna, proclamare fin dall’inizio “niente di vero”? Ma noi che siamo smaliziati, ne leggiamo in tanti altri modi. A partire da una possibile sineddoche, l’uso di una parte per il tutto. Se Vero può essere un diminutivo di Veronica, qui raccontiamo tutto quello che non è, tutte le menzogne su Veronica, perché su Vero non c’è niente di Vero, Veronica, infatti, è altrove. Così, noi letterati, transitiamo verso l’antifrasi, che voi pensate che non ci sia niente di me in quanto scrivo. Ma, capite a me, “meglio di così non poteva andare”.

“I momenti più profondi di solitudine li ho vissuti sulla tazza del cesso … Chi non è mai stato stitico non può capire il tormento esasperante di quei lunghissimi minuti.” (34)

“In quinta elementare, poco prima degli esami, mi ammalai di reuma articolare acuto.” (78) [io invece ero nel giugno della seconda media]

Jean Rhys “Buongiorno, mezzanotte” Adelphi euro 17 (in realtà, scontato a 14,45 euro)

[A: 25/12/2019 – I: 08/07/2022 – T: 09/07/2022] - &&& e ½  

[tit. or.: Good morning, midnight; ling. or.: inglese; pagine: 169; anno 1939]

Ero discretamente curioso di leggere qualcosa di quest’autrice anglo-caraibica, di cui avevo avuto notizia leggendone nell’ormai mitico (ed anche un po’ datato) “Curarsi con i libri”. Jean Rhys in realtà nasce nella Dominica come Ella Gwendolyn Rees Williams, da padre inglese e madre di sangue misto creolo-scozzese. Quindi, pur avendo tratti caraibici (soprattutto nel colore) non ha una caraibicità accentuata. Ciò non toglie che, per un “purosangue” inglese sarà sempre riconoscibile ed emarginabile.

In effetti, a 16 anni si trasferisce nel Vecchio Continente, vivendo la sua vita tra Londra e Parigi, sposandosi, lasciando, cercando di diventare attrice (il suo sogno), scrivendo alcuni romanzi anche di discreto, pur se non eclatante, successo. Come questo di cui si parla. Dopo di questo, però, per quasi trent’anni scompare dalle scene, ritirandosi nella campagna inglese, per poi pubblicare quello che viene considerato il suo capolavoro “Il gran mare dei Sargassi”, un prequel di “Jean Eyre” narrato dal punto di vista di Antoinette, la prima moglie di Rochester, l’amato dell’eroina della Bronte.

Ma torniamo a questo, che è uno scritto difficile, eppure bello ed intenso, che rivela l’autrice nelle pieghe della protagonista. Lei, Jean, sempre alla ricerca di essere accettata come sé stessa, non come “emblema di…”. E la protagonista, Sasha, che cerca per tutto il romanzo di imporre a sé stessa di essere sé stessa. Un continuo rimando, fin dal titolo. Laddove capiamo che Jean Rhys di letture e di meditazioni ne ha fatte tante. E qui, a quasi cinquant’anni, si rimanda e ci rimanda ad una poesia di Emily Dickinson, che inizia e finisce con un ossimoro. Da “Good Morning, Midnight” (che prende a titolo del libro) alla fine della poesia con l’altro ossimoro “Good Night, Day”.

Tra il giorno che la rifiuta e la notte che l’accoglie (ma che forse lei rifiuta) trascorrono 170 pagine di flusso di coscienza della nostra Sasha. Lei, sballottata tra Londra, che non ha mai amato, e l’adorata Parigi, che l’ha vista calcare scene sociali importanti, e dove ora, nell’ottobre del 1937 (l’epoca del romanzo) Sasha si rifugia dopo essere stata abbandonata dal marito, artista e giocatore d’azzardo. Non ha soldi, non ha mestieri, ritornata, malinconica, a Parigi, passa infelice da un caffè all’altro, cambia camere d’albergo, sovrappone ricordi attuali e del tempo felice che fu. Come sottolinea lei stessa in uno dei suoi sinceri abbandoni mentali, la sua vita trascorre “tra bar dove sono bene accetta e bar dove non mi vogliono”.

In questo andirivieni, in questi pensieri a ruota libera, in queste strade a volte amiche ed a volte minacciose, Sasha incontra altre vite disperate (e dissipate): un pittore, un disertore della Legione Straniera, un russo espatriato, un gigolò. Si sente triste, triste come un violino con una corda sola, e dice una frase che solo una donna può dire: “triste come una donna che invecchia”. Ed in questo vagabondare, ogni angolo la riporta ai tempi felici, ad un passato dove era necessario che alcuni piangano, perché altri possano ridere. Fino ad arrivare ad un momento simbolico, dove, quasi senza motivo, acquista un quadro, brutto, solo per pietà. Ma dove il personaggio è dipinto come Giano Bifronte. Sono quelle le due facce che Jean-Sasha si è portata appresso per tutto il romanzo, quelle con cui deve decidere di riuscire a convivere, perché, per lei, per noi, la vera sfida non è smettere di vivere, ma di ricordare.

Un romanzo bello di una tristezza infinita, che la critica dell’epoca rifiutò considerandolo troppo deprimente. Tanto che, come detto sopra, Jean non si riprese dalla batosta, e per decenni si tirò fuori dal mondo. Invece, è un elemento del tempo, una depressione, insoddisfazione che sarebbe caduta ben presto nel baratro della guerra. Ma leggendo tra le pieghe, in questo, come in tutti i suoi romanzi, i temi forti sono sempre presenti: il colonialismo, il razzismo, il rapporto uomo-donna. Per certi versi, era più avanti del tempo della scrittura. Per altri, mi ricorda alcuni passaggi di Stefan Zweig, e forse anche un po’ più cupo.

“Ecco ciò che rende la vita bizzarra, il modo in cui si dimentica, e ogni giorno è un nuovo giorno, e c’è speranza per tutti.” (129)

“I ricchi… Bisogna compatirli. Non hanno la minima idea di come spendere i loro soldi; non hanno la minima idea di come goderseli.” (152)

Non si riesce proprio a riprendere i ritmi normali di allegati vari, forse per i tempi forse per i modi, allora ci rifugiamo nelle citazioni, dove questa settimana tocca ad uno scrittore a me caro per molte ragioni (tra cui l’opera divulgativa della letteratura e la scuola di scrittura torinese). Parliamo di Alessandro Baricco dove dal suo “Emmaus” mi rimangono due frasi. La prima che ultimamente risuona: “Siamo pieni di parole di cui non conosciamo il significato, e una è la parola dolore. Un’altra è la parola morte. Non sappiamo cosa indicano, ma le usiamo.” (28) E la seconda che mi ricorda chi mi ha regalato il libro: “Adesso che era lì, di colpo mi ricordavo come mi era mancato il suo corpo in ogni istante dopo quella notte” (102).

Intanto, sembra che i prossimi viaggi si avvicinino più di quanto sembrasse la settimana scorsa, anche se con i dubbi sui luoghi e sul periodo. Staremo a vedere.

Per il resto, si studia, si legge, si pensa, si intreccia, si programma e si avvolgono gli amici in tanti abbracci. 

Note sul libro di M. Collaci

Libro ben scritto, consequenziale. Una storia che si segue bene, dove si riesce ad entrare nei personaggi, anche empaticamente. Si vuole bene fin dall’inizio a Lucetta, e la sua luce porta uno spiraglio di felicità e buon umore in un testo che, in realtà, tratta di tempi cupi. Anche qui si cerca di tirar fuori dall’oblio un episodio dimenticato, la storia della piccola comunità di “forse” ebrei inventata da Donato Manduzio a San Nicandro Garganico. Qui, per amore di finzione, l’autrice maschera i nomi ed i luoghi, ma la storia rimane. Sia con la sua forza dirompente (ed a tratti comicamente drammatica), sia con i mille risvolti comportamentali, non solo localmente. Il visionario Ippazio-Donato riesce a convertire alla fede giudaica gruppi di contadini semi-analfabeti. Nello scritto, l’autrice riesce non solo a farcene vedere la potenza, ma anche gli attriti, le difficoltà, le speranze ed i crolli, in un momento drammatico della storia italiana e mondiale. Convertirsi all’ebraismo durante il fascismo suona di un’eresia unica. Con tutti contro. E ne vediamo gli epigoni: il curato, l’emigrato di ritorno, fascista e spia, il dotto bifolco, il rabbino polacco volenteroso. Insomma, molti personaggi di buona riuscita e con i quali si passa gradevolmente il tempo della lettura. Lasciandoci con le riflessioni, sempre e tuttora valide, sulla necessità di vivere nel rispetto degli altri. Quanto vero, al giorno d’oggi.

Un piccolo appunto tipografico finale: a pagina 41 inopinatamente, Odorico diventa Oderico.

 

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