Georges Simenon “Senza via di scampo” Repubblica
Simenon 13 euro 9,90
[A: 20/12/2019 – I: 10/05/2022 – T:
11/05/2022] - &&&&
[tit. or.: Chemin sans issue; ling. or.: francese; pagine: 171; anno 1938]
Continuando nella ricerca di mettere ordine tra la
scrittura e la pubblicazione delle opere di Simenon, qui torniamo ancora una
volta indietro. Infatti, questo romanzo vede la luce, in manoscritto, prima de
“Il testamento Donadieu”, risultando scritto nella famosa villa “di passaggio”
prima del ritorno verso Parigi. Siamo infatti nella Villa “La Lézardière”, ad Anthéor, avvicinandoci alla Costa Azzurra, e
siamo nel marzo del 1936 (inciso: marzo risulterebbe, secondo i bibliomani, uno
dei mesi più prolifici per Simenon). Peccato che poi Gallimard lo pubblicherà
in volume solo nel 1938.
È un periodo di transizione, dove l’autore si
crogiola dello status di autore “Gallimard”, ostentando la sua ricchezza (anche
un po’ da “parvenu”): si veste nelle boutique, e solo abiti su misura, guida
per la corniche una “Delage Grand Sport”, vettura di lusso tipo Bugatti.
In questa calma apparente, Simenon produce un
affresco mirabile di due condizioni estreme: ricchi annoiati che non trovano
altro da fare che bere fino a stordirsi e farsi dispetti, più o meno cattivi, e
domestici, massimamente emigrati da paesi di un’Europa scossa dalla mancanza di
lavoro e da imminenti sommovimenti. C’è anche un altro motivo dominante nel
periodo, che troveremo poco dopo nella splendida epopea di Popinga: il treno.
Che viene usato varie volte nella narrazione, come momento di giunzione tra vari
passaggi, ma che diventa simbolico nel finale, con Vladimir che lì finalmente
ritrova il modo di aprirsi agli altri, di trovare una comunità con gli umili
suoi simili. Su quel treno verso Mosca ritrova la sua umanità, dispossessata da
una convivenza troppo lunga fuori dal suo ambiente.
Per
tronare all’altro tema sopra accennato, spesso, nei suoi romanzi, i personaggi
bevono. Ma mentre in Maigret, assistiamo essenzialmente in birra e vino, sono
fuori da Maigret che ci si abbandona all’alcool. In quest’ambito, questo
romanzo sembra segnare un vertice alcolico. Tutti i personaggi bevono a
dismisura, sono costantemente ubriachi, disgustati da quello che vedono intorno
(ricchi senza scopo, poveri senza mete), e da un’auto commiserazione che porta
solo a rimuginare sulla propria miseria morale. Bevono per evitare di
affrontare la deludente realtà della propria esistenza.
Ed
in effetti, sin dalle prime righe vediamo personaggi, Vladimir e comprimari, in
una bettola a bere e parlare nel vuoto. Con quello stile asciutto che Simenon
trova quando sta seguendo una sua idea forte, vediamo poi Vladimir andare nella
villa di Jeanne, la possidente, il centro economico del racconto, e continuare
a bere, con Jeanne ed i suoi ospiti parassiti.
In
realtà, i personaggi del romanzo sono quattro. Vladimir, russo fuggito dalla
rivoluzione comunista, girovago da mille mestieri per l’Europa, dove incontra
un altro russo Georges, detto Blinis per la sua passione per questa pietanza.
Con un colpo di fortuna, i due trovano lavoro presso Jeanne, ad accudire il suo
inutile yacht. Dove Blinis raggiunge un suo equilibrio, anche per la presenza
della figlia di primo letto di Jeanne, la scostante e ritrosa Helene. Vladimir
aumenta il suo status, diventando anche l’amante della ricca signora.
Sarà
proprio la presenza di Helene ad innescare una serie di avvenimenti che
porteranno i nostri verso una strada senza uscita. Vladimir è geloso della
comunanza tra Blinis ed Helene, e trova il modo di cacciarlo. Ma non riuscirà
ad entrare in sintonia con la giovane, rimanendo invischiato nelle serate
alcoliche di Jeanne.
Quando
poi Helene gli chiede aiuto per abortire il figlio di Blinis, Vladimir entra in
una crisi profonda. È geloso, rancoroso, ma anche si domanda dove sia finito
Blinis, in realtà il suo unico vero amico. Riuscirà a liberarsi dalle grinfie
di Jeanne in modi che dovrete seguire su carta, poi comincerà a girare per
l’Europa alla ricerca di Blinis, per riannodare un’amicizia, ma soprattutto per
convincerlo a tronare da Helene.
Qui
c’è tutta l’odissea ferroviera che si diceva, che lo riporterà all’Est, verso
Mosca, verso Blinis, verso, forse, un ritorno alla povertà, ma alla serenità di
aver fatto, pur dolorosamente, pur con errori, la cosa giusta.
Al
solito, mi dispiace che si travisi il titolo. Certo, la vita di Vladimir, di
Blinis, di Jeanne stessa sono senza scampo. Ma Simenon aveva intenzione di
mettere l’accento invece sulle strade intraprese dai personaggi, che sono senza
uscita, che non portano a nessuna salvezza.
Un
ultimo accenno, nel 2006, il regista Jacques Fieschi realizza un film
intitolato “La Californie” ispirato da questo testo. Dove il titolo riporta ad
una zona residenziale di Cannes, dove c’è una villa a suo tempo abitata da
Picasso e si svolge la maggior parte del romanzo. Un film dove Jeanne è
interpretata da Nathalie Baye, che ben ricordo dai tempi di un mitico film di
culto per la mia memoria, “Effetto Notte” di Truffaut.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Golf-Juan, vicino ad Antibes, Cannes, Varsavia |
Vladimir, russo emigrato in
Francia; domestico e amante di Jeanne Papelier, celibe, maturo d’età |
Jeanne Papelier, ricca ereditiera,
cinquantenne Hélène, figlia del primo matrimonio
di Jeanne Georges Kalenine, chiamato
Blinis, compatriota e amico di Vladimir, anche lui al servizio di Jeanne |
Da
Pasqua a fine anno |
Epoca
contemporanea (accenno alla Rivoluzione Russa) |
Georges
Simenon “Il Sorcio” Repubblica Simenon 29 euro 9,90
[A: 06/05/2020 – I: 15/05/2022 – T:
16/05/2022] - &&&---
[tit. or.: Monsieur la Souris; ling. or.: francese; pagine: 153; anno 1938]
Nella solita confusione della seconda metà
degli anni Trenta, ci troviamo di nuovo di fronte ad un romanzo scritto nel
febbraio del ’37 ma pubblicato soltanto l’anno dopo in volume da Gallimard. È
anche il periodo in cui, sperando di trovare un posto nell’alta letteratura,
aveva deciso di abbandonare la scrittura delle avventure di Maigret.
Anche se inverno, comunque, torna al sud,
nella Villa “Les Tamaris” sull’isola di Porquerolles, dove scrive un discreto
numero di romanzi. La sua attenzione, poi, lo porta a percorrere strade note,
oltre a spaesare il testo rispetto al tempo della scrittura (e al luogo). Sarà
anche un periodo fecondo, che subito dopo mette mano ad uno dei suoi romanzi
più riuscite (“L’uomo che guardava i treni”).
Prima di calarci nel testo, una piccola nota
linguistica. “Souris” in francese è sia sorriso che topo. Ma il primo è
maschile (“fais-moi un souris”) mentre il secondo è femminile (“la souris mange
du fromage”, dove è il topo che mangia il formaggio e non …). Così il signor
Topo del titolo, il clochard di cui seguiamo le gesta, è appunto “Monsieur La
Souris”.
Pur appartenendo a pieno titolo ai “romanzi
duri”, questo è, a tutti gli effetti, un Maigret senza Maigret. Per tutta una
serie di motivi, a partire dall’intreccio, su cui torneremo, ma soprattutto per
la presenza di poliziotti che presto vedremo entrare a pieno titolo nei Maigret.
L’indagine è infatti affidata al commissario Lucas, che, se non fosse perché si
chiama Lucas (e perché, forse, interviene meno) sarebbe omologabile al suo
capo, appunto il commissario capo Jules Maigret. Ha un piccolo cameo Janvier,
retrocesso al ruolo di Brigadiere. Ma l’elemento forte è il poliziotto che
indaga, tristemente ma senza mai tirarsi indietro, l’ispettore Joseph Lognon.
Ora, per chi conosce la serie di Maigret, sa
che Lognon compare come un componente di una squadra di indagine, che è sempre
un po’ in urto con Maigret, ma che è un vero mastino. Quando ha un compito è
praticamente impossibile che si tiri indietro. Qui, Lognon è un ispettore del
commissariato afferente l’Opera, laddove “La Souris” clochard impenitente
spesso passa la notte. Il clochard, giustamente riportato in italiano con “il
Sorcio”, sarà lui che darà a Lognon il soprannome di “Malgracieux” (in italiano
Scorbutico), con il quale lo ritroveremo poi nei romanzi di Maigret.
Simenon si sofferma molto su Lognon, ce lo
descrive (“tagliato nel legno, capelli nero inchiostro, fuma sigarette in giro
e la pipa in casa”), anche nell’ambiente familiare: moglie arcigna, figlio non
ben identificato, ed un luogo esplicito, 29, place Constantin-Pecqueur, al
quarto piano. Quasi a voler capire se potesse avere un seguito, ma anche a
sottolinearne l’ambito più popolare: la casa è nel 14° verso Place d’Italie,
mentre lui lavora dall’altra parte della Senna, nel 9°.
Veniamo allora all’intreccio, che, come nei
Maigret puri, è anche molto dedito alla psicologia dei personaggi. Entriamo in
sintonia con il Sorcio, il suo prendere la vita così come viene, arrangiandosi,
dormendo in guardina, per poi venire a trovarsi con una busta super piena di
soldi. Che fare? Ideona: darlo alla polizia, e se nessuno la reclama, dopo un
anno, averla indietro e tornare a vivere al paesello.
Ma la busta è cascata dalle tasche di un
personaggio altolocato, Edgard Loëm, finanziere svizzero, che, nelle frequenti
soste lavorative parigine, si è creato un piccolo ambiente familiare con una
ragazza madre, il di lei figlio, e la sua passione per i francobolli rari.
Edgard risulta scomparso, ed il Sorcio tenta di capire che fine faccia.
Così, da un lato il Sorcio legge i giornali,
si apposta, guarda, in modo di scoprire se i soldi siano al sicuro. Dall’altro
Lognon lo segue passo passo, facendosi anche troppo vedere. Ma Lognon è un
mastino, non si tira mai indietro, tanto che ne subirà delle conseguenze.
Ma l’abilità di Simenon è quello di fare un
canto corale. Il Sorcio che gira e scopre, Lognon che guarda e capisce solo
alla fine, i finanzieri svizzeri venuti a controllare le transazioni di Edgard,
il segretario di Edgard con l’amante ungherese, l’amante di Edgard. Insomma, la
solita messe di persone che l’abilità di Simenon riesce a non perdere per
strada.
Alla fine, verrà trovato morto Edgard, e si
verrà a scoprire altari ed altarini legati dalla comparsa di un francobollo
raro (o dalla sua scomparsa). Simenon trova anche il modo di prendere in giro
il lettore, mescolando nomi altolocati inglesi, che si ripetono di generazione
in generazione, confondendo il nuovo ambasciatore inglese con un omonimo
plenipotenziario che si occupava di colonie. Ma anche di chiudere il caso senza
un vero colpevole accusato e condannato. Perché nel finale, Simenon preferisce
seguire i vari personaggi, compresa l’amante di Edgard, per poi finire con il
Sorcio che, sfumato l’affare dei soldi della busta, continua la sua vita da
clochard tra le varie prefetture parigine.
È un
bel ballo di attori, anche se la trama poliziesca è un po’ blanda, il che rende
poco chiari moventi e movimenti. Diverte la presenza dei futuri collaboratori
di Maigret, ed il solito modo di Simenon di portarci in giro per Parigi. Che al
solito è un segno dell’autore, scrivere di luoghi che lui ben conosce, ma
scrivendo lontano dai luoghi stessi.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Parigi
(quartieri Champs-Elysées, Opéra, la Madeleine, etc.) |
Ugo
Mosselbach,
alsaziano, sopranominato “il Sorcio”, barbone, ex-professore di musica, 68
anni |
Edgard
Loëm,
finanziere svizzero Frédéric
Müller,
assistente di Loëm Dora
Staori, fidanzata
di Müller, figlia di un avvocato ungherese Ispettore
Lognon, sopranominato
“Ispettore Scorbutico” Commissario
Lucas Lucile
Boisvin, amante
di Loëm
|
Una
settimana più un finale mesi dopo |
Epoca
contemporanea |
Georges
Simenon “Corte d’Assise” Repubblica Simenon 6 euro 9,90
[A: 31/10/2019 – I: 29/05/2022 – T:
31/05/2022] - &&&&
[tit. or.: Cour d’assises; ling. or.: francese; pagine: 184; anno 1941]
Purtroppo,
rispetto all’andamento più regolare di quando scrive di Maigret (scrive,
corregge e poco dopo esce il libro), sui romanzi “duri” il divario tra scritto
e pubblicazione è sempre più ampio. Perché Gallimard, che sta tenendo in mano le
sorti di Simenon, ha una discreta messe di libri da far uscire, non solo quelli
del nostro.
Ecco
allora che nel 1937, approfittando di una vacanza in Italia, mentre dimora
all’Hotel Verbano, sull’Isola dei Pescatori nel Lago Maggiore, scrive di getto
questa “Corte d’Assise”. Che non avrà nessuna pubblicazione preliminare. Non
solo, nel gennaio del ’39 la rivista “Cinémonde” ne annuncia l’uscita, ma è una
falsa notizia. Dopo di che, anche Gallimard proclama che il libro uscirà nel
giugno del ’40, ma la guerra deciderà altrimenti, e la storia di Luigino (per
fortuna, non il nostro Luigino, ma il protagonista, Louis Bert detto Petit
Louis) uscirà solo nel 1941.
Ci
si avvia verso la fine degli anni Trenta, e Simenon si sente un vero
romanziere, anche se non disdegna di proseguire i suoi rapporti plurimi con
l’altro sesso. Iniziata e finita la storia con Joséphine Baker, si ritira nel
sesso a pagamento, ed in alcune uscite rare con la moglie Tigy. Anche se, per
sua esplicita richiesta, vuole un figlio. Tanto che il 19 aprile 1939 nasce, a
Bruxelles Marc Simenon. In precedenza, nel resto del 1937 aveva cambiato molte
dimore prima di stabilizzarsi a Neuilly, che nel 1938 aveva abbandonato per
tornare sulla costa atlantica, vicino a La Rochelle. In attesa delle novità che
arriveranno, come tutti sanno, verso la fine del ’39.
Ma
torniamo al romanzo, ed alle idee di Simenon sulle vicende umane. Al solito,
non ha interesse, reale, a svelare i misteri, a trovare (e punire) i colpevoli.
Quello che vuole è descrivere un momento dell’esistenza di qualcuno, dove ci
possono o non ci possono essere azioni criminali, ma che solo in alcuni casi,
fuori dai Maigret, risolverà sino in fondo. Spesso, come in questo, possiamo
capire chi ha fatto cosa, ma i colpevoli saranno colpiti solo da altra
giustizia, non da quella umana.
Giustizia
che invece colpisce il nostro eroe, che seguiamo in un romanzo realmente
spaccato in due parti. Nella prima, anche con ironia, Simenon ci racconta le
spacconate di un delinquente di basso profilo. Petit Louis è sui 24 anni, ha
fatto l’ebanista per uscire dalla miseria, poi ha pensato bene di sfruttare il
suo fascino gentile, per entrare nelle grazie delle bande dei Marsigliesi, in
genere attirando su di sé l’attenzione, per permettere ai compari rapine ed
altro.
Così
accade a Le Lavandou, sulla costa tra Saint-Tropez e Marsiglia, dove sfida il
direttore dell’Ufficio Postale ad una partita di bocce (in realtà pétanque),
mentre i suoi amici svaligiano le Poste. Colpo riuscito, come lui riesce a far
colpo su una gran dama che vive di rendita, Constance
Ropiquet, che si fa chiamare Constance d’Orval, ed usa la sua rendita per
vivere agiatamente e giocare al casinò. Petit Louis ha facile accesso alle
grazie della tardona, si fa mantenere, non solo. Torna a Marsiglia per avere la
sua parte di bottino, che non avrà. Per ripicca, costringe Louise, la sua
amante, a lasciare il rifugio marsigliese ed a seguirlo a casa di Constance.
Nasce
così un rapporto multiplo tra i tre, con il nostro che si bea di tutte le
comodità che gli permettono i soldi. Anche se deve stare attento ai
marsigliesi, in particolare a Gene, il capo, che non solo non vogliono pagare
la sua parte, ma Gene è imbestialito da quello che ritiene sia il “rapimento”
di Louise.
Tutto
collassa quando, dopo la festa per il compleanno di Constance, Petit Louis
prima si aggira per la cittadina cercando di sfuggire a Gene, poi scopre che
Louise è fuggita; quindi, torna a casa dove trova Constance morta. Sicuro che
gliene venga addossata la colpa, fa sparire il cadavere (che non verrà mai
trovato) e cerca di sfruttare il tempo prima dell’allarme per appropriarsi dei
soldi di Constance e fuggire all’estero.
Non
sarà così, verrà preso, e passeremo quindi alla seconda lunga e complessa fase
del romanzo, dove, raccontato alla Simenon, sempre seguendo un modo mai troppo
diretto, vedremo Petit Louis intrappolato dalle sue stesse bugie, imboccare un
tragico sentiero, che potrebbe portarlo anche alla sentenza capitale. Il
giudice Monnerville istituisce un mostruoso fascicolo probatorio contro Louis
Bert, che arriverà a più di 800 pagine. Dove sono elencati tutti i fatti della
vita di Petit Louis, ed in particolare quelli fuori della legalità, ma che
travisano i fatti reali. Si costruisce così un castello di accuse, consistente,
ma completamente falso. Vediamo così ribaltata l’immagine del giovane allegro,
sfrontatamente disinvolto, che diviene un cupo figuro, violento nei confronti
della madre e dell’amante. Dato in pasto a tutta una platea giudicante, che non
solo è quella della Corte d’Assise, ma anche quella di conoscenti, di passanti,
di portinai. Ogni azione di Louis, avulsa dal contesto, può essere ed è vista
in un’ottica negativa. Ed il nostro, schiacciato dall’inutilità della lotta
verso un meccanismo che non gli consente di difendersi, si chiude in uno
sterile mutismo, guardando i suoi giudici con l’aria di un cane condotto alla
vivisezione.
La
storia riporta in pagine mirabili la profonda convinzione di Simenon, quella di comprendere ma non giudicare,
che sarà sempre la sua filosofia, in specie nei migliori Maigret. Io mi sono
beato del modo di scrivere, che assume un tono adeguato all’andamento della
storia. Scanzonato all’inizio. Cupo e spezzettato quando vediamo Petit Louis
cadere nel baratro di una giustizia che non gli consente nessuna difesa utile.
Alla fine, ci sarà una sconfitta per molti, per la giustizia, per Petit Louis
(che però salverà la testa), ed una “vittoria” per chi ha commesso i crimini e
non verrà punito. Ed una vittoria per me che con Petit Louis ripercorro strade
a me care, da Nizza a Cannes, senza scordare la mia amata Saint-Paul-de-Vence.
“È
inevitabile, quando si è felici, si sente sempre un brivido di angoscia
all’idea di perdere ciò che si ha…” (46)
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Le
Lavandou, Nice, Mentone, Cannes, Porquerolles |
Louis
Bert,
soprannominato Petit Louis. Ex-ebanista, celibe, 24 anni |
Constance
d’Orval,
in realtà Constance Ropiquet, vive di rendita Louise
Mazzone, detta
Lulu, prostituta Gene,
protettore
di Lulu Commissario
Battisti Monnerville,
giudice
istruttore |
Una
settimana più un anno tra indagini e processo |
Epoca
contemporanea |
Georges
Simenon “Pioggia nera” Repubblica Simenon 21 euro 9,90
[A: 13/02/2020 – I: 10/06/2022 – T:
11/06/2022] - &&&&
[tit. or.: Il pleut, bergère; ling. or.: francese; pagine: 123; anno 1941]
Ci sono alcuni elementi notabili in questa
lettura di uno che per me rimane tra i migliori scritti “non Maigret”. Il primo
è che fu acquistato nel giorno del compleanno di Simenon (nonché della mia
amica Rosa). Il secondo deriva al solito dal tempestoso rapporto tra Simenon ed
il suo editore, Gaston Gallimard. Che il nostro scrive, e l’editore lo pubblica
dopo anni. Questo libro, infatti, viene scritto sempre sulla residenza sopra La
Rochelle, a Nieul-sur-Mer nell’ottobre del 1939. La guerra è scoppiata da poche
settimane, ancora non siamo nel pieno del conflitto. Ma Gallimard ha tanto da
pubblicare, poi sopravvengono ristrettezze varie. Fatto sta che il libro esce
in volume solo nel giugno del 1941.
Ma in quel ’39, Simenon è particolarmente in
buona disposizione (ricordo che in aprile è nato il primogenito Marc), tanto
che poco dopo la scrittura di questo romanzo, per la prima volta, dopo sei
anni, mette mano ad un’avventura del suo commissario.
Tornando al libro, tuttavia, il terzo
elemento da notare è che, seppur indirettamente, il filo rosso della trama
cerca di rendere omaggio, nel trentennale della ricorrenza, all’ingiusta
esecuzione dell’anarchico spagnolo Francisco Ferrer, avvenuta per l’appunto
nell’ottobre del 1909. Simenon, però, non è sprovveduto da esporsi totalmente,
così che imbastisce un romanzo obliquo, tutto visto in soggettiva dagli occhi
di un ragazzo, Jérôme Lecœur, di sette anni all’epoca dei fatti, e poco più
grande durante la narrazione. L’azione, come al solito in Simenon, si sviluppa
lontano dal luogo di scrittura. Lui sta sull’Atlantico, la vicenda si svolge in
una imprecisata cittadina della Normandia.
Facciamo anche un piccolo passo di lato per
riflettere sul titolo. L’originale riporta “Il pleut, bèrgere”, titolo che
nella prima edizione italiana si riporta pedissequamente come “Piove
pastorella”, e solo dalle edizioni Adelphi di dopo il 2000, si trasforma in
“Pioggia nera” (dato anche che per molto tempo dell’azione in effetti piove).
Nessuna edizione, tuttavia, riporta l’origine e le connessioni del titolo. “Il
pleut, bèrgere” è in realtà una canzone presa dall’opera comica in un atto
“Laura e Petrarca” scritta nel 1780 da Fabre d'Églantine. La canzone pare venga
cantata nel luglio 1789 dalla Guardia Nazionale, dopo la presa della Bastiglia,
dove la pastorella sarebbe la regina Maria-Antonietta ed il temporale rimanda
al furore rivoluzionario che attraversa quegli anni. Fabre d'Églantine era tra
l’altro un fervente sostenitore di Danton, e con lui finirà ghigliottinato nel
1793.
Ultimo elemento che sottolineo è il racconto
in prima persona di Jérôme Lecœur, che, ricordando acutamente gli avvenimenti
di quel periodo turbolento, ci narra di tutti quei giorni di pioggia che lo
costringono in casa, e che lo coinvolgono in una lotta senza quartiere (così
almeno nella sua mente) con l’ingombrante zia Valerie, che inopinatamente si
trasferisce a casa Lecœur, che gestiscono un avviato seppur non proprio
redditizio, commercio di tessuti.
Con gli occhi di un bambino (e qui Simenon
si aiuta molto con i suoi ricordi infantili, dove torneremo in finale), Jérôme
vede tutto, ma non tutto capisce. Non capisce l’acidità della zia, la sua
malvagità, tanto che zia e nipote si mettono a competere con piccole ripicche:
lei calpesta i suoi giocattoli, lui nasconde il giornale da usare nella
ridotta. Unica consolazione per Jérôme è la vista di quello che considera suo
amico, pur non avendo mai né parlato né giocato con lui. Di là della strada
vive la famiglia Ramburges. C’è la nonna, e c’è il nipote, il piccolo Albert.
Jérôme ne diventa sodale, soprattutto quando sa che il padre di Albert, Gaston,
è un anarchico ricercato dalla polizia.
Ed il tifo per la famiglia di Albert è
vieppiù rafforzato che invece la zia si schiera con i gendarmi. Così come
l’odio di Jérôme verso Valerie. Nei ricordi da fanciullo, lui pensa che sarà
proprio questa contrapposizione a far andar via insalutata ospite la zia. Solo
da adulto, parlando con la madre, ne scoprirà le vere e più banali motivazioni.
Che lascio a voi scoprire.
Per la mia lettura, è stata una bella
cavalcata nell’idea di vedere il mondo attraverso gli occhi innocenti di un
fanciullo, non ancora incattivito dalle brutture del mondo. Un fanciullo che si
esalta di piccole cose, un giocattolo, lo sguardo verso Albert, un foglio di
giornale. È di certo, riprendendo quanto accennato sopra, un prodotto obliquo
di quanto Simenon stava producendo in quegli anni. Che stava in effetti
scrivendo la prima parte delle sue memorie. Che voleva chiamarsi “Je me
souviens” e che Gallimard lo convinse a cambiare in “Pedigree”. Una memoria
che, letta, illumina la modalità di crescita delle capacità scrittorie del
maestro belga.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Cittadina
in Normandia non meglio precisata |
Jérôme Lecœur,
narratore dei fatti, 7 anni all’epoca del racconto |
Tante
Valérie, Papà
e mamma Lecœur Albert
e sua nonna, la signora Ramburges Gaston
Ramburges, padre
di Albert |
Alcuni
giorni |
Intorno
al 1909 |
Georges
Simenon “Il viaggiatore del Giorno dei Morti” Repubblica Simenon 10 euro
9,90
[A: 26/11/2019 – I: 13/06/2022 – T:
15/06/2022] - &&& e ½
[tit. or.: Le Voyageur de la Toussaint; ling. or.: francese; pagine: 281; anno 1941]
La guerra è ormai scoppiata, e Simenon, pur
continuando a scrivere nel suo rifugio vicino La Rochelle, è coinvolto
dall’ambasciata belga e nominato “Alto commissario dei rifugiati”. Un compito
cui si dedica con ardore, riuscendo a sistemare 18.000 compatrioti in fuga dal
Belgio occupato nelle cittadine intorno a La Rochelle. Un compito che lo occupa
per buona parte del 1940. Finito il quale, decide di ritirarsi nell’interno
della Francia, e precisamente a Mervent-Vouvant in Vandea. Si stabilisce in una
fattoria, dove compone alcuni romanzi.
Ma insorge anche un terribile problema. Un
radiologo di Fontenay-le-Comte, non distante dalla fattoria, mal interpretando
delle lastre, gli diagnostica al massimo tre anni di vita. Motivo per cui,
prima abbandona tutti gli altri scritti, dedicandosi alla stesura della sua
autobiografia (”Pedigree”, di cui si è già parlato), poi si sposta in città,
dove nel caso può essere più facilmente curato, affittando un appartamento al
numero 12 di quai Victor-Hugo a Fontenay-le-Comte. Qui compone cinque romanzi
nel ’41, di cui due “Maigret”. Uno dei cinque è questo viaggiatore del 1°
novembre, il Giorno dei Morti. Redatto in febbraio, già a maggio esce a puntate
sul quotidiano “Le Petit Parisien”, e subito dopo l’estate già in volume, prima
di altri romanzi che restano nei cassetti.
Probabilmente, Gallimard decide di
anticiparne l’uscita per le tematiche del romanzo, che potrebbero riassumersi
in una lotta senza esclusione di colpi tra due concezioni del mondo. Un tema
che in tempo di guerra è di certo molto forte. Tanto che già due anni dopo, ne
viene tratto un film, non particolarmente brillante, che ha però due interpreti
da segnalare. In una parte, non di primo piano, ma chiave per la storia è
presente il giovane Serge Reggiani alla sua prima interpretazione. Una piccola
comparsa vi fa anche la ventenne Simone Signoret.
In questo romanzo Simenon si impegna in una
trama non complicatissima, ma di più ampio respiro rispetto all’usuale, tanto
che, caso raro per la sua scrittura, si avvicina alle 300 pagine. Ovvio che il
suo modo di scrivere non può venir meno, quindi tripartisce il racconto, quasi
a farne tre mini-romanzi. Nel primo assistiamo alla presentazione dei
personaggi e dell’ambiente. Al solito, scrivendo in Vandea, fa muovere i suoi
attori altrove. E cosa meglio di farli agire nel luogo che frequenta da tanti
anni, cioè La Rochelle? Quello che seguiamo, qui e per il resto del testo, è il
non ancora ventenne Gilles Mauvoisin, che torna nella città natale della sua
famiglia, dopo che ha sempre vissuto girovago con i suoi genitori, attori e
giocolieri, sempre in giro per l’Europa.
Nell’ultima tournée in Norvegia, i due
muoiono e Gilles torna a casa, dove è sicuro di trovare almeno un parente, la
sorella della madre Gérardine Éloi. La sua sorpresa è invece di trovarsi erede
delle fortune dello zio Octave, un sessantenne morto alcuni mesi prima. Gilles
è giovane, forse ingenuo, ed i potenti locali, notai, avvocati, proprietari immobiliari,
capitani di flotta, sembrano poterlo piegare ai loro voleri. Che Octave li
teneva tutto in pugno, ma le carte dello zio sono in una cassaforte che pare
impenetrabile. Il tutto è condito da Colette, la giovane (meno di trent’anni)
sposa di Octave, che però tradiva con un dottore. E da Alice, una giovinetta
che è la prima persona che Gilles vede arrivando, e di cui sembra innamorarsi.
La seconda parte è dedicata alla discesa di
Gilles nell’inferno del quotidiano, dove tutti, non essendo lui duro e cattivo
come lo zio, vogliono ridurlo alla ragione. Gilles decide di seguire i suoi
istinti. Sposa Alice, è compassionevole verso Colette ed il suo amante. Vuole
metter naso negli affari della ditta, cosa che i potenti del luogo prima
osteggiano brontolando, poi si mettono di buzzo buono. Cercando di coinvolgere
la spaesata Colette in trame delittuose. Ma dopo la prima parte spaesata, e la
seconda in difesa, Gilles trova l’accesso alla cassaforte dello zio (vedi anche
commento finale), ed ha in mano gli strumenti per difendersi.
Parte così l’ultimo terzo di romanzo, dove
Gilles sembra ripercorrere la strada solitaria del potente ma anche malvagio
zio. Ha tutti in mano, li piega alle sue necessità. Ma si accorge della povertà
della sua vita privata. Alice non ha slanci, il figlioletto nato non lo
coinvolge, vede allontanarsi zie e cugine, di sangue ed acquisite. Qui Simenon
entra a gamba tesa nel problema su cui girava intorno dall’inizio. I due tipi
di società, emblematizzati da lui e dallo zio Octave, sono separati non solo da
una diversa concezione dell’uso del denaro, ma anche, e soprattutto, dai valori
umani che ad essa sono sottesi. Gilles decide di rompere il cerchio, di
riappropriarsi della propria vita e dei propri valori. Riprendendo la vita
girovaga dei suoi genitori. Da solo? In compagnia? Lo scoprirete solo leggendo,
parafrasando Battisti.
Un altro bel romanzo, forse solo appesantito
dalla lunghezza. Ma esemplifica al meglio il suo modo di scrivere fuori dalle
costrizioni di Maigret. Frasi brevi, dialoghi che dicono ma anche accennano,
sorvolano. Capitoli che sembrano temporalmente conseguenti, ma fanno anche
piccoli salti in avanti. E poi c’è questa lotta tra le due anime della famiglia
Mauvoisin, che vale tutta la lettura.
Con la solita velocità delle traduzioni
italiane, la prima uscita in Italia fu solo venti anni dopo la pubblicazione,
uscendo per Mondadori con il titolo “La cassaforte dei Mauvoisine”, con un
errore di scrittura (quella “e” finale, forse aggiunta da Wikipedia?) e con
l’accento ad un elemento che parafraserebbe un giallo. Poi fortunatamente viene
ritradotto in questa versione da Adelphi.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
La
Rochelle |
Gilles
Mauvoisin,
19 anni, celibe e senza professione |
Colette
Mauvoisin,
vedova di Octave Mauvoisin, sulla trentina Gérardine Éloi,
zia
di Gilles Alice
Lepart, figlia
del contabile delle imprese Mauvoisin |
Alcuni
mesi |
Epoca
contemporanea |
Anche
questa settimana, prima di salutarvi, tornerei su Erri De Luca che per alcuni
anni mi ha assillato con i suoi scritti, risuonanti nelle mie corde, anche se
ora mi si è un po’ allontanato. Ma dodici anni fa, in “Non ora, non qui” mi rivolgeva frasi che, come dice l’ultima, a
lungo hanno risuonato in me. La prima è quasi un’introduzione: “Molto
del destino di ciascuno dipende da una domanda, una richiesta che un giorno
qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge: d’improvviso uno
riconosce di aspettare da tempo quella interrogazione, forse anche banale ma
che in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a risponder ad essa con
tutta la vita” (60). Poi viene l’affondo: “Papà aveva ragione, ero un bambino
che non sapeva domandare” (66).
Fortuna che ho imparato, ed ora che mi accingo ad un nuovo viaggio, ne posso ripensare a mente serena. Quindi, saluto velocemente, chiudo la valigia, vi abbraccio.
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