domenica 15 gennaio 2023

Calavi il tono - 15 gennaio 2023

Sembra un titolo anodino, invece è per me un personale omaggio ad uno scrittore che della leggerezza ha fatto una bandiera. Non solo, ma ha costruito, ed altri con lui, scritti complessi costretti in regole stringenti. Per questo ho deciso di intitolare questa trama con un suo anagramma e dedicargli queste letture saldamente superiori alla media.

Italo Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno” Repubblica Calvino 4 euro 9,90

[A: 08/11/2020 – I: 13/04/2022 – T: 14/04/2022] - &&&&   

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 151+LXVII; anno 1947]

Era molto tempo che non leggevo qualcosa di Calvino, e devo dire che leggere un libro sulla Resistenza, in tempi in cui abbiamo una guerra alle porte è stato un esercizio utile, per capire e per riflettere. Tra l’altro, come scrivo sopra, non sono soltanto le 150 pagine del libro, ma c’è anche una suntuosa introduzione (nonché una ben articolata cronologia biografica).

Della seconda, di cui parliamo qui e non ci torneremo più sulle altre letture calviniana, ritengo nell’animo alcuni punti fondanti. La nascita, casuale certo, a Santiago de Cuba. Il liceo, dove per un anno ebbe compagno di classe Eugenio Scalfari. La moglie, l’argentina Esther Judith ma da sempre soprannominata Chichita. E poi i tempi della letteratura, su cui si tornerà in altre scritture.

Dalla prima, scritta per la riedizione del libro nel ’64, porta a ragionare con lo scrittore sulla genesi della scrittura, sulle modifiche anche ideologiche che avvengono nel tempo. Perché, magari, dopo anni di altro, si torna sulle proprie parole, e si scopre che non tutte sono sempre in accordo con il sé stesso di ora. Noi siamo sempre noi stessi, ma la nostra evoluzione può essere variegata. Calvino non rinnega una virgola di quanto scritto allora, ma, dopo quasi venti anni, forse avrebbe messo accenti in posti diversi.

Ma noi abbiamo di fronte il suo testo, scritto sull’onda della fine della guerra, dall’autore che all’epoca ha solo 25 anni, essendo per inciso nato solo pochi mesi dopo mio padre.

Da un certo punto di vista è un testo semplice, lineare, che ci mostra la difficoltà di essere bambini in un mondo adulto, la difficoltà di crescere, di trovare un proprio posto nella vita, un proprio modo di essere. Seguiamo infatti le vicende del piccolo Pin, dodicenne orfano dei genitori, allevato dalla sorella dedita a quello che viene definito il mestiere più antico del mondo.

Pin è più avanti dei suoi coetanei, con cui si trova male, ma si trova male anche con i grandi, che, ovviamente, non lo accettano. Oltre alle difficoltà di crescita e di vita, il tutto è complicato dal fatto che siamo in guerra. Ci sono i tedeschi che occupano le città, ci sono i partigiani che si ribellano sulle colline poco distanti.

Pin, in questo mondo in cui è sempre fuori posto, si trova coinvolto in una serie di avvenimenti che si concatenano casualmente, ma che potrebbero (hanno) conseguenze possibilmente devastanti. Mentre la sorella si accompagna con un tedesco, Pin gli ruba una pistola, che andrà a nascondere nel suo luogo segreto, il sentiero dove i ragni fanno le loro tane.

Subito scoperto, viene malmenato ed interrogato dai fascisti, rinchiuso in carcere, dove conosce il giovane partigiano Lupo Rosso. Con lui, organizza e realizza la fuga, ma Lupo lo abbandona, e lui, vagando per i boschi, si ritrova in una brigata partigiana.

Una brigata atipica, fatta da gente che più scompaginata non si potrebbe. Accettato come aiuto cuoco, rallegra tutti con le sue canzoni. Ma tutti, in quella strana compagine, hanno problemi di comportamento e di socialità. C’è Pelle, dedito all’accumulo di tutte le armi possibili, che ad un certo punto li tradisce, si arruola in una brigata Nera, ma morirà in un agguato organizzato da Lupo Rosso. C’è Mancino il cuoco, che per salvarla porta con sé la moglie. Ma le donne non sono ben viste in montagna. E lei non è da meno, tanto che farà perdere la testa a Dritto, il comandante della Brigata, che prima, sbadatamente, farà bruciare l’accampamento, poi si rifiuterà di andare in battaglia, per concedersi una notte d’amore prima di finire sotto processo e forse giustiziato.

Pin cerca di barcamenarsi tra le varie posizioni, trovando conforto solo nel rapporto con Cugino, un ex-alpino solitario, l’unico che parla poco ed agisce molto. Pin che ha sempre la sua pistola vicino ai ragni. Pin che vorrebbe confidarne il segreto ma non si fida di nessuno. Così che si allontana dai partigiani e dalle loro diatribe, recupera la pistola, e cerca di tornare dalla sorella. Che nel frattempo ha fatto anche lei il grande salto, cominciando a denunciare i partigiani ed i loro fiancheggiatori.

Sulla strada di casa, però incontra Cugino, ed avrà un colloquio quasi da adulto con lui, e con lui, dopo altri avvenimenti che non vi dico, si avvierà verso un'altra notte.

Come detto sopra, è un romanzo di iniziazione, un romanzo che ci fa riflettere sui progressi mentali di un giovane che vuole diventare adulto. Ma anche un romanzo politico, anche se il solo e vero capitolo politico è l’ottavo dove seguiamo il commissario Kim, uno che controlla l’andamento delle varie formazioni, che ragiona quasi a voce alta sui partigiani, sulla lotta, su come è e come sarà (forse) il mondo che verrà. La forza di Calvino, che qui già si mostra, è sia nella caratterizzazione dei personaggi, che riesce a fare con poche e mirate parole, sia l’uso del dialogo, che serve a tirar fuori situazioni e sentimenti, senza star lì a fare tanti discorsi. Perché una parola diretta, spesso, è meglio di cento descrizioni esterne.

Infine, ed è questo che mi ha colpito nel profondo, leggerne ora, in questi giorni di guerra, in questi momenti in cui ci si solleva l’un contro l’altro, fratello contro fratello, è di una forza incredibile. La guerra rende tutto brutto ed invivibile, anche la crescita di un giovane verso l’età adulta. Rende insopportabili anche i più piccoli risentimenti. Insomma, come dice papa Francesco, “fermatevi, per pietà”.

“Un giorno troverà un amico, un vero amico, che capisca e che si possa capire, e allora a quello, solo a quello, mostrerà il posto dei ragni.” (21)

“A fare i reati politici si va in galera come a fare i reati comuni … ma se non altro c’è la speranza che un giorno ci sia un mondo migliore, senza più prigioni.” (38)

Italo Calvino “L’entrata in guerra” Repubblica Calvino 18 euro 9,90

[A: 14/02/2020 – I: 13/04/2022 – T: 14/04/2022] - && e ½  

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87+XLVIII; anno 1954]

Secondo libro degli scritti di uno degli autori di cui, in maniera episodico, ma costante, cerco di leggere quanto prodotto, ritenendone utile la lettura per me, sicuramente, ma credo anche per i miei sparuti lettori. Si tratta di scrittori di diversa natura, che ritengo caposaldi, per diverse e complesse ragioni, di momenti di scrittura significativi. Si tratta di italiani, come Sciascia o Agnello Horby, e stranieri, come Simenon o Murakami. Tutti con punti di lettura significative e a volte eccelse.

Calvino, tra l’altro, è stato compagno della mia crescita adolescenziale, laddove per anni viaggiai avendo nel retro della mente le avventure di Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez (cui mi accanivo ad aggiungere Castelgioioso, che invece proveniva dall’altra mia passione del tempo, il Cyrano di Emile Rostand).

Questo, poi, è una sorta di romanzo mancato, dove sono presenti tre capitoli, legati tra loro solo dal protagonista, che in tutti si presenta come “io”. Sono, in realtà, tre momenti della vita di quell’io, che poteva ben essere Calvino stesso, visto che sono tutti ambientati nel ’40, ed il narratore, come Calvino, è un sedicenne sulla soglia della crescita (ricordo che anche Calvino è una bilancia, essendo nato il 15 ottobre del ’23). L’unificazione in volume avvenne (per le altre date vedete i diversi racconti) per la collana “”I Gettoni” di Einaudi nel 1954.

Il primo testo (capitolo?) è “L’entrata in guerra”, precedentemente uscito nel numero doppio 8-9/1953 della rivista “Il Ponte” di Piero Calamandrei, rivista di cui sarebbe bene parlare forse altrove, laddove recitava nel sottotitolo “rivista di politica e letteratura”. E sono un testo di politica e letteratura queste venti pagine che narrano la giornata del narratore quel 10 giugno del ’40 (e voi, cosa facevate il 24 febbraio 2022?). Che per lo scrivente sembra essere una giornata normale. Siamo  Sanremo, lui ed il suo amico Jerry, piemontese e antifascista, vanno al mare, corteggiano le ragazze, Jerry ne bacia una, sono raggiunti dal fratello di Jerry che pensa di tornare subito al fronte. Sembra tutto normale, poi l’11 giugno cade una bomba su Sanremo: ecco la guerra, i suoi orrori, la presa di coscienza del protagonista che aiuta la Croce Rossa, fino a quell’ultima immagine di Mussolini che, in macchina, andava verso il confine francese.

Anche il secondo testo non è inedito. Anzi è abbastanza innovativo, dove “Gli avanguardisti a Mentone” viene pubblicato nel secondo numero della rivista “Nuovi Argomenti” fondata nel ’53 da Moravia. Qui il narratore si accompagna con un suo sodale, indicato nel testo con il nome di Biancone, e che Calvino rivelerà essere il suo grande amico Duilio Cossu. I due, per voglia di avventura, si offrono di partecipare ad una parata, d svolgersi nella vicina Mentone, unica città francese conquista dai fascisti in Francia per tutta la guerra. Si parla di goliardate varie, dove nella città evacuata gli avanguardisti si danno a saccheggi vari. Solo Calvino, pur trattato da vigliacco, si sottrae alle ruberie, e torna a casa commentando “Ero inadatto a vivere nel fascismo, ma il fascismo avrebbe vinto; le guerre le vincevano i peggiori”. Una frase che ci fa riflette anche ora.

Solo il terzo testo, “Le notti dell’UNPA”, è inedito. Dove UNPA sta per “Unione nazionale protezione antiaerea”, un gruppo che recluta il narratore e Biancone per sorvegliare di notte una scuola elementare. I due sono titubanti, poi esaltati dall’avventura. Calvino confessa che era reduce dal primo amore. I ragazzi, con l’incoscienza della gioventù, fanno scherzi, si aggirano per la scuola e dintorni. Vanno nella strada delle prostitute, dove Biancone si ferma, e Calvino torna a girare nel buio. Fino al risuonare dell’allarme antiaereo che procura panico, e poi il ricongiungimento degli amici, che all’alba, finalmente, si addormentano.

I racconti del trentenne Calvino sono ben costruiti, con punte di flash sulle situazioni degli anni ’40 che rimasero nella memoria, ed a lui ed alla sua generazione, segnarono un passaggio. Perché ricordo che mio padre era del giugno ’23 e mamma dell’ottobre ’24. E quel giugno anche loro erano immaturi sedicenni. Anche per loro quel momento segno una passaggio della linea d’ombra che ci ricorda sempre Conrad. Il passaggio dall’adolescenza alla gioventù coincidente con il passaggio dalla pace alla guerra.

Non hanno tutti la stessa resa, per esempio io personalmente preferisco il primo. Ma negli altri due esce forte un tema che va al di là della guerra. Ed è la presenza di Biancone, l’amico forte, il personaggio che incarna quello che noi vorremmo essere ed ancora non siamo. Spavaldo dove noi si è timidi, capace di mentire senza vergogna, e con l’idea che sappia affrontare la vita. Quanto però al fine è vero in tutto ciò? Quanto non rimane che una proiezione della nostra volontà?

Ahi, quant’è difficile capire sé stessi.

Italo Calvino “La strada di San Giovanni” Repubblica Calvino 16 euro 9,90

[A: 01/02/2020 – I: 17/09/2022 – T: 19/09/2022] - &&& 

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 89+XLVII; anno 1990]

Come sanno gli esegeti di Calvino, e come spero impereranno i lettori di trame a lui dedicate, il grande scrittore sanremese (ma anche cubano, romano, parigino…), aveva sempre tanto nei suoi cantieri letterari che non tutto è riuscito a portare ad un momento finale, stroncato a soli 62 anni da un’emorragia cerebrale.

Uno dei tanti progetti era radunare una serie di scritti autobiografici, sparsi qua e là nel corso degli anni, e radunarli in un unico testo, dal titolo significativo di “Passaggi obbligati”. Erano momenti senza i quali Calvino non sarebbe potuto diventare Calvino. Ma mancò il tempo e gli scritti, così che la moglie Esther, riordinando le carte del marito morto, decide di radunare i cinque scritti che avrebbero composto la prima parte di quei passaggi, e pubblicarli con il titolo del primo di essi, che, in un certo senso, è quello più vicino all’idea calviniana del testo.

Abbiamo così questi testi, tre derivanti da pubblicazioni in riviste, un articolo di giornale ed una prefazione ad un libro. Tuttavia, non è la provenienza che ci interessa sottolineare (se ne legge nel libro e ciò basta), ma la fotografia a facce molteplici che ne deriva.

Parliamone allora, anche un po’ alla rinfusa. Ad esempio, di “Autobiografia di uno spettatore”, dove esce forte il suo legame con il cinema, ricordando nella prima parte ancora la sua adolescenza, fortemente segnata dal cinema americano che prima della Seconda Guerra mondiale monopolizzava le sale. Con una serie di ricordi e citazioni di film che, trent’anni dopo, segnavano anche il mio approccio (televisivo) a quel mondo. Clark Gable, Spencer Tracy, James Stewart e via partono i ricordi. Per poi passare ad un’analisi dei film di Fellini, dove non entro, che doloroso ne è il ricordo attraverso le analisi del mio grande cugino Zap. Quello che esce dal testo è l’uso del cinema come rappresentazione di un mondo che Calvino avrebbe visto di persona solo anni dopo.

Uno straniante sentimento d’attualità viene alla lettura de “La poubelle agréée”, questa pattumiera da Calvino utilizzata nei suoi anni parigini, che diviene non solo un simbolo dello smaltimento urbano (a cui noi siamo ancora distanti anni luce) ma soprattutto una riflessione sulla mescolanza delle culture e sulla tolleranza.

Poi ci sono i racconti più vicini al dettame autobiografico. Uno, quello che ho gradito meno, è “Dall’opaco”, dove crea una descrizione geometrica, ma per me fredda, del suo mondo ligure, contrapponendo la zona soleggiata (l’aprico) a quella posta nell’ombra (l’opaco), costruendo una continua contrapposizione, anche proprio dello scritto, tra verticale e orizzontale, tra la montagna ed il mare, ed in particolare tra la città e la campagna, su cui torneremo.

Quello che invece a me è risultato più vicino (a parte il discorso sul cinema) è “Ricordo di una battaglia”, articolo uscito sul “Corriere della Sera” il 25 aprile del ’77, in cui parlando dei tempi di guerra (quasi collegandosi idealmente ai “Sentieri dei nidi di ragno”) riflette sul momento della scrittura (tutti ce ne ricordiamo di quell’anno) quasi a prefigurare quel patto costituzionale che avrebbero pensato anche Moro e Berlinguer (e le BR).

E poi il centrale, nell’economia del libro e nella storia di Calvino, “Le strade di San Giovanni”. Perché la strada è quella che il padre percorre verso la campagna, e tutto il testo è permeato dal ricordo del padre e dalla contrapposizione tra Italo e Mario. Si parla di Villa Meridiana, dove i Calvino vissero al rientro da Cuba. Del lavoro di agronomo del padre, ma soprattutto della sua empatia verso la natura, della voglia di coinvolgere i figli in questo, e del loro rifiuto. In particolare, Italo che era protratto nella direzione opposta, verso la città, verso i cinema (come si è detto sopra). comincia in questo primo testo quel dualismo di cui si è già detto, concretizzato tra un andare verso est dell’uno e verso ovest dell’altro.

Calvino ci gira e ci rigira, usa parole e descrizioni varie, riporta situazioni familiari eponime (il padre che tenta di coinvolgerlo nella raccolta della frutta, lui che si attarda nel fare colazione), ma è sempre lì che si ritorna. Al perché di scelte opposte di persone che pur si conoscono bene e che dovrebbero capirle. Quanto ci danniamo anche noi nelle stesse situazioni. Sia prima, con i padri che ci volevano verdi e noi si era blu. Sia ora, con i figli che noi vorremmo gialli ed invece si voltano verso il viola.

È uno scritto alternante, nel coinvolgimento, ma che, al solito, come sempre in Calvino, invita alla riflessione. Cioè, non sempre sono in accordo con lo scrittore, ma sempre lo scritto mi fa pensare, e scattare memorie. E quando penso a Zap, è sempre un bel momento personale.

“Andavo al cinema al pomeriggio, scappando di casa di nascosto o con la scusa d’andare a studiare da qualche compagno.” (26)

“Il giornale viene da me regolarmente comprato, velocemente sfogliato e messo via, ma mi rincresce disfarmene subito, spero sempre che torni utile in un secondo tempo, che gli resti qualcosa da dirmi.” (72)

Italo Calvino “Sotto il sole giaguaro” Repubblica Calvino 10 euro 9,90

[A: 20/12/2020 – I: 20/09/2022 – T: 21/09/2022] - &&&  

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87+XLIX; anno 1986]

Ed eccoci ad un altro libro di Calvino pubblicato postumo. Anzi al primo ad essere pubblicato dopo la sua morte. Era un libro che Calvino aveva indicato come uno che stava scrivendo, che aveva in mente di scrivere, già durante le conferenze tenute in America nel 1983. In quella occasione confessò che stava rimuginando intorno alla scrittura di un testo che affrontasse i cinque sensi. La difficoltà, come confessa lo scrittore, sta nel fatto che: “che il mio olfatto non è molto sviluppato, manco d’attenzione auditiva, non sono un buongustaio, la mia sensibilità tattile è approssimativa, e sono miope”.

La scommessa di Calvino si basava poi su alcune considerazioni, sparse qua e là, in cui constatava come i sensi dell’uomo si erano in un certo senso atrofizzati, rispetto a quanto provava l’umanità nei tempi passati. Ma non era per lui un bisogno di regressione, quanto di un riscoprire le possibilità che gli stessi sensi potenzialmente potevano permettere all’uomo moderno.

Purtroppo, la morte non gli permise di portare a termine il progetto, così che la moglie Esther decide di raccogliere i tre testi relativi ad olfatto, gusto e udito e pubblicarli in un volume, sotto il titolo dedicato al gusto. Titolo che era differente, e non a caso, dall’originale.

Il primo testo, dal titolo “Il nome, il naso”, uscì originariamente nel 1972, nel primo numero dell’edizione italiana di Playboy. È in un certo senso (scusate l’enantiosemia) il più articolato, laddove si intrecciano tre racconti, sfalsati temporalmente, ma tutti basati sull’olfatto.

Il motivo di fondo è l’utilizzo dell’olfatto per ritrovare una donna, una che sole lei ha quell’odore, quella fragranza. Non si riesce a vederla con la vista, ma solo a vederla con il naso. Abbiamo l’episodio parigino ottocentesco, dove Monsieur de Saint-Caliste si rivolge ad una grande profumiera, madame Odile, per trovare una donna incontrata ad un ballo in maschera, ma poi persa nella folla. Abbiamo il selvaggio che sente l’odore della donna nel branco, un odore che accende tutti i suoi sensi, e comincia a cercarla, anche se deve lottare con un altro maschio-alfa, forse anche lui alla stessa ricerca. Abbiamo un musicista che dopo una notte di vizi e stravizi, sente l’odore di una donna perso nel mucchio dei corpi post-orgiastici, e, dopo aver preso aria all’aperto, ne inizia la ricerca.

Alla fine delle loro traversie e ricerche i tre troveranno chi emanava l’odore, ma saranno tutte e tre morte. Perché la morte è l’altra faccia della vita. Tra l’altro, noi che conosciamo e leggiamo Calvino da sempre, e ne abbiamo seguito le vicende scrittorie, notiamo come abbia qui applicato uno dei dettami di quel consesso di scrivani che chiedeva l’utilizzo di “costrizioni” nello scrivere. Ci riferiamo a quel gruppo francese, capeggiato da Raymond Queneau, riunito insieme nell’OULIPO (“Ouvroir de Littérature Potentielle”, ovvero "officina di letteratura potenziale"). Infatti, i tre microracconti sono divisi in tre fasi, ognuno che si ripete tre volte. Ma questo è un altro racconto.

Il secondo testo, dal titolo originario “Sapore sapere”, viene pubblicato sul numero di giugno 1982 della rivista FMR, e solo in un secondo tempo prenderà il titolo che poi la moglie di Calvino decide di utilizzare come richiamo per tutte queste storie. Il racconto che mi ha coinvolto di più, laddove si racconta di un uomo ed una donna che, in viaggio per il Messico, utilizzano il gusto per ritrovare l’intimità perduta. Sotto il segno del giaguaro che sovraintendeva alle partite a palla dei locali, i nostri viaggiatori scoprono (ma noi lo sappiamo già) che chi vince non chi perde viene sacrificato al dio. Ma in questo trionfo di sensi, e di reminiscenze, i protagonisti principi che Calvino ci porta a gustare sulla pagina sono i piatti messicani: la zuppa di fagioli (sopa de frijoles), il pesce alla brace con pomodoro e peperoncino (huachinango a la veracruzana, dove il primo è il nome del pesce, un dentice rosso) e la frittata ripiena di carne e peperoncino (enchilada). Ed in questo tripudio dei sensi, l’amore ritrovato viene metaforicamente visto come un cannibalismo reciproco: solo annullandosi e mescolandosi, le nostre anime si fondono nell’estasi amorosa. Non dimenticandoci poi quella bella frase che riporto, da me sottoscritta in ogni mio viaggio.

Il terzo, “Un re in ascolto”, scritto anch’esso nel 1982, viene poi rielaborato da Calvino per essere musicato da Luciano Berio ed eseguito a Salisburgo nel 1984. In effetti, si percepisce la modalità teatrale del testo, dove il re, seduto sul trono che ha appena conquistato, sta lì, con l’orecchio pronto a sentire i rumori del suo regno. Perché non si può muovere, pena la perdita del potere. tutto è suono, tutto è sussurro e grida, come ricordava Cage nel suo “Radio Music”. Ma una voce di donna lo scuote, lo riporta ad altri tempi, ad altri momenti. E pur perdendo il potere, si alza la segue, e, lasciandosi alle spalle tutta l’immobilità mortifera, il canto lo libera, e lo riporta alla vita.

La capacità di Calvino è di portarci circolarmente in un percorso che solo alla fine capiamo. Nell’odore abbiamo l’orrore della morte. Nella fusione dei sapori della vita e della morte abbiamo l’uscita verso l’amore. Nel seguire il suono amorevole (di una donna? di una madre?) si va (o si torna) verso la vita.

Peccato non aver avuto il tempo Calvino di elaborare il tatto e la vista, ma anche questo percorso ci basta per gustarne la bellezza e la grandiosità dello scrittore.

“Il rito di mettermi gli occhiali dato che sono miope e leggo senza occhiali.” (VI)

“Questo bisogno … di coinvolgermi nelle sue emozioni … mi dimostrava quanto le fossi indispensabile e come per lei i piaceri dell’esistenza fossero apprezzabili solo se condivisi tra noi.” (34)

“Il vero viaggio … implica un cambiamento totale dell’alimentazione … e non si obietti che lo stesso risultato si ha a frequentare i ristoranti esotici delle nostre metropoli: essi falsano talmente la realtà della cucina cui pretendono di richiamarsi che, dal punto di vista dell’esperienza conoscitiva che se ne può trarre, equivalgono non a un documentario ma a una ricostruzione ambientale filmata in uno studio cinematografico.” (36)

Italo Calvino “Le città invisibili” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)

[A: 10/03/2020 – I: 30/12/2022 – T: 31/12/2022] - &&&&   

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 166+L; anno 1972]

Pur essendo anche questo libro inserito nella ponderosa raccolta pubblicata da Repubblica, lo avevo già acquistato alcuni mesi prima. Per cui ne leggo, senza alcun filo particolare con la collana stessa, ma solo per poterne scrivere in questi giorni, dove, essendo nato il 15 ottobre del ’23, se ne comincia a celebrare il centenario. Dove rilevo che è anche lui una Bilancia, ed è anche lui uno dal finale di anno in tre. Mica male!

Ma lasciamo numeri e combinazioni su cui troneremo in seguito.

Il testo è molto congruo con il momento in cui Calvino lo scrisse. Era nel periodo francese, preso sia dal mondo che ruotava intorno a Raymond Queneau, sia allo strutturalismo dello scrivere, motivo per cui non è un romanzo, non è una narrazione, seppur dei fili esistono. È una lucida disamina di possibili città, esistenti, esistite, esistibili nel futuro.

Il motivo ricorrente, che rimanda ad altri e ben noti testi, è la discussione continua, che avviene ad inizio e fine di ogni sezione tra Kublai Khan, il Gran Khan dei Mongoli nonché imperatore della Cina, e Marco Polo. L’espediente permette a Calvino di parlare di tante città, ognuna con delle caratteristiche particolari. Città che Polo dovrebbe aver visitato, e di cui il Khan vuol sentire storie e caratteristiche. Che l’Imperatore non si muove mai dal suo giardino, ma Calvino lo fa assetato di conoscenze.

Se poi, letto il libro, si fa una pausa e si guarda indietro, ci si accorge che tutte le città descritte, alla fine, potrebbero essere una sola città, ogni volta vista da un angolo diverso, pensata in modi architettonici diversi, abitata da gente differente. Perché, come dice ad un certo punto Marco Polo, “d'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

La capacità inventiva, il tentativo di coinvolgere il lettore in un viaggio fantastico, porta Calvino non a descrivere fisicamente le città, ma (anche) un rimando dalle città reali alle città che Marco Polo pensa e che Kublai vuole conoscere. Escono fuori, quindi e meglio, le sensazioni, i profumi, i rumori, le trame stesse delle città (o delle entità) che si spalmano sulla carta davanti ai nostri occhi.

Tra queste filigrane, si riconoscono poi i temi sempre cari allo scrittore. Lo sgomento davanti al caos che caratterizza la realtà in cui viviamo. Polo cerca, con le sue descrizioni, di dare un ordine alla confusione. Ma giustamente si perde, e lo scrittore lo porta a navigare tra sogni e fantasie, laddove il pensato è più reale del visto. C’è la memoria delle cose, c’è il tempo che scorre, c’è l’avvicinarsi, ineluttabile, inevitabile, alla morte.

Legato strettamente a quello sperimentalismo di cui si accenna sopra, una delle bellezze del testo è la sua struttura aperta e breve. Ogni città è scritta e descritta in poche righe, e non c’è un vero percorso (certo Calvino ne inventa uno), per cui il poliedro descrittivo della città invisibile può essere letto e percorso da ognuno secondo i propri gusti e capricci. Uscendo dalla narrazione dove si vuole.

Se si prende questo percorso, allora si trova questa città fantastica poetica, nuova e vecchia allo sesso tempo, magica, fuori dal corso delle cose, sia del tempo che dello spazio. Accorgendosi che ogni città, ogni descrizione porta a spunti e riflessioni altre. Ho detto della memoria, della morte, ma c’è anche il riconoscimento dell’ingegno umano, i desideri, i nomi delle cose e delle città, che riporta Calvino come nomi di donna, quasi a voler tendere verso di loro un afflato amoroso.

Per finire poi con Calvino e Polo che esortano noi e Kublai non tanto ad uscire dall’inferno del vissuto quotidiano, ma riconoscere, nel nostro inferno, “quel che inferno non è”.

Prima di lasciarvi alla lettura (in fondo, qui, ho detto poco e nulla delle città, ma è bene che le visitiate voi stessi di persona come ho fatto io), due punti. Uno è personale, che nella seconda città dedicata ai morti, a pagina 93, la città stessa viene chiamata Adelma. Lì mi sono fermato a sognare, ed a pensare a mia nonna, Adelma, morta che avevo tre anni e di cui non ricordo nulla. Ma che fu viva sempre nel pensiero di mio padre, tanto che la piccola costruzione campagnola che costruì in quel di Soriano, e che ora è molto modestamente nostra, fu da lui chiamata “Villa Adelma”.

L’altro e ben presente lascito del libro è la sua intrinseca costruzione matematica. Ho ricordato che il libro fu pensato nel periodo parigino, laddove Queneau propugnava, e Calvino lo seguì in questo, che dovesse esserci un vincolo costruttivo alla base del tessuto narrativo. Un vincolo talmente spaesante, che il lettore può leggere il testo senza conoscerlo. Come avviene con i libri di Perec, di cui parlerò altrove.

Qui abbiamo una struttura fortemente legata ai numeri.

Le città descritte sono 55, pari alla somma dei primi dieci numeri naturali. Sono divise in sezioni, 11 per l’esattezza (11 numero primo), ognuna composta di cinque città (5 numero primo). Se noi avessimo la pazienza di mettere in una tabella le undici sezioni e segnare con una X il momento della descrizione della relativa città, ci verrebbe subito all’occhio una struttura diagonale ricorsiva (ma questa è un po’ difficile da rappresentare qui).

Tuttavia, per rimanere sui numeri, e sui numeri primi, sarebbe stato facile porre le descrizioni in 11 capitoli. Ma Calvino ci tende una trappola: i capitoli sono 9. Perché se 5 sono le città di ogni sezione, 5 è dato dalla somma di 3 e 2. Allora, se prendiamo il 3 e lo eleviamo al quadrato (cioè 2), abbiamo giustamente il 9 dei capitoli.

Così vedete che Calvino usa tutti i numeri primi fino ad 11. Ma, e il 7? Contate quante lettere ha il cognome dello scrittore ed avrete l’ultima risposta.

“Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù.” (8)

“Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.” (27)

Celebrando con gioia il compleanno del mio cugino decano, a lui e a tutti, dedico questo florilegio di frasi che mi sono rimaste da “La contessa di ricotta” di Milena Agus:

“L’importante è fare del bene e dovresti essere felice di renderti utile a qualcuno”. (57) “A [lui] piacciono le donne, ma non le emozioni travolgenti, come per esempio soffrire se [lei] non c’è. ‘Ci lasceremo’ dice … ‘Perché?’ ‘Non è che sarà per sempre. Niente è per sempre’”. (59) “Non sono fatto per l’amore. Non lo reggo. Io l’amore lo odio.” (66) “Nessuno ama davvero e chi ama non ama spassionatamente, ma sempre per qualcosa.” (121) [su questo mi permetto di dissentire]. “In fondo non possiamo sapere e capire davvero nessuna cosa. … perché fare sesso con amore, comunque stiano le cose, è bellissimo” (125) [d’accordo al 100%].

Per il resto, purtroppo, un possibile viaggio alle Lofoten si è sciolto come neve al sole. Allora rivolgo anche un pensiero di pronta guarigione al mio amico che non cito ma cui dedico un’altra frase, attribuita, forse un po’ spregiudicatamente, a Platone: “Ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti e quelli che vanno per mare”.

 

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