Italo
Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno” Repubblica Calvino 4 euro 9,90
[A: 08/11/2020
– I: 13/04/2022 – T: 14/04/2022] - &&&&
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 151+LXVII; anno 1947]
Era molto tempo che non leggevo qualcosa di
Calvino, e devo dire che leggere un libro sulla Resistenza, in tempi in cui
abbiamo una guerra alle porte è stato un esercizio utile, per capire e per
riflettere. Tra l’altro, come scrivo sopra, non sono soltanto le 150 pagine del
libro, ma c’è anche una suntuosa introduzione (nonché una ben articolata
cronologia biografica).
Della seconda, di cui parliamo qui e non ci
torneremo più sulle altre letture calviniana, ritengo nell’animo alcuni punti
fondanti. La nascita, casuale certo, a Santiago de Cuba. Il liceo, dove per un
anno ebbe compagno di classe Eugenio Scalfari. La moglie, l’argentina Esther
Judith ma da sempre soprannominata Chichita. E poi i tempi della letteratura,
su cui si tornerà in altre scritture.
Dalla prima, scritta per la riedizione del
libro nel ’64, porta a ragionare con lo scrittore sulla genesi della scrittura,
sulle modifiche anche ideologiche che avvengono nel tempo. Perché, magari, dopo
anni di altro, si torna sulle proprie parole, e si scopre che non tutte sono
sempre in accordo con il sé stesso di ora. Noi siamo sempre noi stessi, ma la
nostra evoluzione può essere variegata. Calvino non rinnega una virgola di quanto
scritto allora, ma, dopo quasi venti anni, forse avrebbe messo accenti in posti
diversi.
Ma noi abbiamo di fronte il suo testo,
scritto sull’onda della fine della guerra, dall’autore che all’epoca ha solo 25
anni, essendo per inciso nato solo pochi mesi dopo mio padre.
Da un certo punto di vista è un testo
semplice, lineare, che ci mostra la difficoltà di essere bambini in un mondo
adulto, la difficoltà di crescere, di trovare un proprio posto nella vita, un
proprio modo di essere. Seguiamo infatti le vicende del piccolo Pin, dodicenne
orfano dei genitori, allevato dalla sorella dedita a quello che viene definito
il mestiere più antico del mondo.
Pin è più avanti dei suoi coetanei, con cui
si trova male, ma si trova male anche con i grandi, che, ovviamente, non lo
accettano. Oltre alle difficoltà di crescita e di vita, il tutto è complicato
dal fatto che siamo in guerra. Ci sono i tedeschi che occupano le città, ci
sono i partigiani che si ribellano sulle colline poco distanti.
Pin, in questo mondo in cui è sempre fuori
posto, si trova coinvolto in una serie di avvenimenti che si concatenano
casualmente, ma che potrebbero (hanno) conseguenze possibilmente devastanti.
Mentre la sorella si accompagna con un tedesco, Pin gli ruba una pistola, che
andrà a nascondere nel suo luogo segreto, il sentiero dove i ragni fanno le
loro tane.
Subito scoperto, viene malmenato ed
interrogato dai fascisti, rinchiuso in carcere, dove conosce il giovane
partigiano Lupo Rosso. Con lui, organizza e realizza la fuga, ma Lupo lo
abbandona, e lui, vagando per i boschi, si ritrova in una brigata partigiana.
Una brigata atipica, fatta da gente che più
scompaginata non si potrebbe. Accettato come aiuto cuoco, rallegra tutti con le
sue canzoni. Ma tutti, in quella strana compagine, hanno problemi di
comportamento e di socialità. C’è Pelle, dedito all’accumulo di tutte le armi
possibili, che ad un certo punto li tradisce, si arruola in una brigata Nera,
ma morirà in un agguato organizzato da Lupo Rosso. C’è Mancino il cuoco, che
per salvarla porta con sé la moglie. Ma le donne non sono ben viste in
montagna. E lei non è da meno, tanto che farà perdere la testa a Dritto, il
comandante della Brigata, che prima, sbadatamente, farà bruciare
l’accampamento, poi si rifiuterà di andare in battaglia, per concedersi una
notte d’amore prima di finire sotto processo e forse giustiziato.
Pin cerca di barcamenarsi tra le varie
posizioni, trovando conforto solo nel rapporto con Cugino, un ex-alpino
solitario, l’unico che parla poco ed agisce molto. Pin che ha sempre la sua
pistola vicino ai ragni. Pin che vorrebbe confidarne il segreto ma non si fida
di nessuno. Così che si allontana dai partigiani e dalle loro diatribe,
recupera la pistola, e cerca di tornare dalla sorella. Che nel frattempo ha fatto
anche lei il grande salto, cominciando a denunciare i partigiani ed i loro
fiancheggiatori.
Sulla strada di casa, però incontra Cugino,
ed avrà un colloquio quasi da adulto con lui, e con lui, dopo altri avvenimenti
che non vi dico, si avvierà verso un'altra notte.
Come detto sopra, è un romanzo di
iniziazione, un romanzo che ci fa riflettere sui progressi mentali di un
giovane che vuole diventare adulto. Ma anche un romanzo politico, anche se il
solo e vero capitolo politico è l’ottavo dove seguiamo il commissario Kim, uno
che controlla l’andamento delle varie formazioni, che ragiona quasi a voce alta
sui partigiani, sulla lotta, su come è e come sarà (forse) il mondo che verrà.
La forza di Calvino, che qui già si mostra, è sia nella caratterizzazione dei personaggi,
che riesce a fare con poche e mirate parole, sia l’uso del dialogo, che serve a
tirar fuori situazioni e sentimenti, senza star lì a fare tanti discorsi.
Perché una parola diretta, spesso, è meglio di cento descrizioni esterne.
Infine, ed è questo che mi ha colpito nel
profondo, leggerne ora, in questi giorni di guerra, in questi momenti in cui ci
si solleva l’un contro l’altro, fratello contro fratello, è di una forza
incredibile. La guerra rende tutto brutto ed invivibile, anche la crescita di
un giovane verso l’età adulta. Rende insopportabili anche i più piccoli
risentimenti. Insomma, come dice papa Francesco, “fermatevi, per pietà”.
“Un giorno troverà un amico, un vero amico,
che capisca e che si possa capire, e allora a quello, solo a quello, mostrerà
il posto dei ragni.” (21)
“A fare i reati politici si va in galera come
a fare i reati comuni … ma se non altro c’è la speranza che un giorno ci sia un
mondo migliore, senza più prigioni.” (38)
Italo
Calvino “L’entrata in guerra” Repubblica Calvino 18 euro 9,90
[A: 14/02/2020
– I: 13/04/2022 – T: 14/04/2022] - &&
e ½
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87+XLVIII; anno 1954]
Secondo
libro degli scritti di uno degli autori di cui, in maniera episodico, ma
costante, cerco di leggere quanto prodotto, ritenendone utile la lettura per
me, sicuramente, ma credo anche per i miei sparuti lettori. Si tratta di
scrittori di diversa natura, che ritengo caposaldi, per diverse e complesse
ragioni, di momenti di scrittura significativi. Si tratta di italiani, come
Sciascia o Agnello Horby, e stranieri, come Simenon o Murakami. Tutti con punti
di lettura significative e a volte eccelse.
Calvino,
tra l’altro, è stato compagno della mia crescita adolescenziale, laddove per
anni viaggiai avendo nel retro della mente le avventure di Agilulfo Emo
Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di
Selimpia Citeriore e Fez (cui mi accanivo ad aggiungere Castelgioioso, che
invece proveniva dall’altra mia passione del tempo, il Cyrano di Emile
Rostand).
Questo,
poi, è una sorta di romanzo mancato, dove sono presenti tre capitoli, legati
tra loro solo dal protagonista, che in tutti si presenta come “io”. Sono, in
realtà, tre momenti della vita di quell’io, che poteva ben essere Calvino
stesso, visto che sono tutti ambientati nel ’40, ed il narratore, come Calvino,
è un sedicenne sulla soglia della crescita (ricordo che anche Calvino è una
bilancia, essendo nato il 15 ottobre del ’23). L’unificazione in volume avvenne
(per le altre date vedete i diversi racconti) per la collana “”I Gettoni” di
Einaudi nel 1954.
Il
primo testo (capitolo?) è “L’entrata in guerra”, precedentemente uscito
nel numero doppio 8-9/1953 della rivista “Il Ponte” di Piero Calamandrei,
rivista di cui sarebbe bene parlare forse altrove, laddove recitava nel
sottotitolo “rivista di politica e letteratura”. E sono un testo di politica e
letteratura queste venti pagine che narrano la giornata del narratore quel 10
giugno del ’40 (e voi, cosa facevate il 24 febbraio 2022?). Che per lo
scrivente sembra essere una giornata normale. Siamo Sanremo, lui ed il suo amico Jerry,
piemontese e antifascista, vanno al mare, corteggiano le ragazze, Jerry ne
bacia una, sono raggiunti dal fratello di Jerry che pensa di tornare subito al
fronte. Sembra tutto normale, poi l’11 giugno cade una bomba su Sanremo: ecco
la guerra, i suoi orrori, la presa di coscienza del protagonista che aiuta la
Croce Rossa, fino a quell’ultima immagine di Mussolini che, in macchina, andava
verso il confine francese.
Anche
il secondo testo non è inedito. Anzi è abbastanza innovativo, dove “Gli
avanguardisti a Mentone” viene pubblicato nel secondo numero della rivista
“Nuovi Argomenti” fondata nel ’53 da Moravia. Qui il narratore si accompagna
con un suo sodale, indicato nel testo con il nome di Biancone, e che Calvino
rivelerà essere il suo grande amico Duilio Cossu. I due, per voglia di
avventura, si offrono di partecipare ad una parata, d svolgersi nella vicina
Mentone, unica città francese conquista dai fascisti in Francia per tutta la
guerra. Si parla di goliardate varie, dove nella città evacuata gli
avanguardisti si danno a saccheggi vari. Solo Calvino, pur trattato da
vigliacco, si sottrae alle ruberie, e torna a casa commentando “Ero inadatto
a vivere nel fascismo, ma il fascismo avrebbe vinto; le guerre le vincevano i
peggiori”. Una frase che ci fa riflette anche ora.
Solo
il terzo testo, “Le notti dell’UNPA”, è inedito. Dove UNPA sta per “Unione
nazionale protezione antiaerea”, un gruppo che recluta il narratore e Biancone
per sorvegliare di notte una scuola elementare. I due sono titubanti, poi
esaltati dall’avventura. Calvino confessa che era reduce dal primo amore. I
ragazzi, con l’incoscienza della gioventù, fanno scherzi, si aggirano per la
scuola e dintorni. Vanno nella strada delle prostitute, dove Biancone si ferma,
e Calvino torna a girare nel buio. Fino al risuonare dell’allarme antiaereo che
procura panico, e poi il ricongiungimento degli amici, che all’alba,
finalmente, si addormentano.
I
racconti del trentenne Calvino sono ben costruiti, con punte di flash sulle
situazioni degli anni ’40 che rimasero nella memoria, ed a lui ed alla sua
generazione, segnarono un passaggio. Perché ricordo che mio padre era del
giugno ’23 e mamma dell’ottobre ’24. E quel giugno anche loro erano immaturi
sedicenni. Anche per loro quel momento segno una passaggio della linea d’ombra
che ci ricorda sempre Conrad. Il passaggio dall’adolescenza alla gioventù
coincidente con il passaggio dalla pace alla guerra.
Non
hanno tutti la stessa resa, per esempio io personalmente preferisco il primo.
Ma negli altri due esce forte un tema che va al di là della guerra. Ed è la
presenza di Biancone, l’amico forte, il personaggio che incarna quello che noi
vorremmo essere ed ancora non siamo. Spavaldo dove noi si è timidi, capace di
mentire senza vergogna, e con l’idea che sappia affrontare la vita. Quanto però
al fine è vero in tutto ciò? Quanto non rimane che una proiezione della nostra
volontà?
Ahi,
quant’è difficile capire sé stessi.
Italo
Calvino “La strada di San Giovanni” Repubblica Calvino 16 euro 9,90
[A: 01/02/2020
– I: 17/09/2022 – T: 19/09/2022] - &&&
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 89+XLVII; anno 1990]
Come
sanno gli esegeti di Calvino, e come spero impereranno i lettori di trame a lui
dedicate, il grande scrittore sanremese (ma anche cubano, romano, parigino…),
aveva sempre tanto nei suoi cantieri letterari che non tutto è riuscito a
portare ad un momento finale, stroncato a soli 62 anni da un’emorragia
cerebrale.
Uno
dei tanti progetti era radunare una serie di scritti autobiografici, sparsi qua
e là nel corso degli anni, e radunarli in un unico testo, dal titolo
significativo di “Passaggi obbligati”. Erano momenti senza i quali Calvino non
sarebbe potuto diventare Calvino. Ma mancò il tempo e gli scritti, così che la
moglie Esther, riordinando le carte del marito morto, decide di radunare i
cinque scritti che avrebbero composto la prima parte di quei passaggi, e
pubblicarli con il titolo del primo di essi, che, in un certo senso, è quello
più vicino all’idea calviniana del testo.
Abbiamo
così questi testi, tre derivanti da pubblicazioni in riviste, un articolo di
giornale ed una prefazione ad un libro. Tuttavia, non è la provenienza che ci
interessa sottolineare (se ne legge nel libro e ciò basta), ma la fotografia a
facce molteplici che ne deriva.
Parliamone
allora, anche un po’ alla rinfusa. Ad esempio, di “Autobiografia di uno
spettatore”, dove esce forte il suo legame con il cinema, ricordando nella
prima parte ancora la sua adolescenza, fortemente segnata dal cinema americano
che prima della Seconda Guerra mondiale monopolizzava le sale. Con una serie di
ricordi e citazioni di film che, trent’anni dopo, segnavano anche il mio
approccio (televisivo) a quel mondo. Clark Gable, Spencer Tracy, James Stewart
e via partono i ricordi. Per poi passare ad un’analisi dei film di Fellini,
dove non entro, che doloroso ne è il ricordo attraverso le analisi del mio grande
cugino Zap. Quello che esce dal testo è l’uso del cinema come rappresentazione
di un mondo che Calvino avrebbe visto di persona solo anni dopo.
Uno
straniante sentimento d’attualità viene alla lettura de “La poubelle agréée”,
questa pattumiera da Calvino utilizzata nei suoi anni parigini, che diviene non
solo un simbolo dello smaltimento urbano (a cui noi siamo ancora distanti anni
luce) ma soprattutto una riflessione sulla mescolanza delle culture e sulla
tolleranza.
Poi
ci sono i racconti più vicini al dettame autobiografico. Uno, quello che ho
gradito meno, è “Dall’opaco”, dove crea una descrizione geometrica, ma
per me fredda, del suo mondo ligure, contrapponendo la zona soleggiata
(l’aprico) a quella posta nell’ombra (l’opaco), costruendo una continua
contrapposizione, anche proprio dello scritto, tra verticale e orizzontale, tra
la montagna ed il mare, ed in particolare tra la città e la campagna, su cui
torneremo.
Quello
che invece a me è risultato più vicino (a parte il discorso sul cinema) è “Ricordo
di una battaglia”, articolo uscito sul “Corriere della Sera” il 25 aprile
del ’77, in cui parlando dei tempi di guerra (quasi collegandosi idealmente ai
“Sentieri dei nidi di ragno”) riflette sul momento della scrittura (tutti ce ne
ricordiamo di quell’anno) quasi a prefigurare quel patto costituzionale che
avrebbero pensato anche Moro e Berlinguer (e le BR).
E
poi il centrale, nell’economia del libro e nella storia di Calvino, “Le
strade di San Giovanni”. Perché la strada è quella che il padre percorre verso
la campagna, e tutto il testo è permeato dal ricordo del padre e dalla
contrapposizione tra Italo e Mario. Si parla di Villa Meridiana, dove i Calvino
vissero al rientro da Cuba. Del lavoro di agronomo del padre, ma soprattutto
della sua empatia verso la natura, della voglia di coinvolgere i figli in
questo, e del loro rifiuto. In particolare, Italo che era protratto nella
direzione opposta, verso la città, verso i cinema (come si è detto sopra).
comincia in questo primo testo quel dualismo di cui si è già detto,
concretizzato tra un andare verso est dell’uno e verso ovest dell’altro.
Calvino
ci gira e ci rigira, usa parole e descrizioni varie, riporta situazioni
familiari eponime (il padre che tenta di coinvolgerlo nella raccolta della
frutta, lui che si attarda nel fare colazione), ma è sempre lì che si ritorna.
Al perché di scelte opposte di persone che pur si conoscono bene e che
dovrebbero capirle. Quanto ci danniamo anche noi nelle stesse situazioni. Sia
prima, con i padri che ci volevano verdi e noi si era blu. Sia ora, con i figli
che noi vorremmo gialli ed invece si voltano verso il viola.
È
uno scritto alternante, nel coinvolgimento, ma che, al solito, come sempre in
Calvino, invita alla riflessione. Cioè, non sempre sono in accordo con lo scrittore,
ma sempre lo scritto mi fa pensare, e scattare memorie. E quando penso a Zap, è
sempre un bel momento personale.
“Andavo
al cinema al pomeriggio, scappando di casa di nascosto o con la scusa d’andare
a studiare da qualche compagno.” (26)
“Il
giornale viene da me regolarmente comprato, velocemente sfogliato e messo via,
ma mi rincresce disfarmene subito, spero sempre che torni utile in un secondo
tempo, che gli resti qualcosa da dirmi.” (72)
Italo
Calvino “Sotto il sole giaguaro” Repubblica Calvino 10 euro 9,90
[A: 20/12/2020
– I: 20/09/2022 – T: 21/09/2022] - &&&
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87+XLIX; anno 1986]
Ed
eccoci ad un altro libro di Calvino pubblicato postumo. Anzi al primo ad essere
pubblicato dopo la sua morte. Era un libro che Calvino aveva indicato come uno
che stava scrivendo, che aveva in mente di scrivere, già durante le conferenze
tenute in America nel 1983. In quella occasione confessò che stava rimuginando
intorno alla scrittura di un testo che affrontasse i cinque sensi. La
difficoltà, come confessa lo scrittore, sta nel fatto che: “che il mio olfatto
non è molto sviluppato, manco d’attenzione auditiva, non sono un buongustaio,
la mia sensibilità tattile è approssimativa, e sono miope”.
La
scommessa di Calvino si basava poi su alcune considerazioni, sparse qua e là,
in cui constatava come i sensi dell’uomo si erano in un certo senso
atrofizzati, rispetto a quanto provava l’umanità nei tempi passati. Ma non era
per lui un bisogno di regressione, quanto di un riscoprire le possibilità che
gli stessi sensi potenzialmente potevano permettere all’uomo moderno.
Purtroppo,
la morte non gli permise di portare a termine il progetto, così che la moglie
Esther decide di raccogliere i tre testi relativi ad olfatto, gusto e udito e
pubblicarli in un volume, sotto il titolo dedicato al gusto. Titolo che era
differente, e non a caso, dall’originale.
Il
primo testo, dal titolo “Il nome, il naso”, uscì originariamente nel
1972, nel primo numero dell’edizione italiana di Playboy. È in un certo senso
(scusate l’enantiosemia) il più articolato, laddove si intrecciano tre
racconti, sfalsati temporalmente, ma tutti basati sull’olfatto.
Il
motivo di fondo è l’utilizzo dell’olfatto per ritrovare una donna, una che sole
lei ha quell’odore, quella fragranza. Non si riesce a vederla con la vista, ma
solo a vederla con il naso. Abbiamo l’episodio parigino ottocentesco, dove
Monsieur de Saint-Caliste si rivolge ad una grande profumiera, madame Odile,
per trovare una donna incontrata ad un ballo in maschera, ma poi persa nella
folla. Abbiamo il selvaggio che sente l’odore della donna nel branco, un odore
che accende tutti i suoi sensi, e comincia a cercarla, anche se deve lottare
con un altro maschio-alfa, forse anche lui alla stessa ricerca. Abbiamo un
musicista che dopo una notte di vizi e stravizi, sente l’odore di una donna
perso nel mucchio dei corpi post-orgiastici, e, dopo aver preso aria
all’aperto, ne inizia la ricerca.
Alla
fine delle loro traversie e ricerche i tre troveranno chi emanava l’odore, ma
saranno tutte e tre morte. Perché la morte è l’altra faccia della vita. Tra
l’altro, noi che conosciamo e leggiamo Calvino da sempre, e ne abbiamo seguito
le vicende scrittorie, notiamo come abbia qui applicato uno dei dettami di quel
consesso di scrivani che chiedeva l’utilizzo di “costrizioni” nello scrivere.
Ci riferiamo a quel gruppo francese, capeggiato da Raymond Queneau, riunito
insieme nell’OULIPO (“Ouvroir de Littérature Potentielle”, ovvero
"officina di letteratura potenziale"). Infatti, i tre microracconti
sono divisi in tre fasi, ognuno che si ripete tre volte. Ma questo è un altro
racconto.
Il
secondo testo, dal titolo originario “Sapore sapere”, viene pubblicato
sul numero di giugno 1982 della rivista FMR, e solo in un secondo tempo
prenderà il titolo che poi la moglie di Calvino decide di utilizzare come
richiamo per tutte queste storie. Il racconto che mi ha coinvolto di più,
laddove si racconta di un uomo ed una donna che, in viaggio per il Messico,
utilizzano il gusto per ritrovare l’intimità perduta. Sotto il segno del
giaguaro che sovraintendeva alle partite a palla dei locali, i nostri
viaggiatori scoprono (ma noi lo sappiamo già) che chi vince non chi perde viene
sacrificato al dio. Ma in questo trionfo di sensi, e di reminiscenze, i
protagonisti principi che Calvino ci porta a gustare sulla pagina sono i piatti
messicani: la zuppa di fagioli (sopa de frijoles), il pesce alla brace con
pomodoro e peperoncino (huachinango a la veracruzana, dove il primo è il nome
del pesce, un dentice rosso) e la frittata ripiena di carne e peperoncino
(enchilada). Ed in questo tripudio dei sensi, l’amore ritrovato viene
metaforicamente visto come un cannibalismo reciproco: solo annullandosi e
mescolandosi, le nostre anime si fondono nell’estasi amorosa. Non
dimenticandoci poi quella bella frase che riporto, da me sottoscritta in ogni
mio viaggio.
Il
terzo, “Un re in ascolto”, scritto anch’esso nel 1982, viene poi
rielaborato da Calvino per essere musicato da Luciano Berio ed eseguito a
Salisburgo nel 1984. In effetti, si percepisce la modalità teatrale del testo,
dove il re, seduto sul trono che ha appena conquistato, sta lì, con l’orecchio
pronto a sentire i rumori del suo regno. Perché non si può muovere, pena la
perdita del potere. tutto è suono, tutto è sussurro e grida, come ricordava
Cage nel suo “Radio Music”. Ma una voce di donna lo scuote, lo riporta ad altri
tempi, ad altri momenti. E pur perdendo il potere, si alza la segue, e,
lasciandosi alle spalle tutta l’immobilità mortifera, il canto lo libera, e lo
riporta alla vita.
La
capacità di Calvino è di portarci circolarmente in un percorso che solo alla
fine capiamo. Nell’odore abbiamo l’orrore della morte. Nella fusione dei sapori
della vita e della morte abbiamo l’uscita verso l’amore. Nel seguire il suono
amorevole (di una donna? di una madre?) si va (o si torna) verso la vita.
Peccato
non aver avuto il tempo Calvino di elaborare il tatto e la vista, ma anche
questo percorso ci basta per gustarne la bellezza e la grandiosità dello
scrittore.
“Il
rito di mettermi gli occhiali dato che sono miope e leggo senza occhiali.” (VI)
“Questo
bisogno … di coinvolgermi nelle sue emozioni … mi dimostrava quanto le fossi
indispensabile e come per lei i piaceri dell’esistenza fossero apprezzabili
solo se condivisi tra noi.” (34)
“Il
vero viaggio … implica un cambiamento totale dell’alimentazione … e non si
obietti che lo stesso risultato si ha a frequentare i ristoranti esotici delle
nostre metropoli: essi falsano talmente la realtà della cucina cui pretendono
di richiamarsi che, dal punto di vista dell’esperienza conoscitiva che se ne
può trarre, equivalgono non a un documentario ma a una ricostruzione ambientale
filmata in uno studio cinematografico.” (36)
Italo
Calvino “Le città invisibili” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20
euro)
[A: 10/03/2020
– I: 30/12/2022 – T: 31/12/2022] - &&&&
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 166+L; anno 1972]
Pur
essendo anche questo libro inserito nella ponderosa raccolta pubblicata da
Repubblica, lo avevo già acquistato alcuni mesi prima. Per cui ne leggo, senza
alcun filo particolare con la collana stessa, ma solo per poterne scrivere in
questi giorni, dove, essendo nato il 15 ottobre del ’23, se ne comincia a celebrare
il centenario. Dove rilevo che è anche lui una Bilancia, ed è anche lui uno dal
finale di anno in tre. Mica male!
Ma
lasciamo numeri e combinazioni su cui troneremo in seguito.
Il
testo è molto congruo con il momento in cui Calvino lo scrisse. Era nel periodo
francese, preso sia dal mondo che ruotava intorno a Raymond Queneau, sia allo
strutturalismo dello scrivere, motivo per cui non è un romanzo, non è una
narrazione, seppur dei fili esistono. È una lucida disamina di possibili città,
esistenti, esistite, esistibili nel futuro.
Il
motivo ricorrente, che rimanda ad altri e ben noti testi, è la discussione
continua, che avviene ad inizio e fine di ogni sezione tra Kublai Khan, il Gran
Khan dei Mongoli nonché imperatore della Cina, e Marco Polo. L’espediente
permette a Calvino di parlare di tante città, ognuna con delle caratteristiche
particolari. Città che Polo dovrebbe aver visitato, e di cui il Khan vuol
sentire storie e caratteristiche. Che l’Imperatore non si muove mai dal suo
giardino, ma Calvino lo fa assetato di conoscenze.
Se
poi, letto il libro, si fa una pausa e si guarda indietro, ci si accorge che
tutte le città descritte, alla fine, potrebbero essere una sola città, ogni
volta vista da un angolo diverso, pensata in modi architettonici diversi,
abitata da gente differente. Perché, come dice ad un certo punto Marco Polo, “d'una
città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a
una tua domanda”.
La
capacità inventiva, il tentativo di coinvolgere il lettore in un viaggio
fantastico, porta Calvino non a descrivere fisicamente le città, ma (anche) un
rimando dalle città reali alle città che Marco Polo pensa e che Kublai vuole
conoscere. Escono fuori, quindi e meglio, le sensazioni, i profumi, i rumori,
le trame stesse delle città (o delle entità) che si spalmano sulla carta
davanti ai nostri occhi.
Tra
queste filigrane, si riconoscono poi i temi sempre cari allo scrittore. Lo
sgomento davanti al caos che caratterizza la realtà in cui viviamo. Polo cerca,
con le sue descrizioni, di dare un ordine alla confusione. Ma giustamente si
perde, e lo scrittore lo porta a navigare tra sogni e fantasie, laddove il
pensato è più reale del visto. C’è la memoria delle cose, c’è il tempo che
scorre, c’è l’avvicinarsi, ineluttabile, inevitabile, alla morte.
Legato
strettamente a quello sperimentalismo di cui si accenna sopra, una delle
bellezze del testo è la sua struttura aperta e breve. Ogni città è scritta e
descritta in poche righe, e non c’è un vero percorso (certo Calvino ne inventa
uno), per cui il poliedro descrittivo della città invisibile può essere letto e
percorso da ognuno secondo i propri gusti e capricci. Uscendo dalla narrazione
dove si vuole.
Se
si prende questo percorso, allora si trova questa città fantastica poetica,
nuova e vecchia allo sesso tempo, magica, fuori dal corso delle cose, sia del
tempo che dello spazio. Accorgendosi che ogni città, ogni descrizione porta a
spunti e riflessioni altre. Ho detto della memoria, della morte, ma c’è anche
il riconoscimento dell’ingegno umano, i desideri, i nomi delle cose e delle
città, che riporta Calvino come nomi di donna, quasi a voler tendere verso di
loro un afflato amoroso.
Per
finire poi con Calvino e Polo che esortano noi e Kublai non tanto ad uscire
dall’inferno del vissuto quotidiano, ma riconoscere, nel nostro inferno, “quel
che inferno non è”.
Prima
di lasciarvi alla lettura (in fondo, qui, ho detto poco e nulla delle città, ma
è bene che le visitiate voi stessi di persona come ho fatto io), due punti. Uno
è personale, che nella seconda città dedicata ai morti, a pagina 93, la città
stessa viene chiamata Adelma. Lì mi sono fermato a sognare, ed a pensare a mia
nonna, Adelma, morta che avevo tre anni e di cui non ricordo nulla. Ma che fu
viva sempre nel pensiero di mio padre, tanto che la piccola costruzione
campagnola che costruì in quel di Soriano, e che ora è molto modestamente
nostra, fu da lui chiamata “Villa Adelma”.
L’altro
e ben presente lascito del libro è la sua intrinseca costruzione matematica. Ho
ricordato che il libro fu pensato nel periodo parigino, laddove Queneau
propugnava, e Calvino lo seguì in questo, che dovesse esserci un vincolo
costruttivo alla base del tessuto narrativo. Un vincolo talmente spaesante, che
il lettore può leggere il testo senza conoscerlo. Come avviene con i libri di
Perec, di cui parlerò altrove.
Qui
abbiamo una struttura fortemente legata ai numeri.
Le
città descritte sono 55, pari alla somma dei primi dieci numeri naturali. Sono
divise in sezioni, 11 per l’esattezza (11 numero primo), ognuna composta di
cinque città (5 numero primo). Se noi avessimo la pazienza di mettere in una
tabella le undici sezioni e segnare con una X il momento della descrizione
della relativa città, ci verrebbe subito all’occhio una struttura diagonale
ricorsiva (ma questa è un po’ difficile da rappresentare qui).
Tuttavia,
per rimanere sui numeri, e sui numeri primi, sarebbe stato facile porre le
descrizioni in 11 capitoli. Ma Calvino ci tende una trappola: i capitoli sono
9. Perché se 5 sono le città di ogni sezione, 5 è dato dalla somma di 3 e 2.
Allora, se prendiamo il 3 e lo eleviamo al quadrato (cioè 2), abbiamo
giustamente il 9 dei capitoli.
Così
vedete che Calvino usa tutti i numeri primi fino ad 11. Ma, e il 7? Contate
quante lettere ha il cognome dello scrittore ed avrete l’ultima risposta.
“Nella
piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù.” (8)
“Il
viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e
non avrà.” (27)
Celebrando
con gioia il compleanno del mio cugino decano, a lui e a tutti, dedico questo
florilegio di frasi che mi sono rimaste da “La
contessa di ricotta” di Milena Agus:
“L’importante è fare del bene e dovresti
essere felice di renderti utile a qualcuno”. (57) “A [lui] piacciono le donne,
ma non le emozioni travolgenti, come per esempio soffrire se [lei] non c’è. ‘Ci
lasceremo’ dice … ‘Perché?’ ‘Non è che sarà per sempre. Niente è per sempre’”.
(59) “Non sono fatto per l’amore. Non lo reggo. Io l’amore lo odio.” (66) “Nessuno
ama davvero e chi ama non ama spassionatamente, ma sempre per qualcosa.” (121)
[su questo mi permetto di dissentire]. “In fondo non possiamo sapere e capire
davvero nessuna cosa. … perché fare sesso con amore, comunque stiano le cose, è
bellissimo” (125) [d’accordo al 100%].
Per il resto, purtroppo, un possibile viaggio alle Lofoten si è sciolto come neve al sole. Allora rivolgo anche un pensiero di pronta guarigione al mio amico che non cito ma cui dedico un’altra frase, attribuita, forse un po’ spregiudicatamente, a Platone: “Ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti e quelli che vanno per mare”.
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