domenica 8 gennaio 2023

Il grande Sciascia - 08 gennaio 2023

Questo 2023 comincia con un sentito omaggio ad un grande personaggio della cultura italiana. Due anni fa, Repubblica omaggiò il centenario della nascita del siciliano di Racalmuto con la riproposizione di alcuni scritti. Qui vi porto a rileggerne alcuni. Il coinvolgente affare Moro seguito da vicino dalle poco note “Cronachette”. Ma tutti gli scritti letti finora hanno un alto livello di gradevolezza (e di complessità).

Leonardo Sciascia “L’affaire Moro” Repubblica Sciascia 8 euro 8,90

[A: 12/02/2021 – I: 04/05/2022 – T: 06/05/2022] &&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 138; anno: 1978-1982]

In concomitanza con il 44° anniversario di via Caetani, mi capita di leggere questo denso, complicato ed interessante libro di Sciascia. Il primo testo, Sciascia lo scrive a caldo, nell’ottobre del ’78, cinque mesi dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Dopo di che, quattro anni dopo, ne esce una seconda edizione, riveduta dall’autore e che comprende la relazione di minoranza scritta da Sciascia in quanto membro della commissione d’inchiesta sul caso Moro. Ed è questa edizione completa che stiamo leggendo e commentando.

Sciascia vuole (vorrebbe) che si acclarasse la verità così che percorre il filo degli avvenimenti di quei mesi del 1978, seguendone con letteraria pazienza questo racconto-inchiesta, poi rivisto, anche se non corretto, quattro anni dopo. Non cambia nulla dell’impianto generale, non può, Sciascia, prendere visione delle altre lettere di Moro, che verranno trovate solo nel 1990 nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, con Sciascia ormai morto. Ma non è quello che interessa l’autore.

Per lui, per noi, è una “storia di potere”, ispirata, come sempre in Sciascia, dalla letteratura, ed in particolare dal bellissimo racconto “Pierre Menard, autore del Chisciotte” di Borges, laddove la tesi dell’argentino, ripresa dal siculo, è che la verità storica non è mai ciò che avviene, ma ciò che noi giudichiamo sia avvenuto, secondo come ci è raccontato.

Non penso di ripercorrere né le tappe della vicenda Moro, quelle che partono con il rapimento il 16 marzo ed arrivano al 9 maggio con il ritrovamento del corpo, né le storie di tutte le ricerche, gli appostamenti, i finti ritrovamenti, le lettere, e quant’altro. Questa è materia di storia (e di cronologia) che il testo di Sciascia ripercorre con una capacità unica, che non possiamo far altro che suggerirne una lettura, ancora ed ancora.

Meglio soffermarsi su alcune posizioni che Sciascia esprime, su alcuni giudizi, finendo, magari, con qualche ricordo del clima del periodo.

In particolare, a me rimangono in testa tre punti, tra i tanti che tocca Sciascia: il rapimento, le lettere, l’ultima telefonata.

L’agguato in via Fani fu consumato con una ben organizzata tecnica militare. È possibile che, da soli, le BR siano riuscite ad addestrare persone, e a mettere in atto un attacco complesso, a fronte anche di una scorta dello statista che certo non era composta da persone di poca attitudine militare. Sciascia pensa, ma non lo dice che senza prove anche indiziarie sarebbe solo una calunnia, che dietro (ma neanche tanto dietro) ci siano altre mani. Servizi Segreti, CIA e forse anche altro.

Sciascia, ai tempi della scrittura, non aveva visione di tutto il carteggio Moro, che verrà ritrovato solo dopo la morte dello scrittore. Ma dalle lettere note, tratteggia un profilo del personaggio Moro che diventa simbolo, che diventa uomo. Non è una contraddizione, che Moro, da sempre, aveva incarnato un certo profilo democristiano. Nelle lettere questo profilo passa da un profilo di partito ad un profilo di statista. Ci si interroga, Moro ci interroga, sui rapporti tra le varie forze in campo. Quindi, in ultima analisi, sul potere, e sulle deviazioni che il Potere porta nei rapporti umani. Diventando poi, tornando poi, ad essere uomo, con i suoi affetti familiari.

Esemplifica molto una lettera alla famiglia, in cui Moro-uomo analizza i motivi per cui la su famiglia ha bisogno di lui. Sciascia dice poi che se sostituiamo al  termine “famiglia” il termine “stato”, abbiamo il passaggio allo statista che vuole indicare al Potere una via da intraprendere. Ma che non fu, coscientemente, volutamente, presa.

Infine, l’ultima telefonata, quella che indica dove trovare il corpo di Moro. Una telefonata in cui il brigatista fa sentire il rispetto per l’uomo. Chiama Moro onorevole, poi anche presidente. Quasi si fosse instaurato un percorso di “pietas” tra le due parti in causa. Quasi ci fosse un corto circuito che provoca una sindrome di Stoccolma rovesciata.

Utilizzando un percorso letterario, Sciascia porto l’Affare Moro su di un piano diverso. Là dove, appunto, la finzione non necessita di prove, dove sorge indispensabile l’uso della letteratura al fine di riuscire a raccontare la storia, con tutti gli uomini che hanno contribuito a costruirla.

Termino con il ricordo personale del me stesso in quel tempo. Stavo facendo la leva militare, come “autiere” nei campi motorizzati della Cecchignola in Roma. Ricordo il clima che si venne a creare in caserma, cupo, teso, anche per noi non di carriera, che siamo stati chiamati, per due mesi, alla vigile attenzione. Niente libere uscite, niente permessi, turni stressanti ad obiettivi sensibili. Inoltre, non avevo più il mio amico Agostino, ormai dimesso, e non avevo nessuno con cui parlare. Periodo orribile, perché non potevo neanche crearmi un’idea di cosa stesse succedendo. Solo a posteriori, dopo la morte di Moro e dopo la fine della naja (per me nel giugno di quell’anno) ho finalmente avuto modo di parlarne, con Luciano e gli altri. Ma ormai i tempi erano diversi, e la situazione decisamente altra.

Leonardo Sciascia “Il contesto” Repubblica Sciascia 14 euro 8,90

[A: 06/04/2021 – I: 30/06/2022 – T: 01/07/2022] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 98; anno: 1971]

Eccoci allora ad un altro e certo non meno complesso libro di Sciascia. Non a caso, consigliato dal mio mitico manuale di libroterapia “Curarsi con i libri”. Prima di entrare nel testo del libro, vediamo però i suoi contorni, come dire (scusate il gioco di parole) il contesto de “Il contesto”.

Sciascia concepisce il libro alla fine degli anni ’60, sull’onda della parte “gioiosa” della contestazione, prendendo probabilmente spunto dall’uccisione del magistrato Agostino Pianta avvenuto il 17 marzo 1969 da parte di un detenuto vittima di un errore giudiziario. Poi però il romanzo rimane sopito, finché lo riprende, lo rivolta da capo, e visto il clima politico degli anni ’70, lo fa diventare un pamphlet, contro il potere, contro la corruzione, contro la connivenza.

Veniamo allora alla trama, dove Sciascia decostruisce il genere poliziesco da lui utilizzato in molti suoi libri, per farne un uso altro. Non introiettivo alla Gadda, ma come denuncia di sistema, di quel sistema politico e clientelare che ha minato alle fondamenta la Giustizia italiana.

Siamo in un paese dalle movenze spagnole e sudamericane, come suggeriscono i nomi. Ma è un paese che è Italia in tutto e per tutto. Viene ucciso un procuratore e delle indagini viene incaricato l’ispettore Amerigo Rogas (magistralmente poi interpretato da Lino Ventura nella trasposizione cinematografica di Franco Rosi che uscì nel ’76 con il titolo “Cadaveri eccellenti”). Durante le indagini, poi, altri magistrati vengono uccisi, e Rogas si fa persuaso che sia una vendetta di un farmacista, ingiustamente condannato per la tentata uccisione della moglie e che ora, uscito di prigione, cerca la vendetta.

Persuaso delle sue ragioni, Rogas si mette alla ricerca del farmacista, che però è scomparso. Quando viene ucciso un nuovo magistrato e si individuano delle persone dai capelli lunghi allontanarsi dal luogo del delitto, i capi di Rogas lo costringono ad indirizzare le indagini verso gruppuscoli estremisti di sinistra.

Pur non convinto, Rogas entra in contatto con una rivista rivoluzionaria, e con un poeta che sfoga la sua rabbia con versi che rimandano al Pasolini della difesa dei celerini di Valle Giulia (si potrebbe apire un capitolo a parte, qui, ora anche che sto ripercorrendo le orme del poeta nella sua magione a me vicina nella frazione di Chia, non lontana dalla mia campagna sorianese). Da queste frequentazione, pur convinto della colpevolezza del farmacista, Rogas si fa persuaso che qualcuno stia utilizzandolo per fini altri. Cerca allora di avvertire altri possibili obiettivi del vendicatore solitario. Qui c’è il suo colloquio con il Presidente della Corte Suprema che fornisce sprazzi illuminanti sul pensiero politico di Sciascia.

Rogas riesce a trovare il farmacista (che stranamente gli somiglia fisicamente), e vuole avvertire Amar, il segretario del partito d’opposizione, dal fantasioso ma non immaginario nome di Partito Rivoluzionario Internazionale, informando anche il suo unico amico, lo scrittore Cusan. L’incontro con Amar finisce però in tragedia, che Amar e Rogas rimangono uccisi. La decifrazione del giallo finale viene da Sciascia lasciata volutamente ambigua. È Rogas che fuori di testa fa giustizia da sé? È il farmacista che prosegue la sua vendetta? Sono complotti altri che eliminano lo scomodo Rogas, lasciando il paese avviarsi ad una stretta autoritaria verso i gruppi estremisti? 

La verità che esce fuori dalle indagini di Rogas è troppo destabilizzante per essere accettata, sia dal partito che da trent’anni detiene il potere, ma anche dal partito di Amar che confessa “Non siamo ancora pronti per la rivoluzione”. Tutto, quindi, viene messo a tacere, perché “non è questo il momento”.

Non ci sono molti commenti da fare sull’attualità della scrittura e del pensiero di Sciascia. Tralasciamo le polemiche che allora sorsero, da destra e da sinistra, alle idee che, letterariamente, Sciascia aveva messo nel suo libro. Un libro che è pura denuncia di un sistema corrotto che già prefigura molti dei momenti tragici che sarebbero avvenuti di lì in pochi anni.

Ora, tuttavia, a cinquanta anni dal libro, quel che fa più male, che rende dolorosa la lettura del libro è la constatazione che le cose non è che siano cambiate più di tanto. La corruzione dilaga a tutti i livelli (e non ho interesse ad elencarne gli aspetti minuti che tutti voi avete sotto gli occhi). La mafia, reale ed occulta, è sempre tragicamente presente.

Ma con Sciascia (e con Gramsci) non possiamo, non dobbiamo perderci d’animo, dobbiamo continuare a pensare e seguire un corso nuovo delle cose (ed io vedo che ci sono giovani che hanno il potenziale per farlo). La democrazia è una strada lunga ed ancora tortuosa, me è l’unica da seguire, è l’unica giusta.

“Si può essere più furbo di un altro, non più furbo di tutti gli altri.” (84)

Leonardo Sciascia “Cronachette” Repubblica Sciascia 18 euro 8,90

[A: 07/05/2021 – I: 15/09/2022 – T: 17/09/2022] &&& +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 83; anno: 1985]

Nel 1985 per il numero 100 della collana Sellerio dedicata alla memoria, Sciascia produce un agile libretto, contenente sette piccole storie, sette cronache sparse nel tempo. Queste “Cronachette”, poi riprese anni dopo da Adelphi, aumentate di due unite, ed ora, nella forma ultima, uscite tra i volumi che Repubblica dedica al centenario della nascita dello scrittore siciliano.

È il tentativo, per altro riuscito, di Sciascia di partire da piccoli fatti, sconosciuti, dimenticati, per parlarci di tanto altro. Dell’Italia, dell’Europa, della sua Sicilia, degli equilibri che dovrebbero esistere al mondo, infilando le sue critiche e le sue riflessioni in uno spazio che rifletta tutta la sua scuola culturale. Un inanellarsi di affabulazioni che non solo ci ridanno la sua scrittura così come abbiamo imparato a conoscerla, ma che ci rivelano la sua onnivora fama di lettore.

Perché Sciascia, in principio, legge, legge tutto quello che ha sottomano, e dalle sue letture estrae brandelli di notizie che rimangono nella sua memoria. Notizie che sobbollono come pentole sul fuoco, che sedimentano, ed una volta pronte, lo scrittore ce le ripropone per rifletterci insieme a noi.

Tornando alla collana Sellerio, non è un caso che per festeggiare la centesima uscita, Elvira Sellerio si rivolga a lui, come fece per la prima, con quell’indimenticabile “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”.

Qui ci troviamo di fronte a nove piccoli testi, accomunati dalla riflessione del contrasto tra il piccolo ed il grande, tra il visibile e l’immaginabile, tra il torto e la ragione. Ne parlo in modo vario, che alcuni passi rimangono anche nella mia memoria, mentre altri volano presto via.

Si comincia dal 1613, con la cronaca di un macabro omicidio passionale avvenuto a Palermo. Un ragazzo, Battista, viene ucciso perché si è fatto troppo avanti verso le donne della casa che lo ospita. Donne piacenti, ma legate ad altri e potenti uomini. Sarà uno di questi, Don Alonso Giron, un signore, un don, che compirà il misfatto, forse pensando alla protezione che la sua casata gli dovrebbe fornire. Non sarà così, sarà processato, condannato e giustiziato. E Sciascia ce ne descrive anche il funerale con la forza espositiva propria di un pittore spagnolo coevo ai fatti, un Francisco de Zurbaran capace di infondere estasi e misticismo alla pittura delle sue figure umane.

Poi si procede nel tempo, ed io ricordo e cito un po’ alla rinfusa. C’è il 1735, con il processo per “eresia carnale” per don Mariano Crescimanno, un benedettino che mette in piedi una adorazione profana, viene processato (non senza tortura) dall’Inquisizione, costretto in prigione dove impazzisce ed urla fino alla morte, avvenuta ben 40 anni dopo, non senza aver istaurato uno strano rapporto di attrazione (mentale? fisica?) con il suo francescano carceriere.

C’è la descrizione del linciaggio del Ministro delle Finanze lombardo, Prina, descritta dal Manzoni, e da lui ripresa in un passo dei Promessi Sposi. Ma forse, Manzoni stesso partecipò all’evento (o ne fu spettatore), mentre sicuramente fu della partita Confalonieri, poi sodale di prigionia con Silvio Pellico.

Si ridimensiona, attraverso le parole del gesuita padre Buttà, la figura storica di Garibaldi, ci si chiede il senso di un’oscura tournée siciliana di Mata Hari, si sentono le parole di uno dei carnefici devoti a Pinochet nel Cile post dittatura.

Tutto un mondo passa dietro un possibile accostamento tra lo stendhaliano Fabrizio Del Dongo e la figura storica di Pietro Bonaparte, nipote di Napoleone. Ed è interessante approfondire la figura di questo anarchico di famiglia corsa, rivoluzionario, convivente promiscuo, bandito da diverse parti del mondo, financo in patria dove uccide con un eccesso di legittima difesa un giornalista, per poi morire, solo e diabetico a 66 anni. Non viene detto da Sciascia, ma io studiando in rete ho poi scoperto che il primo figlio di Pietro, Rolando sposa la ricchissima Marie-Félix Blanc, figlia del fondatore del casinò di Montecarlo. Unione da cui nasce Maria Bonaparte che nel 1907 sposa il principe Giorgio di Grecia, divenendo principessa di Grecia e Danimarca.

Molto interessante è poi la sessione dedicata alla morte dell’attricetta Elvira Andreazzi, in arte Rosetta de Woltery. Donna di facili costumi ma di bella voce, secondo la ricostruzione di Sciascia, viene uccisa per le botte ricevute da parte di un poliziotto il 26 agosto 1913. La vicenda dà modo all’autore di fare un bel volo dentro la Milano del tempo, che non è ancora la “Milano da bere” ma di certo è un coacervo di passione, con al centro Verga, gli Scapigliati, i socialisti. Tra l’altro la vicenda di Rosetta viene smascherata a fronte di una serie di articoli di denuncia usciti sull’Avanti diretto da Benito Mussolini. Rosetta che poi sarà immortalata da una delle bellissime canzoni della mala dei Gufi.

Ovvio che al fine poi io non posso che leggere e rileggere le due paginette finali, dedicata ad un articolo uscito sul giornale argentino “Cabildo” dove si sosteneva che Borges non è mai esistito, che i suoi lavori erano frutto della penna di Leopoldo Marechal, Manuel Mujica Lainez e Adolfo Bioy Casares, mentre la figura pubblica era impersonata da uno scalcinato attore, Aquiles Scatamacchia. Un’ipotesi borgesiana, e soprattutto, come sostiene Sciascia, inutile. Perché non è importante che Borges abbia scritto, ma che noi abbiamo in mano degli scritti. Siano essi o meno firmati, è un elemento di secondo piano rispetto al contenuto. Due pagine illuminanti.

Alla fine, anche se i personaggi spesso sono fragili, robusta è invece la scrittura che scava nel vissuto dei personaggi, piantando semi che in noi germogliano. Perché, seguendo la lezione dell’amato siciliano, noi si continua a leggere, ed a pensare.

“L’inimicizia dei fanatici è propriamente un fatto speculare … Della destra che diventa sinistra e la sinistra destra.” (15)

“Disraeli: quando voglio leggere un romanzo lo scrivo.” (42)

Leonardo Sciascia “Il cavaliere e la morte” Repubblica Sciascia 15 euro 8,90

[A: 18/04/2021 – I: 19/09/2022 – T: 20/09/2022] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 66; anno: 1988]

Nel 1988, Sciascia, già da tempo affetto da un mieloma multiplo, scrive di getto questo che sarà il suo penultimo lavoro pubblicato in vita. E non è per caso che cito la malattia, che torna come un motivo di fondo in tutto il romanzetto, anche se il testo parla d’altro. Ma con Sciascia, si sa, tutto si tocca, tutto si mescola, di tutto si deve e si può discettare.

Come ormai ci ha abituato, Sciascia imbastisce una trama su basi poliziesche, ma anche qui, per parlare d’altro, per discettare sulle sorti italiane, sulla sua sorte, e sulla letteratura. Per quest’ultimo punto, devo dire che l’autore stimola il lettore con continui rimandi, citazioni, sottili cenni, che spero voi lettori andrete a scovare, che di questo altro non dico.

Dico invece del quadro generale, che inizia dal titolo e prosegue con il quadro che il protagonista, indicato solo con la sua funzione, Vice, porta sempre con sé in tutti i suoi trasferimenti. L’uno e l’altro fanno riferimento alla superba stampa di Dürer “Il cavaliere, la morte ed il diavolo”, incisa dal maestro tedesco nel 1513. Il cavaliere, impavido nella sua armatura (che per Dürer era il simbolo della fede che tutto sorregge) guarda la morte che gli mostra una clessidra, il tempo che ancor gli resta. Così Sciascia (e sulla sua armatura torneremo). Così Vice che sa il poco tempo che gli resta, ed armato del suo intelletto affronta il problema che gli si pone con la morte di Sandoz, un noto avvocato.

Pur con pochi indizi (un pezzo di carta, confidenze a mezza bocca), Vice individua ben presto il possibile colpevole. Il potente presidente delle Industrie Riunite, Aurispa. Ma non ha prove concrete, anzi viene subito coinvolto in altre direzioni di indagine, che il delitto (ed altri a seguire) viene rivendicato da un sedicente gruppo denominatosi “I figli dell’89”.

Qui scoperto sembra farsi il gioco di Sciascia. Il gruppo finto rivoluzionario nasce per fare omicidi politici o sono gli omicidi che costruiscono a posteriori l’identità del gruppo? Un gruppo che sembra rifarsi al rivoluzionario 1789, ma senza un Robespierre che li guida. Ma potrebbe anche far menzione del 1889, che vede due eventi epigoni che di certo Sciascia non ignora: la nascita di Adolf Hitler e la fondazione a Parigi della Seconda Internazionale.

Ma l’atteggiamento ed i comunicati dei “Figli dell’89” sono ottusi e contraddittori. Loro servono solo a coprire altro. Ed è quindi ovvio che il Capo, comandante della polizia, voglia indirizzare in quella direzione le indagini. Mentre Vice comincia a trovare indizi che portano sempre più verso la colpevolezza di Aurispa.

Vice è aiutato da un ex-agente dei Servizi Segreti, ma quando questi viene ucciso, lui capisce che anche la sua ora è arrivata. Un’ora che la clessidra del quadro fisserà ben prima che il cancro faccia tutto il suo lavoro.

Tornando sul simbolo iniziale, Vice non è solo il cavaliere di fronte alla propria morte, ma anche di fronte alla morte della società in cui vive. Un mondo corrotto e di potere, dove non si vede come degli imbelli, come i “Figli dell’89” possano portare cambiamenti, perché chi distrugge non può essere estraneo al potere che dice di combattere. Un potere che nei suoi primi testi, lo scrittore non aveva tema di indicare con il suo nome, Mafia, con la M maiuscola. Che anche ora è mafia, ma non c’è più la forza, nel sociale, di portarne avanti lotte senza quartiere. Sono tesi, momenti, stati d’animo, posizioni politiche, che Sciascia già esprime, più o meno palesemente, fin dai tempi del libro su Moro, e su cui non torno.

Sciascia, in fondo, lascia trasparire lo scoramento che anche lui prova di fronte a chi, pur dalla parte della giustizia, non può combattere gli “intoccabili”. E lo può dire qui, in un romanzo, dove si possono portare avanti tesi che un’indagine avrebbe poca credibilità, in quanto pochi sono i riscontri. Laddove ci sono ipotesi, giuste ma non provabili, meglio parlare di “finzione”.

E nello scoramento di Vice, Sciascia, anche senza troppi veli, ci mostra il suo scoramento, la sua non più sensazione di essere vicino alla sua fine. Che avverrà solo un anno dopo, nel novembre dell’89, due settimane dopo la caduta del Muro di Berlino. Tanto che noi lettori ci si chiede se questi figli di cui si narra non potessero essere quelle speranze che in quel novembre nacquero, demolendo un muro nella speranza di costruire un mondo migliore di quello in cui si è vissuto fino a quel momento.

Tanto che Sciascia chiese, e ottenne, di far scrivere sulla sua tomba una frase di Auguste de Villiers de L'Isle-Adam “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. Una speranza da lasciare ai posteri. Mentre questo libro, potrebbe chiudersi rimandando ad un verso dell’ode “A sé stesso” di Giacomo Lopardi: “Al gener nostro il fato, non donò che il morire”.

Leonardo Sciascia “La strega e il capitano” Repubblica Sciascia 19 euro 8,90

[A: 13/05/2021 – I: 22/09/2022 – T: 23/09/2022] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 60; anno: 1986]

In queste ultime letture, pur sempre mantenendo Sciascia una buona presa di lettura e di interesse, va leggermente calando nel giudizio complessivo. Qui retrocediamo di qualche anno rispetto al precedente, che il testo viene prodotto per il bicentenario della nascita di Alessandro Manzoni. Il secondo elemento che fa un po’ arrugginire lo scritto è che, nella prima stesura, esce a puntate sul “Corriere della Sera”, e solo in seguito viene riunito in volume.

L’omaggio manzoniano nasce da un episodio narrato nel capitolo trentunesimo dei “Promessi Sposi”, laddove si narra del quasi linciaggio avvenuto nei confronti del protofisico Ludovico Settala, accusato dal popolino di essere un untore della peste milanese. Il malvisto dottore, però, ha tempo e modo di riscattare la sua fama, quando viene coinvolto nel giudicare una donna, Caterina Medici, accusata di stregoneria.

La vicenda inizia nel novembre del 1616, quando un senatore milanese, Luigi Melzi, accusa inspiegabili dolori allo stomaco che né Settala né altri luminari riescono a spiegare. Melzi è un sessantenne ben in vista nella società del tempo, con agganci notevoli a potere e aristocrazia. La svolta della malattia avviene il 30 novembre, quando un amico del senatore, il capitano Vacallo accusa la serva Caterina di aver usato le sue arti magiche per far ammalare il Melzi.

Sicurezza del capitano che aveva avuto Caterina a servizio, e che con le sue magie lo aveva irretito, portandolo a generare due figli. Qui nasce il grande imbroglio, che si, una Caterina aveva fatto quello al capitano, ma era la giovane, non questa Caterina Medici, anche lei avviata alla sessantina. Mescolando i due nomi, i potenti ottengono due risultati. Sollevano il capitano dall’onta dell’aver generato figli con una serva, e spiegano i malanni del senatore con le arti magiche.

La povera Caterina viene allora denunciata il 26 dicembre come strega manifesta. E lei, presa da ingranaggi più grandi di lei, cerca di salvarsi confessando tutto quello che gli si chiede. Di essere strega, di aver ammaliato il Vacallo, di viaggiare di notte su di un cavallo alato insieme alla sua sodale Margherita, di aver stregato il Melzi, prima inducendolo ad andare a letto con lei, poi facendolo ammalare quando il senatore decise di averne assai.

Ma la macchina del potere non si può fermare. Viene usata anche la tortura, che non ci si fa mancare nulla, anche se, come scriverà. Pietro Verri cento anni dopo, la tortura serve a confermare le accuse, non a scoprire la verità. Fatto sta che il 4 marzo 1617, in Piazza Vetra (nel parco antistante la Basilica di San Lorenzo) viene prima straziata con tenaglie arroventate, poi strangolata ed infine bruciata sul rogo.

La fine di Caterina serve a Sciascia a dimostrare, paradossalmente, molte cose. La Giustizia (dei potenti) aveva trionfato, i medici inetti avevano avuta salva la loro reputazione, ed alcun presenze ingombranti erano state cancellate dal suolo milanese.

Lo scritto è un degno esempio della scrittura e del modo di rapportarsi all’esterno di Sciascia. Cui non importa trovare un colpevole, ma descrivere una situazione, palesare un contesto problematico, al fine di smascherare la (falsa) Giustizia e rendere palesi Verità, anche scomode.

Anche in questo breve testo, Sciascia è antagonista, è alla ricerca dei modi di mostrare come l’utilizzo delle leggi, da parte del potere, serva solo a mantenere immutato il rapporto di sudditanza tra i cittadini comuni ed i governanti. Come nell’affare Moro, come nel successivo “Il cavaliere e la morte”, il potere crea il nemico, inventa un nemico, per perpetuare le ingiustizie che lo stesso potere ha prodotto.

L’idea, maigrettiana, di Sciascia è di usare la chiave “gialla” per scardinare questi meccanismi. Si prende un qualsiasi avvenimento (da questa lontana Caterina, al primo esordio in Sellerio con Raymond Russel, da Majorana al Giorno della Civetta), grande o piccolo, e gli si costruisce intorno un meccanismo poliziesco, di indagine. Ma in forma romanzato, laddove nel romanzo si possono sostenere tesi che in un saggio andrebbero dimostrate. Qui la sospensione della realtà consente di portare avanti tesi, e mostrarne la congruità, senza dover portare prove probanti a sostegno.

E come in Maigret, comunque, è sempre il lato umano che viene scavato e portato alla luce. In Simenon era un bisogno di umanità, in Sciascia una necessità di giustizia, anche laddove la giustizia non porta alla giusta condanna, ma solo, come detto, alla giusta verità.

Finendo, come spesso finiscono gli apologhi dello scrittore, nella sottolineatura di quanti errori siano stati commessi in tutti i tempi, e di quanto, questi errori, a nulla abbiano contribuito a migliorare i tempi successivi. Un pessimismo gramsciano.

Passata da poco la Befana, rivado con il pensiero ad un mitico viaggio di una quindicina di anni fa in Mali, a valle del quale lessi uno dei pochi scrittori autoctoni, Amadou Hampâté Bâ. Dal suo libro più noto, “Il Saggio di Bandiagara”, vi riporto due proverbi locali: “L’errore non annulla il valore dello sforzo compiuto (proverbio peul)” (7) e “Un pezzo di legno ha un bel galleggiare sull’acqua, ma non diventa caimano (proverbio maliano)” (178). Ed una riflessione sulla tolleranza: “La tolleranza è un principio fondamentale… tanto [che la confraternita] punisce con l’esclusione … chiunque, in preda alla collera, per tre giorni si rifiuti di parlare ad un’altra persona” (123).

Siamo alla prima domenica del nuovo anno, dove, insieme a letture varie, si sta pensando ai viaggi. Si profila un possibile estremo nord a febbraio, si lavora per capire se si riesce a tornare in Giappone, si lavora a lungo termine anche per la seconda metà dell’anno (ma saranno sorprese).

Spero che l’Epifania, portando via le feste, vi abbia lasciato l’ottimismo per affrontare le prossime sfide. Io, se posso aiutarvi, intanto vi abbraccio. 

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