Una trama a cavallo di due mesi, essendo oggi domenica e domani 1° maggio, rendendo quindi omaggio a tutti coloro che lavorano, che hanno lavorato, che lavoreranno. Una trama dedicata a libri di varia estrazione. Rimembranze, riflessioni sul presente, idee sulla scrittura, sulle forme dell’arte, sulla gioia di vivere (con un autore assonante alla mia cara nipote). Una trama fatta con molto cuore, ed anche con molto tempo di scrittura, che non è stato facile venire a capo dei sentimenti e delle emozioni. Una trama che, in linea con il periodo, è per 4/5 di libri regalati. Una trama con una coda che spero non vi dispiaccia troppo.
Adriano Ossicini jr. “Gli esami non
finiscono mai... ma chi l'ha detto! I ragazzi del '49” Youcanprint s.p. (Regalo
dell’autore)
[A: 18/05/2022
– I: 18/06/2022 – T: 18/06/2022] &&&&
----
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 85; anno: 2020]
Ho
dovuto aggiungere uno “junior” al nome che avrebbe causato confusione (oppure
avrei potuto usare il nome completo “Adriano Giorgio”). In ogni caso, ora ne
scrivo.
E come ricordi, non posso che dare un
altissimo sostegno ad Adriano, che parlando di sé ha risvegliato in me molte
sopite corde. Ma anche, parlando dello stile e della struttura del testo, non
posso che mitigarlo con una lunga serie di meno.
L’idea primaria del testo è senz’altro
vincente ed avvincente. I ragazzi del ’49, nel loro percorso scolastico, sono
stati ogni volta gli ultimi a dover intraprendere un percorso diverso. Come
facevano una prova, un esame, gli istituti scolastici decidevano di
modificarlo. Fin dall’asilo, al tempo diviso in “asilo dei piccoli” e “asilo
dei grandi”. Poi nell’esame di terza elementare, immediatamente abolito, per
essere sostituito da scrutini semplici. Quindi l’esame di “Avviamento”, che
consentiva a chi passava la licenza di quinta elementare, di accedere alla
Scuola Media. Infine, è fu lo scoglio maggiore, quando nel luglio del ’68,
Adriano sostenne la maturità su tutte le materie. Nell’estate di quell’anno
venne deciso di modificarlo, riducendolo a due scritti e due orali (e quella fu
la mia maturità qualche anno dopo).
Un excursus che giustifica quel titolo
sull’infinità degli esami, che poi, oltre a quelli “fisici” dei momenti
scolastici (cui aggiungiamo anche l’Università), ci sono stati, ci saranno
sempre, tutti i momenti di vita che abbiamo affrontato (e superato). Esami
infiniti, che l’autore porta fino all’estremo limite, avendone affrontati anche
ora che è un arzillo over ’70 (e non vi dico quali, perché è meglio leggerne).
Il testo si muove sul filo dei ricordi,
quindi. C’è tutto il percorso scolastico. Ma ci sono gli altri momenti salienti
che vengono alla mente dello scrittore. Le estati a Tortoreto Lido (con le
immancabili partite di pallone). Gli anni dell’impegno (con un dovuto ricordo
del cugino Zap). Gli anni del militare in Sardegna, con alcuni siparietti degni
di nota e molto legati al personaggio-scrittore (da rileggere il passo su
“Padre Padrone”).
Ma anche, e forse per me assai cari, quei
passaggi privati. I ricordi degli zii, delle feste aventiniane, delle
passeggiate romane con il padre, il rapporto, bello e vivido, tra i suoi
genitori. Ed anche dei fratelli, pur se con accenni che sarebbe stato utile
approfondire.
Il tutto condito da tante spigolature,
sull’Aventino teatro dei primi tredici anni, con le puntate ai Cavalieri di
Malta e a Sant’Alessio. Sulle scuole, la mitica scuola all’aperto “Gian Giacomo
Bandini”, ma soprattutto il Liceo Augusto Righi (che ho frequentato anch’io,
nella sede di via Sicilia, e nella sezione B, come Adriano).
I punti dolenti sono dovuti ad una
difficoltosa cronologizzazione del testo. Si passa, in particolare nella prima
parte, dalla scuola al militare, poi si ritorna indietro. Insomma, ogni tanto
un lampo di memoria fa apparire immagini ed avvenimenti, che avrebbero
guadagnato da una riorganizzazione temporale.
Poi, ovvio, ci sono io che mi inserisco nel
contesto, puntando alcuni momenti che mi videro vicino all’autore, da lui
giustamente dimenticati. La memoria non è sempre onnicomprensiva, e questo ben
lo spiega nell’introduzione. Io ricordo le domeniche al Villaggio Olimpico,
dove la famiglia di Adriano si trasferì nel ’62. In molti si convergeva lì,
piena di spazi per giocare.
Ricordo una lunga domenica, dove i maschi
della famiglia, con alcuni cugini di Ostia, ed io stesso, passammo ore a
cantare e registrare su di un geloso (mitico registratore a nastri) una canzone
di Don Backy (“L’immensità”, era il ’67). E ricordo anche la prima finale del
Campionato Europeo allo stadio Olimpico. Con Adriano e gli altri c’ero anch’io,
sistemati in curva, dietro la porta che vide il goal del pareggio di Domenghini
su punizione.
Infine, non entro nel merito del tempo della
scrittura, nelle parole sul COVID ed altro, che poco aggiungono al commento
generale.
Comunque, devo ringraziare lo sforzo
dell’autore che, pur non essendo aduso a scrivere a testo libero, si è
cimentato in un’impresa non facile, uscendone con tutti gli onori. Se la parola
stimola non tanto ricordi personali, ma voglia di ricercare luoghi, situazioni
e sensazioni, è sempre una parola ben spesa.
Paolo
Zani “Il corpo e lo spettro” Donzelli s.p. (Regalo dell’autore)
[A: 01/08/2022
– I: 25/08/2022 – T: 26/08/2022] &&&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 144; anno: 2022]
Non
è facile parlare di uno scritto firmato da una persona che hai visto nascere.
Non in quanto filosofo, compositore, scrittore o altro. No, che hai visto
nascere perché suo padre è il mio massimo amico e sua madre è stata una
matricola quando si volava alto all’università. Quindi, ben venga Paolo
nell’esercito delle mie scritture, sperando che l’affetto non intacchi la
serenità. Anche se, e questa è una mia cattiveria, poco parlerò dei punti positivi
del libro, che sono pur tanti. Perché lo scritto ha un suo interesse, per i
problemi che pone e per come li pone. Cioè, e questo credo per me il suo punto
forte, per come, logicamente, faccia discendere le sue tesi. Scendiamo così,
girone dopo girone, in una enunciazione che sa di teorema matematico, dal corpo
per arrivare allo spettro.
Se
fossi un “logico” forse avrei potuto costruire una catena:
Corpo à sparizione/negazione del corpo à corpo/spirito à sparizione dello spirito à spettro
Il bello della catena su esposta, e del
firmatario del libro, nonché di tutte le persone citate nel prologo come
partecipanti, per lunghi mesi, alle discussioni che hanno portato al libro, è
non solo la consequenzialità sopra esposta, ma la capacità di illustrare e chiarire
i vari passaggi. Non sempre condivisi da tutti, non sempre condivisi da me
(certo, c’è un’adesione di fondo, con alcune domande e distinguo che spero di
riuscire ad enunciare), ma di certo spiegati e, quindi, sono una buona materia
di discussione. E poiché non ho la capacità degli autori, vi rimando alla
lettura per averne la comprensione nella concatenazione.
Preferisco parlare a ruota libera di punti
che, come bolle di memoria, mi vengono in mente.
Forse il punto di minor concordia è in un
certo senso il punto mancante. Mi ricorda discussioni in merito ai libri di
Baumann, dove mi innervosivo al quanto nel momento in cui, a valle di
un’analisi condivisa in pieno, il grande pensatore non faceva scendere nessuna
azione. Non per diventare guida di chissà che, ma per consentire un dibattito.
Io ti descrivo le storture del mondo in questo modo, e per superarle ti
propongo questo e quello. Così che, io sono d’accordo con le descrizioni, ma
posso discutere le azioni. Anche qui, non trovo questo spunto. Quindi ci sono
elementi sostanziali ed elementi formali che andrebbero discussi.
Un elemento su cui divergo è la conclusione
della nota di pagina 62, dove si afferma che “il desiderio è … la spinta che
l’altro sia”. Personalmente penso che in ogni situazione umana, pensare,
ipotizzare, “desiderare” che l’altro “sia” è una forzatura dei rapporti.
L’altro è (ricordo un bel libro di Adriano Sofri sul prossimo), a noi sta
l’accettazione di quel sé, che unito al nostro sé (che è l’unico che possiamo
desiderare e lavorare affinché sia) ci può portare a quello stadio finale
descritto nelle ultime pagine con le bellissime parole di san Francesco.
Devo comunque concordare con l’autore che la
conclusione in sé non è sbagliata, ma che avrebbe avuto necessità di qualche
spiegazione in più.
Due punti in cui in generale convergo, ma
che hanno bisogno di altro sono la nascita della tecnologia e l’evoluzione
della musica occidentale. Mi sembra troppo veloce parlare dello sviluppo della
tecnologia legandola all’uso e la comprensione dell’esistenza del corpo.
Ritengo che, anche laddove c’è una comprensione altra del corpo e dello spirito
si possa parlare di sviluppo tecnologico. Basta non pensare “solo” in termini
di sviluppo tecnologico occidentale, come poi si cerca di rispondere con le
considerazioni di pagina 85 (“a queste considerazioni si potrebbe obiettare
che…”). Così come nella musica, non possiamo, non dobbiamo parlare solo di
evoluzione della musica, così come viene esposto a pagina 101.
Che è giusto, corretto, comprensibile, ma
forse “limitante”. C’è sempre, e Paolo lo sa, un orizzonte musicale altro, che
si sviluppa secondo linee foniche diverse, ma che, e questo può essere il bello
della musica e della vita, nelle linee interne rimane analogo a quanto
descritto. Forse, a volte, unendo anche in maniera più forte, musica e
movimento. Altre volte, separandone completamente il senso. Penso alle melodie
giapponesi da un lato ed a John Cage dall’altro (capisco che sto divagando e
che forse sarebbe il caso di tornare al testo, ma, altro punto forte, un testo
capace di creare spunti anche diversi dall’intento primario non può che essere
un punto a suo favore).
Infine, a pagina 133 e 134, c’è una disamina
della felicità, tra azione e passività. Io non vedo una contraddizione di fondo
tra le due visioni proposte, solo poi se si riesce a sintetizzarne il senso
nella seguente “Preghiera della serenità”:
“Concedimi la serenità di accettare le cose
che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare le cose che posso,
e la saggezza per conoscere la differenza”.
Veniamo allora ai punti, piccoli o grandi
che avrei affrontato magari in modo diverso, forse anche solo grafico. Il primo
spunto mi viene dalla nota a pagina 12, intorno al concetto di “stato di
eccezione” introdotto dal filosofo tedesco Carl Schmitt. Se si segue lo scritto
sembra che Carl Schmitt ne abbia scritto nel 2013 e l’idea sia stata ripresa
dal suo “allievo” Agamben nel 2003. Non è a tutti noto che invece Schmitt muore
nel 1985, che la categoria su esposta viene espressa compiutamente in un saggio
del 1932 “Der Begriff des Politischen”. Questo e per molte altre note, dove
capisco l’utilità di indicare l’ultima edizione degli scritti menzionati, ma
anche la loro cronologia storica sarebbe rilevante per la comprensione.
C’è un'altra frase che mi ha dato filo da
torcere, avendola dovuta leggere varie volte per capirne il senso finale. Parlo
di “preferisci che a restare a casa due mesi sia tu soltanto oppure siate
sia tu che tuo nipote?” (28). Alla fine, io avrei inserito un “che” tra
oppure e siate. Questo per dire che, a volte, un fraseggiare troppo compresso
impedisce una sua fruizione. Come l’uso del termine “sacertà” (44) a metà tra
una punizione per chi commette un delitto contro il divino ed il concetto di
“sacro”.
Infine, dal punto di vista formale, l’elegia
di Pindaro a pagina 48, che viene così riportata:
Volteggiano ovunque cori di fanciulle,
60 suoni di lire e strepiti d’auli;
l’avrei graficamente scritta nel modo
seguente (penso si capisca il motivo)
Volteggiano
ovunque cori di fanciulle,
60 suoni
di lire e strepiti d’auli
Penso di aver anche indugiato troppo prima
di avviarmi al finale, dove la mia critica, analisi, discussione a ruota
libera, viene a chiudersi sulla digitalizzazione, elemento che per Zani &
co. era stato il momento di partenza. È la tecnologia spinta al suo estremo che
porta il testo ad estremizzarne le conseguenze. Arriviamo quindi al punto.
Poiché credo che gli autori non siano luddisti illuminati, ma neanche
sostenitori dell’universo di Matrix, dovremmo capire l’uso non distorto dei
mezzi.
Vedo intorno a me, e sono d’accordo con
l’autore, gente che usa tecnologie spersonalizzando l’umano che è in sé. Tanto
che a volte mi domando se l’aumento di fatti violenti non sia anche legato alla
sensazione che il virtuale induce: in fondo, se muori in “Call of Duty” poi
rinasci e fai una nuova “vita”. Ma vedo anche chi, ignorando il nuovo, riesce
ad essere altrettanto spersonalizzato. Non so dove sia, se ci sia, uno
spartiacque tra tutto ciò. Spero, con tutto il mio ottimismo, che questo
equilibrio sopra la follia (citazione di Vasco Rossi) si riesca a trovare.
Insieme.
“San Francesco: Vera letizia [è] la capacità
di attraversare i più grandi dolori avendo pazienza e senza turbarsi” (133)
“Virgilio: Felice è colui che basta sempre a
sé stesso, accetta a ogni istante sé stesso e il mondo, con tutta la gioia che
ciò comporta.” (134)
Frédéric
Lenoir “La forza della gioia” Repubblica Filosofia Viva 5 euro 9,90
[A: 06/05/2020 – I: 23/12/2022 – T: 25/12/2022]
- &&
[tit. or.: La
puissance de la joie; ling. or.: francese; pagine: 137; anno 2015]
Riprendo,
dopo veramente tanto tempo, la lettura di una dei (pochi) volumi di questa
collana uscita un paio di anni fa. Come dissi allora, non mi sembrava una
collana omogenea, ed anche questo testo conferma il su e giù dei testi e delle
loro riuscite.
In
realtà, la cosa migliore è il cognome dell’autore, in quanto mio quasi omonimo.
Per il resto, più che di filosofia, e su questa parte forse dice cose che ci
aiutano a riflettere, sembra uno dei tanti, anche se scritti bene, manuali di
auto aiuto. Tutti aspiriamo alla gioia, quindi bisogna fare un percorso, fare
questo e quello, e poi, forse, arriviamo in uno stato che potrebbe essere
chiamato gioia.
Quello
che sento stonato nel discorso del pensatore francese sono i troppi intarsi
personali. Fa piacere conoscere episodi della sua vita, ma usarli a paradigma
di passaggi da effettuare per raggiungere una sensazione di gioia, mi sembra
troppo autoreferenziale.
Anche
se, e questa è una delle maggiori note positive dello scritto, si comincia
proprio dai filosofi, da quelli che per l’autore hanno posto la gioia al centro
della loro riflessione: Spinoza, Nietzsche e Bergson. Sul tedesco non
intervengo, che mi è sempre sfuggito. Bergson ha una visione molto puntuale: la
vita è creazione, raggiungere un obiettivo permette di realizzare una
dimensione gioiosa. Rimango allora su Baruch Spinoza, che forse mi convince di
più, che nei suoi pur complessi scritti, parla direttamente della gioia. Uno
stato che permette di accrescere sé stessi, liberandosi dalle passioni. Ma non
nel senso della falsa quiete delle filosofie orientali, del nirvana buddhista.
Perché noi, e Spinoza ce lo sottolinea ad ogni istante, dobbiamo vivere “nel”
mondo. Ma dobbiamo fare due percorsi: accettarlo e capire quali sia il nostro
“noi stessi”. Anche nei momenti non felici. Capire il nostro bene permette di
sviluppare una gioia attiva, che per Spinoza è il fine ultimo dell’individuo.
Per
introdurre poi questi termini filosofici, l’autore fa un piccolo percorso di
discussione aristotelica. Si comincia con il piacere che per ognuno deriva
dall’aver soddisfatto un bisogno. Tuttavia, il piacere, dopo la soddisfazione,
svanisce. La felicità si colloca sul piano in cui il continuo raggiungimento del
piacere porta ad un altipiano di serenità. Proprio per questo, deve essere
contenuto, domato. La gioia è invece il contrario, cioè l’esplosione di un
sentimento, che porta anche a gesti non controllati. La sua forza potrebbe
essere quella di averne uno stato interno continuo, che permette di “gioire” di
ogni momento della propria vita, siano essi positivi o negativi. E non è sempre
detto che momenti poco felici non possano essere fonti di gioia. Leggendone
ripenso alla gioia che ho scorto nello sguardo di una suora nel lebbrosario di
Madre Teresa a Calcutta.
Tuttavia,
dopo questo interessante percorso, Lenoir passa ai consigli. Cosa si deve fare
per arrivare alla gioia? Quali sono le tappe, gli scogli, i pensieri, da
raggiungere, superare, elaborare?
Ecco,
quindi, che entriamo nell’aiuto e non nella discussione collettiva.
Dobbiamo prestare attenzione a tutto quello
che ci circonda, essere presenti a noi stessi e al mondo, ritagliarci momenti
di meditazione, avere fiducia, essere benevoli (che l’invidia è uno dei potenti
antidoti alla gioia), accettare i momenti gratuiti, quelli dove non c’è
guadagno (ributtando alle ortiche quello che propugnava qualcuno, che la
remissione è certa), ringrazia la vita per tutti i momenti che ci dona,
perseverare nella ricerca, nella creazione, anche, e soprattutto, quando lo
sforzo per raggiungerla è faticosa. Ma poi anche, mollare, non contrastare,
accettare quello che la vita ci offre. Ed ascoltarci. Il nostro corpo è il
primo maestro verso la gioia. Ho cercato di fare una sintesi del percorso
gioioso di Lenoir, anche se non tutti i passaggi mi convincono.
Non so come e se ci si possa definire in uno
stato di gioia, anche se, a livello di definizione, non posso che concordare
con una delle affermazioni di Lenoir, che la gioia è duratura e autosufficiente
pur essendo gratuita.
Io
ritornerei e rimarrei a Seneca (torniamo ai filosofi, suvvia), dove, pur non
essendo sempre chiaro quali sia, cosa descriva il termine “saggezza”,
sottolineiamo che il suo effetto, l’effetto dello stato individuale di
saggezza, porta ad una gioia continua. Come, per me, il poter continuare a
leggere libri, ed a parlarne con voi.
“La
felicità è continuare a desiderare ciò che già si possiede (attribuita a
Sant’Agostino)” (18)
“Io
… quando visito un posto, ho deciso da molto tempo di non fare più fotografie”
(41)
José
Saramago “L’autore si spiega” Feltrinelli s.p. (Natale degli arabini)
[A: 25/12/2022
– I: 13/01/2023 – T: 14/01/2023] - &&&
e ½
[tit.
or.: Da Estátua à Pedra; ling. or.: portoghese; pagine: 124;
anno 2021]
Una bella prosa sostenuta dalla grande
lucidità di Saramago, coinvolgente anche perché è una prosa che, in diverse
occasioni, è stata letta, cioè deriva da discorsi di diversa ma univoca
tipologia che il grande portoghese pronunciò in alcune memorabili occasioni.
Ma prima di addentrarci nelle parole, è bene
dire (e dire male) del contesto del libro. Nel testo sono contenuti un discorso
conclusivo tenuto da Saramago nell’aprile del ’98 in occasione di un convegno
sulla sua scrittura, il discorso di accettazione del Nobel e quello tenuto
dall’autore al banchetto celebrativo del Nobel stesso, nel dicembre dello
stesso anno. Racchiudono il testo una “Autobiografia” di Saramago, anch’essa
prodotta per il Nobel (se ne trova la versione inglese sul sito del premio),
leggermente ampliata per tener conto degli anni successivi al Nobel, una
esegesi di Fernando Gómez Aguilera, uno dei maggiori conoscitori dell’opera di
Saramago (forse la parte meno utile), ed una breve ma sentita presentazione del
libro da parte di Maria del Pilar del Río Sánchez, l’ultima moglie dello
scrittore.
Orbene, di tutti questi testi, solo del primo
sappiamo titolo originale, come sopra riportato. Gli altri, pur ovviamente in
diverse lingue, non hanno riferimenti. Tanto che alla fine direi che il libro è
una collazione di testi edita dall’editore italiano in omaggio a Saramago,
probabilmente per sfruttare il centenario della nascita, essendo l’autore nato
nel 1922.
Non entro nello scritto di Gómez Aguilera che
ripercorre i testi di Saramago, aggiungendo poco a quanto lo stesso dice con le
sue parole. Uno scritto utile, forse, ma non essenziale.
Sono invece interessanti le parole dirette
del grande portoghese, in particolare il primo, un discorso meditato dopo le
analisi che altri studiosi avevano fatto dei suoi scritti nel convegno di
Torino. Laddove lui stesso divide in due grossi momenti la sua opera. I primi
sette libri, dal “Manuale di pittura e calligrafia” a “Il Vangelo secondo Gesù
Cristo”, come lavori che prendono il marmo della creazione e ne creano statue.
Di questi, ne ho letti cinque, ed amati due. Capisco comunque la sua analisi.
Affronta momenti, imbastisce situazioni e porta a compimento una interessante
figura a tutto tondo.
In particolare, ricordo lo stravolgimento del
senso della storia in quella “Storia dell’assedio di Lisbona”, dove un revisore
solerte e ribelle, inserisce un “non” alla storia dell’aiuto dei crociati alla
riconquista di Lisbona, scatenando una riflessione non sulla storia ma sul modo
in cui la storia stessa viene raccontata. Oppure l’umanizzazione della figura
del Cristo ne “Il vangelo”, anche se la visione atea e razionalista di Saramago
lo spinge su territori non canonici e non sempre condivisibili. Ma è, dal suo
punto di vista, un tentativo di umanizzare e contestualizzare una figura
storica, con i suoi dubbi e le sue pulsioni.
Proprio questo scritto segna uno spartiacque
nella vita e nell’opera di Saramago. Osteggiato dal potere lusitano per la sua
ereticità, Saramago decide di trasferirsi a Lanzarote, dove dimora per il resto
della sua vita, e dove, invece, nello scrivere, cerca di penetrare dal di
dentro del marmo. Non tanto per farne una statua, ma per arrivare alla pietra.
Produce così altri sette romanzi, da “Cecità”
a “Il viaggio dell’elefante”, di cui ne ho letti due. Il mirabolante primo con
quel baratro in cui cade l’umanità in cui la gente comincia a perdere la vista.
Un’allegoria potente, che Saramago sorregge sino all’ultima pagina. E come “Le
intermittenze della morte”, anche qui con quell’idea di partenza, stravolgente
la realtà, dove la gente non muore più. Ed ecco che lo scrittore ne analizza
tutti i guasti e le perversione. Senza la morte, senza il dolore, è l’umanità
stessa che perde la sua natura.
Rimane a sé stante, e non ne parla in questo
testo Saramago avendolo scritto posteriormente, l’eccellente “Caino”, dove
l’autore percorre tutta una sua parabola, sempre a corredo della Bibbia
cristiana, sulla figura del primo omicida della storia. Poiché non se ne parla
qui, anch’io ne tralascio il percorso, anche se ritengo, pur con i distinguo
presenti tra il mio pensiero e quello di Saramago, uno scritto da leggere e
commentare con interesse.
Ci sono poi i discorsi del Nobel e
l’autobiografia che per il Nobel lui stesso ha scritto. Qui vien fuori il terzo
polo, tra la statua e la pietra, che sorregge il mondo di Saramago. Il ricordo
grato ed imprescindibili verso i nonni analfabeti che lo hanno allevato, e che
gli hanno insegnato la meraviglia del narrare.
Mirabile, infine, è la chiosa che dà al suo
discorso e che riporto come ultima citazione.
Un libro agile, che consente a chi poco
conosce l’autore di chiederne una lettura, ed a chi lo ha praticato di
domandarsi perché non ha letto altro. Io sono in questa seconda schiera, e ci
ragionerò, ricordando come, nelle mie prime letture, sia stato sempre
scoraggiato dal modo in cui il portoghese riempie le sue pagine. Quello scritto
continuo, quasi a riprendere le affabulazioni dei nonni, che forse in questo modo
va preso e riletto.
“Arriviamo sempre nel posto in cui ci
aspettano.” (71) [epigrafe a “Il viaggio dell’elefante”]
“Nella vita non c’è niente di più
importante del chiedere.” (99)
“Perdonatemi se vi è parso poco questo che
per me è tutto.” (99)
Officina
Saggiatore “Piccolo galateo illustrato per il corretto utilizzo dei libri” Il
Saggiatore s.p. (Regalo di Flavio)
[A: 25/12/2022
– I: 25/01/2023 – T: 27/01/2023] &&&&
---
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 157; anno: 2022]
Un
inaspettato e gradito regalo di Flavio, che, anche se molto velocemente, fa un
giro intorno ai punti fondamentali dell’uso dei libri, tra lettura,
conservazione ed altre amenità.
Seppur
sembra un testo frutto di un lavoro di gruppo, motivo per cui come “autore” si
legge nel frontespizio “Officina il Saggiatore”, è bene ricordare, come nella
prima pagina, che i testi sono di Marco Didimo Marino e le illustrazioni di
Marco Maldonato (perché le scarne pagine sono anche corredate da simpatici
esempi disegnati).
Fatte
queste premesse, il testo si avventura in una serie di considerazioni sui vari
aspetti del libro, forse con l’unica limitazione che non sempre prende una
posizione ferma. Una volta riconosciuto che il libro è un essere vivente, che
cioè ha un rapporto con te lettore, e solo con te. Io ne ricavo qualcosa,
esempi, spunti, riflessioni, che sono e saranno mie. Posso condividerle con
altri, ma gli altri, a loro volta, ne avranno immagini proprie, non sempre
concordanti con le mie. Ed è proprio nel confronto, anche, di posizioni
discordanti che è bello avere un rapporto con la carta stampata.
Ripeto,
con la carta stampata. Che, personalmente, e qui mi espongo, il libro è un
oggetto che si sfoglia, si compulsa, si usa, in modo diretto. Non sarà mai, per
me, un oggetto elettronico, un “kindle” tanto per dire. Certo, quando saremo
molto avanti negli anni non nego che ci possa essere una svolta in questo
pensiero. Ma fino ad ora, rimango su Gutenberg ed i suoi epigoni.
Tra
i punti che si affrontano, il primo è quello delle orecchiette. Secondo il
galateo, ci sono volte in cui si possono usare ed altre no. Io non li uso come
segnali di arrivo della lettura, che uso sempre e comunque un segnalibro
(spesso lo stesso, antico che mi regalo il mio amico Maurizio quando gestiva la
libreria “L’asterisco” in via Silla), ma servono a segnare pagine in cui un
pensiero, una riflessione che mi hanno colpito. Certo, se fossi più attento,
dovrei comprare i piccoli post-it colorati, come la mia amica Rosa. Forse un
giorno lo farò.
C’è
poi la discussione sulle librerie. Il galateo suggerisce alcune installazioni
interessanti, dove a me intriga soltanto quella chiamata “Gratitude” fabbricata
da Molteni & Co., mentre altre, e soprattutto la “bookworm” mi sembrano
inutili oggetti, che poco hanno a che fare con i libri. Inoltre, sono del
parere che, nella maggior parte, le mie librerie debbono essere usate per i
libri, e non per altri oggetti di rimembranze (foto, porcellane o altre cose
che hanno un senso per sé, ma non per i libri).
Legate
alle librerie, c’è anche, ed è un forte dilemma, la scelta dell’ordinamento dei
libri stessi. Per autore? Per argomento? Per forma e colore? E ci sarebbero
tante altre scelte (una, intrigante, tra autori che prediligiamo ed il resto).
La mia scelta è plurima. Prima di tutto, separare i libri letti da quelli da
leggere. I primi, li suddivido per editore (d’altra parte, avendo circa 5000
volumi, mi è sembrata l’unica scelta razionale). I secondi, se fanno parte di
collane specifiche, li metto insieme, mentre il resto lo suddivido ancora per
editore.
Queste
affermazioni si collegano poi alla natura dei libri stessi. Il Galateo si
allinea con Mark Forsyth che divide i libri in libri che abbiamo letto, libri
che non abbiamo letto e libri che non sappiamo di non aver letto. Collegandoci
cioè con l’universo dei libri. Io, anche se seguo, per quanto possibile, le
uscite e frequento le librerie, sono assolutamente d’accordo che esiste tutto
un universo di libri di cui non so l’esistenza e, saputolo, li avrei letti.
Vertigine.
Vorrei
toccare tre ultimi punti. L’ergonomia: ognuno legge come e dove può. Io
prediligo una comoda poltrona, anche se poi ho sempre un libro a portata di
mano ovunque mi sposti (ed ovviamente non leggo quando guido la macchina). Le
liste: i più avveduti stilano liste su liste intorno ai libri, come insegnava
il buon Eco ne “La vertigine delle liste”. Io spesso ne ho fatte ed a volte ne
faccio ancora. Ma ormai gli acquisti seguono il volere del momento.
Infine,
la circolazione dei libri. Sono d’accordo che non dovrebbero essere statici, in
questo mi è maestro il mio amico Roberto che ha il coraggio di alienare volumi
che non ritiene siano utili restare nella sua non infinita magione. Io, venendo
da un passato di perdite dolorose, ho poca voglia di far uscire qualcosa dalle
mie mura. Paura che vinco solo per pochi e selezionati amici, di cui conosco la
cura che hanno per l’oggetto. Collegato alla circolazione è l’annoso problema
del libro da regalare. Sempre, sempre, fare dono di libri che conosco. Un dono
al buio è rischioso, per chi lo fa e per chi lo riceve.
Un'unica
mancanza ho trovato grave. Nel capitolo relativo agli strappi dei libri, al
dividere grossi tomi in sotto libri maneggevoli (citando Fruttero e Lucentini)
o alla deturpazione delle ultime pagine di libri gialli (come da scellerata
ragazza bergamasca), il libro si scorda di citare uno strappo famoso tra i
cultori del genere. Mi riferisco a Pepe Carvalho, il personaggio centrale
dell’epopea del fu Manuel Vazquez Montalban, che usa le pagine dei libri (in
particolare quelli che non gli erano piaciuti) per accendere il fuoco del suo
camino. Erano una citazione dovuta.
Insomma,
un divertente e veloce excursus, scritto anche in modo gradevole, e corredato
da una breve ma per me utilissima bibliografia.
Scrivere
di libri è sempre un modo di averli accanto, ed io ne scrivo.
“Dei
libri letti bisogna scrivere.” (80)
“Il
lettore sa che … è inumano pensare di poter leggere tutto quello che vorrebbe
leggere nell’unica vita che gli è data a disposizione.” (115)
Come detto è una scrittura a cavallo del festivo
di una fine del mese, quindi, con poco anticipo, vi elenco le letture del mese
di febbraio, che hanno visto un calo per ragioni complesse ma legate all’organizzazione
dei mesi seguenti. Abbiamo comunque tre libri che si staccano dagli altri. Il
solito Colin Dexter, il libro fondante della fama di Annie Ernaux, nonché un
ottimo giapponese, Keigo Higashino giusto in linea per fare da apripista al
viaggio che ho fatto in marzo nel paese del Sol Levante. Per il resto una
navigazione di medio raggio, con il solito thriller del corriere in fondo, ma
proprio in fondo alla lista.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Pif |
La disperata ricerca d’amore di un povero
idiota |
Feltrinelli |
s.p. |
2 |
2 |
Davide Longo |
Il caso Bramard |
Einaudi |
14
|
3 |
3 |
Colin Dexter |
La fanciulla è morta |
Sellerio |
14
|
4 |
4 |
Jorge Luis Borges |
Il libro di sabbia |
Repubblica Latino-americana |
9,90 |
3,5 |
5 |
Belinda
Bauer |
Negli
occhi dell’assassino |
Corriere Thriller |
7,90 |
1,5 |
6 |
Annie Ernaux |
Les années |
Folio |
s.p.
|
4 |
7 |
Colin Dexter |
Il gioiello che era nostro |
Sellerio |
14 |
3,5 |
8 |
John Gillard |
Quaderno di scrittura creativa |
Repubblica |
9,90 |
2 |
9 |
Ilaria Tuti |
Fiori sopra l’inferno |
Corriere Profondo Nero |
7,90 |
3 |
10 |
Guillaume
Musso |
L’istante
presente |
La nave di Teseo |
18 |
2 |
11 |
Paolo Giordano |
Tasmania |
Einaudi |
s.p.
|
2 |
12 |
Ilaria Tuti |
Ninfa dormiente |
TEA |
9,90
|
3 |
13 |
Colin Dexter |
La strada nel bosco |
Sellerio |
15
|
3,5 |
14 |
Keigo
Higashino |
Sotto
il sole di mezzanotte |
Corriere Giappone |
8,90 |
4 |
15 |
Shannon Kirk |
Il metodo 15/33 |
Corriere Profondo Nero |
7,90 |
2,5 |
Visto
che si parla di libri “non fiction” come direbbero gli inglesi, ci sta bene un
florilegio di citazioni che vengono dal libro dell’antropologo francese Marc
Augé ed intitolato (che ci sta molto bene qui) “Les formes de
l’oubli”. Ve ne riporta direttamente la mia traduzione dal francese. Ce
ne sono per tutti i gusti. Quelli legati alla memoria: “Dimenticare è la linfa
vitale della memoria e ricordare ne è il prodotto.” (30); “[Noi viviamo in
storie che sono] il frutto della memoria e dell’oblio, un lavoro di
composizione e ricomposizione che riflette la tensione esercitata dalla
speranza del futuro sull'interpretazione del passato.” (55); “Bisogna essere
almeno in due per dimenticare.” (81) Quelli legati all’età: “Io sono un
uomo di mezza età ma ignoro quale sia quella intera.” (29) e “Gli individui, a
mano a mano che invecchiano, presentano caratteristiche di famiglia, che fino
ad allora erano rimaste invisibile sui loro volti.” (106) [questa è una di
quelle che preferisco]. Si parla di scrittura: “La letteratura è sempre
virtualmente sovversiva.” (114). Ma soprattutto, per me, si parla di viaggio: “I
viaggiatori sanno ... che passando da un continente all'altro, non smetteranno
di invecchiare ... ma questo è loro sufficiente per ... avere l'illusione di
scongiurare lo scorrere del tempo spostandosi nello spazio.” (83)
Dicevo in alto che ci sarà una coda che spero non vi dispiaccia. Poiché in molti sanno (e chi non lo sa lo saprà ora) che per me quest’inizio di maggio è molto importante. Tra le altre cose sarà dedicato ad un cambio delle mie attrezzature informatiche. Cosa che comporta uno stop alle mie esternazioni letterarie almeno per una decina di giorni, se non di più. E quindi con maggior forza che vi mando un caloroso abbraccio.