Roberta De Falco “Il tempo non cancella”
Repubblica Anima Noir 34 euro 8,90
[A: 15/02/2022 – I: 25/04/2023 – T: 27/03/2023]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 266; anno:
2014]
Primo libro che leggo della scrittrice che,
casi della vita, ho saputo essersi ritirata in campagna nell’Orvietano, e
quindi non lontano da dove passo molta parte dei miei momenti di riposo. Libro
che fa parte di una serie di almeno quattro libri (di cui questo è il terzo) e
che prosegue con un’altra serie dove, pare ma non l’ho letta ancora, si
incentri su di un personaggio presente già nella prima.
Ma voglio parlare dei libri, quindi tralascio
le parti private e la vita di Roberta Mazzoni, valente e nota sceneggiatrice,
per rimanere sul suo “nom de plume” quando scrive gialli. Peccato che non esser
riuscito ad iniziarla dal primo volume, che, come tutte le serie, qualcosa si
perde, soprattutto se poi si riesce a ritrovare il bandolo. Quello che a me
sicuramente è piaciuta, è l’ambientazione triestina, che mi ricorda un po’ il
commissario Laurenti di Veit Heinechen (che da molto tempo non riesco a ritrovare),
nonché, per l’economia del discorso, il rapporto tra la città giuliana ed il
territorio istriano. Che quando ne leggo, penso sempre a mia suocera ed alla
sua gioventù giuliano-dalmata.
Quando inizia a scrivere “noir”, Roberta De
Falco costruisce il suo centro nel commissario Ettore Benussi (col nome
dedicato al suo concittadino e scrittore Italo Svevo) e la sua squadra
investigativa composta dagli ispettori Elettra Morin e Valerio Gargiulo.
Elettra è anche lei friulana, abbandonata alla nascita dalla madre, adottata,
molto dura e rigida, ma con un rapporto (che qui già vediamo avviato) con
Valerio, fatta di un misto di tenerezza e di difficoltà di abbandonarsi.
Gargiulo è invece napoletano, anche se di madre anche lei sveva. Benussi ha poi
una famiglia composta dalla moglie Carla, sempre molto attenta, e dalla figlia
Livia, tipica adolescente con tutti i pro e i contro dell’età.
Da accenni e rimandi posso ricostruire che
nei libri precedenti si è narrato di una fuga adolescenziale, risolta da
Elettra e Valerio con l’aiuto della comunità di padre Florence e della sua
assistente Violeta. Nelle more c’è stato anche un coinvolgimento di Carla in
qualche fatto di sangue, che alla fine ha messo in mezzo anche Ettore, cui
nasce un sentimento di “forte amicizia” con Violeta. Ma che soprattutto, alla
fine, costringendo a letto il nostro, lo costringe anche a metter mano alla
scrittura che da sempre aveva nelle corde, e ad arrivare alla stesura completa
di un libro giallo. Questo è lo scenario da cui cominciamo la nostra lettura.
Che in realtà è molto d’ambiente e che di
giallo ha poco (oppure niente se vogliamo essere giusti sino in fondo). La
trama si incentra su Ivo Radek, scrittore istriano profugo da decenni a
Trieste, dove si è rifatto la vita. Noto per il suo primo libro, pubblicato
negli anni Cinquanta, dove narra una storia semi-autobiografica che,
ricostruendo varie frasi da quel che se ne dice, ricalca un po’ il “Jules e Jim”
di Henri-Pierre Roché. Ivo è anche il nonno di Ada, protagonista di quella fuga
di cui si narrava all’inizio. Così, noi per la prima volta, e gli estimatori
della scrittrice di nuovo, veniamo coinvolti nella vita della famiglia Radek.
Con Ivo, schivo ed anziano, la sua seconda moglie Petra, i figli Caterina e
Fabio. Ognuno con le sue debolezze ed i suoi punti oscuri. E poi c’è il mondo
editoriale, gli editori di Radek, la sua agente Rhoda (che poi è la più
simpatica), un giornalista acido, il presupponente marito di Cristina (nome
omen di rimembranze altre che qui non investighiamo).
Tutto si costruisce intorno ai rapporti
interpersonali, soprattutto attraverso la scrittura altra del croato Frano,
amico di Ivo in gioventù, nonché amante di Lea, che poi diventerà la prima
moglie di Ivo. Avrà modo, chi leggerà il libro, di entrare nei meandri dei
super triangoli intrecciati dei tre, e del loro mondo di Parenzo, località
istriana nativa dei protagonisti della vicenda. Con punte di interesse
soprattutto sulle vicende post-belliche dei luoghi, sullo stalinismo ed il
mondo titino dell’epoca, sorretto inoltre da un’ottima bibliografia.
Insomma, un libro non giallo, con qualche
punta di suspense, ma gradevole per l’aspetto complessivo, ed anche per quegli
scorci sul mondo editoriale, dove tra l’altro ipotizziamo possa entrare anche
il nostro commissario. Ma questo sarà forse materia di altre letture. Per ora
rimaniamo con questo libro di una scrittrice che non conoscevo e che risulta in
ogni caso godibile.
“Esistono persone che attirano a sé
l’ammirazione di tutti … e altre che sembrano possedere invece un fluido
respingente.” (243)
“Emily Dickinson: Non sappiamo di andare
quando andiamo / Noi scherziamo nel chiudere la porta / Dietro, il Destino
mette il catenaccio, / e non entriamo più.” (263)
Piero Colaprico “Il fantasma del Ponte di
Ferro” Repubblica Brivido Noir 9 euro 8,90
[A: 04/08/2020 – I: 11/05/2023 – T: 13/05/2023]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 267; anno:
2018]
Come ho già detto in altre trame, è sempre
gradevole leggere di Colaprico, sia in libri che in articoli (anche se
preferivo quelli passati di cronaca che trovo più coinvolgenti). Qui, per un
dovuto omaggio postumo all’altro Pietro con cui ne scrisse i primi, torniamo
sulle vicende del commissario Pietro Binda, per inserire un altro tassello
nelle vicende milanesi del secolo scorso. Perché, come in tutti i romanzi del
commissario, pur andando su e giù nel tempo, è sempre lì che si ritorna, con
passaggi a partire degli anni ’70, per tornare su e giù nel tempo ed avere
(anche) un quadro della vita del commissario.
Intanto facciamo un po’ d’ordine. All’inizio
del secolo, insieme a Valpreda, decide di scrivere dei gialli, imperniati sulla
figura di un maresciallo dei carabinieri, Pietro Binda. L’idea era di
pubblicare quattro libri, uno per stagione, ma morendo Valpreda dopo i primi
tre, sono quelli che escono a doppia firma. Nel 2003, per completezza,
Colaprico pubblica il quarto, su di un’idea avuta con l’altro Pietro, ma
sviluppata in solitaria. Dopo altri tre anni esce un quinto romanzo (non a caso
intitolato “La quinta stagione”) che non è ancora entrato nella mia libreria.
Poi più di dieci anni di silenzio, per arrivare a questo che stiamo
analizzando.
La tecnica generale è sempre la stessa. Ci si
immette in un presente, che spesso non è il presente del lettore. Poi, per una
serie svariata di motivi, si affrontano indagini passate, si ricuciono
brandelli di storia e di memoria. Ricucendo anche la vita del maresciallo.
Forse per un omaggio all’amico scomparso, dopo le prime storie, Binda va in
pensione, pur rimanendo all’erta per casi vecchi e nuovi. Muore la moglie
Rachele, amata a lungo, ma con qualche interrogativo. Il figlio decide di
costruirsi una vita a Londra. Nelle more, Binda si consola, o viene consolato,
dalla portiera dello stabile, Alba, con cui ha un rapporto lungo ma mai deciso.
Ad un certo punto, però, hanno una rottura definitiva. Nelle more dell’ultimo
periodo noto, Binda si accompagnerà con Teresa, ma questa è un’altra storia,
per cui non vi dico né chi è né come si evolve. Qui il presente del racconto è
il 1985 e Binda passa il tempo di non indagini con Alba.
Indagini che invece si riaprono
all’improvviso, con una signorina, o signora trentenne, tal Olga che ritiene la
madre, data per scomparsa 13 anni prima, sia invece ancora viva. Una scomparsa
legata ad una vicenda che Binda aveva affrontato in prima persona, ma la cui
conclusione non lo aveva mai convinto completamente.
C’è una violinista russa di alto profilo
musicale, che si muove quasi indisturbata tra Mosca e l’Italia, anche in
periodi di guerra fredda. Per poi scomparire all’improvviso poco prima di un
concerto a Milano. Quasi contemporaneamente, viene ritrovato un corpo senza
testa, impiccato sotto il Ponte di Ferro del titolo, ed anche decapitato.
Da qui partono le indagini, con il solito
piglio descrittivo di Kola che ci fa vivere quei mondi non come se fossimo nei
noir americani, ma con tutte le difficoltà e farraginosità delle indagini sul
territorio italiano. Con fatica, Binda scopre l’identità del morto, e con
altrettanta fatica scopre un possibile legame con la russa. Ci sono banditelli
del “mondo di mezzo” che si trovano coinvolti, che fanno in modo di collegare
il morto, la russa e dei ricettatori di gioielli. Una volta imboccata questa strada,
le gerarchie superiori al povero Binda, lo mettono in contatto con i servizi
segreti russi. Perché la violinista voleva fuggire dalla Russia, ed aveva
escogitato un furto clamoroso per andare in America con i gioielli.
Qui la costruzione di Kola si impantana un
pochino, che vengono messi in mezzo anche i servizi segreti israeliani, nonché
dei comunisti fuggiti dalla Grecia dei colonnelli e riparati in Italia in parte
protetti dai russi (ed in parte no), non tacendo anche qualche collegamento
alla strage delle Olimpiadi. La storia del ’72 ha un suo epilogo, con un
possibile colpevole, ma senza aver ritrovato né i gioielli né la violinista.
La vicenda, quindi, avrà il suo “vero”
epilogo solo nel presente del racconto, dove sotto la spinta di Olga, Binda
ripercorre tutta la vicenda, per arrivare ad un finale che mette tutto in una
luce comprensibile. Ma l’idea di Kola non è tanto risolvere il caso, quanto
gettare qualche sassolino negli ingranaggi delle segrete cose. Lui sa, e noi
con lui, che spesso, muovendosi nel mondo spionistico, non tutto è appurabile
in modo palese, e ci sono poteri che si muovono e ordiscono, in spregio di ogni
possibile giustizia. Binda tirerà fuori una piccola giustizia umana, non
potendo, come è ovvio, arrivare alla Giustizia dura e pura.
Al solito, gli scritti del nostro autore
cercano diversi bersagli da colpire, ma soprattutto provano, spesso
felicemente, a mettere qualche sassolino negli ingranaggi, e qualche pulce nei
nostri orecchi. Non sempre la scrittura sorregge compiutamente l’idea, ma si fa
leggere e fa riflettere. Una prova dignitosa.
“Da quando t’ho incontrato finalmente ho
meglio da fare che leggere. Vivo la mia vita, non quella degli altri.” (199)
Mariolina Venezia “Rione Serra Venerdì”
Einaudi euro 17,50
[A: 06/08/2020 – I: 15/06/2023 – T: 16/06/2023]
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e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 277; anno:
2018]
Dopo poco più di un anno, e dopo aver
lasciato passare tutta la serie televisiva, torno agli scritti materani di
Mariolina Venezia e del suo Pubblico Ministero Immacolata “Imma” Tatarianni.
Anche se ho, facilmente e fortunatamente, rimosso la serie televisiva, pur
gradevole, di certo il “personaggio” Imma avrà sempre le fattezze della brava
attrice Vanessa Scalera. E così anche i personaggi ricorrenti. Anche se io
ricordo solo il marito Pietro (un grande Massimiliano Gallo) e il procuratore
capo Vitali (l’altrettanto bravissimo Carlo Buccirosso).
A valle della lettura, in ogni caso, devo
dire che ricordo al fine decise discrepanze tra libro e televisione. In
particolare, nella vita privata di Imma, sia con Pietro che con la figlia
Valentina. Mentre sempre sull’onda del forse ma forse no, c’è il rapporto con
il maresciallo Caligiuri.
Tuttavia, non essendo un critico televisivo,
ma solo un assiduo lettore, torno al testo ed alle sue implicazioni.
Cominciando dal sottotitolo che compare in questa edizione Einaudi (e che
scompare nelle riprese di editoria di Repubblica). Cioè, “Imma Tataranni e le
trappole del passato”, che è poi il filo conduttore di tutto il libro.
Infatti, l’elemento “giallo” che scatena il
racconto è l’omicidio di Stella, compagna di classe al liceo di Imma. Anzi, più
di compagna, visto che avevano fatto sodalizio insieme, Stella la timida e Imma
la secchiona. Stella che era rimasta timida tutta la vita, ed ora viene trovata
strangolata, nella sua casa chiusa a chiave dall’interno, vestita di provocante
biancheria intima. Con l’unica possibile uscita costituita da un lucernario
dove a mala pena passa un adolescente.
Qualche cosa pian pianino esce, tra le
soffiate della cancelliera Diana (anche lei campagna di liceo) e le indagini
del fido Caligiuri. Che forse tanto fido non è, ma la possibile storia tra loro
e tra Caligiuri e le belle poliziotte è poco interessante, se non per qualche
risvolto onirico, ma soprattutto sembra essere messa a posta per dare qualche
riempitivo grottesca a storie che potrebbero essere piatte. Come di certo non è
Imma, quinta di seno, bassa che porta sempre pericolosissime scarpe con il
tacco, e vestita in modo casula-sbagliato (tipo maglietta zebrata sopra un paio
di pantaloni tigrati).
In un lamione (vedi il finale) di Stella si
trovano lastre di foto dell’800, documentando la strage di Pontelandolfo (vedi
anche qui il finale), che metterebbero in cattiva luce il nobile decaduto De
Nardis. Che, per soldi, vorrebbe vendere la casa avita al comune, chiedendone
perizia al geometra Francesco. Che insieme al cugino, anche lui Francesco, era
compagno liceale di Stella. Il secondo Francesco era poi emigrato in Svizzera
(terzo elemento del finale), lasciando scie di ricordi. Che coinvolgevano Stella,
le vacanze, il cugino, ed un compito di greco che Imma non passò a Stella.
Forse De Nardis veniva ricattato da Stella
per quelle foto? E come entra nel calderone il sito di incontri dove Stella
conosce uno spiantato telefonista? E come fece Stella a pagare i cinquemila
euro per farsi rimettere a nuovo da una scalcinata estetista? E quel
cioccolatino trentennale che veniva dalla Svizzera? Soprattutto, come ha fatto
l’assassino a lasciare la casa?
Di lato, si infilano i ragazzi dei sassi, con
le loro storie, con la possibilità che uno di loro sia entrato e uscito dal
lucernario. Tutto molto complicato, anche perché l’esuberante Eustacchio detto
Stakkio prima sparisce, poi viene trovato morto. I fatti sono collegati?
La travolgente Imma, irascibile, dispotica,
ma sempre sul pezzo, fa un grande calderone di tutto, trovando alla fine il
modo di separare gli elementi probanti dalle false piste. Arrivando, ma forse
con un po’ troppa fretta alla soluzione di tutti i punti interrogativi.
Venezia, anche in questo tuffo nel passato,
trova il modo di sfruttare una trama abbastanza gialla per parlare anche di
altro. E queste sono forse le parti più interessanti. Che portano acqua alle
mie considerazioni sull’utilizzo del giallo per stabilire un contatto con il
lettore, ma parlare di altro. In primis, della quotidianità, del mondo e del
vissuto di tutto i giorni.
L’insoddisfazione di Pietro marito messo un
po’ da parte, il tormento dei giovani, con Valentina che passa da un quasi
fidanzamento ad una più giovanile espressione di sé. Nonché i turbamenti della
cinquantenne Imma a confronto con i giovani, il belloccio Caligiuri e le belle
e profumate poliziotte in carriera.
Ma poi per toccare alcuni elementi
interessanti. Il primo sono i lamioni, elementi tipici dell’architettura dei
sassi materani, dove l’ipogeo scavato nella roccia veniva prolungato
all’esterno, e chiusa da muri per creare nuovi ambienti. Ambienti che videro la
visita negli anni Cinquanta di Alcide De Gasperi, che, constatando il degrado
dei sassi avviò la riforma urbanistica di Matera, che portò alla costituzione
di questi quartieri dormitorio esterni, il cui esempio tipico è proprio il
Rione Serra Venerdì.
Il secondo elemento interessante è l’accenno
storico alla strage di Pontelandolfo, perpetrata dalle truppe sabaude
nell’agosto del 1861, che a fronte dell’uccisone di un battaglione regio da
parte dei resistenti borbonici, rasero al suolo la cittadina di Pontelandolfo
ed uccisero civili in numero imprecisato. Con stime che vanno da 13 a più di
400.
Infine, ma questo è stato solo accennato da
Venezia, anche se poi sarebbe un interessante elemento di approfondimento, la
questione dell’emigrazione lucana in Svizzera, che da un lato spopolano le
terre del meridione. Ma dall’altro fanno luce sul modo in cui gli emigrati
vengono trattati: andate a rivedere il bellissimo fil con Manfredi “Pane e
cioccolata”.
Come vedete, da un libro di media intensità,
si possono trovare anche molti spunti. Vedremo poi come proseguirà la lettura
delle avventure di Imma nonché il primo libro della scrittrice.
Mariolina Venezia “Via del Riscatto” Repubblica
Brivido Noir 7 euro 8,90
[A: 27/07/2020 – I: 28/06/2023 – T: 30/06/2023]
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e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 279; anno:
2019]
Con questo libro, siamo alla chiusura del
ciclo dedicato ad Imma Tatarianni, PM di Matera. Almeno al ciclo finora
pubblicato. Facendo un po’ di conti con quanto letto, di veramente legato a
Imma ed alle indagini sono quattro libri, che vanno legati a quello che viene
indicato come sottotitolo (e che spesso nelle riprese, ad esempio, di
Repubblica, viene o ignorato o poco evidenziato). Così, il primo “Come piante
tra i sassi” si legava a “la storia sepolta”; il secondo, “Maltempo” a “gli inciampi
del presente”; il terzo, “Rione Serra Venerdì” a “le trappole del passato”.
Questo, infine, viene congiunge idealmente con “le incognite del futuro”.
Esiste, ma non ce l’ho, un quinto libro che
si intitola “Ecchecavolo – Il mondo secondo Imma Tataranni”, ma non sembra
costituire una nuova fase delle avventure di Imma, piuttosto una piccola summa
del suo pensiero verso il mondo.
Ora, cosa c’entrano i sottotitoli? Hanno due
funzioni, legate entrambe al privato della nostra eroina. Una, molto interna al
nucleo familiare stretto, ed in particolare alla figlia Valentina, che seguiamo
nella sua crescita, visto che in questo quarto libro si avvia verso i sedici
anni. E dopo aver passato nel precedente una crisi con il broccolone Giovanni
(e non fate ironie!), qui si avvia verso il futuro, sia rischiando una
gravidanza, sia rivolgendosi al mondo fuori la scuola ed alla società civile in
generale.
L’altro riferimento è alla storia (vera?
presunta? possibile?) di Imma con l’ormai maresciallo Caligiuri,
immeritatamente battezzato Ippazio (dal nome della grande matematica
dell’antichità). C’erano stati momenti intensi nel presente e nel passato tra Imma
e Ippazio, con alcune considerazioni non banali sulla femminilità e sulla
maturità.
Qui siamo andati anche un po’ oltre. È vero
che, anche rispetto alle diversità della serie televisiva, Imma non sembra
mettere in discussione il suo matrimonio con Pietro. Di certo, qui, un certo
coinvolgimento sessuale (anche se non amoroso) c’è. Quali incognite ci svelerà
il futuro? Come diceva il grande Mogol per bocca di Battisti “lo scopriremo
solo vivendo”.
Intanto, anche qui c’è una morte violenta,
un’indagine ed un sotto filone interessante, legato ad abusi edilizi, che in
quel di Basilicata sembrano essere (stati) all’ordine del giorno, fin dal
decreto De Gasperi degli anni ’50.
Il morto è un “puttaniere”, abbastanza dedito
alla coca (ma pare stia smettendo), e molto dedito alla rincorsa di sottane e
sottanelle. Non ha una grande preparazione lavorativo, se non una bella
presenza ed una discreta facilità nell’eloquio. Non sorprende quindi che
l’unico lavoro che riesce a portare avanti è l’agente immobiliare. Anche perché
Matera si stava avviando a diventare capitale europea della cultura (cosa che
poi ha di certo portato un grande incremento nel turismo materano).
La vicenda si restringe ben presto alla
famiglia Sinagra: il patriarca, molto avanti negli anni, si è ritirato in
campagna, lasciando il Palazzo avito ai due figli. Carolina, un po’ “figlia dei
fiori”, all’inizio del libro in India presso un ashram, e Guido, forse gay o
forse no, ma di sicuro senza molto polso negli investimenti. Guido ed il morto,
Antonello, erano molto amici in gioventù, poi ad un certo punto, si allontanano
in modo quasi definitivo.
Questo in concomitanza con l’arrivo di una
Triumph regalo di Sinagra alla moglie, di un incidente in motorino che provoca
la morte di un operaio, di una depressione e conseguente suicidio della moglie
di Sinagra. Antonello poi, nella sua lunga carriera di tombeur de femme, ha una
lunga relazione romana con l’avvocato Brunella.
Ma sotto la spinta di Carolina, lascia tutto
e tutti, frequenta e poi sposa la figlia di quell’operaio morto in motorino, ed
ai due nasce anche un figlio. Ora, sono tutti riuniti in quel di Matera.
Sinagra senior per tamponare i guasti dei figli, Carolina, tornata di corsa
dall’India per (forse) capire se l’infatuazione giovanile per Antonello avesse
un seguito, Brunella per cercare di riprendersi Antonello, Guido per cercare di
fare soldi con la vendita del Palazzo Sinagra, nonché Antonello e la moglie Ambra
perché, in fondo, a Matera ci vivono.
Ci sono anche altri filoni laterali, che
portano novità nelle cause civili che Imma sta intentando con i palazzinari
locali, ma è lì, in quell’intreccio di passioni e conoscenza che i nostri
dovranno cercare di separare “separare il grano dal loglio”.
Ora, alla fine della saga (o comunque nel suo
momento di pausa), non scopriamo di certo la tranquilla serenità con cui
Mariolina riempie le pagine. C’è solo un non so che di “affrettato”, se mi si
consente di chiamarlo così, in alcuni passaggi, in alcune descrizioni dove si
salta di discorso, quasi come mancasse qualche collegamento. Come nella scena
del bar dove ad un certo punto si palesa una signorina, quasi ignorata fino ad
allora, ed interviene nella trama, con una durezza come se si dovesse, noi
lettori, sapere già tutto di lei. Non so, forse son io che leggo male, ma mi ha
lasciato un po’ disorientato.
Come disorienta tutto l’impianto generale,
con la solita fine un po’ troppo veloce. Ma va anche bene così, rispetto ad
alcuni prodotti anglosassoni letti da poco e di poco valore, rispetto a questa
comunque dignitosa prova.
Giaime
Alonge “Il sentimento del ferro” Repubblica Spy 20 euro 7,90
[A:
29/05/2019 – I: 10/07/2023 – T: 12/07/2023] - &&
[tit.
or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 475; anno 2019]
Giaime Alonge professore associato di Storia
del cinema all'Università di Torino, nato nel ’68, specializzatosi al DAMS di
Bologna. A lato di una lunga frequentazione, accademica e personale, del mondo
del cinema, ad una dilettantesca attività sportiva nella scherma, inizia anche
a scrivere altro. Romanzi dal 2009, fino a questa opera classificata di
spionaggio dieci anni dopo.
Diciamo etichettata che lo spionaggio entra
nella trama perché i servizi segreti israeliani, americani e russi, tanto per
dirne alcuni, sono presenti. Ma è ben lontano da una spy story alla Le Carrè.
Piuttosto è un romanzo che coniuga storia e fantasia, con una trama
interessante, con alcuni punti che sollevano interrogativi e domande valide in
tutti i contesti. La trama, però, è piuttosto una ricerca di cattivi da parte
di buoni. Almeno nella prima lettura. Anche se poi, pur se i cattivi rimangono
cattivi, i buoni, a volte, non sono poi tanto buoni.
Alonge, che certo di cinema se ne intende,
comincia con l’usare una tecnica filmica ben nota: andare su e giù nei due
spazi temporali del racconto, facendo uscire, frame dopo frame, il contesto
della storia stessa. Una tecnica che, personalmente, non ama e mi lascia tutte
le volte che la incontro, leggermente scostante (uno dei punti a sfavore del
romanzo).
Questi due spazi sono il primo che va dal 9
settembre 1941 al 18 maggio 1948, ed il secondo che si espande dal 25 giugno al
5 agosto 1982. Come avete già capito, una parte preponderante si svolge durante
la Seconda guerra mondiale. Quando poi diciamo che i tre personaggi che
seguiamo sono il maggiore delle SS Hans Lichtblau, il sionista polacco Shlomo
Libowitz e l’ebreo praghese Anton Epstein, già tutti vi fate un’idea di quale
possa essere il contesto del romanzo.
Il luogo dell’azione nel lontano passato si
muove vicino alla cittadina di Soldau, famigerato campo nazista, prima di
transito poi di sterminio in primis di malati mentali, poi, sotto la direzione
di Otto Rasch, campo di lavoro e morte per più di 10.000 prigionieri. Vicino a
Soldau, c’è la villa del barone antinazista Wilhelm von Lehndorff (il cognome,
non per niente, è lo stesso di uno dei partecipanti all’operazione Walkiria,
l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, cioè Heinrich Graf von Lehndorff-Steinort),
dove Lichtblau organizza un campo di ricerca per la sterilizzazione degli
ebrei, e poi per l’uso militare di una potente droga lì sintetizzata.
Ovviamente, il campo prevede uno strato di “kapò”, che fanno da cuscinetto tra
SS e morituri, con compiti essenzialmente di becchini. Un Kommando dove si
ritrovano gomito a gomito Shlomo e Anton.
Lichtblau ha una mente criminale non banale,
così, vista la mala parata, alla fine della guerra, fugge con la droga, si
consegna agli americani, e si ricicla come consulente (ed anche killer) della
CIA. Mettendo in piedi un fiorente commercio di droghe in Sudamerica dove, nel
presente, appunto nel 1982, sotto falso nome, combatte i Sandinisti per conto
della CIA.
Da parte loro, Shlomo e Anton vengono salvati
dall’Armata Rossa, ma mentre il primo emigra in Israele, il secondo decide di
rimanere a Praga, con tutti i limiti di quella scelta. Per seguire le loro
scelte, poi, avremo modo, con Alonge, di cominciare a riflettere sia sulla
situazione oltrecortina in tutti gli anni della guerra fredda, sia sulla
situazione mediorientale, dove, e qui Alonge lo fa con una crudezza
encomiabile, i sionisti dell’Irgun si comportano con gli Arabi quasi in modo
contrappuntistico (ricordiamo con lui l’attentato del 22 luglio 1946 al King
David Hotel con 91 morti: 28 britannici, 41 arabi, 17 ebrei e 5 persone di
diversa nazionalità, rivendicato proprio dall’Irgun).
Nel 1982, i servizi segreti russi individuano
Lichtblau in Salvador, e coinvolgo in una caccia all’uomo all’ultimo colpo i
due superstiti. Capirete già come tutto vada a finire. Ma non è tanto la parte
di lotta (e marginalmente di spionaggio) quella che interessa Alonge. Lui usa
questo testo per porsi e porci alcune domande. La prima è la vendetta, che
dovrebbe rimettere le cose a posto, pacificarci con noi stessi. Anche dopo
tanto tempo? Anche quando diventiamo simili a chi ha fatto del male la sua arma
primaria?
Il secondo è interrogarsi sulla condizione di
“ebreo”: saranno sempre vittime? Riusciranno a superare il trauma di essere
sopravvissuti? Come fare a saldare i conti nello specchio mediorientale, se ci
si comporta come gli aguzzini del passato? Non a caso Shlomo si interroga se ha
fatto le cose giuste, guardando in televisione il massacro di Sabrā
wa-Shātīlā.
Un esempio forte di questo interrogativo sotteso viene da un episodio storico
narrato. All’inizio del libro (1941) vediamo un attacco sferrato da paracadutisti
lanciatisi da caccia tedeschi della serie Messerschmitt. Alla fine del libro
(ma ancora nel 1948) vediamo un attacco israeliano a postazioni arabe, usando i
caccia modello Avia. Che sono gli stessi Messerschmitt sopracitati, sempre
prodotti in Cecoslovacchia come i primi. Cambia solo il produttore.
Terzo, e non meno importante, il ruolo della
Chiesa allora ed ora. Laddove si narra di monsignor Keller che si ribella a
Lichtblau e viene deportato a Dachau, e del suo segretario, monsignor Grabski,
convinto antisemita, che collaborerà al salvataggio dei criminali nazisti.
Forse questi interrogativi sono le cose
migliori che vengono a galla da un testo che non mi ha colpito particolarmente
per il suo narrato. Magari solo per quelle descrizione della natura,
contrapponendo la Prussia degli anni Quaranta al Nicaragua e all’Honduras degli
anni Ottanta.
Probabilmente ha ragione lo scrittore Laurent
Binet quando afferma che la Seconda guerra mondiale è la nostra guerra di
Troia, sempre pronta a fornirci storie, sempre diverse, ma in fondo sempre
uguali. Dipende chi le scriva. E qui siamo ad un buon ma non eccelso esempio.
“A volte … per stare dalla parte giusta,
bisogna avere il coraggio di mettersi con le persone sbagliate.” (430)
Credo
che mi abbia molto attirato il titolo per fornirvi le citazioni della
settimana, che con Paolo Sorrentino mi sento di dire che “Hanno tutti ragione”, che forse è anche un modo per pensare che,
ora come ora, hanno tutti torto. Ma fortunatamente, le frasi di Paolo vanno più
sul privato che sul pubblico. Magari parlando di matrimoni (“Sempre la
stessa rovinosa caduta nei matrimoni, col tempo ci si concentra nei dettagli,
perdendo di vista l’ambizioso progetto iniziale. Forse perché quel progetto
iniziale non era poi così ambizioso come si credeva.” (80)), della voglia di
viaggiare (“è che io stanziale lo sono fino ad un certo punto. Ci ho il
nomadismo al posto del deodorante sotto le ascelle, io.” (215)) o dell’amicizia
(“certe verità andrebbero sottaciute per sempre. Perché interrompono le
amicizie. Le lacerano. Sono certi bluff che tengono vive le relazioni.” (257)).
Per
finire con un grido di dolore per tutto e tutti: “Ad un certo punto … avverti
senza fondati motivi ... che si sta abbattendo la fine di un periodo. Dagli e
dagli, poi lo capisci, che il gesto si fa meccanico, la battaglia stanca. Gli
uomini, limitrofi alla tua esistenza, amici e conoscenti, prima erano uomini,
ora sono comparse… sono trasparenti.” (187)
Avete capito che, come tutti si sta vivendo un momento complesso, problematico, mondialmente instabile, che “nel pensier rinnova la paura”. Spero ancora nella vicinanza, nell’amicizia e nello stare vicini, abbracciandoci.