Åsa Larsson “Sacrificio a Moloch” Feltrinelli euro 11 (in realtà,
scontato a 8,80 euro)
[A: 07/08/2019 – I: 20/08/2023 – T: 21/08/2023] - &&& --
[tit. or.: Till Offer åt Moloch; ling. or.: svedese; pagine: 380; anno 2012]
REBECKA05
La
citazione finale è una specie di memento che si attaglia bene a tutta la
vicenda legata alla lettura di questo libro della scrittrice svedese Åsa Larsson.
Il libro dovrebbe essere stato scritto tra il 2011 ed il 2012 (le indicazioni
in rete non sono univoche), ma sicuramente è nel 2012 che ne esce la prima
traduzione italiana dell’ottima Katia de Marco. Dopo aver letto tra il 2010 ed
il 2013 i primi quattro casi di Rebecka, ho aspettato la pubblicazione in
economica (che tanto c’è molto altro da leggere), avvenuta solo nel luglio
2019. Motivo per cui vedete che è stato acquistato subito dopo. Tuttavia, non
era nelle mie priorità di lettura, e quindi sono passati altri quattro anni
prima che avessi voglia, e tempo, di dedicarmi a questa serie.
Tuttavia,
nonostante i più di dieci anni passati, è una lettura che si colloca nel rango
delle godibilità estive. Certo, qualche filo va riannodato, ma è poco
funzionale ad una trama che si regge da sola. Inoltre, ma qui abbiamo il vuoto
del futuro, questi anni Åsa è rimasta silente, e solo lo scorso anno è uscito
in Italia il sesto volume della storia.
Come
non pochi autori svedesi (e cito solo Lackberg e Nesser) Åsa circoscrive il suo
mondo in una piccola porzione territoriale, la città di Kiruna. Che è certo un
fenomeno interessante. Non solo per aver dato i natali a Åsa, o per le gare di
sci di fondo che vi si disputano. Ma anche perché è una delle città più grandi
a nord del Circolo Polare Artico, ed una delle maggiori enclavi di una sette
luterana molto religioso denominata “Laestadianesimo” (dal nome del fondatore Lars
Levi Læstadius). Un movimento che vi invito a studiare.
Di
certo Åsa è sempre molto vicina alle scritture bibliche quando imbastisce le
sue trame, così come in questa, partendo dal Levitico (ma passando di sicuro
per le credenze cananee) si rifà ai sacrifici dei bambini che avvenivano
nell’antichità, per condurci alla riflessione su quanto sia possibile
sacrificare sull’altare delle brame personali.
Non
ci meravigliamo poi, visto che è ormai una costante accettata in tutti i
gialli, ed in quelli nordici in particolare, che abbiamo un rimbalzare tra
passato e presente. Un passato sempre legato a Kiruna, alla presenza di Elina,
una maestrina libera e disinibita ed alla sua storia d’amore con Hjalmar
Lundbohm. Questi è un personaggio realmente esistito e usato dalla nostra
scrittrice con molte forzature (cosa che se fossi un parente tenderei a
contestare). Fatto è che i due generano un figlio, Franz, non riconosciuto
(almeno ufficialmente) dal potente.
Venendo
poi al presente, ovvio che molto ruota intorno alla protagonista, Rebecka,
avvocato di grido, che sappiamo per una serie di motivazioni, anche personali,
si è trasferita a Kiruna, lasciando il fidanzato a Stoccolma e forse (almeno
sembra dal libro precedente) trovando uno spasimante in loco. A Kiruna, intanto
si susseguono una serie di morti. Muore Franz, che poi viene sbranato da un
orso. Muore il figlio di Franz, investito da una macchina. Muore la nuora di
Franz, uccisa a colpi di forcone. Salvandosi solo il nipote Marcus, anche se
molto provato.
Salvo
l’ultimo, sicuramente omicidio, gli altri sono fortuiti o intenzionali? E nel
caso che motivi ci sono? Certo, la nuora era di facili costumi, ed aveva
amanti, per giunta sposati. Vendetta di una moglie tradita?
Nelle
more delle indagini, si instaura anche una lotta di potere tra Rebecka e il
procuratore che vede di cattivo occhio i successi della nostra eroina. Åsa
mescola il tutto, condendolo con un po’ di vita contadina, con qualche cane che
si aggira tra guardie e ladri. Ma soprattutto con la nascita di rancori, di
ferite mai sopite. Aggiungendo però del sale, con i bei rapporti di alcuni
adulti verso Marcus. Rebecka, emarginata e sola, riesce a trovare una pista
sghemba che, alla faccia di chi le vuole male, porta alla soluzione del
mistero, alla cattura dei colpevoli, allo scorno del procuratore. E, forse,
alla rottura del fidanzamento. Vedremo, forse, nel capitolo da poco uscito come
si evolve e se si evolve il lato privato.
Åsa
riesce ancora una volta a mostrare i due lati della vita nelle sconsolate terre
del nord della Svezia. Il lato cattivo, che cerca solo rivincite, soldi e
potere, ed il lato buono, della solidarietà tra le persone di buona volontà.
Lasciandoci però quel dubbio su Moloch. Fortunatamente non ci sono bambini
sacrificati ad un Dio malvagio. Rimane la cattiveria di chi, per denaro,
calpesta diritti e affetti.
“La vita passa così maledettamente in
fretta.” (161)
Jo Nesbø “Il cacciatore di teste” Repubblica Essenza Noir
15 euro 8,90
[A:
03/12/2022– I: 21/09/2023 – T: 22/09/2023] - &&&
--
[tit.
or.: Hodejegerne; ling. or.: norvegese; pagine: 300;
anno 2008]
Torniamo dopo esattamente quattro anni a
leggere un libro del simpatico norvegese. Simpatico perché, oltre a scrivere,
ha giocato a calcio nelle giovanili del Molde, ed è tuttora cantante e
chitarrista nel gruppo pop norvegese “De Derre” (a proposito del quale, se ben
sapete il norvegese, il nome significa “Quelli lì”, perché all’inizio, non
avendo trovato un nome, quando salivano sul palco, qualcuno domandava: “Chi
suona ora?” a cui rispondevano “Suonano quelli lì” cioè “Jet er de derre”).
Venendo invece alla sua carriera di scrittore.
Pur avendo scritto 13 romanzi con il suo miglior protagonista, cioè Harry Hole,
io ho fermato la mia carriera di lettore della serie al volume 10 (“Polizia”),
dove mi sembrava che il personaggio e la vena dell’autore si fossero
abbondantemente esauriti. Forse se ne ritroverà la lettura, ma non ora.
In parallelo, ha scritto due romanzi con
protagonista tal Olav Johansen, che non ho ancora letto, e cinque romanzi
isolati, di cui questo è il primo che leggo. E dove ritrovo una parte del modo
di scrivere, di presentare i personaggi, di imbastire le storie che risale alle
sue prime opere. Con anche qualche componente diversa, tanto che, leggendo
questo romanzo viene in mente un film di Tarantino girato da Woody Allen.
Perché è un film, pardon un libro, dalle
spiccate venature comiche, tanto che Roger Brown, il protagonista potrebbe
essere definito un “persona cronicamente sfortunata”. Cioè, se ci fosse Allen
ed un po’ di yiddish americano, uno “schlimazel”. Questo per un centinaio di
pagine, poi Jo impone una brusca svolta alla vicenda, e da lì in poi si
trasforma in un pulp-book, dove alla fine si conteranno, se non vado errato,
almeno otto morti di morte cruenta.
Tutta la prima parte serve a costruire
l’ambiente di riferimento, introdurre personaggi, e fare in modo che noi ci si
domandi dove sia il giallo (o il noir?). Veniamo introdotti nel mondo dei
“Cacciatori di teste”, quei personaggi che, nel mondo del lavoro, cercano
persone adatte a determinati posti, in generale di notevole rispetto economico.
Roger è un genio nel suo campo, per una serie di motivi basati sulla necessità
di una rivincita agli scherzi del caso.
Perché Roger è bassino (un metro e
sessantotto) in un mondo che è sempre almeno dieci centimetri più alto, ha una
bassa estrazione sociale ed ha sposato una donna colta ed affascinante di cui
“non si sente all’altezza”. Ma sul lavoro è un “mago”, sfruttando, nelle sue
interviste lavorative, i metodi degli interrogatori americani, basati su quello
che viene chiamato “interrogatorio a nove fasi, di Inbau, Reid e Buckley”
(esiste davvero, è un po’ lungo da descrivere, ma se volete lo trovate su
Wikipedia inglese).
Oltre ad avere un ego smisurato, Roger ha
anche un altro difetto. Per mantenere il suo alto tenore di vita, si dedica al
furto di opere d’arte, aiutato dal suo amico Ove, casualmente a capo di una
organizzazione di “security”. Per completare il quadro ha una bella moglie
Diana, che ha convinto ad abortire, non ritenendo ancora il momento di avere
figli, e per compensazione, le ha regalato una galleria d’arte di alto livello
(ed alto costo). Ed ha avuto, episodicamente, una strana amante, Lotte, danese,
dolce, remissiva, ma con qualche ombra strana.
Tutto si coagula quando, per un posto
importante, si imbatte in Clas Greve, esattamente il suo opposto. Alto,
aitante, determinato. Insomma un fico da paura, che ha anche un Rubens in casa.
Durante la rapina organizzata con Ove, trova il quadro, ma anche il cellulare
della moglie. Qualcosa scricchiola. Il mattino dopo trova anche Ove drogato o
forse morto nella sua macchina (sua di Roger). Comincia alla grande il pulp.
Roger è in caccia, poi è cacciato. Non si capisce più chi sia a tirare le fila.
E soprattutto, Jo ci fa capire che, in fondo, nessuno dei personaggi gli sta
simpatico. Per fortuna che lo salva l’ironia, che gli consente di mescolare
così tanto le carte, che ogni volta che sembra si capisca qualcosa, tutto va a
gambe all’aria.
Con un colpo di reni finale, nelle ultime
cinquanta pagine ripercorre, con l’aiuto della polizia, tutta la vicenda. Se
avevamo qualche dubbio, lì ce lo togliamo. Ma vediamo anche la bravura di
continuare ad ironizzare, che, se è vero che noi lettori capiamo, è altrettanto
vero che la polizia, almeno per noi, non fa una bella figura.
Mi rimangono due domande al fine. Jo per
tutto il libro sembra non amare nessun personaggio. È vero che può capitare (ad
esempio, Carlotto in questo è un maestro), ma l’effetto nordico rimane un po’
freddo. E poi sul titolo, che, stando al dizionario norvegese, dovrebbe essere
plurale (“I cacciatori di teste”) mentre qui viene declinato al singolare. Può
essere un appunto di poco conto, ma forse anche no.
Vediamo se si ritorna primo poi anche ad
Harry Hole.
“Non c’è nulla al mondo che faccia
sentire un uomo invincibile quanto una donna che gli dice di amarlo.” (93)
Jo
Nesbø “Sole di mezzanotte” Repubblica Profondo Noir 7 euro 8,90
[A:
28/08/2023– I: 06/10/2023 – T: 07/10/2023] - &&
e ½
[tit. or.: Mere blod; ling. or.: norvegese; pagine: 200; anno 2015]
Come capita quando si è in ritardo di
lettura con un autore, ecco che, a ruota, escono altri libri dello stesso, al
fine di colmare non dico un vuoto, ma un percorso, mio, di comprensione degli
scritti. Qui, inoltre, siamo di fronte ad alcune difficoltà ulteriori. Tra il
2010 ed il 2016, Nesbø, forse sazio della sua saga con Harry Hole, si dedica ad
altre scritture. Decidendo, tra l’altro, di scrivere una trilogia leggermente
più pulp de “Il cacciatore di teste”.
La trilogia si dovrebbe intitolare
“Sangue sulla neve” (“Blod på snø” in norvegese), riprendendo il primo titolo
della serie. Viene pubblicato anche in Italia, dove il titolo cambia in “Sangue
e Neve” (solito mistero). Un libro che mi è sfuggito nelle pieghe delle diverse
acquisizioni. Anche perché, dopo il decimo volume di Hole anch’io volevo una
pausa, non da Hole ma da Nesbø.
Poco dopo il primo, esce il secondo
volume, che, per seguire il filone indicato dall’autore, si intitola “Mere
blod” (cioè “Più sangue”). Ovviamente, i destini editoriali italiani si sono
focalizzati sul titolo inglese “Midnight Sun” e lì sono rimasti.
Altro mistero, in molte traduzioni
viene indicata come la saga di Olav Johansen, detto “Il Pescatore”. Detto che
non avendo letto il primo non mi pronuncio per quello, ma in questo il
personaggio compare in un capitolo ed aleggia in altri. Io sarei tornato sul
titolo della saga originario, cioè “Blod på snø”. Ma quant’è.
Infine, dovrebbe essere una trilogia,
ma a me ne risultano usciti due. Forse l’autore ce lo farà sapere, prima o poi.
Venendo al romanzo, lo stile riprende
più i timbri dei non-Hole, dove, pur toccando temi “pesanti”, il tono è più
leggero, quasi volesse spostare l’attenzione su altro del testo. Non sul
giallo, che giallo non è, e poco sul noir, che quello c’è in maniera copiosa.
Ma sui personaggi, sulle loro interazioni, sulle loro personalità.
Sempre in prima persona, seguiamo la
vicenda di Jon, uno spacciatore di mezza tacca, che si trova in una vicenda più
grande di lui, dove sembra sempre non sapere che direzione prendere, che
decisioni affrontare. Avrei visto bene come sottotitolo “L’indeciso”.
Per una serie di circostanze, si
trova coinvolto nel piccolo spaccio, si trova con una figlia a carico e senza
aiuti. Quando la piccola Anna si ammala di una leucemia mortale, prova a
trovare i soldi rubando al suo capo, il Pescatore, ma scoperto, si deve
adattare a fare il contabile (cosa che gli riesce) ed il killer (cui non è
adatto, che non sa uccidere). Avvengono altre cose in quel di Oslo, fatto sta
che per sfuggire ai killer del Pescatore (cui ha fatto un altro sgarbo) decide
di fuggire verso il Nord, verso i luoghi dove c’è, d’estate, il sole a
mezzanotte.
Qui incontra una famiglia, Lea e suo
figlio Knut, e la loro comunità di laestadiani (su cui torneremo), una setta
particolarmente bigotta. E sempre dalla voce, un po’ scanzonata e un po’
angosciata di Jon che seguiamo le sue vicende nella terra dei sami. Dovrà
affrontare pericoli mortali, cui cercherà (e vedrete se ce la piò fare) di
sfuggire. Dovrà anche affrontare la giovinezza spensierata di Knut e la
maturità religiosa di Lea. Chi vincerà?
Su questo interrogativo vi lascio
alla vostra sana lettura, mentre torno su alcuni aspetti.
La scrittura di Nesbø è sempre
gradevole. Mentre, però, nella serie di Harry Hole, dopo un inizio
discretamente coinvolgente, si incarta e si incupisce, in questi ultimi volumi
rimane sempre ad un livello decisamente più solare. I tre personaggi principali
del romanzo vengono fuori con decise caratterizzazioni, e forse qualche
passaggio a vuoto. Ma Jon è umano, con tutte le contraddizioni insite in ogni
uomo, e con una bontà di fondo che, pur se con difficoltà, viene fuori a tratti
e con piacevolezza.
I passaggi sul rapporto grande –
piccolo tra Jon e Knut hanno un buon risultato. Mi faccio solo una domanda: la
battuta sui cinque elefanti in una cinquecento, è una battuta che in Italia
circola da quando avevo dieci anni. È possibile circoli anche in Norvegia, o
hanno italianizzato una freddura che, se ben conosco i norvegesi, potrebbe
essere intraducibile? Penso che la domanda avrà difficilmente risposta.
Come detto sopra, una parte non
piccola del romanzo è collegata al movimento laestadiano. Lo abbiamo già
incontrato in altre opere ambientate nel mondo sami (che è il nome corretto
della popolazione del nord della Scandinavia che noi si chiama, erroneamente,
lapponi). Ma vale bene ripetere che è un movimento cristiano, derivato dal
luteranesimo nordico, con una spiccata tendenza ad essere aperti all’interno
della comunità (la confessione può essere fatta anche ad un altro membro) e di
avere spesso nel linguaggio comune la tendenza a nominare Dio (il saluto
normale per loro è “la pace di Dio”). I laestadiani, inoltre, considerano la
danza, guardare la televisione, il controllo delle nascite, la musica rock, il
trucco, gli orecchini, i film e i tatuaggi come peccati. Capite quindi come Jon
spacciatore e poco credente, abbia difficoltà ad interagire con i locali.
Interessante è seguire il modo in cui Nesbø affronta tutto ciò.
Comunque, rimango sempre in attesa di
un nuovo Harry Hole interessante da leggere.
Jo Nesbø “Macbeth” Corriere Profondo Nero 6 euro 7,90
[A:
13/09/2019 – I: 16/10/2023 – T: 18/10/2023] - & --
[tit.
or.: originale; ling. or.: norvegese; pagine: 612;
anno 2018]
Due delusioni, di cui, però, una è solo una
conferma. Questa collana del Corriere dedicata alle opere “noir” più scure
(profonde come dice il titolo) continua ad essere deludente, ed anche quando
(seconda delusione) viene proposto un autore che potrebbe (dovrebbe) fornire
prove quanto meno interessanti, si cade nello sconforto. Un’occasione
interessante che produce un risultato insoddisfacente.
Tutto comunque nasce da un progetto della
Hogarth Press, mitica casa editrice fondata nel 1917 da Virginia Wolf, ma ora
di proprietà del colosso Penguin Random House, di sviluppare un progetto
commerciale coinvolgendo autori contemporanei nel riscrivere, aggiornandole, le
opere di Shakespeare.
Come parte del progetto, quindi, Nesbø si
impegna in questo Macbeth, lasciando di lato sia Harry Hole che il Pescatore,
le sue opere seriali, prendendo l’intera trama shakespeariana e trasportandola
negli anni ’70, con un ambiziosa idea di aggiornamenti.
L’idea è senz’altro degna di nota, come
anche la fantasia realizzativa dell’autore. Tuttavia il risultato non è
all’altezza delle ambizioni. Ricalcando con assoluta fedeltà l’andamento
shakespeariano, il testo è realmente fruibile solo da chi padroneggia
pienamente l’opera teatrale. Non esiste il romanzo se non si tengono a mente le
continue referenze e citazioni. Questo, però, invece di insaporire la trama la
appiattisce. I personaggi diventano maschere di altro, non se ne riesce a
percepire uno spessore diverso da quello originale. Così che non solo sappiamo
cosa succederà, ma sappiamo (dopo aver capito il meccanismo narrativo
dell’autore) anche come, con quali implicazioni, con quali modalità.
La base traspositiva di Nesbø è ambientare
la vicenda in un immaginario paese intorno agli anni ’70, dove, in una
descrizione che rimanda spesso al primo “Blade Runner” (ma anche a “1999: fuga
da New York”) si aggirano i personaggi shakespeariani. La città (forse l’idea
migliore) è corrotta, e i nobili scozzesi qui sono rappresentati con differenti
gradi della polizia locale. Il soprannaturale originario scompare
completamente, sostituito dalla droga che pervade il mondo. Sono le lotte di
potere, le lotte economiche, la corruzione gli assi portanti del nuovo
ambiente. Un’idea certo buona ma forse poco veramente originale.
Per fare un parallelo, quindi, abbiamo
Duncan, il re scozzese, trasposto come Commissario Capo, Macbeth a capo della
SWAT (e se vedete le serie tv capite subito il motivo), McDuff, abbreviato in
Duff, capo dell’Anticrimine, e Lady Macbeth diviene una ex-prostituta che ora
gestisce il più esclusivo casinò della città. La strega Ecate, infine, diventa
il capo del cartello criminale dedito allo spaccio della droga.
Duncan, come Capo della Polizia, vuole
combattere la droga e la corruzione. Macbeth (una giovinezza da drogato) sventa
l’arrivo di nuova droga e viene nominato da Duncan numero due, suscitando la
gelosia di Duff (compagno di Macbeth nella scuola di polizia). Ecate, tramite
suoi accoliti, manda messaggi di luminoso futuro a Macbeth, che non se ne
interessa più di tanto. Mentre suscitano le bramosie della sua compagna, Lady,
che vede nei tentativi opposti di Duncan ed Ecate una minaccia al suo impero
dei casinò.
Sarà Lady che sobilla Macbeth, convincendolo
ad uccidere Duncan. Cosa che il nostro farà chiedendo aiuto al suo secondo
Banquo. Ma il messaggio di Ecate contiene anche altre minacce: sarà la progenie
di Banquo a prendere il potere. Motivo per cui Macbeth uccide il suo sodale, ma
non Fleance, il figlio. Duff, scoperta la china che sta prendendo Macbeth,
decide di contrastarlo, unendosi a Fleance e a Malcom, il figlio di Duncan.
In una serie di successivi attentati e
contro attentati, Lady stermina la famiglia di Duff, un luogotenente di Macbeth
fa saltare in aria Ecate, ed in una scena finale, si affrontano gli ex-amici
Duff e Macbeth. Il primo comunica a Macbeth che Lady si è suicidata, e Macbeth,
ormai senza speranze, si fa uccidere da Duff.
La città viene ripulita dai commercianti di
morte, forse si prospetta un nuovo futuro, ma Nesbø, da buon pessimista, ci fa
sapere che, alla fine, la corruzione in qualche modo risorgerà. E tutto tornerà
come prima, se non peggio.
Come vedete (non penso di aver detto troppo
che chi conosce l’opera di Shakespeare sa già l’andamento della trama) il filo
rosso della trama ripercorre, con le dovute attualizzazioni l’opera. Ma non
porta nuova linfa, i personaggi fanno quello che ci si aspetta, agendo appunto
come delle maschere senza nessuno spessore. L’unico elemento innovativo è la
descrizione ambientale, che riesce discreta e abbastanza attuale. Tuttavia è un
po’ poco per far salire il giudizio sull’opera.
Siamo ben lontani da “West Side Story” che
rilegge “Romeo e Giulietta”!
Arne
Dahl “Inferno bianco” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A:
28/10/2019 – I: 06/11/2023 – T: 08/11/2023] - &
[tit.
or.: Inland; ling. or.: svedese; pagine: 411; anno 2017]
Al
solito, le mie letture svedesi sono ondivaghe. Dopo aver passato anni su altro,
ecco che dopo solo tre mesi ritorno su Arne Dahl e su questa che, secondo le
bibliografie pubblicate, è la terza serie del sessantenne scrittore.
Purtroppo,
questa seconda puntata delle “Inchieste di Sam Berger e Molly Blom” è
precipitata verso il basso. Non solo molto inferiore alla prima, ma anche
abbastanza confusa, senza riuscire ad essere autonoma (se si è saltata la prima
parte, alcuni passaggi devono essere presi per buoni senza ricordarsi cosa
avvenne in realtà), ed inoltre rimandando ad una terza puntata, che gli
interrogativi fondamentali rimangono aperti ed insoluti.
Per
fare solo un esempio molto parziale, ogni tanto si fa riferimento ad un
orologio Patek Philippe Calatrava, che era stato il perno della soluzione del
primo caso, dove le scene del crimine venivano inquinate da piccoli ingranaggi
dello stesso, in modo da cercare di incastrare nel crimine il possessore di
quel piccolo tesoro. Lo leggi, non capisci, passi oltre, poi ti accorgi che
anche qui si stanno seminando indizi mal posti, ed allora ti domandi se hai
dimenticato tu qualcosa o se l’autore abbia fatto “un gran calderone”.
Intanto
cominciamo dal titolo. Perché “Inferno bianco”? È vero, c’è molta neve nel
corso della vicenda, ma il titolo originale va riferimento all’entroterra, a
quella zona svedese incuneata tra Norvegia e Finlandia, una volta territorio
sami. Secondariamente, quella zona è anche indicabile come “Punto Zero”, cioè
una zona dove, per le caratteristiche territoriale e per la difficoltà di
coprirla con una fitta rete di cellule ripetitrici, è spesso irraggiungibile
dalle comunicazioni, restando isolata di modo che, chi volesse cercare un
rifugio dove essere irreperibile, potrebbe recarsi in quella zona. E scomparire
dai radar di tutte le strutture che lo ricercano.
Inoltre
“Inland” è il nome dell’ultimo tratto svedese di una delle più belle strade
europee, la E45, una strada di 5190 km, che unisce Alta in Norvegia a Gela in
Sicilia. E quasi tutte le avventure del libro si svolgono in cittadine lungo la
E45: Jokkomok, Porjus, Gällivare. Solo l’aeroporto si trova ad Arjeplog, fuori
zona ed a 200 km dal punto zero (mentre Stoccolma si trova circa mille
chilometri a sud).
Tutta
la vicenda poi è soffusa da un senso onirico: Sam è spesso confuso, non sa dove
si trova, sembra quasi procedere a tentoni. In una trama che parte dal primo
episodio, dove c’è la figlia di un rifugiato mediorientale rapita. Per capire
qualcosa, Sam chiede aiuto ad una collega esperta di internet che, prima di
rivelargli i segreti, viene uccisa. E lui viene incolpato e deve fuggire.
Appunto, nel punto zero. Aiutato da Molly.
Qui
la trama si complica, aggiungendo la ricerca di qualcuno che uccide donne con
figli maschi. Lui e Molly lavorano al Nord, aiutati dalla collega di Sam, Deer
che agisce a Stoccolma. Si susseguono agnizioni, ipotesi, ricerche collaterali.
Collegamenti anche qui con il primo episodio, in special modo per una serie di
interrogatori che vengono ripresi, riproposti, letti in una luce nuova. Con i
nostri due che sono sempre sull’orlo del pericolo.
Inoltre,
sembra che Molly faccia comunque il doppio gioco e che qualcuno che non
conosciamo li spii da lontano. Insomma, un guazzabuglio che la metà basta.
Ovvio che anche Deer si trova in pericolo, ma quando sembra avere la peggio, si
scopre che è solo caduta in una buca. Da ridere! Mentre Molly viene realmente
rapita dai cattivi (di cui veniamo a conoscenza a tre quarti del libro, senza
però una vera indagine degna di un giallo ben strutturato).
Con
un po’ di fortuna, Sam capisce i vari collegamenti, arresta qualcuno, si pone
sulle tracce di Molly, che ritrova viva ma in coma. E mentre sta salvando
Molly, la talpa (che li spiava da lontano, e che era la persona che forse
serviva a risolvere il mistero del rapimento) uccide la persona arrestata con
la pistola di Sam.
Così
che alla fine abbiamo Sam sempre incolpato di delitti che non ha commesso e
Molly in coma. Ci meravigliamo che sia pronta una nuova puntata della serie?
Pensavo
che Dahl potesse migliorare rispetto alle mie letture passate; invece, mi pare
che voglia rendere sempre più complicate trame già non semplici. Anche i
personaggi poi non risaltano più di tanto. Erano delineati del primo episodio,
mentre qui sembrano più personaggi a due dimensioni. Insomma un po’ piatti.
Sono
veramente perplesso sulla possibilità di portare avanti la lettura di altri
episodi.
Date queste premesse, comunque, ben si
collocano due citazioni di un altro autore svedese, Håkan Nesser. Sono tratte
dal quinto episodio della saga del commissario Van Veeteren, “Il commissario e il silenzio”, collocate all’inizio ed alla fine del libro: “Perché no?... doveva pur essere una
faccenda abbastanza semplice lavare una verità retroattiva dalla sabbia della
menzogna. Ma come mi esprimo elegantemente oggi… dovrei cominciare a scrivere
le mie memorie, un giorno o l’altro” (18) e “Non esistono combinazioni
[risolutive] … se la vita è un albero, non deve necessariamente esserci una
così gran differenza se si finisce su un ramo o sull’altro… per trovare la
radice” (301).
Beh, credo che il 28/01 sia una giornata cardine delle ricorrenze: ben cinque persone, tra parenti e amici, compiono gi anni oggi, dai più di sessanta ai meno di quaranta! Noi, ormai oltre, invece ci dedichiamo alla difficile opera di organizzare viaggi, per me, per noi ed anche per qualche amico. Lavori delicati. Tanto che mi consumo occhi ed orecchi, ed ho quindi bisogno di un abbraccio.