Questo è il nome usato in Giappone per identificare la letteratura “noir”. Un termine che, tradotto letteralmente, significa: “Teorie dell’investigazione”, tanto per rimarcare che, generalmente, hanno poco dell’hard boiled americano e molto del “whodunnit?” (chi l’ha fatto?) di marca inglese.
Qui abbiamo alcune opere degli anni
Quaranta, in particolare quelle relative al detective Kindaichi di Yokomizo
Seishi, uno dei detective più famosi in patria, ed una mirabile opera di Takagi
Akimitsu, che molto darà a successivi manga. Ma su tutti si innalza la mirabile
“Ragazza del Kyushu” di Matsumoto Seicho (ad ora per me il miglior libro dell’anno).
Chiude la cinquina un’opera onesta ma non imperdibile di Yu Miri, che continua
ad aprire piccoli scorci sul razzismo giapponese.
Yokomizo Seishi “Il detective Kindaichi” Sellerio euro 13
[A: 26/08/2020 – I: 10/08/2023 – T: 12/08/2023] - &&&
+
[tit. or.: 本陣殺人事件 – Honjin satsujin jiken; ling. or.: giapponese; pagine: 208;
anno 1946]
Sebbene
i libri di Yokomizo Seishi siano pubblicati da Sellerio, ho deciso, per il loro
carattere particolare, di inglobarli nel filone che sto dedicando alla
letteratura gialla giapponese (mi scuso del bisticcio semantico, che forse
avrei dovuto direi letteratura “mystery” giapponese, oppure utilizzare il
titolo di questa trama).
Yokomizo,
infatti, è stato uno dei maestri del genere, in particolare di quel ramo di
mistero che viene etichettato con il termine “misteri della camera chiusa”,
laddove un fatto di sangue avviene in una stanza chiusa dall’interno. Un
elemento che rimanda ad uno dei capostipiti del genere, il “Delitto della via
Morgue” di Edgar Allan Poe. Ma che soprattutto, sia per ammissione di Yokomizo
sia analizzandone la trama (e di questo almeno, che per me è il primo ad essere
stato letto), si avvicinano a “Il mistero della camera gialla” di Gaston Leroux
ed a tutta l’opera di John Dickson Carr, considerato il maestro del genere, e
di cui vi consiglio di andare a ricercare il capolavoro “Le tre bare”, che
contiene la migliore trattazione teorica del problema. Una lezione ben appresa
dal nostro che venne chiamato in patria il “Dickson Carr giapponese”.
Intanto,
pur rendendo i dovuti omaggi alla Sellerio per la ripubblicazione filologica,
mi viene il solito sospetto sulla pervicacia del cambiamento dei titoli.
Ebbene, seppur vero che il detective Kousuke Kindaichi è il protagonista del
testo, il titolo originale (forse proprio in omaggio ai suoi maestri
occidentali) risulta come “Il caso dell’omicidio nell’honjin”, dove l’ultimo
termine designa una tipica costruzione rurale giapponese, in epoca medioevale
quartier generale di eserciti di passaggio, per poi divenire una sorta di casa
colonica dei latifondisti del Novecento.
La
maestria di Yokomizo in questo testo è stata proprio quella di fondere l’idea
occidentale con le modalità orientali, non tralasciando né le belle descrizioni
dei paesaggi, né il rispetto delle tradizioni locali, in tutti i loro aspetti.
Inoltre, usa il divertente accorgimento, per i locali soprattutto, di fare
svolgere le investigazioni al già menzionato Kindaichi, che è di sicuro non in
linea con i caratteri rispettosi del luogo. Viene descritto come trasandato, in
particolare perché si veste moderno, senza l’uso dei tradizionali kimono ed
altri accessori, è a volte balbuziente quando si concentra, e di sicuro, come
tutte le persone di alto ingegno, non bada alle forme.
Yokomizo
aveva sempre dedicato il suo tempo alla scrittura ed al mondo delle lettere
(nasce un 24 maggio del 1902, giorno eponimo), avendone un moderato successo.
Tuttavia, sul finire degli anni Trenta si ammala di tubercolosi, e, per motivi
di guerra, viene sfollato nelle campagne paterne. Là, trovandosi sul limitar
della fine, ha l’idea del nostro detective, ne scrive, e, dopo la guerra, ne
pubblica. Il successo ed il nuovo benessere lo portano a vivere ancora sino al
1981, dove morirà di altro male.
Ma
veniamo finalmente al testo. Cedendo un po’ alle mode di quegli anni, Yokomizo
usa una scrittura alterna. C’è un narratore, che si dice sodale di Kindaichi,
che narra gran parte della storia (inserendo ogni tanto quei tipici commenti:
attenti a questo indizio che servirà più tardi). E c’è una seconda voce, il
medico legale, utilizzato nell’ultima parte del testo, che serve a narrare le
ultime vicende usando una voce presente nel luogo degli avvenimenti.
Avvenimenti
che si sviluppano intorno all’honjin della famiglia Ichiyanagi, dove in un
padiglione chiuso dall’interno vengono trovati morti il padrone Kenzo e la sua
sposa Kubo, proprio durante la prima notte di nozze. Si trovano segni strani:
colpi di spada, con la stessa conficcata in un albero esterno al padiglione, si
sentono colpi di un tipico strumento giapponese, il koto, ci sono impronte
digitali insanguinate di una mano con tre dita, ci sono segni di passi su un
rialzo poco distante dal padiglione, ma nulla all’esterno del padiglione, anche
perché la notte aveva nevicato (siamo al 25 novembre, nel distretto di Okayama,
poco più a nord di Hiroshima).
C’è
da capire le posizioni e le azioni di tutte le persone che gravitano nella
casa: i fratelli di Kenzo, Ryuji medico a Osaka, che torna la notte del
matrimonio ma non si fa vedere, Saburo, appassionato di letteratura gialla, e
Suzuko, la piccola, maestra suonatrice di koto, nonché Ryōsuke, il cugino che è
il vero tenutario del latifondo (Kenzo si dedica alle lettere ed alla
scrittura), nonché un famigerato uomo con tre dita, visto aggirarsi intorno
all’honjin un paio di giorni prima dell’assassinio.
La
costruzione del giallo è magistrale: gli indizi si mescolano, esce fuori un
gatto fantasma e la sua tomba, i diari strappati di Kenzo, delle foto poco
comprensibili, in un’atmosfera in cui tutti sembrano poter essere colpevoli.
C’è poi un tentativo di uccidere Saburo, in modi simili alla morte degli sposi.
Ma sarà proprio questo fatto, unito alla lettura di alcuni libri gialli della
collezione casalinga, ed al ritrovamento di altri indizi, apparentemente
innocui, che portano il nostro giovane detective Kindaichi a ricostruire tutta
la vicenda. E Yokomizo, memore delle lezioni occidentali, impiego una
cinquantina di pagine per ricostruire tutta la vicenda dall’inizio alla fine,
risolvendo il rompicapo del padiglione dell’honjin.
Resta
solo da dire, per chi non lo conoscesse, del koto. Uno strumento a corde,
simile ad una grossa cetra, a tredici corde di uguale lunghezza e diametro, che
vengono accordate inserendo dei ponticelli a diverse distanze tra loro.
Insomma,
un giallo tipicamente giapponese che risente di tutte le influenze occidentali
che Yokomizo conosce, e che ha inerito nella trama senza che la nipponicità
perdesse il suo vigore. Un buon libro, e dovremo capire meglio l’autore ed
altre sue prove.
Yokomizo Seishi “La locanda del Gatto Nero” Sellerio euro 13 (in
realtà, scontato a 10,40 euro)
[A: 26/08/2020 – I: 23/08/2023 – T: 24/08/2023] - &&&
+
[tit. or.: 黒猫亭事件 – Kuronekoteijiken; ling. or.: giapponese; pagine: 160;
anno 1947]
Intanto,
non è facile muoversi nella assai vasta produzione di Yokomizo, ed in
particolare quella relativa al detective Kousuke Kindaichi (in kana 金田一耕助). Secondo una mia personale ricerca in siti
giapponesi (le opere di Yokomizo sono tradotte pochissimo in lingue
occidentali) pare che Ko (così viene chiamato dagli amici) sia presente in 77
opere, tra racconti e romanzi. Di questi, sono giunti in Italia credo quattro o
cinque titoli.
Secondo punto, questo ed il precedente, nel
1973 nel corso della ripubblicazione in Giappone delle opere di Yokomizo,
vengono pubblicati in un unico volume con il titolo solo del più lungo
“Omicidio nell’Honjin”. In realtà “L’incidente della locanda del Gatto Nero”
(questa la traduzione fedele del titolo) viene pubblicato nel numero 3 della
rivista “Shosetsu” nel dicembre 1947.
Questo secondo romanzo, inoltre, è usato
dall’autore per esemplificare i diversi modi di avere dei “mystery” molto
intricati. Il primo, ricordo, era il cosiddetto “Enigma della camera chiusa
(Locked Room Mystery)”. Ora si passa al “Cadavere senza volto (Faceless Corpse
Mystery)”. Il primo è ben noto. Questo passa per la distruzione della faccia
del cadavere in modo da impedirne l’identificazione, creando, nel corso della
trama, una possibile sostituzione tra assassino, morto ed altre complicazioni.
È una tipologia che viene da lontano, tanto che Erodoto nella sua “Storia” ne
narra a proposito della scoperta del corpo del faraone Ramses III. Tuttavia, è
un tipo di giallo che, andando avanti con le tecniche investigative come le
impronte digitali o la profilazione del DNA, al momento attuale ha poco spazio
di manovra. Viene ancora utilizzato solo in situazioni in isolamento, tipo un
delitto su di un’isola senza contatti con l’esterno.
Le tecniche narrative di Yokomizo risentono
molto del tempo della scrittura, così che vediamo iniziare e finire il testo
con due lettere del detective allo scrittore, la prima per impostare il dramma,
la seconda per commentarne la riuscita. Inoltre, come nel precedente, il testo
si divide in due parti. Nella prima c’è la descrizione del crimine e le indagini
infruttuose della polizia. Nella seconda interviene Ko e risolve il dilemma.
Tutto nasce dalla scoperta di un cadavere
femminile senza volto nel retro della locanda del Gatto Nero, a ridosso del
monastero e del cimitero buddista “Rengein”. C’era il monaco Niccho che stava
scavando, non si capisce se per seppellire o diseppellire il cadavere, lo
stesso monaco che imbastisce una storia strampalata per giustificarsi.
Il responsabile delle indagini cerca,
collegando varie informazioni, di descrivere una trama possibile. Siamo al 20
marzo, la donna è stata uccisa il 28 febbraio. Siamo nella Locanda del Gatto
Nero, che il 14 marzo il proprietario Itojima ha venduto. Itojima era un
emigrato in Cina rimpatriato con la fine della guerra e la sconfitta
giapponese. È sposato con Oshige, bellissima donna, che però era tornata prima
di lui, ed aveva incontrato e si era innamorata di Kazama, un costruttore edile
forse legato alla yakuza.
Itojima sulla nave dalla Cina aveva
incontrato Ono, con cui aveva legato, per poi lasciarla e tornare con Oshige.
Ha poi incontrato la ballerina Ayuko, e mentre Oshige flirta con Kazama, lui lo
fa con Ayuko, sostenendo però di essere sempre innamorato di Oshige.
Tutti gli indizi fanno convergere la
possibilità che la morta sia Ayuko o Oshige, con Itojima che fugge con la donna
che non è morta.
A questo punto, essendo coinvolto Kazama,
questi chiama il suo amico Kindaichi, e da qui comincia la controdeduzione del nostro
Ko, che arriva alla ricostruzione di tutti i fatti, in modo che quanto prima
sembra impossibile o improbabile, alla fine ha una sua soluzione. E come nei
migliori gialli, alla fine di tutto, intorno ad una tazza di tè si riuniscono
Kazama ed i poliziotti e Ko spiega loro tutta la sequenza dei fatti. Un modo di
concludere i gialli che trovo decisamente ben fatto.
Il nostro Ko è un personaggio ben vivo
nell’immaginario giapponese, tanto da essere spesso avvicinato a Maigret. E
Yokomizo, nel corso dei vari romanzi, ne costruisce ed elenca la storia ed i
passaggi vitali, tanto che, se e quando (ma forse molto al di là del tempo) se
ne saprà di più non mi dispiacerebbe imbastire una sua storia personale.
Comunque, la scrittura di Yokomizo è ben
aderente al dettato che si prefigge, ed è anche congrua alla vita ed ai modi di
essere giapponesi. Ci fa ogni volta entrare in un piccolo spicchio di vita,
senza mai scadere in una occidentalizzazione degli avvenimenti. È vero, ha
letto molto ed imparato dal giallo occidentale, ma poi lo riproduce in termini
assolutamente asiatici. Come, ad esempio, la figura della donna ammaliatrice
che riesce a manovrare gli uomini, una specie a metà tra la geisha ed una dark
lady. Una figura ricorrente nella letteratura giapponese e spesso usata anche
nei manga. L’abilità di Yokomizo è di non farci capire, sine alla fine, se la
donna, le donne, del romanzo sono vittime o carnefici.
Purtroppo, ha un po’ di anni sulle spalle, e
ne risente un po’. Ma è una lettura che mi ha sicuramente stimolato ad
interessarmi più a fondo del mondo dei gialli del Sol Levante.
Yū Miri “Il paese dei suicidi”
Corriere Giappone 14 euro 8,90
[A: 18/08/2021 – I: 12/03/2024
– T: 14/03/2024] - &&
[tit. or.: 自殺の国 Jisatsu
no kuni; ling. or.: giapponese;
pagine: 165; anno 2012]
Lessi un libro di Yū Miri (“Oro rapace”) quasi vent’anni fa, e non mi
fece una grande impressione, anche perché poco sapevo dell’autrice, ed erano
tempi in cui non approfondivo elementi al di fuori del testo. Cosa che invece,
ho imparato a fare nel corso degli anni, e che, di sicuro, danno, se ben organizzati,
elementi maggiori di conoscenza olistica del testo.
Così, ora, vengo a sapere che Yū è di famiglia coreana, pur se nata,
cresciuta e vissuta in Giappone, nell’area di Kanagawa (quella per capirci
della grande statua del Buddha). Ha vissuto sulla sua pelle il razzismo
giapponese verso i coreani (pur essendo di nazionalità giapponese), un astio
che non si è mai sopito nei secoli. Ed ha vissuto non molto bene l’infanzia,
costellata da ripetuti, ma fortunatamente infruttuosi, tentativi di suicidio
(certo, un aggettivo poco intelligente, che se fossero stati fruttuosi non
sarebbe qui, a quasi sessant’anni a continuare a scrivere). Inizialmente dedita
al teatro, come attrice e sceneggiatrice, una trentina di anni fa comincia a
scrivere, producendo poco, ma, almeno in Giappone, con riscontri positivi.
Questo, in realtà uscito più di dieci anni fa, è un testo emblematico,
della scrittrice, ma anche del Giappone attuale, forse oggi ancor peggio di
poco fa. Un libro che è una feroce critica a molti aspetti della vita
giapponese: la competitività esasperata, il collettivismo forzato, la latente,
ma ben presente, incomunicabilità, la solitudine globale che tutto ciò implica
ed a cui tutto ciò porta.
Per raccontarci tutto ciò, Yū ci fa seguire le vicende di Mone, una
“tipica” quindicenne di Tokyo. Ha una famiglia che si sta disgregando, ma lei
ne viene a conoscenza solo a metà romanzo. Il padre ha un’amante da dieci anni,
e la madre, rivolgendo tutte le sue attenzioni su Satoshi, il fratellino di
Mone, sta decidendo di andarsene. Con Satoshi, verso luoghi in cui la bravura
del giovane si può manifestare, lasciando al padre la sorella più grande, che
non ha mai avuto uno scatto nelle graduatorie scolastiche, che forse non
riuscirà ad andare all’Università. Insomma, per la madre Mone è fallimentare, e
cosa fa? Invece di aiutarla, medita la fuga.
Mone è anche una tipica liceale giapponese, laddove, come inizi una
scuola, “devi” aggregarti ad un gruppo, pena un isolamento che, per i locali, è
peggio di una condanna. Si unisce allora ad un gruppo di “false” amiche, le
“Sky Soda”, i cui unici interessi sono domande fondamentali della vita: qual è
il cibo più di moda? Qual è il colore che fa tendenza? Tutto nel compiacimento
forzato verso la leader del gruppo (ogni gruppo deve avere un leader), il cui
unico interesse è porre asticelle sempre più alte alla follia competitiva anche
verso gli altri gruppi (come decidere di andare tutti in bikini al mare, ed è
la leader che decide forme e colori).
Mone si domanda se tutto ciò abbia un senso, se tutto ciò non farà che
portarla ad una vita in cui dovrà essere moglie, dovrà essere madre, dovrà
gestire una casa, dovrà, dovrà, dovrà…
Unico suo rifugio (e come non potrebbe esserlo) il suo cellulare ed il
mondo dei social. Dove naviga per esistere (unico momento in cui si sente
legata a qualcosa), e dove nel dark web si imbatte nel sito “Ricette per
principianti”. No, non è un sito culinario, ma un forum di aspiranti sucidi,
che lì cercano compagnia per suicidarsi insieme, non avendo la forza di farlo
da soli. Lì conosce tre individui solitari, e con loro organizza un’idea di
suicidio con stordimento tramite pasticche ed esalazioni di monossido di
carbonio all’interno di un auto sigillata.
Per ora, basta con le anticipazioni, e veniamo alla scrittura ed agli
accenni tematici iniziali.
Yū utilizza un modo tutto suo di portare avanti la trama, intarsiandola
con tentativi espressivi multipli. Molte righe del forum dei suicidi, annunci
dei treni, conversazioni rubate sui mezzi di trasporto. E poi, tantissima Mone.
Con i suoi dubbi, la voglia di morire e la possibilità di vivere, la paura di
essere esclusa dalle “Sky Soda” e la consapevolezza che, in realtà, ne è stata
sempre fuori. L’intima inadeguatezza. L’aggrapparsi all’esteriorità: orsetti di
Winnie the Pooh, i Pocky, bastoncini di biscotti, il karaoke sulle note delle
girl band di successo, una tuta da acquistare online in un sito giapponese di
successo (Peach John), un pupazzo Disney.
Così l’autrice, anche se non riesce pienamente nell’intento, ci fa calare
in un Giappone che non è zen, che non è il non-Giappone di Haruki, ma è quello
che abbiamo visto girandolo, per le strade di Takeshi Dori, per le salite di
Kyoto, nelle metropolitane, nelle strade di Shibuya, nei bar del dopo-ufficio. Ci
viene così restituita un’immagine altrettanto vera e vivida di questa società
che, in realtà, non comprendo. Un mondo in cui ogni passo è un esame, in cui
ogni rapporto è formale, non si entra mai nell’intimo, per non ferire e non
ferirsi.
Un libro che non mi ha convinto sino in fondo, ma che, se volete avere un
assaggio globale al mondo dell’Estremo Oriente, ed alla sua totale
incomunicabilità tra generazioni, ed all’interno delle generazioni stesse, può
costituire una buona lettura.
Takagi Akimitsu “Il mistero
della donna tatuata” Corriere Giappone 10 euro 8,90
[A: 16/12/2022 – I: 07/06/2024
– T: 09/06/2024] - &&&&
[tit. or.: 刺青殺人事件
Shisei satsujin jiken; ling. or.: giapponese; pagine: 256;
anno 1948]
Ecco un mirabile esempio di una giallo ben confezionato, sia nella trama
in sé che nella descrizione ambientale degli avvenimenti. Takagi Akimitsu è
stato uno dei maestri del giallo giapponese che qui, nella sua opera prima
esprime al meglio le sue capacità.
Takagi nasce nel ’20 e dopo una giovinezza trascorsa in vario modo, tra
poco studio, lavori non soddisfacenti, nonché il dramma della guerra che per i
giapponesi è stato uno spartiacque significativo, alla fine della guerra decide
di seguire i consigli di un indovino che gli suggerisce di dedicarsi alla
scrittura. Comincia così a scrivere, e la sua prima produzione viene presa
sotto le ali protettive del padre nobile del giallo nipponico, Edogawa Ranpo
(di cui ho scritto già e ben lodato). Esce così questo testo nel ’48, ed ha
subito successo. Nel corso degli anni pubblicherà un centinaio di testi, la
quasi totalità fino al 1979, anno in cui cominciò ad avere una serie di
infarti, che lo debilitarono, portando alla morte nel 1995.
Intanto, con l’aiuto di traduttori e rimandi tra le varie traduzione di
questo testo, pur avendo un senso il titolo italiano, l’originale tributa un
omaggio al grande S. S. Van Dine che intitolò tutti i suoi testi inserendo nel
titolo la parola “Il caso …”. Questo in effetti si intitola “Il caso degli
omicidi con tatuaggi” (purtroppo non ho un fluente giapponese per tradurlo
meglio).
Comunque, è proprio il tatuaggio uno degli elementi cardine della
narrazione. Il tatuaggio è sempre stato, nella tradizione giapponese, un
elemento fortemente caratterizzante. In particolare perché legato sia alla
pittura sia alle leggende locali. Inoltre, qui si parla di “irezumi” che è una
forma di tatuaggio giapponese caratterizzato da disegni ampi e colorati, che
spesso ricoprono tutto il corpo. Nel 1872, negli anni di passaggio tra il
periodo Edo (quello caratterizzato dalla chiusura del Giappone verso il resto
del mondo) ed il periodo Meiji (quello dell’apertura), il tatuaggio viene
bandito, nell’intento di avvicinare i locali alla cultura occidentale.
Peccato che gli occidentali invece apprezzavano molto i tatuaggi, così
che nasce un mercato illegale di tatuatori clandestini. Questa chiusura viene
rimossa solo nel ’48, ma esiste ancora al tempo dello svolgimento del racconto
che prende le mosse il 26 agosto 1946.
Al centro del racconto ci sono i tra fratelli Namura, il cui padre, il
valente tatuatore Hori’yasu, aveva istoriato con “irezumi” derivati da “Jiraiya
goketsu monogatari ("Il racconto di Jiraiya il galante") una saga
mitologica giapponese della metà dell’Ottocento in cui si affrontano Jiraiya,
un ninja dei boschi devoto alle rane, sua moglie Tsunade, esperta nelle arti
magiche delle lumache, e Orochimaru, lo stregone capace di trasformarsi in un
serpente a otto teste. Non vi parlo di questo testo, anche se sarebbe interessante,
basta solo accennare che i tre battagliano in modo cruento e definitivo.
La vicenda che ci narra Takagi segue le mosse di Kinue (quella con l’irezumi
di Orochi), mentre la gemella Tamae si narra sia perita ad Hiroshima ed il
fratello Tsunetaro sia disperso in guerra. Kinue è l’amante di Takezo, un ricco
imprenditore, ma è anche una donna volubile, forse per il suo passato non tanto
limpido. Oltre a Takezo, si mormora abbia una relazione con Hisashi, il
fratello minore di Takezo e che faccia di tutto per far perdere la testa a Inazawa
il direttore degli stabilimenti di Takezo. A completare il quadro c’è lo zio di
Takezo, il dottor Hayakawa, direttore di un museo dove conserva la pelle di
tatuati morti, tutti con tatuaggi di notevole bellezza.
Il protagonista del romanzo, almeno in gran parte, è il giovane Kenzo,
fratello minore di Matsushita, un poliziotto della Omicidi. Kenzo, in base ad
alcune peripezie che non vi narro, insieme a Hayakawa, scopre nella casa di
Kinue, in una bagno chiuso dall’interno, un cadavere senza torso, ma dalla
faccia riconoscibile. Poco dopo viene trovato morto anche Takezo, apparentemente
suicida.
Kenzo e la polizia non riescono a cavare un ragno dal buco, né tanto meno
a scoprire come l’assassino sia uscito dal bagno. Dopo alcuni mesi, casualmente,
Kenzo incontra un tatuatore che si rivela essere lo scomparso Tsunetaro. In
base al racconto di Kenzo, questi dice di aver capito che è l’assassino, ma
viene a sua volta ucciso. Ed anche scuoiato dell’irezumi di Jiraiya.
Pur se sembra il protagonista, Kenzo non è altro che un Watson nipponico,
laddove Takagi ci mette un colpo di genio, che da pagina 170 entra in scena Kyosuke
Kamizu, il vero Sherlock Holmes, nonché amico d’infanzia di Kenzo, ma
soprattutto un giovane brillante e dal ragionamento sopraffino. Alla luce del
racconto di Kenzo, Kamizu non solo capisce chi sia il colpevole, ma svela a
Kenzo ed alla polizia i vari misteri: il bagno chiuso, gli orari dei delitti, i
motivi delle mutilazioni, riuscendo alla fine ad incastrare il colpevole.
Che ovviamente non poteva che essere uno dei tre che girano intorno a
Kinue: Hisashi, Hayakawa e Inazawa. Che Matsushita aveva tutti esclusi, in
quanto avevano alibi più o meno solidi per i tempi dei delitti. Anche se
avevano tutti motivi validi: amore e potere per Hisashi, i tatuaggi per
Hayakawa, amore e risentimento per Inazawa.
Dal punto di vista del giallo, Takagi ci fa dono di alcuni invenzioni
narrative interessanti. Innanzi tutto, perfeziona il classico “delitto in una
stanza chiusa”, sia rispetto ai modelli classici inglesi, sia alla vicenda
narrata da Yokomizo Seishi ne “Il detective Kindaichi”. Anzi, proprio per aver
riscontrato delle incongruenze in quest’ultimo, riesce a costruire un
meccanismo del delitto veramente originale.
Altro elemento classico che Takagi maneggia scoprendo e nascondendo le
carte è quello sia delle persone che sono (dovrebbero essere) scomparse,
lasciandoci sempre il dubbio se lo siano e se realmente fanno parte della
vicenda.
Infine, quello che più mi ha intrigato è l’apparire del detective Kamizu
(che sarà protagonista di almeno altri quaranta racconti) solo a trama già ben
avviata e complicata. Certo, già Seishi non fa comparire il suo detective
dall’inizio, ma qui arriva non solo come un fulmine inaspettato, ma, con i suoi
ragionamenti logici e deduttivi, ci porta per mano alla soluzione del mistero. Inoltre,
rispetto ad altri detective giapponesi, è discretamente simpatico, anche se
conscio, alla Holmes, delle sue capacità.
L’altro punto che rende il testo di ottimo livello è la descrizione
dell’ambiente postbellico che fa da teatro alla vicenda. Non solo dal punto di
vista decorativo (le case, i paesaggi interni di Tokyo, i modi di vestire e di
muoversi dei personaggi), ma soprattutto perché ci fa rivivere una serie di
problemi, economici, sociali, culturali, ben presenti e forti all’epoca della
scrittura. In primo piano, il contrasto tra tradizione e innovazione, fra le
regole che vengono dal passato e la libertà cui i giovani aspirano. Senza
dimenticare il profilo etico dei giapponesi, unito al degrado che si percepisce
nelle nuove strutture sociali che si affacciano sulla scena, colmi di avidità e
utilizzanti il denaro come potere sociale.
Né poteva dimenticare, Takagi, che la guerra è da poco finita (e finita
con una sconfitta). Sebbene non ne insista a lungo, i piccoli accenni al dramma
di Hiroshima fanno capire quanto, già dopo poco, la bomba americana aveva
inciso nelle coscienze giapponesi.
Insomma, un bel libro datato, dove, se volete farvi una piccola cultura
sull’irezumi, vi consiglio di leggere a fondo il primo capitolo.
Dimenticavo, per i patiti dei manga giapponesi i ninja tatuati nella
storia descritta, Orochimaru, Jiraiya e Tsunade, fanno parte degli antagonisti
di Naruto, un manga in 700 capitoli del grande disegnatore giapponese Masashi
Kishimoto.
Matsumoto Seicho “La ragazza del Kyushu” Corriere Giappone XX euro 8,90
[A: 03/01/2023 – I: 27/06/2024 – T: 28/06/2024] - &&&&
e ½
[tit. or.: 霧の旗 – Kiri no hata; ling. or.: giapponese; pagine: 208;
anno 1961]
Avevo
letto, nelle varie pubblicazioni da me compulsate durante le mie ricerche
bibliografiche, e soprattutto per quanto riguarda quelle relative ai diversi
aspetti della letteratura giapponese, che Matsumoto Seicho veniva considerato
uno dei maestri del genere. Una definizione che, stando a questa lettura, è
leggermente sottovalutata. Uno scritto tra i più belli letti negli ultimi
tempi, per ambientazione, costruzione, intreccio dei personaggi, trama e
finale. Forse il mio giudizio è anche un po’ falsato che, per alcuni aspetti,
gli scrittori giapponesi hanno una delicatezza nel porgere che a me piace
molto.
La
bravura di Seicho in questo romanzo è quello di incastrare storie fra di loro,
quasi a “matrioska” (anche se poi due sono le principali), e di farci seguire
le relative indagini tra punti di vista e prospettive diverse e non usuali. Non
è semplice portare avanti un’indagine senza mai recarsi sul luogo degli
avvenimenti, ma fornendoci tutti gli elementi per seguirla.
Il
personaggio principale, che nella traduzione italiana diventa il simbolo di
tutto il libro, è la ventenne Kiriko. Dattilografa nel Kyushu, vede il proprio
fratello accusato dell’omicidio di una anziana usuraia, con lo scopo di
sottrarre la ricevuta di un prestito che non riusciva a restituire. Tutti gli
indizi gli sono contrario, e Kiriko decide di andare a Tokyo, per ingaggiare
Otsuka, uno dei principali principi del foro nipponici. Ma Kiriko è povera, e
Otsuka non solo vuole alte parcelle, ma è distolto dal problema perché preso da
un avventura con la sua amante Keiko.
Kiriko
torna nel Kyushu, il fratello viene ritenuto colpevole, condannato a morte, ma
prima del processo d’appello, muore in carcere. Niente di sorprendente che
Kiriko ritenga Otsuka responsabile della morte che, secondo lei, avrebbe
trovato il modo di salvare il fratello. Anatema che non si perita di lanciare a
Otsuka con una cartolina al veleno.
Tuttavia,
la cartolina ha un suo effetto. Otsuka si mette a studiare le carte del
processo (e qui c’è la bravura dello scrittore che ci ripropone tutta la
vicenda dell’omicidio nel Kyushu solo attraverso estratti delle carte, dei
verbali, degli interrogatori) trovando un idea che potrebbe indicare come il
fratello di Kiriko potrebbe non essere il colpevole.
E
qui parte una seconda parte forte della storia (c’erano alcune microstorie che
vi lascio leggere). Kiriko, senza più soldi, si ritrova a fare la hostess in un
bar a Ginza (un mestiere molto ben visto laggiù), convivendo con una ragazza
che ha una storia con Kenji, il fratello della proprietaria. Fratello che però
lavora in un lussuoso ristorante, di proprietà di Keiko (l’amante di Otsuka).
Quando Kenji si allontana dall’amica, questa chiede a Kiriko di indagare. Cosa
che lei fa seguendo Kenji in una casa isolata in periferia.
Lì
sopraggiunge Keiko, e le due scoprono all’interno Kenji assassinato. Keiko era
anche l’amante di Kenji, quindi fugge perdendo un guanto, chiedendo a Kiriko di
testimoniare per lei. Ma Kiriko, che ha intravisto una possibilità, pone il
guanto accanto a Kenji. Quando viene interrogata dalla polizia nega tutto. Così
come continua a fare anche dietro le insistite richieste di Otsuka. Nel
calderone delle diverse prospettive che intravediamo durante la storia si
inserisce Abe, un giornalista che prende a cuore la vicenda di Kiriko (forse si
innamora) ma che lei non degna di sguardi. Nonché Yamagami, un amico di Kenji,
violento e dagli atteggiamenti loschi.
Mentre
però, tutta la prima parte, con lo studio delle modalità del primo omicidio è
ben costruito ed avvincente, proprio per quella capacità di svolgersi tutto
sulla carta ed a livello mentale, la seconda parte è più debole. Anche se tutta
giocata sui sentimenti. Di colpa di Otsuka, di rivincita di Kiriko, di paura e
amore di Keiko. Ben costruita, se vogliamo, ma lì aspettiamo solo di vedere
come andrà a finire. Otsuka riuscirà a convincere Kiriko a salvare Keiko?
Otsuka dirà finalmente a Kiriko se ha trovato la chiave dell’omicidio? E l’avrà
trovata veramente?
Tanti
interrogativi, che Seicho porta magistralmente a compimento nel pur scarse
duecento pagine del testo. Continuando a darci da un lato flash della Tokyo
degli anni Cinquanta (bellissimi i flash su Marunochi, il quartiere degli
affari, e su Ginza, il quartiere del lusso. Ma anche sui ristoranti di lusso,
su di una gita a Hokone (che per chi non lo sapesse è ai piedi del monte Fuji),
sui bar malfamati, sulle signorine che ci lavorano, sull’ambiente legale e su
quello giornalistico. Senza mai perdere di vista quella denuncia sociale che,
stando alle critiche lette di altri suoi libri, è spesso presente nella
produzione del nostro bravo giapponese.
Inoltre,
per capire meglio a chi non conosce il Giappone, Kyushu si trova sull’isola di
Fukuoka, ed a più di 1000 km da Tokyo. Un viaggio costoso per chi ha pochi
mezzi, ed un onere non banale per un avvocato che dovesse sobbarcarsi il
patrocinio andando su e giù da Tokyo. Ma, e qui viene il senso civico di
Seicho, la giustizia è solo questione di soldi? Chi è povero deve solo
soccombere senza avere la possibilità di ottenere una giusta difesa?
Una
parola sul titolo che, più o meno letterariamente, indica delle bandiere che
sventolano nella nebbia. La bandiera è un simbolo potente giapponese, spesso ad
indicare uno shogun, un elemento di carattere. Ma quando c’è la nebbia, anche
se sventola, la bandiera si vede poco. Così come poco si vedono le capacità di
Otsuka, un signore nel suo campo, che però si perde nella nebbia
dell’indecisione. Per finire, inoltre, “Kiri” non indica una nebbia qualsiasi,
ma quella autunnale, mentre con “Kasumi” si indica la nebbia primaverile.
Devo
dire, infine, che, durante la lettura, mi tornavano in mente echi de “La sposa
in nero” di Cornell Woolrich, anche se, in realtà, c’è una totale distanza tra
i due. Ma forse era quell’idea di vendetta a fronte di un torto che mi
stuzzicava. Tanto che forse si avvicina di più al film “Occhio per occhio” del
’57 interpretato da Curd Jurgens (qualcuno lo ricorda, oltre me?).
Alla
fine, direi che questo è un ottimo prodotto a sé stante, legato allo spirito
giapponese, con l’unico dispiacere che finisce e che di qualche protagonista
non sapremo mai cosa farà poi. Ma questo è il bello dei libri che scaldano il
cuore, almeno per me: rimanere lì a pensare come si evolverà la vita di chi ci
ha accompagnato per un brevissimo tratto della nostra esistenza.
Come
spesso nei contraltari letterari, da libri polizieschi giapponesi, vi passo a
citare due piccole riflessioni, non noir, dello yemenita Ahmed Abodehman tratte da “La cintura”:
“Per Hizam un uomo senza barba
era un bugiardo. … Agli occhi di Hizam gli uomini glabri non erano che donne mancate.
… E la pancia di un uomo per lui doveva essere piatta come quella di un lupo.
Hizam stava a piedi nudi in modo da non separarsi mai dalla terra” (42),
riflessione sullo stare al mondo.
“Al villaggio nessuno si è mai
sposato secondo i propri desideri, come oggi possono fare certi ricchi. Il
matrimonio è un dovere, una necessità, è per la vita. Il divorzio infatti è
poco frequente, e di solito sono le donne a chiederlo” (112) e qui una
riflessione sul matrimonio, con idee molto diverse dalle nostre, ma che invece
di rifiutare in blocco, si dovrebbe essere capaci di discutere.
Iniziata è la calda estate (ma non dell’ispettore Tibbs), con i miei piccoli momenti di quiete nei fine settimana lontani dalla città bollente, in attesa di staccare per qualche meritato riposo e riattaccare (e ne riparleremo) per qualche meritato viaggio. Allora, vi mando intanto un grande abbraccio.