domenica 30 giugno 2024

Tantei Shosetsu - 30 giugno 2024

Questo è il nome usato in Giappone per identificare la letteratura “noir”. Un termine che, tradotto letteralmente, significa: “Teorie dell’investigazione”, tanto per rimarcare che, generalmente, hanno poco dell’hard boiled americano e molto del “whodunnit?” (chi l’ha fatto?) di marca inglese.

Qui abbiamo alcune opere degli anni Quaranta, in particolare quelle relative al detective Kindaichi di Yokomizo Seishi, uno dei detective più famosi in patria, ed una mirabile opera di Takagi Akimitsu, che molto darà a successivi manga. Ma su tutti si innalza la mirabile “Ragazza del Kyushu” di Matsumoto Seicho (ad ora per me il miglior libro dell’anno). Chiude la cinquina un’opera onesta ma non imperdibile di Yu Miri, che continua ad aprire piccoli scorci sul razzismo giapponese.

Yokomizo Seishi “Il detective Kindaichi” Sellerio euro 13

[A: 26/08/2020 – I: 10/08/2023 – T: 12/08/2023] - &&& +      

[tit. or.: 本陣殺人事件 – Honjin satsujin jiken; ling. or.: giapponese; pagine: 208; anno 1946]

Sebbene i libri di Yokomizo Seishi siano pubblicati da Sellerio, ho deciso, per il loro carattere particolare, di inglobarli nel filone che sto dedicando alla letteratura gialla giapponese (mi scuso del bisticcio semantico, che forse avrei dovuto direi letteratura “mystery” giapponese, oppure utilizzare il titolo di questa trama).

Yokomizo, infatti, è stato uno dei maestri del genere, in particolare di quel ramo di mistero che viene etichettato con il termine “misteri della camera chiusa”, laddove un fatto di sangue avviene in una stanza chiusa dall’interno. Un elemento che rimanda ad uno dei capostipiti del genere, il “Delitto della via Morgue” di Edgar Allan Poe. Ma che soprattutto, sia per ammissione di Yokomizo sia analizzandone la trama (e di questo almeno, che per me è il primo ad essere stato letto), si avvicinano a “Il mistero della camera gialla” di Gaston Leroux ed a tutta l’opera di John Dickson Carr, considerato il maestro del genere, e di cui vi consiglio di andare a ricercare il capolavoro “Le tre bare”, che contiene la migliore trattazione teorica del problema. Una lezione ben appresa dal nostro che venne chiamato in patria il “Dickson Carr giapponese”.

Intanto, pur rendendo i dovuti omaggi alla Sellerio per la ripubblicazione filologica, mi viene il solito sospetto sulla pervicacia del cambiamento dei titoli. Ebbene, seppur vero che il detective Kousuke Kindaichi è il protagonista del testo, il titolo originale (forse proprio in omaggio ai suoi maestri occidentali) risulta come “Il caso dell’omicidio nell’honjin”, dove l’ultimo termine designa una tipica costruzione rurale giapponese, in epoca medioevale quartier generale di eserciti di passaggio, per poi divenire una sorta di casa colonica dei latifondisti del Novecento.

La maestria di Yokomizo in questo testo è stata proprio quella di fondere l’idea occidentale con le modalità orientali, non tralasciando né le belle descrizioni dei paesaggi, né il rispetto delle tradizioni locali, in tutti i loro aspetti. Inoltre, usa il divertente accorgimento, per i locali soprattutto, di fare svolgere le investigazioni al già menzionato Kindaichi, che è di sicuro non in linea con i caratteri rispettosi del luogo. Viene descritto come trasandato, in particolare perché si veste moderno, senza l’uso dei tradizionali kimono ed altri accessori, è a volte balbuziente quando si concentra, e di sicuro, come tutte le persone di alto ingegno, non bada alle forme.

Yokomizo aveva sempre dedicato il suo tempo alla scrittura ed al mondo delle lettere (nasce un 24 maggio del 1902, giorno eponimo), avendone un moderato successo. Tuttavia, sul finire degli anni Trenta si ammala di tubercolosi, e, per motivi di guerra, viene sfollato nelle campagne paterne. Là, trovandosi sul limitar della fine, ha l’idea del nostro detective, ne scrive, e, dopo la guerra, ne pubblica. Il successo ed il nuovo benessere lo portano a vivere ancora sino al 1981, dove morirà di altro male.

Ma veniamo finalmente al testo. Cedendo un po’ alle mode di quegli anni, Yokomizo usa una scrittura alterna. C’è un narratore, che si dice sodale di Kindaichi, che narra gran parte della storia (inserendo ogni tanto quei tipici commenti: attenti a questo indizio che servirà più tardi). E c’è una seconda voce, il medico legale, utilizzato nell’ultima parte del testo, che serve a narrare le ultime vicende usando una voce presente nel luogo degli avvenimenti.

Avvenimenti che si sviluppano intorno all’honjin della famiglia Ichiyanagi, dove in un padiglione chiuso dall’interno vengono trovati morti il padrone Kenzo e la sua sposa Kubo, proprio durante la prima notte di nozze. Si trovano segni strani: colpi di spada, con la stessa conficcata in un albero esterno al padiglione, si sentono colpi di un tipico strumento giapponese, il koto, ci sono impronte digitali insanguinate di una mano con tre dita, ci sono segni di passi su un rialzo poco distante dal padiglione, ma nulla all’esterno del padiglione, anche perché la notte aveva nevicato (siamo al 25 novembre, nel distretto di Okayama, poco più a nord di Hiroshima).

C’è da capire le posizioni e le azioni di tutte le persone che gravitano nella casa: i fratelli di Kenzo, Ryuji medico a Osaka, che torna la notte del matrimonio ma non si fa vedere, Saburo, appassionato di letteratura gialla, e Suzuko, la piccola, maestra suonatrice di koto, nonché Ryōsuke, il cugino che è il vero tenutario del latifondo (Kenzo si dedica alle lettere ed alla scrittura), nonché un famigerato uomo con tre dita, visto aggirarsi intorno all’honjin un paio di giorni prima dell’assassinio.

La costruzione del giallo è magistrale: gli indizi si mescolano, esce fuori un gatto fantasma e la sua tomba, i diari strappati di Kenzo, delle foto poco comprensibili, in un’atmosfera in cui tutti sembrano poter essere colpevoli. C’è poi un tentativo di uccidere Saburo, in modi simili alla morte degli sposi. Ma sarà proprio questo fatto, unito alla lettura di alcuni libri gialli della collezione casalinga, ed al ritrovamento di altri indizi, apparentemente innocui, che portano il nostro giovane detective Kindaichi a ricostruire tutta la vicenda. E Yokomizo, memore delle lezioni occidentali, impiego una cinquantina di pagine per ricostruire tutta la vicenda dall’inizio alla fine, risolvendo il rompicapo del padiglione dell’honjin.

Resta solo da dire, per chi non lo conoscesse, del koto. Uno strumento a corde, simile ad una grossa cetra, a tredici corde di uguale lunghezza e diametro, che vengono accordate inserendo dei ponticelli a diverse distanze tra loro.

Insomma, un giallo tipicamente giapponese che risente di tutte le influenze occidentali che Yokomizo conosce, e che ha inerito nella trama senza che la nipponicità perdesse il suo vigore. Un buon libro, e dovremo capire meglio l’autore ed altre sue prove.

Yokomizo Seishi “La locanda del Gatto Nero” Sellerio euro 13 (in realtà, scontato a 10,40 euro)

[A: 26/08/2020 – I: 23/08/2023 – T: 24/08/2023] - &&& +      

[tit. or.: 黒猫亭事件 – Kuronekoteijiken; ling. or.: giapponese; pagine: 160; anno 1947]

Intanto, non è facile muoversi nella assai vasta produzione di Yokomizo, ed in particolare quella relativa al detective Kousuke Kindaichi (in kana 金田一耕助). Secondo una mia personale ricerca in siti giapponesi (le opere di Yokomizo sono tradotte pochissimo in lingue occidentali) pare che Ko (così viene chiamato dagli amici) sia presente in 77 opere, tra racconti e romanzi. Di questi, sono giunti in Italia credo quattro o cinque titoli.

Secondo punto, questo ed il precedente, nel 1973 nel corso della ripubblicazione in Giappone delle opere di Yokomizo, vengono pubblicati in un unico volume con il titolo solo del più lungo “Omicidio nell’Honjin”. In realtà “L’incidente della locanda del Gatto Nero” (questa la traduzione fedele del titolo) viene pubblicato nel numero 3 della rivista “Shosetsu” nel dicembre 1947.

Questo secondo romanzo, inoltre, è usato dall’autore per esemplificare i diversi modi di avere dei “mystery” molto intricati. Il primo, ricordo, era il cosiddetto “Enigma della camera chiusa (Locked Room Mystery)”. Ora si passa al “Cadavere senza volto (Faceless Corpse Mystery)”. Il primo è ben noto. Questo passa per la distruzione della faccia del cadavere in modo da impedirne l’identificazione, creando, nel corso della trama, una possibile sostituzione tra assassino, morto ed altre complicazioni. È una tipologia che viene da lontano, tanto che Erodoto nella sua “Storia” ne narra a proposito della scoperta del corpo del faraone Ramses III. Tuttavia, è un tipo di giallo che, andando avanti con le tecniche investigative come le impronte digitali o la profilazione del DNA, al momento attuale ha poco spazio di manovra. Viene ancora utilizzato solo in situazioni in isolamento, tipo un delitto su di un’isola senza contatti con l’esterno.

Le tecniche narrative di Yokomizo risentono molto del tempo della scrittura, così che vediamo iniziare e finire il testo con due lettere del detective allo scrittore, la prima per impostare il dramma, la seconda per commentarne la riuscita. Inoltre, come nel precedente, il testo si divide in due parti. Nella prima c’è la descrizione del crimine e le indagini infruttuose della polizia. Nella seconda interviene Ko e risolve il dilemma.

Tutto nasce dalla scoperta di un cadavere femminile senza volto nel retro della locanda del Gatto Nero, a ridosso del monastero e del cimitero buddista “Rengein”. C’era il monaco Niccho che stava scavando, non si capisce se per seppellire o diseppellire il cadavere, lo stesso monaco che imbastisce una storia strampalata per giustificarsi.

Il responsabile delle indagini cerca, collegando varie informazioni, di descrivere una trama possibile. Siamo al 20 marzo, la donna è stata uccisa il 28 febbraio. Siamo nella Locanda del Gatto Nero, che il 14 marzo il proprietario Itojima ha venduto. Itojima era un emigrato in Cina rimpatriato con la fine della guerra e la sconfitta giapponese. È sposato con Oshige, bellissima donna, che però era tornata prima di lui, ed aveva incontrato e si era innamorata di Kazama, un costruttore edile forse legato alla yakuza.

Itojima sulla nave dalla Cina aveva incontrato Ono, con cui aveva legato, per poi lasciarla e tornare con Oshige. Ha poi incontrato la ballerina Ayuko, e mentre Oshige flirta con Kazama, lui lo fa con Ayuko, sostenendo però di essere sempre innamorato di Oshige.

Tutti gli indizi fanno convergere la possibilità che la morta sia Ayuko o Oshige, con Itojima che fugge con la donna che non è morta.

A questo punto, essendo coinvolto Kazama, questi chiama il suo amico Kindaichi, e da qui comincia la controdeduzione del nostro Ko, che arriva alla ricostruzione di tutti i fatti, in modo che quanto prima sembra impossibile o improbabile, alla fine ha una sua soluzione. E come nei migliori gialli, alla fine di tutto, intorno ad una tazza di tè si riuniscono Kazama ed i poliziotti e Ko spiega loro tutta la sequenza dei fatti. Un modo di concludere i gialli che trovo decisamente ben fatto.

Il nostro Ko è un personaggio ben vivo nell’immaginario giapponese, tanto da essere spesso avvicinato a Maigret. E Yokomizo, nel corso dei vari romanzi, ne costruisce ed elenca la storia ed i passaggi vitali, tanto che, se e quando (ma forse molto al di là del tempo) se ne saprà di più non mi dispiacerebbe imbastire una sua storia personale.

Comunque, la scrittura di Yokomizo è ben aderente al dettato che si prefigge, ed è anche congrua alla vita ed ai modi di essere giapponesi. Ci fa ogni volta entrare in un piccolo spicchio di vita, senza mai scadere in una occidentalizzazione degli avvenimenti. È vero, ha letto molto ed imparato dal giallo occidentale, ma poi lo riproduce in termini assolutamente asiatici. Come, ad esempio, la figura della donna ammaliatrice che riesce a manovrare gli uomini, una specie a metà tra la geisha ed una dark lady. Una figura ricorrente nella letteratura giapponese e spesso usata anche nei manga. L’abilità di Yokomizo è di non farci capire, sine alla fine, se la donna, le donne, del romanzo sono vittime o carnefici.

Purtroppo, ha un po’ di anni sulle spalle, e ne risente un po’. Ma è una lettura che mi ha sicuramente stimolato ad interessarmi più a fondo del mondo dei gialli del Sol Levante.

Yū Miri “Il paese dei suicidi” Corriere Giappone 14 euro 8,90

[A: 18/08/2021 – I: 12/03/2024 – T: 14/03/2024] - &&       

[tit. or.: 自殺の国 Jisatsu no kuni; ling. or.: giapponese; pagine: 165; anno 2012]

Lessi un libro di Yū Miri (“Oro rapace”) quasi vent’anni fa, e non mi fece una grande impressione, anche perché poco sapevo dell’autrice, ed erano tempi in cui non approfondivo elementi al di fuori del testo. Cosa che invece, ho imparato a fare nel corso degli anni, e che, di sicuro, danno, se ben organizzati, elementi maggiori di conoscenza olistica del testo.

Così, ora, vengo a sapere che Yū è di famiglia coreana, pur se nata, cresciuta e vissuta in Giappone, nell’area di Kanagawa (quella per capirci della grande statua del Buddha). Ha vissuto sulla sua pelle il razzismo giapponese verso i coreani (pur essendo di nazionalità giapponese), un astio che non si è mai sopito nei secoli. Ed ha vissuto non molto bene l’infanzia, costellata da ripetuti, ma fortunatamente infruttuosi, tentativi di suicidio (certo, un aggettivo poco intelligente, che se fossero stati fruttuosi non sarebbe qui, a quasi sessant’anni a continuare a scrivere). Inizialmente dedita al teatro, come attrice e sceneggiatrice, una trentina di anni fa comincia a scrivere, producendo poco, ma, almeno in Giappone, con riscontri positivi.

Questo, in realtà uscito più di dieci anni fa, è un testo emblematico, della scrittrice, ma anche del Giappone attuale, forse oggi ancor peggio di poco fa. Un libro che è una feroce critica a molti aspetti della vita giapponese: la competitività esasperata, il collettivismo forzato, la latente, ma ben presente, incomunicabilità, la solitudine globale che tutto ciò implica ed a cui tutto ciò porta.

Per raccontarci tutto ciò, Yū ci fa seguire le vicende di Mone, una “tipica” quindicenne di Tokyo. Ha una famiglia che si sta disgregando, ma lei ne viene a conoscenza solo a metà romanzo. Il padre ha un’amante da dieci anni, e la madre, rivolgendo tutte le sue attenzioni su Satoshi, il fratellino di Mone, sta decidendo di andarsene. Con Satoshi, verso luoghi in cui la bravura del giovane si può manifestare, lasciando al padre la sorella più grande, che non ha mai avuto uno scatto nelle graduatorie scolastiche, che forse non riuscirà ad andare all’Università. Insomma, per la madre Mone è fallimentare, e cosa fa? Invece di aiutarla, medita la fuga.

Mone è anche una tipica liceale giapponese, laddove, come inizi una scuola, “devi” aggregarti ad un gruppo, pena un isolamento che, per i locali, è peggio di una condanna. Si unisce allora ad un gruppo di “false” amiche, le “Sky Soda”, i cui unici interessi sono domande fondamentali della vita: qual è il cibo più di moda? Qual è il colore che fa tendenza? Tutto nel compiacimento forzato verso la leader del gruppo (ogni gruppo deve avere un leader), il cui unico interesse è porre asticelle sempre più alte alla follia competitiva anche verso gli altri gruppi (come decidere di andare tutti in bikini al mare, ed è la leader che decide forme e colori).

Mone si domanda se tutto ciò abbia un senso, se tutto ciò non farà che portarla ad una vita in cui dovrà essere moglie, dovrà essere madre, dovrà gestire una casa, dovrà, dovrà, dovrà…

Unico suo rifugio (e come non potrebbe esserlo) il suo cellulare ed il mondo dei social. Dove naviga per esistere (unico momento in cui si sente legata a qualcosa), e dove nel dark web si imbatte nel sito “Ricette per principianti”. No, non è un sito culinario, ma un forum di aspiranti sucidi, che lì cercano compagnia per suicidarsi insieme, non avendo la forza di farlo da soli. Lì conosce tre individui solitari, e con loro organizza un’idea di suicidio con stordimento tramite pasticche ed esalazioni di monossido di carbonio all’interno di un auto sigillata.

Per ora, basta con le anticipazioni, e veniamo alla scrittura ed agli accenni tematici iniziali.

Yū utilizza un modo tutto suo di portare avanti la trama, intarsiandola con tentativi espressivi multipli. Molte righe del forum dei suicidi, annunci dei treni, conversazioni rubate sui mezzi di trasporto. E poi, tantissima Mone. Con i suoi dubbi, la voglia di morire e la possibilità di vivere, la paura di essere esclusa dalle “Sky Soda” e la consapevolezza che, in realtà, ne è stata sempre fuori. L’intima inadeguatezza. L’aggrapparsi all’esteriorità: orsetti di Winnie the Pooh, i Pocky, bastoncini di biscotti, il karaoke sulle note delle girl band di successo, una tuta da acquistare online in un sito giapponese di successo (Peach John), un pupazzo Disney.

Così l’autrice, anche se non riesce pienamente nell’intento, ci fa calare in un Giappone che non è zen, che non è il non-Giappone di Haruki, ma è quello che abbiamo visto girandolo, per le strade di Takeshi Dori, per le salite di Kyoto, nelle metropolitane, nelle strade di Shibuya, nei bar del dopo-ufficio. Ci viene così restituita un’immagine altrettanto vera e vivida di questa società che, in realtà, non comprendo. Un mondo in cui ogni passo è un esame, in cui ogni rapporto è formale, non si entra mai nell’intimo, per non ferire e non ferirsi.

Un libro che non mi ha convinto sino in fondo, ma che, se volete avere un assaggio globale al mondo dell’Estremo Oriente, ed alla sua totale incomunicabilità tra generazioni, ed all’interno delle generazioni stesse, può costituire una buona lettura.

Takagi Akimitsu “Il mistero della donna tatuata” Corriere Giappone 10 euro 8,90

[A: 16/12/2022 – I: 07/06/2024 – T: 09/06/2024] - &&&&       

[tit. or.: 刺青殺人事件 Shisei satsujin jiken; ling. or.: giapponese; pagine: 256; anno 1948]

Ecco un mirabile esempio di una giallo ben confezionato, sia nella trama in sé che nella descrizione ambientale degli avvenimenti. Takagi Akimitsu è stato uno dei maestri del giallo giapponese che qui, nella sua opera prima esprime al meglio le sue capacità.

Takagi nasce nel ’20 e dopo una giovinezza trascorsa in vario modo, tra poco studio, lavori non soddisfacenti, nonché il dramma della guerra che per i giapponesi è stato uno spartiacque significativo, alla fine della guerra decide di seguire i consigli di un indovino che gli suggerisce di dedicarsi alla scrittura. Comincia così a scrivere, e la sua prima produzione viene presa sotto le ali protettive del padre nobile del giallo nipponico, Edogawa Ranpo (di cui ho scritto già e ben lodato). Esce così questo testo nel ’48, ed ha subito successo. Nel corso degli anni pubblicherà un centinaio di testi, la quasi totalità fino al 1979, anno in cui cominciò ad avere una serie di infarti, che lo debilitarono, portando alla morte nel 1995.

Intanto, con l’aiuto di traduttori e rimandi tra le varie traduzione di questo testo, pur avendo un senso il titolo italiano, l’originale tributa un omaggio al grande S. S. Van Dine che intitolò tutti i suoi testi inserendo nel titolo la parola “Il caso …”. Questo in effetti si intitola “Il caso degli omicidi con tatuaggi” (purtroppo non ho un fluente giapponese per tradurlo meglio).

Comunque, è proprio il tatuaggio uno degli elementi cardine della narrazione. Il tatuaggio è sempre stato, nella tradizione giapponese, un elemento fortemente caratterizzante. In particolare perché legato sia alla pittura sia alle leggende locali. Inoltre, qui si parla di “irezumi” che è una forma di tatuaggio giapponese caratterizzato da disegni ampi e colorati, che spesso ricoprono tutto il corpo. Nel 1872, negli anni di passaggio tra il periodo Edo (quello caratterizzato dalla chiusura del Giappone verso il resto del mondo) ed il periodo Meiji (quello dell’apertura), il tatuaggio viene bandito, nell’intento di avvicinare i locali alla cultura occidentale.

Peccato che gli occidentali invece apprezzavano molto i tatuaggi, così che nasce un mercato illegale di tatuatori clandestini. Questa chiusura viene rimossa solo nel ’48, ma esiste ancora al tempo dello svolgimento del racconto che prende le mosse il 26 agosto 1946.

Al centro del racconto ci sono i tra fratelli Namura, il cui padre, il valente tatuatore Hori’yasu, aveva istoriato con “irezumi” derivati da “Jiraiya goketsu monogatari ("Il racconto di Jiraiya il galante") una saga mitologica giapponese della metà dell’Ottocento in cui si affrontano Jiraiya, un ninja dei boschi devoto alle rane, sua moglie Tsunade, esperta nelle arti magiche delle lumache, e Orochimaru, lo stregone capace di trasformarsi in un serpente a otto teste. Non vi parlo di questo testo, anche se sarebbe interessante, basta solo accennare che i tre battagliano in modo cruento e definitivo.

La vicenda che ci narra Takagi segue le mosse di Kinue (quella con l’irezumi di Orochi), mentre la gemella Tamae si narra sia perita ad Hiroshima ed il fratello Tsunetaro sia disperso in guerra. Kinue è l’amante di Takezo, un ricco imprenditore, ma è anche una donna volubile, forse per il suo passato non tanto limpido. Oltre a Takezo, si mormora abbia una relazione con Hisashi, il fratello minore di Takezo e che faccia di tutto per far perdere la testa a Inazawa il direttore degli stabilimenti di Takezo. A completare il quadro c’è lo zio di Takezo, il dottor Hayakawa, direttore di un museo dove conserva la pelle di tatuati morti, tutti con tatuaggi di notevole bellezza.

Il protagonista del romanzo, almeno in gran parte, è il giovane Kenzo, fratello minore di Matsushita, un poliziotto della Omicidi. Kenzo, in base ad alcune peripezie che non vi narro, insieme a Hayakawa, scopre nella casa di Kinue, in una bagno chiuso dall’interno, un cadavere senza torso, ma dalla faccia riconoscibile. Poco dopo viene trovato morto anche Takezo, apparentemente suicida.

Kenzo e la polizia non riescono a cavare un ragno dal buco, né tanto meno a scoprire come l’assassino sia uscito dal bagno. Dopo alcuni mesi, casualmente, Kenzo incontra un tatuatore che si rivela essere lo scomparso Tsunetaro. In base al racconto di Kenzo, questi dice di aver capito che è l’assassino, ma viene a sua volta ucciso. Ed anche scuoiato dell’irezumi di Jiraiya.

Pur se sembra il protagonista, Kenzo non è altro che un Watson nipponico, laddove Takagi ci mette un colpo di genio, che da pagina 170 entra in scena Kyosuke Kamizu, il vero Sherlock Holmes, nonché amico d’infanzia di Kenzo, ma soprattutto un giovane brillante e dal ragionamento sopraffino. Alla luce del racconto di Kenzo, Kamizu non solo capisce chi sia il colpevole, ma svela a Kenzo ed alla polizia i vari misteri: il bagno chiuso, gli orari dei delitti, i motivi delle mutilazioni, riuscendo alla fine ad incastrare il colpevole.

Che ovviamente non poteva che essere uno dei tre che girano intorno a Kinue: Hisashi, Hayakawa e Inazawa. Che Matsushita aveva tutti esclusi, in quanto avevano alibi più o meno solidi per i tempi dei delitti. Anche se avevano tutti motivi validi: amore e potere per Hisashi, i tatuaggi per Hayakawa, amore e risentimento per Inazawa.

Dal punto di vista del giallo, Takagi ci fa dono di alcuni invenzioni narrative interessanti. Innanzi tutto, perfeziona il classico “delitto in una stanza chiusa”, sia rispetto ai modelli classici inglesi, sia alla vicenda narrata da Yokomizo Seishi ne “Il detective Kindaichi”. Anzi, proprio per aver riscontrato delle incongruenze in quest’ultimo, riesce a costruire un meccanismo del delitto veramente originale.

Altro elemento classico che Takagi maneggia scoprendo e nascondendo le carte è quello sia delle persone che sono (dovrebbero essere) scomparse, lasciandoci sempre il dubbio se lo siano e se realmente fanno parte della vicenda.

Infine, quello che più mi ha intrigato è l’apparire del detective Kamizu (che sarà protagonista di almeno altri quaranta racconti) solo a trama già ben avviata e complicata. Certo, già Seishi non fa comparire il suo detective dall’inizio, ma qui arriva non solo come un fulmine inaspettato, ma, con i suoi ragionamenti logici e deduttivi, ci porta per mano alla soluzione del mistero. Inoltre, rispetto ad altri detective giapponesi, è discretamente simpatico, anche se conscio, alla Holmes, delle sue capacità.

L’altro punto che rende il testo di ottimo livello è la descrizione dell’ambiente postbellico che fa da teatro alla vicenda. Non solo dal punto di vista decorativo (le case, i paesaggi interni di Tokyo, i modi di vestire e di muoversi dei personaggi), ma soprattutto perché ci fa rivivere una serie di problemi, economici, sociali, culturali, ben presenti e forti all’epoca della scrittura. In primo piano, il contrasto tra tradizione e innovazione, fra le regole che vengono dal passato e la libertà cui i giovani aspirano. Senza dimenticare il profilo etico dei giapponesi, unito al degrado che si percepisce nelle nuove strutture sociali che si affacciano sulla scena, colmi di avidità e utilizzanti il denaro come potere sociale.

Né poteva dimenticare, Takagi, che la guerra è da poco finita (e finita con una sconfitta). Sebbene non ne insista a lungo, i piccoli accenni al dramma di Hiroshima fanno capire quanto, già dopo poco, la bomba americana aveva inciso nelle coscienze giapponesi.

Insomma, un bel libro datato, dove, se volete farvi una piccola cultura sull’irezumi, vi consiglio di leggere a fondo il primo capitolo.

Dimenticavo, per i patiti dei manga giapponesi i ninja tatuati nella storia descritta, Orochimaru, Jiraiya e Tsunade, fanno parte degli antagonisti di Naruto, un manga in 700 capitoli del grande disegnatore giapponese Masashi Kishimoto.

Matsumoto Seicho “La ragazza del Kyushu” Corriere Giappone XX euro 8,90

[A: 03/01/2023 – I: 27/06/2024 – T: 28/06/2024] - &&&& e ½       

[tit. or.: 霧の旗 – Kiri no hata; ling. or.: giapponese; pagine: 208; anno 1961]

Avevo letto, nelle varie pubblicazioni da me compulsate durante le mie ricerche bibliografiche, e soprattutto per quanto riguarda quelle relative ai diversi aspetti della letteratura giapponese, che Matsumoto Seicho veniva considerato uno dei maestri del genere. Una definizione che, stando a questa lettura, è leggermente sottovalutata. Uno scritto tra i più belli letti negli ultimi tempi, per ambientazione, costruzione, intreccio dei personaggi, trama e finale. Forse il mio giudizio è anche un po’ falsato che, per alcuni aspetti, gli scrittori giapponesi hanno una delicatezza nel porgere che a me piace molto.

La bravura di Seicho in questo romanzo è quello di incastrare storie fra di loro, quasi a “matrioska” (anche se poi due sono le principali), e di farci seguire le relative indagini tra punti di vista e prospettive diverse e non usuali. Non è semplice portare avanti un’indagine senza mai recarsi sul luogo degli avvenimenti, ma fornendoci tutti gli elementi per seguirla.

Il personaggio principale, che nella traduzione italiana diventa il simbolo di tutto il libro, è la ventenne Kiriko. Dattilografa nel Kyushu, vede il proprio fratello accusato dell’omicidio di una anziana usuraia, con lo scopo di sottrarre la ricevuta di un prestito che non riusciva a restituire. Tutti gli indizi gli sono contrario, e Kiriko decide di andare a Tokyo, per ingaggiare Otsuka, uno dei principali principi del foro nipponici. Ma Kiriko è povera, e Otsuka non solo vuole alte parcelle, ma è distolto dal problema perché preso da un avventura con la sua amante Keiko.

Kiriko torna nel Kyushu, il fratello viene ritenuto colpevole, condannato a morte, ma prima del processo d’appello, muore in carcere. Niente di sorprendente che Kiriko ritenga Otsuka responsabile della morte che, secondo lei, avrebbe trovato il modo di salvare il fratello. Anatema che non si perita di lanciare a Otsuka con una cartolina al veleno.

Tuttavia, la cartolina ha un suo effetto. Otsuka si mette a studiare le carte del processo (e qui c’è la bravura dello scrittore che ci ripropone tutta la vicenda dell’omicidio nel Kyushu solo attraverso estratti delle carte, dei verbali, degli interrogatori) trovando un idea che potrebbe indicare come il fratello di Kiriko potrebbe non essere il colpevole.

E qui parte una seconda parte forte della storia (c’erano alcune microstorie che vi lascio leggere). Kiriko, senza più soldi, si ritrova a fare la hostess in un bar a Ginza (un mestiere molto ben visto laggiù), convivendo con una ragazza che ha una storia con Kenji, il fratello della proprietaria. Fratello che però lavora in un lussuoso ristorante, di proprietà di Keiko (l’amante di Otsuka). Quando Kenji si allontana dall’amica, questa chiede a Kiriko di indagare. Cosa che lei fa seguendo Kenji in una casa isolata in periferia.

Lì sopraggiunge Keiko, e le due scoprono all’interno Kenji assassinato. Keiko era anche l’amante di Kenji, quindi fugge perdendo un guanto, chiedendo a Kiriko di testimoniare per lei. Ma Kiriko, che ha intravisto una possibilità, pone il guanto accanto a Kenji. Quando viene interrogata dalla polizia nega tutto. Così come continua a fare anche dietro le insistite richieste di Otsuka. Nel calderone delle diverse prospettive che intravediamo durante la storia si inserisce Abe, un giornalista che prende a cuore la vicenda di Kiriko (forse si innamora) ma che lei non degna di sguardi. Nonché Yamagami, un amico di Kenji, violento e dagli atteggiamenti loschi.

Mentre però, tutta la prima parte, con lo studio delle modalità del primo omicidio è ben costruito ed avvincente, proprio per quella capacità di svolgersi tutto sulla carta ed a livello mentale, la seconda parte è più debole. Anche se tutta giocata sui sentimenti. Di colpa di Otsuka, di rivincita di Kiriko, di paura e amore di Keiko. Ben costruita, se vogliamo, ma lì aspettiamo solo di vedere come andrà a finire. Otsuka riuscirà a convincere Kiriko a salvare Keiko? Otsuka dirà finalmente a Kiriko se ha trovato la chiave dell’omicidio? E l’avrà trovata veramente?

Tanti interrogativi, che Seicho porta magistralmente a compimento nel pur scarse duecento pagine del testo. Continuando a darci da un lato flash della Tokyo degli anni Cinquanta (bellissimi i flash su Marunochi, il quartiere degli affari, e su Ginza, il quartiere del lusso. Ma anche sui ristoranti di lusso, su di una gita a Hokone (che per chi non lo sapesse è ai piedi del monte Fuji), sui bar malfamati, sulle signorine che ci lavorano, sull’ambiente legale e su quello giornalistico. Senza mai perdere di vista quella denuncia sociale che, stando alle critiche lette di altri suoi libri, è spesso presente nella produzione del nostro bravo giapponese.

Inoltre, per capire meglio a chi non conosce il Giappone, Kyushu si trova sull’isola di Fukuoka, ed a più di 1000 km da Tokyo. Un viaggio costoso per chi ha pochi mezzi, ed un onere non banale per un avvocato che dovesse sobbarcarsi il patrocinio andando su e giù da Tokyo. Ma, e qui viene il senso civico di Seicho, la giustizia è solo questione di soldi? Chi è povero deve solo soccombere senza avere la possibilità di ottenere una giusta difesa?

Una parola sul titolo che, più o meno letterariamente, indica delle bandiere che sventolano nella nebbia. La bandiera è un simbolo potente giapponese, spesso ad indicare uno shogun, un elemento di carattere. Ma quando c’è la nebbia, anche se sventola, la bandiera si vede poco. Così come poco si vedono le capacità di Otsuka, un signore nel suo campo, che però si perde nella nebbia dell’indecisione. Per finire, inoltre, “Kiri” non indica una nebbia qualsiasi, ma quella autunnale, mentre con “Kasumi” si indica la nebbia primaverile.

Devo dire, infine, che, durante la lettura, mi tornavano in mente echi de “La sposa in nero” di Cornell Woolrich, anche se, in realtà, c’è una totale distanza tra i due. Ma forse era quell’idea di vendetta a fronte di un torto che mi stuzzicava. Tanto che forse si avvicina di più al film “Occhio per occhio” del ’57 interpretato da Curd Jurgens (qualcuno lo ricorda, oltre me?).

Alla fine, direi che questo è un ottimo prodotto a sé stante, legato allo spirito giapponese, con l’unico dispiacere che finisce e che di qualche protagonista non sapremo mai cosa farà poi. Ma questo è il bello dei libri che scaldano il cuore, almeno per me: rimanere lì a pensare come si evolverà la vita di chi ci ha accompagnato per un brevissimo tratto della nostra esistenza.

Come spesso nei contraltari letterari, da libri polizieschi giapponesi, vi passo a citare due piccole riflessioni, non noir, dello yemenita Ahmed Abodehman tratte da “La cintura”:

“Per Hizam un uomo senza barba era un bugiardo. … Agli occhi di Hizam gli uomini glabri non erano che donne mancate. … E la pancia di un uomo per lui doveva essere piatta come quella di un lupo. Hizam stava a piedi nudi in modo da non separarsi mai dalla terra” (42), riflessione sullo stare al mondo.

“Al villaggio nessuno si è mai sposato secondo i propri desideri, come oggi possono fare certi ricchi. Il matrimonio è un dovere, una necessità, è per la vita. Il divorzio infatti è poco frequente, e di solito sono le donne a chiederlo” (112) e qui una riflessione sul matrimonio, con idee molto diverse dalle nostre, ma che invece di rifiutare in blocco, si dovrebbe essere capaci di discutere.

Iniziata è la calda estate (ma non dell’ispettore Tibbs), con i miei piccoli momenti di quiete nei fine settimana lontani dalla città bollente, in attesa di staccare per qualche meritato riposo e riattaccare (e ne riparleremo) per qualche meritato viaggio. Allora, vi mando intanto un grande abbraccio.

domenica 23 giugno 2024

De Angelis e la storia - 23 giugno 2024

Una settimana dedicata ai capostipiti del giallo italiano, legati alle idee editoriali della casa editrice Mondadori degli anni Trenta. Presentando un capolavoro dell’epoca, un bel romanzo di Alessandro Varallo, e tre dignitosi romanzi del padre nobile del giallo italiano, Augusto De Angelis. Apre la file, invece, un libro più recente, anche se ambientato nella Roma di Claudio dei primi anni dopo Cristo. Che porgo in quanto omaggio alla scrittrice bolognese Danila Comastri Montanari, che da pochi mesi ci ha lasciato.

Danila Comastri Montanari “Ludus in fabula” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 11,40 euro)

[A: 18/05/2022 – I: 03/12/2023 – T: 04/12/2023] &&& --    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 264; anno: 2017]

PAS 19

Purtroppo, e senza possibilità di smentite, questo è l’ultimo romanzo della fortunata serie storica romana dedicata a Publio Aurelio Stazio e scritta da Danila Comastri Montanari. Danila, infatti, ci ha lasciati il 28 luglio di quest’anno, all’età di quasi settantacinque anni.

Non avremo quindi nuove avventure del senatore detective, che allora, per l’ultima volta ricordiamo nei suoi tratti principali. Publio Aurelio Stazio nasce a Roma il 4 novembre del 3 d.C. dove passa un’infanzia infelice. La madre, Axilla, lo abbandona poco dopo la nascita, andando a vivere ad Antiochia, e Publio rimane nella casa con l’odiato padre, da cui si affranca a sedici anni quando questo muore. Resta così padrone di un ingente patrimonio, amministrato per lui prima da Diomede, poi dal figlio di questi Paride.

Poco dopo stringe una solida amicizia con quello che diventerà l’imperatore Claudio, studiando con lui l’etrusco. A 22 anni sposa la nobile Flaminia, ma quando il loro figlio muore in fasce, la sua vita va a rotoli. Flaminia divorzia, e lui si arruola nella legione XIV Gemina, di stanza in Germania. Partecipa a dure battaglie, per poi tornare a Roma, dove riprende una vita agiata contornata dai libri e dalle sue molte avventure sentimentali. Non disdegnando la politica, quando Claudio lo nomina senatore.

Spirito inquieto, non disdegna di immergersi nei più torbidi problemi dell’Urbe, divenendo un punto di riferimento di indagini poliziesche, che affronta con il suo attento fiuto, aiutato il più delle volte dal suo servo più fidato, il libero Castore, da lui salvato nel 31 d.C. da morte certa.

A memoria ricordo che, in ognuno dei 19 episodi della sua saga, conquista almeno una donna per romanzo, dalle patrizie o nobili varie, come Lollia Antonina, Arduina, Vera Claudina, Gaia Amanda e Candida, a studiose di diversi rami, la chirurga greca Mnesarete, le studiosa di mitologia Varinia, le matematiche Erissa e Giunia Irenea, l’avvocatessa Statilia Vespilla. Non tirandosi indietro davanti a liberte e schiave varie. D’altronde è descritto come uomo piacente e di piacevole compagnia.

Compagnia che spesso divide al desco con la sua grande amica Pomponia, una matrona che conosce tutto quanto succede in Roma, tutti i legami palesi o nascosti che si celano nelle ombre della Città Eterna.

Quest’ultimo episodio si svolge nel 47 d.C., casualmente l’ottocentesimo anniversario della fondazione di Roma. E due sono i filoni principali della trama. Uno, che avrebbe di sicuro portato nuova linfa a possibili altri episodi, la comparsa di un “cittadino romano” di almeno venti anni più giovane di lui, ma stranamente a lui somigliante. Figlio nascosto? Possibile parente? Somiglianza casuale? Verrà rivelato alla fine, ma non da me.

L’altro, filo conduttore del romanzo, è un gioco di “caccia al tesoro” che coinvolge la nobiltà romana. Cominciato con indovinelli e facili indizi, ad un certo punto volge al tragico, quando cominciano a comparire morti di morte violente. Tra l’altro tutti giovani. L’intrigo è che anche i morti sembrano portare ad indizi per il “gioco di Roma”. I più coinvolti sembrano gli appartenenti alla gens Suri, di discreta agiatezza e con il pater familiae assai prossimo alla dipartita, l’impacciato giovanottone Surio Rufino con la sorellastra Surilla ed il fratellastro Decimo Surillo.

Surio, benché maldestro noi modi, è di buon ingegno. Surilla non disdegna avventure galanti, mentre Decimo, anche se solo tredicenne, è il favorito del vecchio Surio. Nonostante le morti collaterali, quando anche Decimo fa una brutta fine, i sospetti di Publio si concentrano sugli altri membri della gens, arrivando, in un astuto finale, alla soluzione del caso.

Tuttavia, come al solito, non è tanto l’indagine che interessava Danila, pur se nel tempo ne ha costruite molte e la maggior parte dignitose. È la descrizione del mondo romano, delle sue usanze, e dei modi di vivere della Capitale del Mondo. I nostri attori si aggirano sempre nei dintorni del Foro, ma non disdegnano di salire alla villa di Publio al Viminale o alla casa dei Suri sul Colle Oppio, nelle residenze dei giocatori ai piedi del Celio o nella “clinica” medica all’Esquilino. Pur restando le migliori pitture romane quando si descrivono i vari “piccoli mondi” accalcati nella Suburra. Le “lupe” (che sappiamo essere donne che si vendono per denaro) piuttosto che le bande degli stranieri che da varie parti dell’Impero vengono a fare i malandrini laddove gira il denaro. Celti, Galli, Iberici ed altri, accumunati (anche con Publio) nel gozzovigliare a “cervesia” (ovvio, la birra). Ed in questi mondi diversi, Danila inserisce mini-storie, che a volte hanno poca connessione con il filone principale, ma che, alla fine, forniscono un quadro realistico di quel mondo.

Non sono certo uno storico, ma, da amante delle ricostruzioni della vita quotidiana, ritengo i diciannove tomi delle avventure di Publio Aurelio Stazio un buon esercizio di lettura per entrare in quel mondo. Anche tenendo conto le descrizioni e le analisi dei comportamenti sociali, le leggi promulgate, il ruolo dei “cittadini”, ma anche i bagni, le case patrizie, i modi di vestire.

Insomma, Danila aveva sempre un buon modo di scrivere e farsi seguire nelle vicende e nel tempo. Peccato che un altro pezzo del nostro mondo sia andato via.

Alessandro Varaldo “Il sette bello” Mondadori euro 5,90

[A: 06/06/2022 – I: 22/02/2024 – T: 24/02/2024] &&&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 220; anno: 1931]

Nel 1929, Arnoldo Mondadori decide di lanciar una collana, all’inizio non periodica, dedicata alla pubblicazione di libri polizieschi. Per distinguersi nella massa delle pubblicazioni esistenti, decise di pubblicarli con una copertina di colore giallo. Nascono così i “Libri Gialli”, con un aggettivo che diventerà con il tempo un marchio per tutto il genere. Per i primi due anni, avendo alle spalle una notevole massa di letteratura inglese, furono pubblicati una ventina di libri.

Nel 1931, Alessandro Varaldo, scrittore e giornalista molto vivace all’epoca, convince l’editore di pubblicare un titolo italiano. Esce così questo libro che, oltre ad altri spunti interessanti, è il primo giallo italiano pubblicato nella collana. Due anni fa, in occasioni dei 90 anni dalla scrittura, Mondadori decide di rendere omaggio a Varaldo, ripubblicando l’opera. Speriamo che, con i suoi tempi, l’editore decida di procedere negli omaggi, a Varaldo ed altri autori.

Intanto, Varaldo (classe 1873) aveva cominciato a pubblicare libri verso i suoi venticinque anni, affiancando nel tempo la sua passione con l’attività giornalistica. Essendo inoltre attivo nel mondo culturale italiano, fu vicino a lungo anche ai futuristi. Tanto che nel ’29 pubblico un libro a venti mani con Filippo Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli, Antonio Beltramelli, Lucio D'Ambra, Alessandro De Stefani, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Cesare Giulio Viola e Luciano Zuccoli, dal titolo “Lo Zar non è morto”, di cui spero di parlare in altra sede. Ma si capisce che i suddetti scrittori, compreso Varaldo, nelle parole di Marinetti sono “romanzieri italiani e fascisti”. E Varaldo, pur mantenendosi sul filo, è sempre stato ben visto dal Regime perché non esce mai dalle righe, magari rinvigorendo quell’anima popolare che era stata la spinta iniziale delle lotte socialiste di Mussolini prima della guerra.

Venendo al romanzo, che devo dire, pur con i limiti dell’età, mantiene una sua vivacità ed una sua struttura di possibilità che ne rendono gradevole la lettura, ed interessante il tentativo del lettore di anticipare la soluzione del caso. Dove però, mancando alcuni elementi al quadro complessivo, si dovrà aspettare la ricapitolazione finale alla S.S. Van Dine per mettere tutti i pezzi del puzzle al loro posto.

Per cominciare, comunque, è interessante la struttura stessa del libro, dove ci sono cinque attori principali, i quali narrano la storia in prima persona. Non “alla Kurosawa”, dando cioè versioni diverse dello stesso fatto, ma sequenzialmente, ognuno riprendendo il filo della narrazione precedente, e proseguendo nella descrizione degli avvenimenti in tutto il loro svolgimento, che temporalmente va dall’8 marzo 1930 fino all’estate.

Secondariamente, fa la sua comparsa il commissario Ascanio Bonichi, astuto, ragionatore, deduttivo il giusto, ma che sa, e noi con lui, che spesso il caso mette lo zampino negli affari degli uomini, per cui bisogna afferrarne a volo i suggerimenti. Bonichi diventerà, con Varaldo, il primo commissario seriale dei Gialli Mondadori, laddove ne escono ben 4 episodi nei primi 2 anni.

Qui, tuttavia, Bonichi è uno del coro, dove gli altri quattro attori sono lo studente seriale professor Giovanni Révere (in procinto di prendere prima dei trent’anni la sua terza laurea), il maggiore dei bersaglieri Biondo Biondi, il pittore Gerolamo Serra, e la studentessa di medicina Maddalena “Maud” Terzi. Sono questi quattro i conviviali che, discettando di avventura e casualità, decidono di rispondere ad un’inserzione matrimoniale. Seguendo le indicazioni ricevute, i tre maschietti si presentano in una casa del Trionfale (e sui luoghi di Roma torneremo più avanti), dove devono suonare alle 12 per incontrare la nubenda.

Alle 12, suona il campanello e si sente uno sparo. Entrano e trovano una giovane donna ferita non mortalmente ma in stato di shock profondo, ed una vecchia morta, forse d’infarto, forse di abusi alcoolici. Qui si entra nel mistero, che si scopre che la giovane non è altro che Marcella, sorella di Maud. Il mistero si infittisce scoprendo che le inserzioni erano state pubblicate a nome del conte Lampugnani, tipico bellimbusto squattrinato che risulterebbe appena tornato da un lungo viaggio per nave verso l’Australia. E scritte da Gina, la cameriera di una fantomatica principessa di Capodimonte, sodale del conte e ben introdotta nell’aristocrazia romana.

Il luogo dello sparo, inoltre, è la casa accanto a quella dove vive Arturo il Bello, fidanzato della Gina di cui sopra, nonché losco figuro che si accompagna spesso con il malvivente Michelino detto Nino il Boja (e non vi devo spiegare il perché). I due sembrano inoltre, scorti da Giovanni, aggirarsi intorno al Pantheon alla ricerca di un vecchio smemorato che, incontrato da Giovanni, gli mormora “povera Marcella!”. Come si può collegare tutto ciò?

Il mistero si infittisce quando, durante una passeggiata serale di Maud e Giovanni, questi riceve una coltellata non mortale, ma molto seria. Quando, giorni dopo, rincasando, Maud stessa viene rapita. Quando, tornando in Questura, Bonichi viene fatto oggetto di una revolverata.

È ovvio che qualcosa, nel circolo dei nobili, è poco chiaro, per cui non ci aspettiamo nulla di sorprendente se, il maggiore Biondi con la sua truppa è convocato ad una esercitazione nelle campagne di Ronciglione, laddove c’è la villa Capodimonte della principessa. E dove, qui invero in modo sorprendente, convergono anche Bonichi e Serra. Non Maud, ancora rapita, né Giovanni o Marcella, convalescenti. Ma lì tra il lago di Vico ed il sovrastante Monte Venere, i nodi vengono al pettine, e si scioglieranno tutti i misteri che il caso ha messo sulla strada di noi lettori. Con un lieto fine di donne e cavalieri, che di sicuro era gradito agli allora lettori.

Il filo del caso e del gioco sta proprio nel titolo: che per vincere a scopone, c’è bisogno del sette bello (o sette di denari). La squadra che ce l’ha tende a conservarlo. L’altra squadra cerca di rubarlo. Dovrete solo cercare di scoprire chi sia il sette bello della partita. E non vi parlo degli interventi del caso, caro al commissario Bonichi, che darebbe troppa luce alle vicende che vi invito al contrario di leggere.

Parlo invece di un elemento che molto mi ha intrigato: l’ambientazione. Certo siamo a Roma, ma, guarda caso, una grossa parte della vicenda si svolge in Prati. I nostri si aggirano tra via Cola di Rienzo e via Ottaviano, mangiano alla trattoria “Grappolo d’Oro”, che somiglia all’attuale “Ragno d’Oro” di via Silla, si recano nella casa di via Virginia, molto simile a via Virginio Orsini. Nonché, per andare al Pantheon, percorrono via della Palombella sede del mio amico orafo Corrado. E guarda caso, una seconda e non meno importante sede di avvenimenti, è via Nomentana. In particolare, aggirandosi i nostri nei dintorni di Sant’Agnese fuori le Mura, scendendo per il vicolo di Santa Costanza, nonché tra le ville che contornano villa Blanc. Un’immersione nei miei luoghi che mi ha cullato per tutto il libro.

Un solo punto dolente, per me la copertina del libro è sbagliata, in quanto propone un sette di quadri delle carte francesi, laddove avrei visto meglio un sette di denari delle carte nostrane, napoletane o piacentine. Si poteva fare di meglio.

Augusto De Angelis “La barchetta di cristallo” Mondadori euro 6,50

[A: 13/07/2022 – I: 02/04/2024 – T: 03/04/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 1936]

 

Continuiamo a leggere, quando capita, ma in maniera ordinata, le opere del padre della letteratura gialla italiana, Augusto De Angelis. Qui siamo al quarto romanzo imperniato sul commissario De Vincenzi, in un anno di scrittura, il 1936, che fu fecondo per lo scrittore. Che diede la sua produzione più cospicua proprio tra il ’35 ed il ’40. Rallentata poi a causa della guerra, poi anche perché, dopo il 25 luglio ’43 scrisse alcuni articoli non graditi ai fascisti del Nord Italia, essendo lui residente a Como. Tanto che fu incarcerato per quasi un anno, e quando ne uscì, fu vittima in quel di Bellagio dove si era trasferito di un pestaggio fascista che ne causò la morte.

Non era un antifascista militante, ma sempre, nelle sue opere, c’è un pizzico di critica alle storture dell’aristocrazia. Un modo di scrivere che il regime teneva sotto controlli, imponendo spesso aggiustamenti e modifiche. Tanto che non solo spesso il più cattivo viene fatto impersonare da uno straniero, ma in alcuni casi sembra quasi che si chieda a De Angelis di spostare la vicenda lontano da Milano.

Qui, fortunatamente, siamo invece sempre a Milano, e molta dell’azione si svolge nel quartiere Brera, quasi fosse un cantore della zona Nord della città. Appunto tra Brera, Porta Venezia, il Duomo, il Castello Sforzesco ed il Teatro dell’Opera, dove si faccia la questura di San Fedele, luogo di base del nostro commissario. Un commissario in un certo senso atipico, per l’epoca, che ha di certo assorbito sia le lezioni deduttive di Philo Vance sia l’umanità empatica delle prime avventure di Maigret.

Infatti, se da una parte, De Vincenzi cerca di assorbire tutto i particolari della scena del delitto (un po’ come settanta anni dopo e tanti chilometri più a Sud farà il commissario Ricciardi), dall’altra prova ad entrare nel mondo della vittima, indagandone la mente ed i suoi percorsi, ed allargando questa disamina a tutte le persone che ne sono al contorno, compresi i possibili assassini. È la conoscenza stessa del mondo reale che lo porta a formulare le ipotesi che lo portano alla soluzione dei dilemmi che gli si presentano.

Come in questo caso dove fin dall’inizio troviamo un morto reale, l’ex-capitano di marina Marco Parodi, pugnalato, ed il marchese Goffredo Vitelleschi del Verbano, morto per un embolia, forse causata o forse no. Lo strano è che siano morti la stessa notte. Ancor più strano che i due, pur essendo di diverse estrazioni e vite, si conoscevano. E da tempo, dato che molto della storia e dell’intrigo viene dal passato. Quando il marchese era una specie di ambasciatore ed il Parodi un trafficone d’alto bordo, in quel di Shangai. Parodi aveva messo su una rete di fumerie d’oppio, ma non disdegnava di trafficare in gemme preziose, elemento da sempre nelle mire del ricco marchese.

Le fumerie di Parodi erano gestite da una coppia di prestanome, che, fuggiti in Italia, si ritrovano l’ex-capitano tra i piedi. Che non solo li obbliga, con ricatto, ad inventarsi nuove fumerie, ma li sfrutta per la sua seconda attività, quella di usuraio. La coppia mette in piedi allora un circolo ben frequentato, dove si gioca a poker e a bridge. E dove, alla chiusura, i clienti fidati vengono portati, attraverso un tortuoso passaggio, in una casa attigua per dedicarsi ai loro piaceri. Casa che si trova guarda caso, all’ultimo piano della residenza del marchese.

De Angelis a questo punto introduce tutta una serie di personaggi che servono ad arrotondare la trama, infittendola di possibili spunti “omicidiali”. C’è Claudia Sutton che gioca forte, perdendo spesso, e mettendosi nei guai con usurai vecchi e nuovi. C’è sua figlia Margaret che da un lato è succube della madre, dall’altro, innamorato di Gastone, cerca di rifarsi una facciata (o di non farsela sporcare). Gastone, poi, è il nipote del marchese, in sotterranea lotta in attesa dell’eredità, con la giovane sposa del marchese stesso, Delia. C’è Harry Gordon anche lui usuraio e gaudente. C’è Vannetta che gestisce la seconda casa dell’oppio.

Insomma, tutti possibili assassini dei due morti. La cui dipartita è legata alla barchetta del titolo, che di certo è di per sé brutta e senza valore, se non fosse che a poppa aveva incastonato uno smeraldo di notevoli proporzioni.

De Vincenzi si aggira, annusa, interroga, pensa, ed alla fine collega e svela in un epilogo finale colloquiale tra lui ed il Questore. Sottolineo il colloquio, che, riprendendo dai suoi ispiratori, molta parte dell’indagine e degli indizi che andiamo accumulando ed analizzando derivano dai colloqui dei vari personaggi. Con un tocco in più, invenzione del nostro scrittore. Che mentre parlano e si confrontano, spesso De Angelis riporta anche i pensieri di chi sta parlando, creando quasi un doppio filone di lettura: leggiamo i discorsi, e nel sottofondo, seguiamo i pensieri. Un’idea interessante e ben portata avanti dallo scrittore.

Unica pecca, nel finale viene detto che il dramma trova il suo epilogo mercoledì 11 febbraio 1926. Peccato sia una data inesistente. Forse un indizio trasversale di De Angelis, per non scrivere che l’anno era il 1925, e per non sottolineare che, il giorno successivo, giovedì 12 febbraio ’25 veniva eletto segretario del Partito Fascista uno degli esponenti dell’ala dura del partito stesso, Roberto Farinacci. Non so se sia così, ma mi piace pensarlo.

Tuttavia, benché sorretta dalla bella scrittura appena descritta, la trama e l’intreccio sono un po’ troppo volutamente complicati, così che se ne perde la freschezza (nonché alcuni comportamenti che rimangono lì sospesi, quasi a voler lasciare tracce che poi non si rivelano utili all’economia globale del testo).

Augusto De Angelis “Il canotto insanguinato” Mondadori euro 6,50

[A: 13/07/2023 – I: 20/04/2024 – T: 22/04/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 237; anno: 1936]

Continuiamo le letture filologiche del padre nobile della lettura gialla italiana. Con un romanzo dal duplice interesse. Primo, se spostiamo l’azione dal Mediterraneo tra Sanremo e Nizza al Nord Europa, tra Amsterdam e Le Havre, potrebbe essere uno scritto di Simenon, tante sono le similitudini. E secondo, essendo che la censura fascista nel ’36 cominciava ad interessarsi da vicino alle scritture, si impongono all’autore delle trame in cui gli italiani debbano entrare poco, e magari solo dalla parte dei buoni.

Una lezione che De Angelis accetta, anche se, nelle more della trama, riesce comunque a far capire che anche tra l’italica progenie non tutti sono delle margheritine, anzi sono presenti fior fiore di piante carnivore. Ma, accettando, comunque, riempie la trama di personaggi stranieri: francesi, tedeschi, olandesi, greci, turchi e persino russi.

La trama è ben complicata, iniziando dalla scomparsa di una donna, una francese, che si accompagnava ad Ivan, un russo non fuoriuscito, ma proprio con passaporto sovietico (l’azione si svolge nel 1930). Ivan che viene sospettato della morte di Pauline, avendo come unica traccia un canotto sporco di sangue. Trama che si complica scoprendo la morte di un altro francese, sodale della coppia che con loro frequentava i casinò della costa, da San Remo a Nizza. Inciso, non è un errore, negli anni Trenta si indicava come se fosse un santo, ma il nome della città ha una storia curiosa, che riporto nel finale.

Insomma, De Vincenzi, a Milano, interroga il russo ma non cava un ragno dal buco. Si reca con lui in Liguria, dove c’è appunto il primo morto. Poi cerca di capire le dinamiche che suscitano i locali d’azzardo, dove viene assalito da un tedesco, di sicuro noto a Ivan, che, fuggendo, uccide il tesoriere del casinò. Qui si intreccia una prima inutile trama (ma utile per far dire a De Angelis che anche gli italiani…), che il tesoriere aveva trafugato milioni al casinò, che la moglie cerca di salvare fuggendo. Ed anche una seconda che ad un mercante olandese vengono rubati dei gioielli che doveva vendere ad un plenipotenziario turco che gira il Mediterraneo in barca.

Il tedesco, Kaufmann, fugge in Francia, e colà lo cerca di nuovo De Angelis sempre accompagnato da Ivan. Facendo base ad un’altra bisca, frequentata da tutti quanti quelli noti fino ad ora, e dove si scopre che Pauline è la figlia del gestore della bisca, dove ritrovano Kaufmann che però fugge, finendo però ucciso in un conflitto a fuoco con i gendarmi francesi.

L’impassibile Ivan viene allora scosso, porta De Vincenzi a Strasburgo per incontrare la moglie di Kaufmann, che però non si chiamava così ed era una spia nazista. Ma anche lì, nessuna traccia di Pauline. Così che tornano tutti a Sanremo, dove finalmente si scioglieranno tutti i nodi, coinvolgendo anche Agnes, un’avvenente tedesca che si accompagna con un greco tossico.

Alla fine si scopre che sono tutti coinvolti in un gioco internazionale di spie. Ivan e Pauline sono dalla parte dei buoni, Kaufmann e Agnes dei cattivi. Il greco è solo un ladruncolo che commette l’errore di rubare all’olandese, e ne subirà il castigo. Anche perché pure il turco è un po’ una spia, ma soprattutto è invaghito di Pauline, così come Ivan.

De Vincenzi sventerà l’intrigo internazionale, debellerà i furti, troverà i ladri e gli assassini, anche se, appunto alla maniera di Simenon, un conto è la giustizia ed un conto è la legge.

De Angelis scrive in punta di penna, ci fa gustare gli interrogatori del commissario, maestro nel non dire e nello scavare nella psicologia dei suoi avversari. De Vincenzi ha sin dall’inizio la sua idea su chi siano i cattivi e che siano i meno cattivi (in fondo di buoni se ne trovano assai pochi), solo che non ha le prove delle sue idee, e dovrà penare a lungo per trovare elementi a sostegno delle sue idee.

Un intrigo assai complicato, ma ben condotto dall’autore con i suoi tocchi di colore, i caffè, le corse in tassì, il tram per andare da Strasburgo in Germania, i tempi tristi della pioggia e gli squarci di sole rivieraschi. E comunque un romanzo di sicuro all’avanguardia al tempo della scrittura.

Finiamo con l’enigma del toponimo cittadino. La città del Festival, nel Medioevo, a fronte della morte del vescovo di Genova, Romolo, in suo onore veniva chiamata “Civitas Sancti Romuli”. Peccato che in dialetto ligure, Romolo veniva detto “Romu”, pronunciando la “o” come una fonesi “œ”, che, nel tempo e nella vulgata, diventa “e”, permettendo al nome di diventare prima “Remu” e poi “Remo”. Si arriva così alla città di “San Remo”, dove, non esistendo nessun santo di tal nome, si passerà alla dizione attuale di Sanremo (tutto attaccato). Un bel gioco alla Bartezzaghi per passare da Romolo e Remo!

Augusto De Angelis “L’impronta del gatto” Mondadori euro 6,50

[A: 01/07/2021 – I: 08/05/2024 – T: 09/05/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 172; anno: 1940]

Eccoci ad un altro dei gialli ben orchestrati dal grande Augusto De Angelis per seguire le indagini e le gesta del commissario Carlo De Vincenzi (che, piccolo inciso, rimarrà sempre nella mia memoria con la faccia di Paolo Stoppa).

Ci stiamo avvicinando all’ultimo periodo di scrittura di De Angelis dove, ormai imbrigliato nella censura di regime, pur mantenendo una discreta abilità di scrittura e di trama, si sente quel velo oscuro che non permette al romanzo di sprigionare tutte le sue potenzialità.

Ricordo infatti, che negli anni Trenta, ed in particolare verso la fine, il Governo chiese agli scrittori di genere di non usare criminali italiani, per “la razza italica è priva di difetti”. Questo fa nascere un buon numero di racconti esotici, oppure costringe chi ne rifugge, ad equilibrismi stilistici, così come fa qui il buon De Angelis.

La trama, in realtà, poteva delineare un conflitto familiare e sociale nel bel mondo milanese (che appunto a Milano si muove il nostro commissario), ma obbedendo ai dettami di regime, il nostro fa agire una serie di improbabili personaggi che vengono dal Nuovo Continente. Una ramificata famiglia venezuelano ed una congrega di malavitosi americani che si riunisce, o meglio che converge sul suolo lombardo per imbastire le proprie trame.

Da una parte ci sono i Seminari, capeggiati dal capo-mafioso Don Viciente, con la moglie Florastella, il figlio Juan José con la moglie Vera ed il cognato Jacques, debole di testa, con i figli di Vera, Daniele, Rosita e Isabella ed il loro cugino Oscar. Vivono in una grande casa tutti insieme, potendo contare degli enormi profitti del grande capo, ottenuti ai tempi in cui faceva il contrabbandiere di liquori durante il proibizionismo in America.

Dall’altra l’ex-socio del Don, Paul, con la figlia adottiva Loïs ed il suo scagnozzo Ben, che, con i soldi americani, hanno convertito un villino poco fuori città in luogo di giochi proibiti (roulette, poker e altro), nonché smistamento di sostanze non permesse.

Capite bene che tutto l’impianto poteva essere messo in piedi con i nuovi ricchi della mafia lombarda, ma sarebbe stato “fuori linea”. Così ci becchiamo gli esotici che vivono in ville e appartamenti che si attagliano benissimo ai parvenu lombardi. Ed è qui che De Angelis, per chi sa leggere tra le righe, lancia i suoi messaggi. Le parti più autentiche sono infatti le descrizioni dei luoghi dell’azione. La casa dei Seminari, con le scale, il salone, lo studio-biblioteca, e la profusione di tappeti rossi. La Villa-casa fa gioco, con il giardino, le stanze ampie ed i grandi tavoli, nonché passaggi segreti per consentire una fuga discreta. Il condominio dove vie Paul, con i suoi tanti appartamenti, il cortile, il portinaio.

Visto che deve esserci una trama, il romanzo inizia con la morte di Daniele, trovato nel cortile di casa di Paul, ma da questi spostato immediatamente negli androni dei Seminari. Quasi a sottolineare, appunto, la rivalità tra le due fazioni, e forse per scatenare una guerra di mafia.

Peccato che il giorno dopo muoia anche, avvelenato in casa, Juan José, l’altro maschio della famiglia. E con la situazione che si complica: Daniele era innamorato di Loïs che però ama Ben. Paul voleva fare l’inciucio tra Daniele e Loïs per mettere le mani sui soldi della giovane ed incasinare la vita al nemico Don Viciente che si sarebbe trovato con il nipote sposato con la figlia del nemico mortale. Tipico intreccio mafioso.

Ma questa morte rimescola le carte. Certo molta gente gira per casa ad omaggiare il morto Daniele, ma il veleno sembra un affare interno. Con ulteriori minacce al Don. Sarà Jacques che finge la malattia? Sarà Oscar che sospetta sempre la morte dei genitori per colpa degli affari tra Don e Paul? Sarà Vera che da donna potrebbe voler vendicare le morti americane? Perché anche le donne potrebbero avere (hanno) un ruolo.

Il nostro commissario usa come al solito la sua arma preferita, l’interrogatorio a tutto tondo, magari uscendo dal seminato, ma il ragionamento ed una trappola ben congeniata gli consentono di arrivare alla soluzione del dramma. Di sfuggita, il gatto nero di un avvocato che abita nel condominio di Paul pesta il sangue di Daniele, convincendo De Vincenzi che il morto non è morto dove è stato trovato. E da questa pagliuzza costruisce il suo castello, prima indiziario poi probatorio.

Comunque si torna a quanto detto all’inizio, che il dover usare stranieri fa perdere tono alla narrazione complessiva, che infatti risulta meno brillante del solito. Non c’è la sfavillante arguzia del primo libro (“Il banchiere assassinato”), lo stile si fa pesante (d’altronde c’è anche la guerra). Rimangono gli scorci milanesi ed il ragionamento da poliziotto colto ma mai presupponente. Una buona lettura per chiudere un cerchio intorno all’autore, aspettando che Mondadori ne pubblichi altro.

Per contrappasso, questa settimana vi metto alcune frasi di autori italiani, ma non di giallisti. Cominciamo con “Senza sangue” di Alessandro Baricco, un pensiero sulla vita ed uno sulla danza (una delle cose a me più lontane): “Alla vita manca sempre qualcosa per essere perfetta.” (58); “[ad una festa] c’era un famoso cantante che l’aveva invitata a ballare. A bassa voce raccontò che lui era vecchio, ma si muoveva con grande leggerezza, e prima che finisse la musica le aveva spiegato come il destino di una donna sia scritto nel modo che ha di ballare.” (70)

Proseguiamo con un altro autore molto presente nella mia libreria, Erri De Luca. Qui, alcuni pensieri sparsi tratti da “Aceto, arcobaleno”: “Amavo gli alfabeti, materia prima dell’infinita stesura di parole intorno.” (59); “Ognuno ammansisce il corpo come può, non si può mentire alla propria carne” (76); “In Africa c’era un cielo da ragazzi, una giostra sfrenata che invitava a farsi raggiungere. Il cielo di qui è più lontano” (87); “quasi sempre il nostro lato migliore non dipende da noi, ma è affidato all’iniziativa di uno sconosciuto che viene a rianimarcelo per caso” (115)

Finendo con un autore che, al contrario dei primi due, non sempre produce cose a me gradite. Ma qui, Domenico Starnone in “Prima esecuzione” lancia alcune interessanti affermazioni:

“Ero invecchiato facendo non quello che mi andava di fare ma quello che mi sembrava coerente col sentimento che avevo di me” (7)

“-Ho 28 anni e ne dimostro 40… - Io ne ho sessantasette, un’età in cui si è imparato che il problema non è come portiamo gli anni ma quanti ne portiamo” (9)

“Nel cuore della battaglia non è così semplice capire dov’è il bene e dov’è il male” (53)

Devo dire che questa settimana marina, benché di poco riposo, ha senza dubbio permesso al corpo ed alla mente di prendere fiato e di macinare idee per i prossimi mesi estivi. Vediamo come andranno i frutti.