Una settimana dedicata ai capostipiti del giallo italiano, legati alle idee editoriali della casa editrice Mondadori degli anni Trenta. Presentando un capolavoro dell’epoca, un bel romanzo di Alessandro Varallo, e tre dignitosi romanzi del padre nobile del giallo italiano, Augusto De Angelis. Apre la file, invece, un libro più recente, anche se ambientato nella Roma di Claudio dei primi anni dopo Cristo. Che porgo in quanto omaggio alla scrittrice bolognese Danila Comastri Montanari, che da pochi mesi ci ha lasciato.
Danila
Comastri Montanari “Ludus in fabula” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a
11,40 euro)
[A: 18/05/2022
– I: 03/12/2023 – T: 04/12/2023] &&&
--
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 264; anno: 2017]
PAS
19
Purtroppo,
e senza possibilità di smentite, questo è l’ultimo romanzo della fortunata
serie storica romana dedicata a Publio Aurelio Stazio e scritta da Danila
Comastri Montanari. Danila, infatti, ci ha lasciati il 28 luglio di quest’anno,
all’età di quasi settantacinque anni.
Non
avremo quindi nuove avventure del senatore detective, che allora, per l’ultima
volta ricordiamo nei suoi tratti principali. Publio Aurelio Stazio nasce a Roma
il 4 novembre del 3 d.C. dove passa un’infanzia infelice. La madre, Axilla, lo
abbandona poco dopo la nascita, andando a vivere ad Antiochia, e Publio rimane
nella casa con l’odiato padre, da cui si affranca a sedici anni quando questo
muore. Resta così padrone di un ingente patrimonio, amministrato per lui prima
da Diomede, poi dal figlio di questi Paride.
Poco
dopo stringe una solida amicizia con quello che diventerà l’imperatore Claudio,
studiando con lui l’etrusco. A 22 anni sposa la nobile Flaminia, ma quando il
loro figlio muore in fasce, la sua vita va a rotoli. Flaminia divorzia, e lui
si arruola nella legione XIV Gemina, di stanza in Germania. Partecipa a dure
battaglie, per poi tornare a Roma, dove riprende una vita agiata contornata dai
libri e dalle sue molte avventure sentimentali. Non disdegnando la politica,
quando Claudio lo nomina senatore.
Spirito
inquieto, non disdegna di immergersi nei più torbidi problemi dell’Urbe,
divenendo un punto di riferimento di indagini poliziesche, che affronta con il
suo attento fiuto, aiutato il più delle volte dal suo servo più fidato, il
libero Castore, da lui salvato nel 31 d.C. da morte certa.
A
memoria ricordo che, in ognuno dei 19 episodi della sua saga, conquista almeno
una donna per romanzo, dalle patrizie o nobili varie, come Lollia Antonina,
Arduina, Vera Claudina, Gaia Amanda e Candida, a studiose di diversi rami, la
chirurga greca Mnesarete, le studiosa di mitologia Varinia, le matematiche
Erissa e Giunia Irenea, l’avvocatessa Statilia Vespilla. Non tirandosi indietro
davanti a liberte e schiave varie. D’altronde è descritto come uomo piacente e
di piacevole compagnia.
Compagnia
che spesso divide al desco con la sua grande amica Pomponia, una matrona che
conosce tutto quanto succede in Roma, tutti i legami palesi o nascosti che si
celano nelle ombre della Città Eterna.
Quest’ultimo
episodio si svolge nel 47 d.C., casualmente l’ottocentesimo anniversario della
fondazione di Roma. E due sono i filoni principali della trama. Uno, che
avrebbe di sicuro portato nuova linfa a possibili altri episodi, la comparsa di
un “cittadino romano” di almeno venti anni più giovane di lui, ma stranamente a
lui somigliante. Figlio nascosto? Possibile parente? Somiglianza casuale? Verrà
rivelato alla fine, ma non da me.
L’altro,
filo conduttore del romanzo, è un gioco di “caccia al tesoro” che coinvolge la
nobiltà romana. Cominciato con indovinelli e facili indizi, ad un certo punto
volge al tragico, quando cominciano a comparire morti di morte violente. Tra
l’altro tutti giovani. L’intrigo è che anche i morti sembrano portare ad indizi
per il “gioco di Roma”. I più coinvolti sembrano gli appartenenti alla gens
Suri, di discreta agiatezza e con il pater familiae assai prossimo alla
dipartita, l’impacciato giovanottone Surio Rufino con la sorellastra Surilla ed
il fratellastro Decimo Surillo.
Surio,
benché maldestro noi modi, è di buon ingegno. Surilla non disdegna avventure
galanti, mentre Decimo, anche se solo tredicenne, è il favorito del vecchio
Surio. Nonostante le morti collaterali, quando anche Decimo fa una brutta fine,
i sospetti di Publio si concentrano sugli altri membri della gens, arrivando,
in un astuto finale, alla soluzione del caso.
Tuttavia,
come al solito, non è tanto l’indagine che interessava Danila, pur se nel tempo
ne ha costruite molte e la maggior parte dignitose. È la descrizione del mondo
romano, delle sue usanze, e dei modi di vivere della Capitale del Mondo. I
nostri attori si aggirano sempre nei dintorni del Foro, ma non disdegnano di
salire alla villa di Publio al Viminale o alla casa dei Suri sul Colle Oppio,
nelle residenze dei giocatori ai piedi del Celio o nella “clinica” medica
all’Esquilino. Pur restando le migliori pitture romane quando si descrivono i
vari “piccoli mondi” accalcati nella Suburra. Le “lupe” (che sappiamo essere
donne che si vendono per denaro) piuttosto che le bande degli stranieri che da
varie parti dell’Impero vengono a fare i malandrini laddove gira il denaro.
Celti, Galli, Iberici ed altri, accumunati (anche con Publio) nel gozzovigliare
a “cervesia” (ovvio, la birra). Ed in questi mondi diversi, Danila inserisce mini-storie,
che a volte hanno poca connessione con il filone principale, ma che, alla fine,
forniscono un quadro realistico di quel mondo.
Non
sono certo uno storico, ma, da amante delle ricostruzioni della vita
quotidiana, ritengo i diciannove tomi delle avventure di Publio Aurelio Stazio
un buon esercizio di lettura per entrare in quel mondo. Anche tenendo conto le
descrizioni e le analisi dei comportamenti sociali, le leggi promulgate, il
ruolo dei “cittadini”, ma anche i bagni, le case patrizie, i modi di vestire.
Insomma,
Danila aveva sempre un buon modo di scrivere e farsi seguire nelle vicende e
nel tempo. Peccato che un altro pezzo del nostro mondo sia andato via.
Alessandro Varaldo “Il sette bello”
Mondadori euro 5,90
[A: 06/06/2022 – I: 22/02/2024 – T: 24/02/2024]
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[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 220; anno: 1931]
Nel
1929, Arnoldo Mondadori decide di lanciar una collana, all’inizio non
periodica, dedicata alla pubblicazione di libri polizieschi. Per distinguersi
nella massa delle pubblicazioni esistenti, decise di pubblicarli con una
copertina di colore giallo. Nascono così i “Libri Gialli”, con un aggettivo che
diventerà con il tempo un marchio per tutto il genere. Per i primi due anni,
avendo alle spalle una notevole massa di letteratura inglese, furono pubblicati
una ventina di libri.
Nel
1931, Alessandro Varaldo, scrittore e giornalista molto vivace all’epoca,
convince l’editore di pubblicare un titolo italiano. Esce così questo libro
che, oltre ad altri spunti interessanti, è il primo giallo italiano pubblicato
nella collana. Due anni fa, in occasioni dei 90 anni dalla scrittura, Mondadori
decide di rendere omaggio a Varaldo, ripubblicando l’opera. Speriamo che, con i
suoi tempi, l’editore decida di procedere negli omaggi, a Varaldo ed altri
autori.
Intanto,
Varaldo (classe 1873) aveva cominciato a pubblicare libri verso i suoi
venticinque anni, affiancando nel tempo la sua passione con l’attività
giornalistica. Essendo inoltre attivo nel mondo culturale italiano, fu vicino a
lungo anche ai futuristi. Tanto che nel ’29 pubblico un libro a venti mani con Filippo
Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli, Antonio Beltramelli, Lucio D'Ambra,
Alessandro De Stefani, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Cesare Giulio
Viola e Luciano Zuccoli, dal titolo “Lo Zar non è morto”, di cui spero di
parlare in altra sede. Ma si capisce che i suddetti scrittori, compreso
Varaldo, nelle parole di Marinetti sono “romanzieri italiani e fascisti”. E
Varaldo, pur mantenendosi sul filo, è sempre stato ben visto dal Regime perché
non esce mai dalle righe, magari rinvigorendo quell’anima popolare che era
stata la spinta iniziale delle lotte socialiste di Mussolini prima della
guerra.
Venendo
al romanzo, che devo dire, pur con i limiti dell’età, mantiene una sua vivacità
ed una sua struttura di possibilità che ne rendono gradevole la lettura, ed
interessante il tentativo del lettore di anticipare la soluzione del caso. Dove
però, mancando alcuni elementi al quadro complessivo, si dovrà aspettare la
ricapitolazione finale alla S.S. Van Dine per mettere tutti i pezzi del puzzle
al loro posto.
Per
cominciare, comunque, è interessante la struttura stessa del libro, dove ci
sono cinque attori principali, i quali narrano la storia in prima persona. Non
“alla Kurosawa”, dando cioè versioni diverse dello stesso fatto, ma
sequenzialmente, ognuno riprendendo il filo della narrazione precedente, e
proseguendo nella descrizione degli avvenimenti in tutto il loro svolgimento,
che temporalmente va dall’8 marzo 1930 fino all’estate.
Secondariamente,
fa la sua comparsa il commissario Ascanio Bonichi, astuto, ragionatore,
deduttivo il giusto, ma che sa, e noi con lui, che spesso il caso mette lo
zampino negli affari degli uomini, per cui bisogna afferrarne a volo i
suggerimenti. Bonichi diventerà, con Varaldo, il primo commissario seriale dei
Gialli Mondadori, laddove ne escono ben 4 episodi nei primi 2 anni.
Qui,
tuttavia, Bonichi è uno del coro, dove gli altri quattro attori sono lo
studente seriale professor Giovanni Révere (in procinto di prendere prima dei
trent’anni la sua terza laurea), il maggiore dei bersaglieri Biondo Biondi, il
pittore Gerolamo Serra, e la studentessa di medicina Maddalena “Maud” Terzi.
Sono questi quattro i conviviali che, discettando di avventura e casualità,
decidono di rispondere ad un’inserzione matrimoniale. Seguendo le indicazioni
ricevute, i tre maschietti si presentano in una casa del Trionfale (e sui
luoghi di Roma torneremo più avanti), dove devono suonare alle 12 per
incontrare la nubenda.
Alle
12, suona il campanello e si sente uno sparo. Entrano e trovano una giovane
donna ferita non mortalmente ma in stato di shock profondo, ed una vecchia
morta, forse d’infarto, forse di abusi alcoolici. Qui si entra nel mistero, che
si scopre che la giovane non è altro che Marcella, sorella di Maud. Il mistero
si infittisce scoprendo che le inserzioni erano state pubblicate a nome del
conte Lampugnani, tipico bellimbusto squattrinato che risulterebbe appena
tornato da un lungo viaggio per nave verso l’Australia. E scritte da Gina, la
cameriera di una fantomatica principessa di Capodimonte, sodale del conte e ben
introdotta nell’aristocrazia romana.
Il
luogo dello sparo, inoltre, è la casa accanto a quella dove vive Arturo il
Bello, fidanzato della Gina di cui sopra, nonché losco figuro che si accompagna
spesso con il malvivente Michelino detto Nino il Boja (e non vi devo spiegare
il perché). I due sembrano inoltre, scorti da Giovanni, aggirarsi intorno al
Pantheon alla ricerca di un vecchio smemorato che, incontrato da Giovanni, gli
mormora “povera Marcella!”. Come si può collegare tutto ciò?
Il
mistero si infittisce quando, durante una passeggiata serale di Maud e
Giovanni, questi riceve una coltellata non mortale, ma molto seria. Quando,
giorni dopo, rincasando, Maud stessa viene rapita. Quando, tornando in
Questura, Bonichi viene fatto oggetto di una revolverata.
È
ovvio che qualcosa, nel circolo dei nobili, è poco chiaro, per cui non ci
aspettiamo nulla di sorprendente se, il maggiore Biondi con la sua truppa è
convocato ad una esercitazione nelle campagne di Ronciglione, laddove c’è la
villa Capodimonte della principessa. E dove, qui invero in modo sorprendente,
convergono anche Bonichi e Serra. Non Maud, ancora rapita, né Giovanni o
Marcella, convalescenti. Ma lì tra il lago di Vico ed il sovrastante Monte
Venere, i nodi vengono al pettine, e si scioglieranno tutti i misteri che il
caso ha messo sulla strada di noi lettori. Con un lieto fine di donne e
cavalieri, che di sicuro era gradito agli allora lettori.
Il
filo del caso e del gioco sta proprio nel titolo: che per vincere a scopone,
c’è bisogno del sette bello (o sette di denari). La squadra che ce l’ha tende a
conservarlo. L’altra squadra cerca di rubarlo. Dovrete solo cercare di scoprire
chi sia il sette bello della partita. E non vi parlo degli interventi del caso,
caro al commissario Bonichi, che darebbe troppa luce alle vicende che vi invito
al contrario di leggere.
Parlo
invece di un elemento che molto mi ha intrigato: l’ambientazione. Certo siamo a
Roma, ma, guarda caso, una grossa parte della vicenda si svolge in Prati. I
nostri si aggirano tra via Cola di Rienzo e via Ottaviano, mangiano alla
trattoria “Grappolo d’Oro”, che somiglia all’attuale “Ragno d’Oro” di via
Silla, si recano nella casa di via Virginia, molto simile a via Virginio
Orsini. Nonché, per andare al Pantheon, percorrono via della Palombella sede
del mio amico orafo Corrado. E guarda caso, una seconda e non meno importante
sede di avvenimenti, è via Nomentana. In particolare, aggirandosi i nostri nei
dintorni di Sant’Agnese fuori le Mura, scendendo per il vicolo di Santa
Costanza, nonché tra le ville che contornano villa Blanc. Un’immersione nei miei
luoghi che mi ha cullato per tutto il libro.
Un
solo punto dolente, per me la copertina del libro è sbagliata, in quanto
propone un sette di quadri delle carte francesi, laddove avrei visto meglio un
sette di denari delle carte nostrane, napoletane o piacentine. Si poteva fare
di meglio.
Augusto De Angelis “La barchetta di
cristallo” Mondadori euro 6,50
[A: 13/07/2022 – I: 02/04/2024 – T: 03/04/2024]
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e ½
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 187; anno: 1936]
Continuiamo
a leggere, quando capita, ma in maniera ordinata, le opere del padre della
letteratura gialla italiana, Augusto De Angelis. Qui siamo al quarto romanzo
imperniato sul commissario De Vincenzi, in un anno di scrittura, il 1936, che
fu fecondo per lo scrittore. Che diede la sua produzione più cospicua proprio
tra il ’35 ed il ’40. Rallentata poi a causa della guerra, poi anche perché,
dopo il 25 luglio ’43 scrisse alcuni articoli non graditi ai fascisti del Nord
Italia, essendo lui residente a Como. Tanto che fu incarcerato per quasi un
anno, e quando ne uscì, fu vittima in quel di Bellagio dove si era trasferito
di un pestaggio fascista che ne causò la morte.
Non
era un antifascista militante, ma sempre, nelle sue opere, c’è un pizzico di
critica alle storture dell’aristocrazia. Un modo di scrivere che il regime
teneva sotto controlli, imponendo spesso aggiustamenti e modifiche. Tanto che
non solo spesso il più cattivo viene fatto impersonare da uno straniero, ma in
alcuni casi sembra quasi che si chieda a De Angelis di spostare la vicenda
lontano da Milano.
Qui,
fortunatamente, siamo invece sempre a Milano, e molta dell’azione si svolge nel
quartiere Brera, quasi fosse un cantore della zona Nord della città. Appunto
tra Brera, Porta Venezia, il Duomo, il Castello Sforzesco ed il Teatro
dell’Opera, dove si faccia la questura di San Fedele, luogo di base del nostro
commissario. Un commissario in un certo senso atipico, per l’epoca, che ha di
certo assorbito sia le lezioni deduttive di Philo Vance sia l’umanità empatica
delle prime avventure di Maigret.
Infatti,
se da una parte, De Vincenzi cerca di assorbire tutto i particolari della scena
del delitto (un po’ come settanta anni dopo e tanti chilometri più a Sud farà
il commissario Ricciardi), dall’altra prova ad entrare nel mondo della vittima,
indagandone la mente ed i suoi percorsi, ed allargando questa disamina a tutte
le persone che ne sono al contorno, compresi i possibili assassini. È la
conoscenza stessa del mondo reale che lo porta a formulare le ipotesi che lo
portano alla soluzione dei dilemmi che gli si presentano.
Come
in questo caso dove fin dall’inizio troviamo un morto reale, l’ex-capitano di
marina Marco Parodi, pugnalato, ed il marchese Goffredo Vitelleschi del Verbano,
morto per un embolia, forse causata o forse no. Lo strano è che siano morti la
stessa notte. Ancor più strano che i due, pur essendo di diverse estrazioni e
vite, si conoscevano. E da tempo, dato che molto della storia e dell’intrigo
viene dal passato. Quando il marchese era una specie di ambasciatore ed il
Parodi un trafficone d’alto bordo, in quel di Shangai. Parodi aveva messo su
una rete di fumerie d’oppio, ma non disdegnava di trafficare in gemme preziose,
elemento da sempre nelle mire del ricco marchese.
Le
fumerie di Parodi erano gestite da una coppia di prestanome, che, fuggiti in
Italia, si ritrovano l’ex-capitano tra i piedi. Che non solo li obbliga, con
ricatto, ad inventarsi nuove fumerie, ma li sfrutta per la sua seconda
attività, quella di usuraio. La coppia mette in piedi allora un circolo ben
frequentato, dove si gioca a poker e a bridge. E dove, alla chiusura, i clienti
fidati vengono portati, attraverso un tortuoso passaggio, in una casa attigua
per dedicarsi ai loro piaceri. Casa che si trova guarda caso, all’ultimo piano
della residenza del marchese.
De
Angelis a questo punto introduce tutta una serie di personaggi che servono ad
arrotondare la trama, infittendola di possibili spunti “omicidiali”. C’è
Claudia Sutton che gioca forte, perdendo spesso, e mettendosi nei guai con
usurai vecchi e nuovi. C’è sua figlia Margaret che da un lato è succube della
madre, dall’altro, innamorato di Gastone, cerca di rifarsi una facciata (o di
non farsela sporcare). Gastone, poi, è il nipote del marchese, in sotterranea
lotta in attesa dell’eredità, con la giovane sposa del marchese stesso, Delia.
C’è Harry Gordon anche lui usuraio e gaudente. C’è Vannetta che gestisce la
seconda casa dell’oppio.
Insomma,
tutti possibili assassini dei due morti. La cui dipartita è legata alla
barchetta del titolo, che di certo è di per sé brutta e senza valore, se non
fosse che a poppa aveva incastonato uno smeraldo di notevoli proporzioni.
De
Vincenzi si aggira, annusa, interroga, pensa, ed alla fine collega e svela in
un epilogo finale colloquiale tra lui ed il Questore. Sottolineo il colloquio,
che, riprendendo dai suoi ispiratori, molta parte dell’indagine e degli indizi
che andiamo accumulando ed analizzando derivano dai colloqui dei vari
personaggi. Con un tocco in più, invenzione del nostro scrittore. Che mentre
parlano e si confrontano, spesso De Angelis riporta anche i pensieri di chi sta
parlando, creando quasi un doppio filone di lettura: leggiamo i discorsi, e nel
sottofondo, seguiamo i pensieri. Un’idea interessante e ben portata avanti
dallo scrittore.
Unica
pecca, nel finale viene detto che il dramma trova il suo epilogo mercoledì 11
febbraio 1926. Peccato sia una data inesistente. Forse un indizio trasversale
di De Angelis, per non scrivere che l’anno era il 1925, e per non sottolineare
che, il giorno successivo, giovedì 12 febbraio ’25 veniva eletto segretario del
Partito Fascista uno degli esponenti dell’ala dura del partito stesso, Roberto
Farinacci. Non so se sia così, ma mi piace pensarlo.
Tuttavia,
benché sorretta dalla bella scrittura appena descritta, la trama e l’intreccio
sono un po’ troppo volutamente complicati, così che se ne perde la freschezza
(nonché alcuni comportamenti che rimangono lì sospesi, quasi a voler lasciare
tracce che poi non si rivelano utili all’economia globale del testo).
Augusto De Angelis “Il canotto
insanguinato” Mondadori euro 6,50
[A: 13/07/2023 – I: 20/04/2024 – T: 22/04/2024]
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e ½
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 237; anno: 1936]
Continuiamo
le letture filologiche del padre nobile della lettura gialla italiana. Con un romanzo
dal duplice interesse. Primo, se spostiamo l’azione dal Mediterraneo tra
Sanremo e Nizza al Nord Europa, tra Amsterdam e Le Havre, potrebbe essere uno
scritto di Simenon, tante sono le similitudini. E secondo, essendo che la
censura fascista nel ’36 cominciava ad interessarsi da vicino alle scritture,
si impongono all’autore delle trame in cui gli italiani debbano entrare poco, e
magari solo dalla parte dei buoni.
Una
lezione che De Angelis accetta, anche se, nelle more della trama, riesce
comunque a far capire che anche tra l’italica progenie non tutti sono delle
margheritine, anzi sono presenti fior fiore di piante carnivore. Ma,
accettando, comunque, riempie la trama di personaggi stranieri: francesi,
tedeschi, olandesi, greci, turchi e persino russi.
La
trama è ben complicata, iniziando dalla scomparsa di una donna, una francese,
che si accompagnava ad Ivan, un russo non fuoriuscito, ma proprio con
passaporto sovietico (l’azione si svolge nel 1930). Ivan che viene sospettato
della morte di Pauline, avendo come unica traccia un canotto sporco di sangue.
Trama che si complica scoprendo la morte di un altro francese, sodale della
coppia che con loro frequentava i casinò della costa, da San Remo a Nizza.
Inciso, non è un errore, negli anni Trenta si indicava come se fosse un santo,
ma il nome della città ha una storia curiosa, che riporto nel finale.
Insomma,
De Vincenzi, a Milano, interroga il russo ma non cava un ragno dal buco. Si
reca con lui in Liguria, dove c’è appunto il primo morto. Poi cerca di capire
le dinamiche che suscitano i locali d’azzardo, dove viene assalito da un
tedesco, di sicuro noto a Ivan, che, fuggendo, uccide il tesoriere del casinò.
Qui si intreccia una prima inutile trama (ma utile per far dire a De Angelis
che anche gli italiani…), che il tesoriere aveva trafugato milioni al casinò, che
la moglie cerca di salvare fuggendo. Ed anche una seconda che ad un mercante
olandese vengono rubati dei gioielli che doveva vendere ad un plenipotenziario
turco che gira il Mediterraneo in barca.
Il
tedesco, Kaufmann, fugge in Francia, e colà lo cerca di nuovo De Angelis sempre
accompagnato da Ivan. Facendo base ad un’altra bisca, frequentata da tutti
quanti quelli noti fino ad ora, e dove si scopre che Pauline è la figlia del
gestore della bisca, dove ritrovano Kaufmann che però fugge, finendo però
ucciso in un conflitto a fuoco con i gendarmi francesi.
L’impassibile
Ivan viene allora scosso, porta De Vincenzi a Strasburgo per incontrare la
moglie di Kaufmann, che però non si chiamava così ed era una spia nazista. Ma
anche lì, nessuna traccia di Pauline. Così che tornano tutti a Sanremo, dove
finalmente si scioglieranno tutti i nodi, coinvolgendo anche Agnes,
un’avvenente tedesca che si accompagna con un greco tossico.
Alla
fine si scopre che sono tutti coinvolti in un gioco internazionale di spie.
Ivan e Pauline sono dalla parte dei buoni, Kaufmann e Agnes dei cattivi. Il
greco è solo un ladruncolo che commette l’errore di rubare all’olandese, e ne
subirà il castigo. Anche perché pure il turco è un po’ una spia, ma soprattutto
è invaghito di Pauline, così come Ivan.
De
Vincenzi sventerà l’intrigo internazionale, debellerà i furti, troverà i ladri
e gli assassini, anche se, appunto alla maniera di Simenon, un conto è la
giustizia ed un conto è la legge.
De
Angelis scrive in punta di penna, ci fa gustare gli interrogatori del
commissario, maestro nel non dire e nello scavare nella psicologia dei suoi
avversari. De Vincenzi ha sin dall’inizio la sua idea su chi siano i cattivi e
che siano i meno cattivi (in fondo di buoni se ne trovano assai pochi), solo
che non ha le prove delle sue idee, e dovrà penare a lungo per trovare elementi
a sostegno delle sue idee.
Un
intrigo assai complicato, ma ben condotto dall’autore con i suoi tocchi di
colore, i caffè, le corse in tassì, il tram per andare da Strasburgo in
Germania, i tempi tristi della pioggia e gli squarci di sole rivieraschi. E
comunque un romanzo di sicuro all’avanguardia al tempo della scrittura.
Finiamo
con l’enigma del toponimo cittadino. La città del Festival, nel Medioevo, a
fronte della morte del vescovo di Genova, Romolo, in suo onore veniva chiamata
“Civitas Sancti Romuli”. Peccato che in dialetto ligure, Romolo veniva detto
“Romu”, pronunciando la “o” come una fonesi “œ”, che, nel tempo e nella
vulgata, diventa “e”, permettendo al nome di diventare prima “Remu” e poi
“Remo”. Si arriva così alla città di “San Remo”, dove, non esistendo nessun
santo di tal nome, si passerà alla dizione attuale di Sanremo (tutto
attaccato). Un bel gioco alla Bartezzaghi per passare da Romolo e Remo!
Augusto De Angelis “L’impronta del gatto”
Mondadori euro 6,50
[A: 01/07/2021 – I: 08/05/2024 – T: 09/05/2024]
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e ½
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 172; anno: 1940]
Eccoci
ad un altro dei gialli ben orchestrati dal grande Augusto De Angelis per
seguire le indagini e le gesta del commissario Carlo De Vincenzi (che, piccolo
inciso, rimarrà sempre nella mia memoria con la faccia di Paolo Stoppa).
Ci
stiamo avvicinando all’ultimo periodo di scrittura di De Angelis dove, ormai
imbrigliato nella censura di regime, pur mantenendo una discreta abilità di
scrittura e di trama, si sente quel velo oscuro che non permette al romanzo di
sprigionare tutte le sue potenzialità.
Ricordo
infatti, che negli anni Trenta, ed in particolare verso la fine, il Governo
chiese agli scrittori di genere di non usare criminali italiani, per “la razza
italica è priva di difetti”. Questo fa nascere un buon numero di racconti
esotici, oppure costringe chi ne rifugge, ad equilibrismi stilistici, così come
fa qui il buon De Angelis.
La
trama, in realtà, poteva delineare un conflitto familiare e sociale nel bel
mondo milanese (che appunto a Milano si muove il nostro commissario), ma
obbedendo ai dettami di regime, il nostro fa agire una serie di improbabili
personaggi che vengono dal Nuovo Continente. Una ramificata famiglia
venezuelano ed una congrega di malavitosi americani che si riunisce, o meglio
che converge sul suolo lombardo per imbastire le proprie trame.
Da
una parte ci sono i Seminari, capeggiati dal capo-mafioso Don Viciente, con la
moglie Florastella, il figlio Juan José con la moglie Vera ed il cognato
Jacques, debole di testa, con i figli di Vera, Daniele, Rosita e Isabella ed il
loro cugino Oscar. Vivono in una grande casa tutti insieme, potendo contare degli
enormi profitti del grande capo, ottenuti ai tempi in cui faceva il
contrabbandiere di liquori durante il proibizionismo in America.
Dall’altra
l’ex-socio del Don, Paul, con la figlia adottiva Loïs ed il suo scagnozzo Ben,
che, con i soldi americani, hanno convertito un villino poco fuori città in
luogo di giochi proibiti (roulette, poker e altro), nonché smistamento di
sostanze non permesse.
Capite
bene che tutto l’impianto poteva essere messo in piedi con i nuovi ricchi della
mafia lombarda, ma sarebbe stato “fuori linea”. Così ci becchiamo gli esotici
che vivono in ville e appartamenti che si attagliano benissimo ai parvenu
lombardi. Ed è qui che De Angelis, per chi sa leggere tra le righe, lancia i
suoi messaggi. Le parti più autentiche sono infatti le descrizioni dei luoghi
dell’azione. La casa dei Seminari, con le scale, il salone, lo
studio-biblioteca, e la profusione di tappeti rossi. La Villa-casa fa gioco,
con il giardino, le stanze ampie ed i grandi tavoli, nonché passaggi segreti
per consentire una fuga discreta. Il condominio dove vie Paul, con i suoi tanti
appartamenti, il cortile, il portinaio.
Visto
che deve esserci una trama, il romanzo inizia con la morte di Daniele, trovato
nel cortile di casa di Paul, ma da questi spostato immediatamente negli androni
dei Seminari. Quasi a sottolineare, appunto, la rivalità tra le due fazioni, e
forse per scatenare una guerra di mafia.
Peccato
che il giorno dopo muoia anche, avvelenato in casa, Juan José, l’altro maschio
della famiglia. E con la situazione che si complica: Daniele era innamorato di
Loïs che però ama Ben. Paul voleva fare l’inciucio tra Daniele e Loïs per
mettere le mani sui soldi della giovane ed incasinare la vita al nemico Don
Viciente che si sarebbe trovato con il nipote sposato con la figlia del nemico
mortale. Tipico intreccio mafioso.
Ma
questa morte rimescola le carte. Certo molta gente gira per casa ad omaggiare
il morto Daniele, ma il veleno sembra un affare interno. Con ulteriori minacce
al Don. Sarà Jacques che finge la malattia? Sarà Oscar che sospetta sempre la
morte dei genitori per colpa degli affari tra Don e Paul? Sarà Vera che da
donna potrebbe voler vendicare le morti americane? Perché anche le donne
potrebbero avere (hanno) un ruolo.
Il
nostro commissario usa come al solito la sua arma preferita, l’interrogatorio a
tutto tondo, magari uscendo dal seminato, ma il ragionamento ed una trappola
ben congeniata gli consentono di arrivare alla soluzione del dramma. Di
sfuggita, il gatto nero di un avvocato che abita nel condominio di Paul pesta
il sangue di Daniele, convincendo De Vincenzi che il morto non è morto dove è
stato trovato. E da questa pagliuzza costruisce il suo castello, prima
indiziario poi probatorio.
Comunque
si torna a quanto detto all’inizio, che il dover usare stranieri fa perdere
tono alla narrazione complessiva, che infatti risulta meno brillante del
solito. Non c’è la sfavillante arguzia del primo libro (“Il banchiere
assassinato”), lo stile si fa pesante (d’altronde c’è anche la guerra).
Rimangono gli scorci milanesi ed il ragionamento da poliziotto colto ma mai
presupponente. Una buona lettura per chiudere un cerchio intorno all’autore,
aspettando che Mondadori ne pubblichi altro.
Per
contrappasso, questa settimana vi metto alcune frasi di autori italiani, ma non
di giallisti. Cominciamo con “Senza
sangue” di Alessandro Baricco, un pensiero sulla vita ed uno sulla danza
(una delle cose a me più lontane): “Alla vita manca sempre qualcosa per
essere perfetta.” (58); “[ad una festa] c’era un famoso cantante che l’aveva
invitata a ballare. A bassa voce raccontò che lui era vecchio, ma si muoveva
con grande leggerezza, e prima che finisse la musica le aveva spiegato come il
destino di una donna sia scritto nel modo che ha di ballare.” (70)
Proseguiamo con un altro autore molto
presente nella mia libreria, Erri De
Luca. Qui, alcuni pensieri sparsi tratti
da “Aceto, arcobaleno”: “Amavo
gli alfabeti, materia prima dell’infinita stesura di parole intorno.” (59); “Ognuno
ammansisce il corpo come può, non si può mentire alla propria carne” (76); “In
Africa c’era un cielo da ragazzi, una giostra sfrenata che invitava a farsi
raggiungere. Il cielo di qui è più lontano” (87); “quasi sempre il nostro lato
migliore non dipende da noi, ma è affidato all’iniziativa di uno sconosciuto
che viene a rianimarcelo per caso” (115)
Finendo con un autore che, al contrario dei
primi due, non sempre produce cose a me gradite. Ma qui, Domenico Starnone in “Prima esecuzione” lancia alcune interessanti affermazioni:
“Ero
invecchiato facendo non quello che mi andava di fare ma quello che mi sembrava
coerente col sentimento che avevo di me” (7)
“-Ho
28 anni e ne dimostro 40… - Io ne ho sessantasette, un’età in cui si è imparato
che il problema non è come portiamo gli anni ma quanti ne portiamo” (9)
“Nel
cuore della battaglia non è così semplice capire dov’è il bene e dov’è il male”
(53)
Devo dire che questa settimana marina, benché di poco riposo, ha senza dubbio permesso al corpo ed alla mente di prendere fiato e di macinare idee per i prossimi mesi estivi. Vediamo come andranno i frutti.
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