domenica 16 giugno 2024

Stran(ieri) gialli - 16 giugno 2024

Piccolo ed innocente gioco di parole per presentare una cinquina di romanzi gialli non italiani. Dove abbiamo, ed io lo sapevo, alcune conferme sul genere. Prima di tutto, rimane, anche se si avvia alla quarta età, la buona fattura dei libri di Elizabeth George. Come rimangono di due buon livelli i gialli di marca svedese, anche se, purtroppo, ben datati. Rimane la poca consistenza globale della collana noir del Corriere della Sera. Infine, rimane e si conferma la mia poca empatia con James Ellroy.

Per il resto, poteva andar peggio. Poteva piovere (citazione).

Elizabeth George “Punizione” Superpocket euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,50 euro)

[A: 07/08/2019 – I: 26/08/2023 – T: 29/08/2023] - &&& e ½    

[tit. or.: The Punishment She Deserves; ling. or.: inglese; pagine: 682; anno 2018]

LYNLEY20

Siamo ben al ventesimo libro della grande saga poliziesca imbastita dalla maestra del genere Elizabeth George. Una scrittrice che mi è sempre piaciuta ed una delle poche serie di cui ho letto tutti i libri. Ho potuto quindi seguire l’evolversi del protagonista l’ispettore Thomas Lynley, apprezzando poi l’esercito di comprimari che, libro dopo libro, ne costituisce il “cerchio magico”. La morte della moglie che ha costituito un punto nodale della serie, la presenza degli amici, i coniugi St. James, fondamentali nel risollevare Thomas anche se da qualche libro un po’ in secondo piano, l’inserimento del sergente Barbara Harris, all’inizio in secondo piano, ma ora, con Thomas che si palese solo quando la trama si complica, divenendo quasi un elemento centrale della serie, l’arrivo del vicecommissario Isabelle Ardery che diventa capo di Lynley avendo questi rifiutato il ruolo.

Una dovuta premessa di ricapitolazione dato che sono passati ben cinque anni dalla lettura del capitolo precedente, che avevo trovato in calo rispetto al buon livello della serie nel complesso. Livello che qui torna sui suoi soliti alti livelli, per una serie di motivi. La trama si snoda in modo più lineare, Lynley torna ad avere una presenza non marginale, Barbara migliora i suoi comportamenti e si affaccia sulla scena con il piglio che ricordavamo, Isabelle, inizialmente molto antipatica, verso la fine comincia a diventare umana e probabilmente riuscirà a trovare una collocazione più positiva nel futuro. Anche le descrizione del contorno evitano di inciampare in inesattezze non volute, rendendo al fine la confezione gradevole, pur se sempre un po’ lunghetta.

Certo, il titolo italiano è un po’ secco, mettendo l’accento sulla punizione (ovvio per qualcosa che si commette), mentre in inglese veniva aggiunto un riferimento femminile (che lei merita) che avrebbe orientato lo sguardo sulla platea di personaggi femminili presenti.

Il caso, comunque, comincia in modo lento. Un diacono, accusato di pedofilia, si suicida. Il facoltoso padre del morto convince il responsabile in capo, Sir David, ad aprire un inchiesta sugli aspetti di correttezza procedurale avvenuti durante l’arresto del diacono Ian ed alla sua successiva morte. Sir David ha la brillante idee di inviare sul luogo una coppia veramente male assortita: Isabelle e Barbara. Le due non si sopportano, ed Isabelle tenta da tempo di cogliere in fallo Barbara per allontanarla. Cosa che mette sempre in difficoltà Barbara, tarpandole le ali quando lei, per sua natura, indaga sugli avvenimenti in maniera un po’ anarcoide.

Le indagini ruotano intorno all’agente ausiliario Gary (che non ha mai superato gli esami da poliziotto per una sua evidente dislessia e discalculia) che ha eseguito l’arresto, ma si è allontanato, consentendo la morte del diacono. Isabelle, presa anche dai suoi problemi personali (una forte dipendenza dall’alcool, accentuata dalla minaccia del suo ex-marito di trasferirsi in Nuova Zelanda con i loro due figli), vuole chiudere in fretta, anche perché, coadiuvata dalla vicecomandante locale, Clover Freeman, non riscontra problematiche negative nelle procedure.

Ovvio che invece Barbara si focalizza su altri aspetti: il diacono era benvoluto (ed allora perché accusarlo di pedofilia?), il luogo degli avvenimenti è frequentato dai giovani delle locali istituzioni universitarie, con comportamenti alcolici, piccole canne, e scopate più o meno volontarie. Tutto ruotando su di una casa dove vivono Missa, figlia di immigrati indiani (che si allontana prima dell’inizio delle indagini dei nostri), Finn, il figlio della Freeman, molto amico del diacono, Brutus e Ding, una coppia aperta, ma solo dalla parte maschile. Ed il fiuto di Barbara porta la nostra a sospettare che ci sia qualcosa in più di problemi formali.

Così che per indagare sulle reali circostanze della morte, arriva sul posto anche Thomas. Esautorata Isabelle, i nostri investigatori cominciano a trovare dissonanze. La telefonata accusatoria è avvenuta diciannove giorni prima dell’arresto, senza che il diacono sia mai stato indagato. Si scopre che Gary è utilizzato dalla Freeman un po’ come cane da guardia dei giovani, spesso coinvolto nel riaccompagnare a casa i giovani che alzano troppo il gomito. Situazione che capita spesso a Finn, ma altrettanto spesso alle ragazze del luogo.

Quando poi Thomas scopre che il diacono aveva chiesto una valutazione scientifica su certa biancheria, appartenuta a una ragazza che era stata sodomizzata, scattano altri campanelli. Che diventano un orchestra nel momento che si viene a supporre che il sodomita possa essere Finn, e che Gary e la Freeman potrebbero aver cercato di mescolare le carte. Un elemento che la scrittrice presenta in modo molto palese, ma che a tutti era sfuggito, porta ad indirizzare Thomas e Barbara nella giusta direzione, portando la polizia a risolvere il caso, a punire i colpevoli, ed a permettere ad Isabelle di maturare e chiedere un’aspettativa per disintossicarsi.

Ovvio che molto di più c’è nel libro, visto che la George riempie più di seicento pagine. Ma sono elementi che servono a disegnare un quadro più completo delle situazioni di tutti i personaggi coinvolti. Alcuni sarebbero utili per aiutare voi lettori nelle indagini, ma sarebbe bene li scopriste da soli.

La bravura di Elizabeth George sta poi nel costellare la sua narrazione di spunti problematici che sono sugli occhi di tutti, e che devono far riflettere. Gli eccessi dei ragazzi lasciati a briglie sciolte nei college, con le conseguenti derive alcoliche. Derive presenti anche negli adulti, dipendenza da farmici e bottiglie che danno sicuri problemi sul piano privato e sul piano lavorativo. Con il leitmotiv di fondo dei rapporti tra genitori e figli. Dove i primi non hanno il coraggio di affrontare i secondi, magari ponendo domande scomode. E disapprovando scelte che si allontanano dal loro consolidato modo di vivere. E dove i giovani, rifugiandosi negli eccessi, rifiutano essi stessi un confronto con gli adulti. Un bel problema, ben più grande del libro stesso.

È anche gradevole, infine, la capacità di inserire siparietti ironici nella narrazione, che ne alleggeriscono i toni quando serve.

Intanto, è uscito anche il ventunesimo episodio

Anders Roslund & Börge Hellström “Tre secondi” Corriere Profondo Nero 13 euro 7,90

[A: 10/10/2019 – I: 12/02/2024 – T: 14/02/2024] - &&&  

[tit. or.: Tre sekunder; ling. or.: svedese; pagine: 660; anno 2009]

Uno dei pochi libri di questa non fortunata collana che si fa leggere, è discretamente avvincente, grazie ad una trama che sembra dipanarsi senza sussulti, ma che alla fine si rivela discretamente stimolante. Rimangono punti non detti e rimandi incompresi, anche se comprensibili, ma il tutto merita una più che dignitosa sufficienza.

Uno dei punti dolenti, non del libro, ma forse a metà tra me e gli autori, è il fatto che questo è il quinto libro della saga del commissario Ewert Grens, e la poca cura con cui i due presentano e fanno agire il personaggio. Sentiamo che sono successe tante cose nei libri precedenti, qualcosa ne veniamo a sapere, ma il ritratto a tutto tondo di Ewert esce sempre un po’ monco. Ha avuto una donna (moglie?) cui era molto legato, e morta credo nel libro precedente. Usava ascoltare continuamente per rilassarsi i dischi di Siw Malmkvist, una sorta di Mina svedese, poco più giovane di Ornella Vanoni). È burbero, scontroso, ma nei trentacinque anni di carriera nella Omicidi, ha risolto 213 caso su 216! Peccato però che tutti questi suoi tic vengano fuori a “bolla di sapone” e non se ne sappia null’altro, se non andando a leggere gli altri libri.

Tanto invece per fare chiarezza, Roslund è un giornalista svedese, molto attivo anche in cronaca nera mentre Hellström è un ex-detenuto, dedicatosi principalmente alla riabilitazione dei criminali usciti di prigione. Incontratisi fortuitamente, i due cominciano a scrivere di Grens con il libro “Odjuret” (in italiano “La bestia”) per poi scriverne 5. Dopo di che per un po’ smettono, anche in seguito alla malattia che porterà via Hellström nel 2017. Roslund, invece, poi prosegue ed arriva nel 2022, a scrivere il dodicesimo libro della saga. Insomma, con i dovuti distinguo i nostri autori sembrano una copia, alla svedese, dei nostri Colaprico e Valpreda.

Per venire al romanzo, in realtà sembra quasi che gli autori vogliano sdoppiare i protagonisti. Grens è sempre presente, fa le sue indagini ed ha ruoli rilevanti. Ma altrettanto co-protagonista risulta Piet Hoffmann, cittadino svedese con antenati prussiani (nella Konigsberg kantiana), ex-tossico ed ora infiltrato nella mafia polacca. Ha anche una vita esterna “rispettabile”: l’amatissima moglie Zofia ed i figli Rubens e Hugo.

Le storie dei due inevitabilmente si intrecciano. Piet, da infiltrato nella mafia polacca, deve gestire una partita di droga, che finisce in tragedia: il finto compratore era un poliziotto danese ed i polacchi, scopertolo, lo uccidono davanti a Piet. Ovviamente Grens viene incaricato delle indagini, anche se in mano ha poco meno di nulla. Mentre a Piet, che secondo i polacchi ha gestito bene la situazione, viene affidato un compito enorme: entrare nelle carceri e farle diventare una succursale di consumo e spaccio della droga.

Vediamo subito che Piet ha molte frecce al suo arco, chiedendo un colloquio con i vertici della polizia svedese per averne copertura. Ma allo stesso tempo, predisponendo una serie di elementi (armi, microfoni, nitroglicerina e chi più ne ha…) al fine di avere a disposizione un fronte ampio di risorse, prevedendo sempre la possibilità del peggio, ed affidandosi al suo mantra “fidati solo di te stesso”.

Piet si fa rinchiudere nel carcere e comincia il suo lavoro di smantellamento delle mafie precedenti a favore dei polacchi, ma facendo sempre attenzione a prepararsi improbabili vie di fuga. Mentre Grens, pur con quel poco che ha, riesce a collegare Piet alla sua indagine. Qui scatta il trappolone: se Grens parla con Piet si scoprono le coperture istituzionali, quindi bisogna impedirlo. Poiché fermare il nostro mastino è praticamente impossibile, gli alti papaveri scelgono la via di sacrificare Piet.

Qui si scatena tutto l’inferno finale, dove vediamo l’astuzia di Piet nel portare i poliziotti ad effettuare le mosse che lui si aspetta. Poiché tutto è perduto, riesce anche a far fuggire i suoi verso la Germania. C’è la scena clou del cecchino che spara a Piet asserragliato nel carcere, ma da lì, che si pensa finito il libro, ci sono oltre centocinquanta pagine di altro.

Che Piet aveva registrato il colloquio con i capi, e, tramite la moglie, lo fa recapitare a Grens, che a questo punto capisce Piet essere dalla sua parte, e, preso dall’inquietudine di aver fatto un errore, comincia a tirare tutte le fila per incastrare i suddetti capi.

Il finale è bello e tutto da leggere, e ve lo lascio gustare. Quello che mi piace sottolineare è anche l’intento politico degli autori. Denunciare il cattivo uso degli informatori da parte dell’autorità giudiziaria, nonché l’acquiescenza dell’amministrazione carceraria verso le infiltrazioni nelle carceri. Un grido di dolore che i nostri condensano i due scarne pagine di riflessioni personali alla fine del libro.

Una chicca finale. Ricordate che ho accennato alla cantante Malmkvist? Beh, uno dei suoi maggiori successi fu la canzone “Sole, sole, sole” cantata in coppia con il celebre cantante italiano (secondo svenska Wikipedia) Umberto Marcato. Spero che qualcuno dei miei anziani amici ne sappia qualcosa, per me è e rimane un onesto sconosciuto.

James Ellroy “Perfidia” Corriere Noir 6 euro 8,90

[A: 07/09/2022 – I: 21/03/2024 – T: 23/03/2024] - &  

[tit. or.: Perfidia; ling. or.: inglese; pagine: 886; anno 2014]

Sinceramente, e questa ne è una conferma, non ho mai amato particolarmente né James Ellroy né la sua scrittura. Certo, ho letto ed ho trovato interessante (più per il tema che per il libro in sé) il mitico “Dalia Nera”. Ma altre letture mi hanno lasciato freddo, e questa, se posso, ha definitivamente collocato l’autore ad uno dei più bassi gradini del mio gradimento.

Intanto, cominciamo dal titolo. Secondo le fonti più accreditata, il titolo viene in mente all’autore in quanto, in un plot ambientato a Los Angeles, e quindi con molte derive spagnoleggianti, il termine “Perfidia” starebbe per tradimento. Ora, io conosco poco lo spagnolo, ma mi sembra un forzatura. E seppur fosse vero al 100%, perché lasciarlo anche in italiano, dove di sicuro, perfidia ha tutt’altro significato. Inoltre, anche se molti personaggi sono perfidi, il termine che userei di più è corruzione, ed in subordine tradimento anche, dei valori, dei rapporti umani, delle regole del vivere civile.

Andando avanti, Ellroy ha una scrittura molto “pulp”, quasi fosse lo sceneggiatore preferito di Tarantino. Ma il suo incalzare frasi, una dopo l’altra, con ritmo asfissiante, anche se conseguente, non lascia il tempo di entrare nelle onde del testo. Si viene sballottolati a destra e sinistra, rimanendo senza punti di riferimento. Forse è anche questa un’idea dello scrittore, che non vuole il lettore abbia tregua. Tuttavia, se questo incalzare è unito al terzo problema che vado a toccare, la lettura diventa un percorso ad ostacoli, quasi insormontabile.

Infatti, il problema successivo è l’alto numero di personaggi. In uno sforzo di simpatia verso il lettore, Ellroy decide che, in chiusura di libro, sia giusto elencare i nome delle persone che agiscono nelle precedenti quasi novecento pagine. Peccato che, contandole, arriviamo a circa centocinquanta menzioni. Non credo essere nel torto dicendo che di circa 145 ne perdo traccia subito dopo averne letto. Anche perché, l’uso di nomi veri e/o credibili, porta ad una nominalistica in cui, personalmente, mi sono perso sin da pagina 30.

Ultimo grande problema è che questo è un “prequel” di tutte le scritture di Ellroy. Il cuore duro della sua scrittura è costituito da una tetralogia ed una trilogia che coprono, bene o male, gli anni dal ’50 al ’70 (se vogliamo essere precisi dal ’46 di “Dalia Nera” al ’72 di “Il sangue è randagio”), libri che si rincorrono nel tempo, e dove personaggi navigano nella serie da un libro all’altro. Qui, l’autore decide di fare un salto all’indietro, collocando la storia nel 1941, ma dove tutta una serie di personaggi saranno presenti in “Dalia Nera”. Ma la pecca dell’autore (o la presunzione) è che il lettore conosca il primo libro, e quindi lui può maneggiare i suoi personaggi, sapendo come saranno cinque anni dopo.

Noi, purtroppo, o non lo sappiamo, o, più realisticamente, lo abbiamo dimenticato, visto che il primo libro l’ho letto esattamente trent’anni fa, in un periodo in cui non avevo ancora il vizio di scrivere. Per cui, a parte l’idea base del romanzo, non ricordo più molti dettagli, né tanto meno chi siano i personaggi principali, chi i comprimari e chi faccia cosa.

Fatte tutte queste lunghe, ma doverose, premesse, il romanzo in sé segue tre grossi filoni di azione, e quattro personaggi che agiscono come se ognuno di loro fosse il principale. Laddove il personaggio principale in realtà è l’America stessa, con tutte le sue sfaccettature di bontà e cattiveria, di onestà e razzismo che conosciamo da sempre nel suo tessuto vivente.

I primi due filoni, ben intrecciati, si svolgono nell’arco del romanzo, che va dal 6 al 29 dicembre 1941. Il primo è l’aggancio poliziesco del romanzo, la morte di una famiglia giapponese, i Watanabe. Le indagini relative alla loro morte, passando dall’ipotesi di un suicidio rituale alla realtà di un omicidio. I corpi vengono trovati nella notte tra il 6 ed il 7 dicembre, con un (falso) biglietto evocativo, ma che subito si intreccia con il secondo (e per Ellroy più importante) filone, visto che alle 07:53 del 7 dicembre 1941 cominciò l’attacco giapponese a Pearl Harbour, che decretò ufficialmente l’entrata in guerra degli Stati Uniti.

Seguiremo quindi a lungo tutta la trafila della gestione dei giapponesi in America, sia gli immigrati (“giapp”) sia i nativi in America da genitori giapponesi (“nisei”), con la descrizione delle deportazioni, degli arresti, degli sciacallaggi che politici e poliziotti corrotti perpetrano alle spalle dei giapponesi (indiscriminatamente, siano essi fedeli all’imperatore che fedeli a Roosevelt).

Il terzo filone, che poi è un “basso continuo” del mondo americano è la lotta a tutti i tentativi (spesso inesistenti) di creare una rete di sinistra in America, una lotta senza quartiere che sfocerà nelle aberrazioni di McCarthy negli anni ’50.

I quattro personaggi chiave del romanzo, il cui agire vediamo intrecciarsi nei vari filoni del libro, sono Hideo Ashida, Kay Lake, Dudley Smith, e William Parker III. I primi due compaiono anche in “Dalia Nera”, il terzo negli altri volumi della “tetralogia di L.A.”, come l’ultimo, uno dei tanti personaggi reali delle saghe di Ellroy.

Ashida è un brillante criminologo che svela i meccanismi del finto “seppuku” dando il via alle vere indagini. Ha però due difetti: è “nisei”, quindi coinvolto nei pogrom antigiapponesi del dopo Pearl Harbour, ed è omosessuale, avendo un debole per il pugile-poliziotto Bleichert (quello che con Lee Blanchard sarà il motore delle indagini in “Dalia Nera”). Sarebbe un eroe morale del romanzo, ma pronto a qualche compromesso per sfuggire al suo destino di giapponese. Compromessi di cui trarrà beneficio il cattivissimo Dudley Smith.

Smith simboleggia un livello di brutalità suprema, si pone all’estremo opposto della morale di Ashida, ed è l’emblema della corruzione immodificabile del LAPD (per chi non vedesse i serial tv, il Los Angeles Police Department). Paladino della morale fascista del momento: giapponesi internati ei i loro soldi a me. Da Ellroy è poi contrapposto, anche, alla diversa brutalità di William Parker III, l’incarnazione, per lo scrittore, di una ambiguità tutta cattolica. Parker è sempre in bilico tra la constatazione dell’esistenza del male quotidiano e il senso di colpa di non saperlo combattere sino infondo; per di più è ossessionato dai comunisti, che vede come maggiore minaccia alla pace nel mondo, tanto da trovare ovunque complotti ed inventarsi assurdi ricatti per infiltrare una sua (presunta) pedina all’interno di consorterie sinistrorse.

Pedina che non è altro che Kay Lake, proveniente da un torbido passato, che inizia (e poi lo sarà maggiormente in “Dalia Nera”) ad essere contesa dai due poliziotti sopra citati, Bleichert e Blanchard. Kay a me risulta in fondo l’unica simpatica, anche perché intarsia la trama con il suo diario. Ed anche perché è una (l’unica?) protagonista femminile di Ellroy.

Piccolo inciso: Parker, tra l’altro, è stato il personaggio che più a lungo ha militato nella polizia di Los Angeles, dal ’27 al ’66, divenendone il capo nel ’50, recitando un ruolo fondamentale nella soluzione del caso del “Natale di Sangue” del ’51, dove, sotto la sua guida, ci fu la famosa inchiesta che portò all'incriminazione di otto agenti di polizia per aggressione, mentre altri cinquantaquattro furono trasferiti e trentanove furono sospesi dal servizio. Ma questa è la storia, che vi invito a leggere altrove, e non nei libri di Ellroy.

Non entro in altri particolari della trama che è talmente complicata che si fa prima a leggerla che a parlarne. Ellroy ha solo interesse, e noi con lui, a mostrare il lato oscuro dell’America, lontano, se vogliamo, da isole illuminate come San Francisco o New York. Ma un’America “nera”, dove nessuno si salva, dove tutti tradiscono tutti, motivati da potere e denaro. E sono mosse che, internamente, trovano una spiegazione da parte degli interessati, ma è una spiegazione che, letta correttamente, risulta fuori da ogni possibile realtà.

Tuttavia, Ellroy ci dice che questa è (anche) l’America. Per esemplificare, quindi, non posso che terminare citando un altro personaggio reale presente nel libro, il pastore protestante, razzista e antisemita, Gerald K. L. Smith, che, nel prologo del romanzo, pronuncia un sermone che conclude con le parole, dedicate alla guerra da poco scoppiata: “questa guerra voluta dai comunisti si dirige verso di noi”. Epigrafe del sentimento americano duro e puro, che Ellroy cerca di stigmatizzare in tutti i suoi libri.

Gillian Flynn “Sharp Objects” Corriere Profondo Nero 19 euro 7,90

[A: 19/11/2019 – I: 12/04/2024 – T: 14/04/2024] - &&    

[tit. or.: Sharp Objects; ling. or.: inglese; pagine: 346; anno 2006]

Allora, primo romanzo che leggo dell’autrice di Best Sellers, Gillian Flynn. Nota, più che altro, per il suo terzo libro, “Amore bugiardo”, e per il film che ne fu tratto con protagonista Ben Affleck. Questo è anche il primo libro che Gillian ha scritto, sei anni prima dell’amore e tre anni prima del secondo libro, “Nei luoghi oscuri”.

Tra l’altro, deve di sicuro avere dei santi in Paradiso, che anche questo e i luoghi oscuri sono stati trasferiti sullo schermo. Uno come miniserie tv, il secondo anch’esso come film. Insomma, tre libri, tra adattamenti e molte entrate. Infatti, fino all’uscita di questo libro, aveva anche un lavoro da giornalista per “Entertainment Weekly”, che, visto i successi, abbandona per dedicarsi completamente alla scrittura.

Ultima annotazione, i suoi titoli originali sono sempre corti, veloci (“Sharp Objetcs”, “Dark Places”, “Gone Girl”). Fortunatamente, questa seconda edizione italiana del libro ripristina il titolo originale, che la prima pubblicazione portava il titolo “Sulla pelle”. Che ha un suo senso, ma che sposta qualcosa nei meccanismi di fruizione.

Comunque, per venire al romanzo ed alla scrittura, si vede bene la carriera giornalistica di Gillian: la scrittura scorre, ed il libro, pur avendo aspetti irritanti, si lascia leggere. Certo, si arriva alla fine dicendosi che tutto sommato, dopo le prime cinquanta pagine si era detto tutto, e non si capisce perché la scrittrice ha voluto aggiungerne altre trecento.

Ma la storia non riesce mai a decollare. La protagonista, io narrante, è Camille una trentenne giornalista di una giornale di bassa tiratura di Chicago, che non riesce a sfondare e che Curry, il suo capo, protettivo e paterno, invia nella sua cittadina natia, per una serie di articoli di cronaca nera. Infatti, nella natia Wind Gap nel Missouri un anno prima è morta una ragazza, ed ora ne scompare una seconda, poi ritrovata morta anch’essa, con identiche modalità: strangolamento ed estrazione dentale completa.

Ma più che il giallo, che comunque seguiamo, è l’atmosfera generale del posto che interessa alla scrittrice. Camille torna a casa dalla madre, Adora, dove vive anche Amma, la sua sorellastra (torneremo poi sull’onomastica di Gillian). E ne vediamo tutte le dinamiche: Adora è una madre fredda e distante, forse mai ripresasi dalla morte di Marian, la prima sorella di Camille. Accudisce la casa con piglio teutonico, senza un briciolo di empatia verso Camille. Amma è invece una tredicenne viziata che finge di essere buona davanti alla madre per nascondere il suo fare uso di alcol, droghe e la sua promiscuità.

In tutto ciò, scopriamo anche che Camille è autolesionista, incidendosi sulla pelle le parole che tormentano la sua vita: sulla pancia bambina, sul polso malvagia, su di un piede piangi, sul bacino depravata, sul seno tragedia, sul collo svanire. La scrittrice vuol farci cadere nel gorgo dell’analisi motivazionale di ogni termine (e qui ne ho riportato solo alcuni), ma noi andiamo subito oltre, presi anche dal fatto che, nel 90% dei casi, solo donne agiscono nel testo.

Perché Camille si comporta quasi da sedicenne in costruzione. Beve come una spugna, va a letto con il detective che segue le indagine (che fa due o tre interventi in dialoghi, senza lasciare alcun segno) e poi con un diciottenne principale sospettato. Si fa circuire spesso da Amma, che certo ha una personalità forte, ma, cavolo, ha solo tredici anni, e Camille ad un certo punto, la vedremo ubriacarsi e drogarsi assieme a lei (esempio fulgido di sorella maggiore).

Ovvio che la soluzione del giallo, che prima o poi arriverà, con sottofinali e finali ruotanti intorno ad un disturbo definito in psichiatria “sindrome di Münchhausen per procura”. Ma è anche ovvio che se fin dall’inizio ne capiamo le origini, l’autrice è almeno abbastanza abile nel rigirarci intorno, arrivando ad una soluzione un filo meno scontata del previsto.

Tanto per mettere i puntini sulle “i” dei personaggi che più a lungo occupano le pagine del testo, metterei nel dimenticatoi dei personaggi mancati, Adora, di cui abbiamo detto, ribadendo solo che non ci meravigliamo della sua impassibile freddezza. Mentre Amma è una persona inaffidabile e sleale, e Camille è talmente piatta che non suscita nessun sentimento forte. Non risulta simpatica, non riusciamo né ad amarla né a odiarla, e forse potremmo soltanto trovare un moto di compassione solo spinti dalla grande tenerezza (immotivata secondo me) che ispira a Curry.

Volevo solo finire riprendendo il nominalismo, che quei nomi di famiglia sono di certo pescati con il lanternino. Cercandone meglio il significato, vediamo che “Adora” è un derivato tardo medioevale latino, con significato di “Amore”, mentre “Amma” viene dal bantu, e significa “Madre”. Laddove mi domando perché una bambina del Missouri debba avere un nome bantu!

Michael Hjorth & Hans Rosenfeldt “Oscuri segreti” Corriere Profondo Nero 21 euro 7,90

[A: 04/12/2019 – I: 27/04/2024 – T: 29/04/2024] - &&&  

[tit. or.: Det Fördolda; ling. or.: svedese; pagine: 520; anno 2010]

Un altro buon giallo svedese, con alcune pecche nella caduta di tensione dovuta, forse, ad un numero di pagine in realtà un po’ sovrabbondante (ma gli editor non farebbero bene a consigliare ogni tanto qualche snellimento?). Ed ancora un giallo a due mani, come spesso capita nella letteratura scandinava (ovviamente si pensa subito a Sjöwall & Wahlöö, ma anche, per affinità di temi ad un altro da poco letto di Roslund & Hellström). Una buona fattura, tanto da farmi sospettare che se i curatori della collana avessero dato più spazio a svedesi & co, forse la collana stessa ne avrebbe tratto giovamento).

Una delle pecche più evidenti, tanto per cominciare, è che in questa edizione scompare il sottotitolo esplicativo “Le cronache di Sebastian Bergman”. Sì, perché è Sebastian il punto centrale del romanzo, così come lo sarà nei due capitoli successivi. Anche se il personaggio, soprattutto all’inizio, è assai antipatico ed indisponente. Certo, viene da un trauma profondo, avendo perso moglie e figlia nella tsunami thailandese del 2004 (quello con più di 200.000 morti).

Sebastian è (era) uno psicologo di successo, autore di un libro di successo su di un serial killer, data il suo lavoro nell’ambito della Polizia Criminale svedese. Ma dopo il trauma, si ritira a vita privata, vive dei proventi dei suoi libri di successo, conduce una vita discretamente solitari, caratterizzata solo dalla tendenza a portarsi a letto tutte le donne che incontra (anche se poi sono convergenze di una sola notte).

Sebastian torna a Västerås, suo luogo d’infanzia, per alienare le proprietà della madre da poco morta, e con la quale non aveva certo un buon rapporto. Anzi, forse non ne aveva nessuno. Prima di vendere, comunque, mette a posto la casa, e scopre una fascio di lettere, che lo inducono ad una domanda: è possibile che in gioventù abbia avuto una prole da una donna di cui non ricorda nulla.

In parallelo, vediamo anche come i nostri giocano ad incastro, che proprio a Västerås avviene uno strano omicidio: viene ucciso un ragazzo, poi seviziato con coltellate e privato del cuore. Un omicidio complicato ed inesplicabile, tanto che sul posto viene inviata l’unità di crisi della Omicidi. Conosciamo così Torkel Höglund, responsabile della squadra ed un tempo molto vicino a Sebastian, il tecnico forense super efficiente Ursula, che, pur sposata, ebbe una relazione con Sebastian, ed ora ce l’ha con Torkel (e questi intrecci non potranno che generare attriti), la giovane investigatrice Vanja Lithner, dotata di buone intuizione ma soprattutto immediatamente in conflitto con Sebastian, e Billy, la recluta, ma anche gran genio dell’informatica.

Per aggiungere tocchi di ironia (anche se poi allungano soltanto il brodo) c’è Thomas, l’agente locale, voglioso di aiutare, ma capace soltanto di fare brutte figure, ed a volte di intralciare le indagini stesse.

Sebastian, pungolato dalle lettere di cui sopra, si unisce di straforo al gruppo, più per sfruttare Billy nella ricerca della donna delle lettere che per aiutare a risolvere il mistero. Ma verrà intrigato da alcuni momenti indagativi, e non potrà poi tirarsi indietro, anzi sarà forse un elemento decisivo a tirar fuori il reale andamento dei fatti.

Per la parte d’indagine, tolti i motivi personali accennati, i nostri ci fanno immergere in una tipica cittadina della provincia svedese. Il ragazzo morto era un po’ emarginato, ed un po’ bullizzato, tanto da cambiare scuola per evitare molestie. Con un solo amico, con una ragazza (però finta, visto che a tutte e due serviva di facciata), con una storia con … (beh, mica posso dire tutto). Fatto sta che, intorno alla morte ne cominciano a fioccare altre, tutte in qualche modo collegate alla prima, quasi che si volesse fare terra bruciata intorno.

Tra l’altro, la compulsività sessuale di Sebastian lo porta nel letto sia della madre del morto che della madre dell’amico del morto. Infaticabile! Comunque, come ci si aspetta, nonostante l’antipatia, saranno le intuizioni di Sebastian a delucidare il mistero, in una serie di finali e sottofinali che ci porteranno, grazie a Billy, a risolvere anche il problema delle lettere. Soluzione che darà uno scossone spero definitivo alla granitica supponenza di Sebastian.

Come spesso in questo tipo di filone svedese, il ritmo generale è abbastanza buono. Anche perché i due autori sono legati a produzioni televisive, tanto che, se cercate sulla rete ZDF, trovate una produzione seriale credo in tre o quattro episodi, basata su Sebastian e realizzata dai nostri due sceneggiatori. Una buona lettura, pur non eccelsa, che proseguirà (forse) se i due verranno inseriti in altre collane. Altrimenti, finisce qui.

Abbiamo una sequenza di gialli anglo-svedesi, allora vi porgo una (lunga) sequenza di parole e di ricordi di un autore (anche) di gialli, il zimbabwese-scozzese Alexander Mc Call Smith, presente in tre uscite tra scritti d’amore, scritti para-filosofici e scritti di formazione.

Le prime frasi sono tratte da “Amici, amanti, cioccolato” (e già il titolo mi aveva fatto innamorare del libro):

“Non potrai mai diventare me. E io non potrò mai trasformarmi in te. Non si arriva mai a conoscere gli altri abbastanza da vestire i loro panni. Forse ne siamo convinti, ma in realtà non è così” (16)

“Era innamorato. Quando amiamo qualcuno ci viene spontaneo parlarne, vogliamo vantarcene, come se si trattasse di un trofeo sentimentale. Pensiamo che questa persona possa suscitare negli altri il fascino che esercita su di noi: vana speranza, gli amanti altrui raramente ci interessano.” (54-55)

“Ogni angolo le rievocava qualcosa. Non era così per gli abitanti di tutte le città? Si ricordava dove erano accaduti certi episodi, gli angoli in cui un tempo c’era una caffetteria o un bar, oppure il palazzo in cui era stata assunta per il suo primo impiego; posti in cui aveva ricevuto un incarico, subito una delusione, collezionato un successo.” (82-83)

“- Non gliel’ho detto… - è una buona idea? – Probabilmente no. Eppure, ci capita spesso di mentire alle persone che amiamo o di omettere delle cose, proprio perché le amiamo, non credi?” (204)

Continuiamo poi con “Il piacere sottile della pioggia”:

“Quanti di noi sono sempre felici di trovarsi nel posto in cui stanno? … solo chi è contento del tutto pensa di trovarsi nel posto giusto” (11)

“Se [il carattere] … e la personalità erano la stessa cosa, allora qualcuno si sbagliava: gli psicologi che sostenevano che il carattere non si modifica o i filosofi che ritenevano la personalità malleabile?” (30)

“Quando si rivela qualcosa che ci riguarda si prova sempre un senso di alleggerimento da quel fardello che ci portiamo tutti sulle spalle: il peso di essere noi stessi” (83)

“Non importa quando ti capita, a che età muoiono i tuoi genitori. Ti mancano … Si chiude un capitolo. E due dei personaggi più importanti della storia scompaiono” (97)

Saper ricevere era importante quanto essere capace di donare” (133)

“Quando parliamo di qualcosa è perché ci interessa, o a volte perché ci crediamo, persino se affermiamo il contrario. Per questo ci capita di criticare gli altri quando fanno esattamente ciò che vorremmo fare noi, ma non osiamo: quindi è legittimo non credere a uno scrittore quando afferma che le parole che ha scritto non avevano niente a che vedere con lui” (169)

“le persone sono portate a riscrivere la propria storia personale, come biografi troppo clementi, in modo da apparire sempre sotto la luce migliore” (256)

Finendo poi con “L’uso sapiente delle buone maniere”

“Dei suoi innumerevoli difetti, quello di pensare troppo era sicuramente il più eclatante.” (10)

“Era quello, in un certo senso, il peso della filosofia: si sapeva bene cosa si dovesse fare, ma spesso era l’opposto di ciò che si desiderava davvero.” (35)

“Avere un bambino voleva dire mettere un’ipoteca sul futuro, si. Ma non valeva lo stesso anche per tutti i rapporti umani e d’amicizia?” (69)

“Pura sfortuna quella di innamorarsi della persona sbagliata. Ma capitava di continuo: ci si innamora di qualcuno che per un motivo o per l’altro non ci poteva appartenere. E di lì in poi si scontava la pena, la condanna all’amore impossibile o non corrisposto, che poteva durare anni e anni, senza sconti per buona condotta, senza amnistia.” (74)

“Non credi sia possibile … che si finisca per amare più persone? Persone che amavamo un tempo e a cui vogliamo ancora bene. Ma che restano sullo sfondo, e noi cominciamo ad amarne altre, persone che appartengono al presente e non al passato.” (93)

“Abbiamo bisogno di qualcosa da amare, e ci si può innamorare di tutto: l’amore ha solo bisogno di un oggetto” (164)

“Si può volere e non volere una cosa nello stesso istante? Certo che sì, si rispose.” (171)

“- Stavolta hai fatto la cosa giusta… - Però … ho capito che era la cosa giusta solo dopo aver agito.” (257)

Siamo arrivati alla metà di un giugno che si pensava più calmo e rilassato, ma tant’è, l’importante è riposarsi, programmare e guardare avanti, che indietro ci pensano i libri a fartelo tornare in mente. E perciò non possiamo non dirci contenti di quello che abbiamo sino ad ora raggiunto. Un pensiero rilassante e marino e un abbraccio salato.

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