Piccolo ed innocente gioco di parole per presentare una cinquina di romanzi gialli non italiani. Dove abbiamo, ed io lo sapevo, alcune conferme sul genere. Prima di tutto, rimane, anche se si avvia alla quarta età, la buona fattura dei libri di Elizabeth George. Come rimangono di due buon livelli i gialli di marca svedese, anche se, purtroppo, ben datati. Rimane la poca consistenza globale della collana noir del Corriere della Sera. Infine, rimane e si conferma la mia poca empatia con James Ellroy.
Per il resto, poteva andar peggio. Poteva piovere
(citazione).
Elizabeth George “Punizione” Superpocket
euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,50 euro)
[A: 07/08/2019 – I: 26/08/2023 – T: 29/08/2023] - &&& e ½
[tit. or.: The Punishment She Deserves; ling. or.: inglese; pagine: 682; anno 2018]
LYNLEY20
Siamo
ben al ventesimo libro della grande saga poliziesca imbastita dalla maestra del
genere Elizabeth George. Una scrittrice che mi è sempre piaciuta ed una delle
poche serie di cui ho letto tutti i libri. Ho potuto quindi seguire l’evolversi
del protagonista l’ispettore Thomas Lynley, apprezzando poi l’esercito di
comprimari che, libro dopo libro, ne costituisce il “cerchio magico”. La morte
della moglie che ha costituito un punto nodale della serie, la presenza degli
amici, i coniugi St. James, fondamentali nel risollevare Thomas anche se da
qualche libro un po’ in secondo piano, l’inserimento del sergente Barbara
Harris, all’inizio in secondo piano, ma ora, con Thomas che si palese solo
quando la trama si complica, divenendo quasi un elemento centrale della serie, l’arrivo
del vicecommissario Isabelle Ardery che diventa capo di Lynley avendo questi
rifiutato il ruolo.
Una
dovuta premessa di ricapitolazione dato che sono passati ben cinque anni dalla
lettura del capitolo precedente, che avevo trovato in calo rispetto al buon
livello della serie nel complesso. Livello che qui torna sui suoi soliti alti
livelli, per una serie di motivi. La trama si snoda in modo più lineare, Lynley
torna ad avere una presenza non marginale, Barbara migliora i suoi
comportamenti e si affaccia sulla scena con il piglio che ricordavamo,
Isabelle, inizialmente molto antipatica, verso la fine comincia a diventare
umana e probabilmente riuscirà a trovare una collocazione più positiva nel
futuro. Anche le descrizione del contorno evitano di inciampare in inesattezze
non volute, rendendo al fine la confezione gradevole, pur se sempre un po’
lunghetta.
Certo,
il titolo italiano è un po’ secco, mettendo l’accento sulla punizione (ovvio
per qualcosa che si commette), mentre in inglese veniva aggiunto un riferimento
femminile (che lei merita) che avrebbe orientato lo sguardo sulla platea di
personaggi femminili presenti.
Il
caso, comunque, comincia in modo lento. Un diacono, accusato di pedofilia, si
suicida. Il facoltoso padre del morto convince il responsabile in capo, Sir
David, ad aprire un inchiesta sugli aspetti di correttezza procedurale avvenuti
durante l’arresto del diacono Ian ed alla sua successiva morte. Sir David ha la
brillante idee di inviare sul luogo una coppia veramente male assortita:
Isabelle e Barbara. Le due non si sopportano, ed Isabelle tenta da tempo di cogliere
in fallo Barbara per allontanarla. Cosa che mette sempre in difficoltà Barbara,
tarpandole le ali quando lei, per sua natura, indaga sugli avvenimenti in
maniera un po’ anarcoide.
Le
indagini ruotano intorno all’agente ausiliario Gary (che non ha mai superato
gli esami da poliziotto per una sua evidente dislessia e discalculia) che ha
eseguito l’arresto, ma si è allontanato, consentendo la morte del diacono.
Isabelle, presa anche dai suoi problemi personali (una forte dipendenza
dall’alcool, accentuata dalla minaccia del suo ex-marito di trasferirsi in
Nuova Zelanda con i loro due figli), vuole chiudere in fretta, anche perché,
coadiuvata dalla vicecomandante locale, Clover Freeman, non riscontra
problematiche negative nelle procedure.
Ovvio
che invece Barbara si focalizza su altri aspetti: il diacono era benvoluto (ed
allora perché accusarlo di pedofilia?), il luogo degli avvenimenti è
frequentato dai giovani delle locali istituzioni universitarie, con
comportamenti alcolici, piccole canne, e scopate più o meno volontarie. Tutto
ruotando su di una casa dove vivono Missa, figlia di immigrati indiani (che si
allontana prima dell’inizio delle indagini dei nostri), Finn, il figlio della
Freeman, molto amico del diacono, Brutus e Ding, una coppia aperta, ma solo
dalla parte maschile. Ed il fiuto di Barbara porta la nostra a sospettare che
ci sia qualcosa in più di problemi formali.
Così
che per indagare sulle reali circostanze della morte, arriva sul posto anche
Thomas. Esautorata Isabelle, i nostri investigatori cominciano a trovare
dissonanze. La telefonata accusatoria è avvenuta diciannove giorni prima
dell’arresto, senza che il diacono sia mai stato indagato. Si scopre che Gary è
utilizzato dalla Freeman un po’ come cane da guardia dei giovani, spesso
coinvolto nel riaccompagnare a casa i giovani che alzano troppo il gomito.
Situazione che capita spesso a Finn, ma altrettanto spesso alle ragazze del
luogo.
Quando
poi Thomas scopre che il diacono aveva chiesto una valutazione scientifica su
certa biancheria, appartenuta a una ragazza che era stata sodomizzata, scattano
altri campanelli. Che diventano un orchestra nel momento che si viene a
supporre che il sodomita possa essere Finn, e che Gary e la Freeman potrebbero
aver cercato di mescolare le carte. Un elemento che la scrittrice presenta in
modo molto palese, ma che a tutti era sfuggito, porta ad indirizzare Thomas e
Barbara nella giusta direzione, portando la polizia a risolvere il caso, a
punire i colpevoli, ed a permettere ad Isabelle di maturare e chiedere
un’aspettativa per disintossicarsi.
Ovvio
che molto di più c’è nel libro, visto che la George riempie più di seicento
pagine. Ma sono elementi che servono a disegnare un quadro più completo delle
situazioni di tutti i personaggi coinvolti. Alcuni sarebbero utili per aiutare
voi lettori nelle indagini, ma sarebbe bene li scopriste da soli.
La
bravura di Elizabeth George sta poi nel costellare la sua narrazione di spunti
problematici che sono sugli occhi di tutti, e che devono far riflettere. Gli
eccessi dei ragazzi lasciati a briglie sciolte nei college, con le conseguenti
derive alcoliche. Derive presenti anche negli adulti, dipendenza da farmici e
bottiglie che danno sicuri problemi sul piano privato e sul piano lavorativo.
Con il leitmotiv di fondo dei rapporti tra genitori e figli. Dove i primi non
hanno il coraggio di affrontare i secondi, magari ponendo domande scomode. E
disapprovando scelte che si allontanano dal loro consolidato modo di vivere. E
dove i giovani, rifugiandosi negli eccessi, rifiutano essi stessi un confronto
con gli adulti. Un bel problema, ben più grande del libro stesso.
È
anche gradevole, infine, la capacità di inserire siparietti ironici nella
narrazione, che ne alleggeriscono i toni quando serve.
Intanto,
è uscito anche il ventunesimo episodio
Anders Roslund & Börge Hellström
“Tre secondi” Corriere Profondo Nero 13 euro 7,90
[A: 10/10/2019 – I: 12/02/2024 – T: 14/02/2024]
- &&&
[tit. or.: Tre sekunder; ling. or.: svedese; pagine: 660; anno 2009]
Uno
dei pochi libri di questa non fortunata collana che si fa leggere, è
discretamente avvincente, grazie ad una trama che sembra dipanarsi senza
sussulti, ma che alla fine si rivela discretamente stimolante. Rimangono punti
non detti e rimandi incompresi, anche se comprensibili, ma il tutto merita una
più che dignitosa sufficienza.
Uno
dei punti dolenti, non del libro, ma forse a metà tra me e gli autori, è il
fatto che questo è il quinto libro della saga del commissario Ewert Grens, e la
poca cura con cui i due presentano e fanno agire il personaggio. Sentiamo che
sono successe tante cose nei libri precedenti, qualcosa ne veniamo a sapere, ma
il ritratto a tutto tondo di Ewert esce sempre un po’ monco. Ha avuto una donna
(moglie?) cui era molto legato, e morta credo nel libro precedente. Usava
ascoltare continuamente per rilassarsi i dischi di Siw Malmkvist, una sorta di
Mina svedese, poco più giovane di Ornella Vanoni). È burbero, scontroso, ma nei
trentacinque anni di carriera nella Omicidi, ha risolto 213 caso su 216!
Peccato però che tutti questi suoi tic vengano fuori a “bolla di sapone” e non
se ne sappia null’altro, se non andando a leggere gli altri libri.
Tanto
invece per fare chiarezza, Roslund è un giornalista svedese, molto attivo anche
in cronaca nera mentre Hellström è un ex-detenuto, dedicatosi principalmente
alla riabilitazione dei criminali usciti di prigione. Incontratisi
fortuitamente, i due cominciano a scrivere di Grens con il libro “Odjuret” (in
italiano “La bestia”) per poi scriverne 5. Dopo di che per un po’ smettono,
anche in seguito alla malattia che porterà via Hellström nel 2017. Roslund,
invece, poi prosegue ed arriva nel 2022, a scrivere il dodicesimo libro della
saga. Insomma, con i dovuti distinguo i nostri autori sembrano una copia, alla
svedese, dei nostri Colaprico e Valpreda.
Per
venire al romanzo, in realtà sembra quasi che gli autori vogliano sdoppiare i
protagonisti. Grens è sempre presente, fa le sue indagini ed ha ruoli
rilevanti. Ma altrettanto co-protagonista risulta Piet Hoffmann, cittadino
svedese con antenati prussiani (nella Konigsberg kantiana), ex-tossico ed ora
infiltrato nella mafia polacca. Ha anche una vita esterna “rispettabile”:
l’amatissima moglie Zofia ed i figli Rubens e Hugo.
Le
storie dei due inevitabilmente si intrecciano. Piet, da infiltrato nella mafia
polacca, deve gestire una partita di droga, che finisce in tragedia: il finto
compratore era un poliziotto danese ed i polacchi, scopertolo, lo uccidono
davanti a Piet. Ovviamente Grens viene incaricato delle indagini, anche se in
mano ha poco meno di nulla. Mentre a Piet, che secondo i polacchi ha gestito
bene la situazione, viene affidato un compito enorme: entrare nelle carceri e
farle diventare una succursale di consumo e spaccio della droga.
Vediamo
subito che Piet ha molte frecce al suo arco, chiedendo un colloquio con i
vertici della polizia svedese per averne copertura. Ma allo stesso tempo,
predisponendo una serie di elementi (armi, microfoni, nitroglicerina e chi più
ne ha…) al fine di avere a disposizione un fronte ampio di risorse, prevedendo
sempre la possibilità del peggio, ed affidandosi al suo mantra “fidati solo di
te stesso”.
Piet
si fa rinchiudere nel carcere e comincia il suo lavoro di smantellamento delle
mafie precedenti a favore dei polacchi, ma facendo sempre attenzione a
prepararsi improbabili vie di fuga. Mentre Grens, pur con quel poco che ha,
riesce a collegare Piet alla sua indagine. Qui scatta il trappolone: se Grens
parla con Piet si scoprono le coperture istituzionali, quindi bisogna
impedirlo. Poiché fermare il nostro mastino è praticamente impossibile, gli
alti papaveri scelgono la via di sacrificare Piet.
Qui
si scatena tutto l’inferno finale, dove vediamo l’astuzia di Piet nel portare i
poliziotti ad effettuare le mosse che lui si aspetta. Poiché tutto è perduto,
riesce anche a far fuggire i suoi verso la Germania. C’è la scena clou del
cecchino che spara a Piet asserragliato nel carcere, ma da lì, che si pensa
finito il libro, ci sono oltre centocinquanta pagine di altro.
Che
Piet aveva registrato il colloquio con i capi, e, tramite la moglie, lo fa
recapitare a Grens, che a questo punto capisce Piet essere dalla sua parte, e,
preso dall’inquietudine di aver fatto un errore, comincia a tirare tutte le
fila per incastrare i suddetti capi.
Il
finale è bello e tutto da leggere, e ve lo lascio gustare. Quello che mi piace
sottolineare è anche l’intento politico degli autori. Denunciare il cattivo uso
degli informatori da parte dell’autorità giudiziaria, nonché l’acquiescenza
dell’amministrazione carceraria verso le infiltrazioni nelle carceri. Un grido
di dolore che i nostri condensano i due scarne pagine di riflessioni personali
alla fine del libro.
Una
chicca finale. Ricordate che ho accennato alla cantante Malmkvist? Beh, uno dei
suoi maggiori successi fu la canzone “Sole, sole, sole” cantata in coppia con
il celebre cantante italiano (secondo svenska Wikipedia) Umberto Marcato. Spero
che qualcuno dei miei anziani amici ne sappia qualcosa, per me è e rimane un
onesto sconosciuto.
James Ellroy “Perfidia” Corriere Noir 6
euro 8,90
[A: 07/09/2022 – I: 21/03/2024 – T: 23/03/2024]
- &
[tit. or.: Perfidia; ling. or.: inglese;
pagine: 886; anno 2014]
Sinceramente,
e questa ne è una conferma, non ho mai amato particolarmente né James Ellroy né
la sua scrittura. Certo, ho letto ed ho trovato interessante (più per il tema
che per il libro in sé) il mitico “Dalia Nera”. Ma altre letture mi hanno
lasciato freddo, e questa, se posso, ha definitivamente collocato l’autore ad
uno dei più bassi gradini del mio gradimento.
Intanto,
cominciamo dal titolo. Secondo le fonti più accreditata, il titolo viene in
mente all’autore in quanto, in un plot ambientato a Los Angeles, e quindi con
molte derive spagnoleggianti, il termine “Perfidia” starebbe per tradimento.
Ora, io conosco poco lo spagnolo, ma mi sembra un forzatura. E seppur fosse
vero al 100%, perché lasciarlo anche in italiano, dove di sicuro, perfidia ha
tutt’altro significato. Inoltre, anche se molti personaggi sono perfidi, il
termine che userei di più è corruzione, ed in subordine tradimento anche, dei
valori, dei rapporti umani, delle regole del vivere civile.
Andando
avanti, Ellroy ha una scrittura molto “pulp”, quasi fosse lo sceneggiatore
preferito di Tarantino. Ma il suo incalzare frasi, una dopo l’altra, con ritmo
asfissiante, anche se conseguente, non lascia il tempo di entrare nelle onde
del testo. Si viene sballottolati a destra e sinistra, rimanendo senza punti di
riferimento. Forse è anche questa un’idea dello scrittore, che non vuole il
lettore abbia tregua. Tuttavia, se questo incalzare è unito al terzo problema
che vado a toccare, la lettura diventa un percorso ad ostacoli, quasi
insormontabile.
Infatti,
il problema successivo è l’alto numero di personaggi. In uno sforzo di simpatia
verso il lettore, Ellroy decide che, in chiusura di libro, sia giusto elencare
i nome delle persone che agiscono nelle precedenti quasi novecento pagine.
Peccato che, contandole, arriviamo a circa centocinquanta menzioni. Non credo
essere nel torto dicendo che di circa 145 ne perdo traccia subito dopo averne
letto. Anche perché, l’uso di nomi veri e/o credibili, porta ad una
nominalistica in cui, personalmente, mi sono perso sin da pagina 30.
Ultimo
grande problema è che questo è un “prequel” di tutte le scritture di Ellroy. Il
cuore duro della sua scrittura è costituito da una tetralogia ed una trilogia
che coprono, bene o male, gli anni dal ’50 al ’70 (se vogliamo essere precisi
dal ’46 di “Dalia Nera” al ’72 di “Il sangue è randagio”), libri che si
rincorrono nel tempo, e dove personaggi navigano nella serie da un libro
all’altro. Qui, l’autore decide di fare un salto all’indietro, collocando la
storia nel 1941, ma dove tutta una serie di personaggi saranno presenti in
“Dalia Nera”. Ma la pecca dell’autore (o la presunzione) è che il lettore
conosca il primo libro, e quindi lui può maneggiare i suoi personaggi, sapendo
come saranno cinque anni dopo.
Noi,
purtroppo, o non lo sappiamo, o, più realisticamente, lo abbiamo dimenticato,
visto che il primo libro l’ho letto esattamente trent’anni fa, in un periodo in
cui non avevo ancora il vizio di scrivere. Per cui, a parte l’idea base del
romanzo, non ricordo più molti dettagli, né tanto meno chi siano i personaggi
principali, chi i comprimari e chi faccia cosa.
Fatte
tutte queste lunghe, ma doverose, premesse, il romanzo in sé segue tre grossi
filoni di azione, e quattro personaggi che agiscono come se ognuno di loro
fosse il principale. Laddove il personaggio principale in realtà è l’America
stessa, con tutte le sue sfaccettature di bontà e cattiveria, di onestà e
razzismo che conosciamo da sempre nel suo tessuto vivente.
I primi
due filoni, ben intrecciati, si svolgono nell’arco del romanzo, che va dal 6 al
29 dicembre 1941. Il primo è l’aggancio poliziesco del romanzo, la morte di una
famiglia giapponese, i Watanabe. Le indagini relative alla loro morte, passando
dall’ipotesi di un suicidio rituale alla realtà di un omicidio. I corpi vengono
trovati nella notte tra il 6 ed il 7 dicembre, con un (falso) biglietto
evocativo, ma che subito si intreccia con il secondo (e per Ellroy più
importante) filone, visto che alle 07:53 del 7 dicembre 1941 cominciò l’attacco
giapponese a Pearl Harbour, che decretò ufficialmente l’entrata in guerra degli
Stati Uniti.
Seguiremo
quindi a lungo tutta la trafila della gestione dei giapponesi in America, sia
gli immigrati (“giapp”) sia i nativi in America da genitori giapponesi
(“nisei”), con la descrizione delle deportazioni, degli arresti, degli
sciacallaggi che politici e poliziotti corrotti perpetrano alle spalle dei
giapponesi (indiscriminatamente, siano essi fedeli all’imperatore che fedeli a Roosevelt).
Il
terzo filone, che poi è un “basso continuo” del mondo americano è la lotta a
tutti i tentativi (spesso inesistenti) di creare una rete di sinistra in
America, una lotta senza quartiere che sfocerà nelle aberrazioni di McCarthy
negli anni ’50.
I
quattro personaggi chiave del romanzo, il cui agire vediamo intrecciarsi nei
vari filoni del libro, sono Hideo Ashida, Kay Lake, Dudley Smith, e William
Parker III. I primi due compaiono anche in “Dalia Nera”, il terzo negli altri
volumi della “tetralogia di L.A.”, come l’ultimo, uno dei tanti personaggi
reali delle saghe di Ellroy.
Ashida
è un brillante criminologo che svela i meccanismi del finto “seppuku” dando il
via alle vere indagini. Ha però due difetti: è “nisei”, quindi coinvolto nei pogrom
antigiapponesi del dopo Pearl Harbour, ed è omosessuale, avendo un debole per il
pugile-poliziotto Bleichert (quello che con Lee Blanchard sarà il motore delle
indagini in “Dalia Nera”). Sarebbe un eroe morale del romanzo, ma pronto a
qualche compromesso per sfuggire al suo destino di giapponese. Compromessi di
cui trarrà beneficio il cattivissimo Dudley Smith.
Smith
simboleggia un livello di brutalità suprema, si pone all’estremo opposto della
morale di Ashida, ed è l’emblema della corruzione immodificabile del LAPD (per
chi non vedesse i serial tv, il Los Angeles Police Department). Paladino della
morale fascista del momento: giapponesi internati ei i loro soldi a me. Da Ellroy
è poi contrapposto, anche, alla diversa brutalità di William Parker III,
l’incarnazione, per lo scrittore, di una ambiguità tutta cattolica. Parker è
sempre in bilico tra la constatazione dell’esistenza del male quotidiano e il
senso di colpa di non saperlo combattere sino infondo; per di più è
ossessionato dai comunisti, che vede come maggiore minaccia alla pace nel mondo,
tanto da trovare ovunque complotti ed inventarsi assurdi ricatti per infiltrare
una sua (presunta) pedina all’interno di consorterie sinistrorse.
Pedina
che non è altro che Kay Lake, proveniente da un torbido passato, che inizia (e
poi lo sarà maggiormente in “Dalia Nera”) ad essere contesa dai due poliziotti
sopra citati, Bleichert e Blanchard. Kay a me risulta in fondo l’unica
simpatica, anche perché intarsia la trama con il suo diario. Ed anche perché è
una (l’unica?) protagonista femminile di Ellroy.
Piccolo
inciso: Parker, tra l’altro, è stato il personaggio che più a lungo ha militato
nella polizia di Los Angeles, dal ’27 al ’66, divenendone il capo nel ’50,
recitando un ruolo fondamentale nella soluzione del caso del “Natale di Sangue”
del ’51, dove, sotto la sua guida, ci fu la famosa inchiesta che portò all'incriminazione
di otto agenti di polizia per aggressione, mentre altri cinquantaquattro furono
trasferiti e trentanove furono sospesi dal servizio. Ma questa è la storia, che
vi invito a leggere altrove, e non nei libri di Ellroy.
Non
entro in altri particolari della trama che è talmente complicata che si fa
prima a leggerla che a parlarne. Ellroy ha solo interesse, e noi con lui, a
mostrare il lato oscuro dell’America, lontano, se vogliamo, da isole illuminate
come San Francisco o New York. Ma un’America “nera”, dove nessuno si salva,
dove tutti tradiscono tutti, motivati da potere e denaro. E sono mosse che,
internamente, trovano una spiegazione da parte degli interessati, ma è una
spiegazione che, letta correttamente, risulta fuori da ogni possibile realtà.
Tuttavia,
Ellroy ci dice che questa è (anche) l’America. Per esemplificare, quindi, non
posso che terminare citando un altro personaggio reale presente nel libro, il
pastore protestante, razzista e antisemita, Gerald K. L. Smith, che, nel
prologo del romanzo, pronuncia un sermone che conclude con le parole, dedicate
alla guerra da poco scoppiata: “questa guerra voluta dai comunisti si dirige
verso di noi”. Epigrafe del sentimento americano duro e puro, che Ellroy cerca
di stigmatizzare in tutti i suoi libri.
Gillian Flynn “Sharp Objects” Corriere
Profondo Nero 19 euro 7,90
[A: 19/11/2019 – I: 12/04/2024 – T: 14/04/2024]
- &&
[tit. or.: Sharp Objects; ling. or.: inglese; pagine: 346; anno 2006]
Allora,
primo romanzo che leggo dell’autrice di Best Sellers, Gillian Flynn. Nota, più
che altro, per il suo terzo libro, “Amore bugiardo”, e per il film che ne fu
tratto con protagonista Ben Affleck. Questo è anche il primo libro che Gillian
ha scritto, sei anni prima dell’amore e tre anni prima del secondo libro, “Nei
luoghi oscuri”.
Tra
l’altro, deve di sicuro avere dei santi in Paradiso, che anche questo e i
luoghi oscuri sono stati trasferiti sullo schermo. Uno come miniserie tv, il
secondo anch’esso come film. Insomma, tre libri, tra adattamenti e molte
entrate. Infatti, fino all’uscita di questo libro, aveva anche un lavoro da
giornalista per “Entertainment Weekly”, che, visto i successi, abbandona per
dedicarsi completamente alla scrittura.
Ultima
annotazione, i suoi titoli originali sono sempre corti, veloci (“Sharp
Objetcs”, “Dark Places”, “Gone Girl”). Fortunatamente, questa seconda edizione
italiana del libro ripristina il titolo originale, che la prima pubblicazione
portava il titolo “Sulla pelle”. Che ha un suo senso, ma che sposta qualcosa
nei meccanismi di fruizione.
Comunque,
per venire al romanzo ed alla scrittura, si vede bene la carriera giornalistica
di Gillian: la scrittura scorre, ed il libro, pur avendo aspetti irritanti, si
lascia leggere. Certo, si arriva alla fine dicendosi che tutto sommato, dopo le
prime cinquanta pagine si era detto tutto, e non si capisce perché la
scrittrice ha voluto aggiungerne altre trecento.
Ma
la storia non riesce mai a decollare. La protagonista, io narrante, è Camille
una trentenne giornalista di una giornale di bassa tiratura di Chicago, che non
riesce a sfondare e che Curry, il suo capo, protettivo e paterno, invia nella
sua cittadina natia, per una serie di articoli di cronaca nera. Infatti, nella
natia Wind Gap nel Missouri un anno prima è morta una ragazza, ed ora ne
scompare una seconda, poi ritrovata morta anch’essa, con identiche modalità:
strangolamento ed estrazione dentale completa.
Ma
più che il giallo, che comunque seguiamo, è l’atmosfera generale del posto che
interessa alla scrittrice. Camille torna a casa dalla madre, Adora, dove vive
anche Amma, la sua sorellastra (torneremo poi sull’onomastica di Gillian). E ne
vediamo tutte le dinamiche: Adora è una madre fredda e distante, forse mai
ripresasi dalla morte di Marian, la prima sorella di Camille. Accudisce la casa
con piglio teutonico, senza un briciolo di empatia verso Camille. Amma è invece
una tredicenne viziata che finge di essere buona davanti alla madre per
nascondere il suo fare uso di alcol, droghe e la sua promiscuità.
In
tutto ciò, scopriamo anche che Camille è autolesionista, incidendosi sulla
pelle le parole che tormentano la sua vita: sulla pancia bambina, sul polso
malvagia, su di un piede piangi, sul bacino depravata, sul seno tragedia, sul
collo svanire. La scrittrice vuol farci cadere nel gorgo dell’analisi
motivazionale di ogni termine (e qui ne ho riportato solo alcuni), ma noi
andiamo subito oltre, presi anche dal fatto che, nel 90% dei casi, solo donne
agiscono nel testo.
Perché
Camille si comporta quasi da sedicenne in costruzione. Beve come una spugna, va
a letto con il detective che segue le indagine (che fa due o tre interventi in
dialoghi, senza lasciare alcun segno) e poi con un diciottenne principale
sospettato. Si fa circuire spesso da Amma, che certo ha una personalità forte,
ma, cavolo, ha solo tredici anni, e Camille ad un certo punto, la vedremo
ubriacarsi e drogarsi assieme a lei (esempio fulgido di sorella maggiore).
Ovvio
che la soluzione del giallo, che prima o poi arriverà, con sottofinali e finali
ruotanti intorno ad un disturbo definito in psichiatria “sindrome di
Münchhausen per procura”. Ma è anche ovvio che se fin dall’inizio ne capiamo le
origini, l’autrice è almeno abbastanza abile nel rigirarci intorno, arrivando
ad una soluzione un filo meno scontata del previsto.
Tanto
per mettere i puntini sulle “i” dei personaggi che più a lungo occupano le
pagine del testo, metterei nel dimenticatoi dei personaggi mancati, Adora, di
cui abbiamo detto, ribadendo solo che non ci meravigliamo della sua impassibile
freddezza. Mentre Amma è una persona inaffidabile e sleale, e Camille è
talmente piatta che non suscita nessun sentimento forte. Non risulta simpatica,
non riusciamo né ad amarla né a odiarla, e forse potremmo soltanto trovare un
moto di compassione solo spinti dalla grande tenerezza (immotivata secondo me)
che ispira a Curry.
Volevo
solo finire riprendendo il nominalismo, che quei nomi di famiglia sono di certo
pescati con il lanternino. Cercandone meglio il significato, vediamo che
“Adora” è un derivato tardo medioevale latino, con significato di “Amore”,
mentre “Amma” viene dal bantu, e significa “Madre”. Laddove mi domando perché
una bambina del Missouri debba avere un nome bantu!
Michael
Hjorth & Hans Rosenfeldt “Oscuri segreti” Corriere Profondo Nero 21 euro
7,90
[A: 04/12/2019
– I: 27/04/2024 – T: 29/04/2024] - &&&
[tit.
or.: Det Fördolda; ling. or.: svedese; pagine: 520;
anno 2010]
Un
altro buon giallo svedese, con alcune pecche nella caduta di tensione dovuta,
forse, ad un numero di pagine in realtà un po’ sovrabbondante (ma gli editor
non farebbero bene a consigliare ogni tanto qualche snellimento?). Ed ancora un
giallo a due mani, come spesso capita nella letteratura scandinava (ovviamente
si pensa subito a Sjöwall & Wahlöö, ma anche, per affinità di temi ad un
altro da poco letto di Roslund & Hellström). Una buona fattura, tanto da
farmi sospettare che se i curatori della collana avessero dato più spazio a
svedesi & co, forse la collana stessa ne avrebbe tratto giovamento).
Una
delle pecche più evidenti, tanto per cominciare, è che in questa edizione
scompare il sottotitolo esplicativo “Le cronache di Sebastian Bergman”. Sì,
perché è Sebastian il punto centrale del romanzo, così come lo sarà nei due
capitoli successivi. Anche se il personaggio, soprattutto all’inizio, è assai
antipatico ed indisponente. Certo, viene da un trauma profondo, avendo perso
moglie e figlia nella tsunami thailandese del 2004 (quello con più di 200.000
morti).
Sebastian
è (era) uno psicologo di successo, autore di un libro di successo su di un
serial killer, data il suo lavoro nell’ambito della Polizia Criminale svedese.
Ma dopo il trauma, si ritira a vita privata, vive dei proventi dei suoi libri
di successo, conduce una vita discretamente solitari, caratterizzata solo dalla
tendenza a portarsi a letto tutte le donne che incontra (anche se poi sono
convergenze di una sola notte).
Sebastian
torna a Västerås, suo luogo d’infanzia, per alienare le proprietà della madre
da poco morta, e con la quale non aveva certo un buon rapporto. Anzi, forse non
ne aveva nessuno. Prima di vendere, comunque, mette a posto la casa, e scopre
una fascio di lettere, che lo inducono ad una domanda: è possibile che in
gioventù abbia avuto una prole da una donna di cui non ricorda nulla.
In
parallelo, vediamo anche come i nostri giocano ad incastro, che proprio a Västerås
avviene uno strano omicidio: viene ucciso un ragazzo, poi seviziato con
coltellate e privato del cuore. Un omicidio complicato ed inesplicabile, tanto
che sul posto viene inviata l’unità di crisi della Omicidi. Conosciamo così Torkel
Höglund, responsabile della squadra ed un tempo molto vicino a Sebastian, il
tecnico forense super efficiente Ursula, che, pur sposata, ebbe una relazione
con Sebastian, ed ora ce l’ha con Torkel (e questi intrecci non potranno che
generare attriti), la giovane investigatrice Vanja Lithner, dotata di buone
intuizione ma soprattutto immediatamente in conflitto con Sebastian, e Billy,
la recluta, ma anche gran genio dell’informatica.
Per
aggiungere tocchi di ironia (anche se poi allungano soltanto il brodo) c’è
Thomas, l’agente locale, voglioso di aiutare, ma capace soltanto di fare brutte
figure, ed a volte di intralciare le indagini stesse.
Sebastian,
pungolato dalle lettere di cui sopra, si unisce di straforo al gruppo, più per
sfruttare Billy nella ricerca della donna delle lettere che per aiutare a
risolvere il mistero. Ma verrà intrigato da alcuni momenti indagativi, e non
potrà poi tirarsi indietro, anzi sarà forse un elemento decisivo a tirar fuori
il reale andamento dei fatti.
Per
la parte d’indagine, tolti i motivi personali accennati, i nostri ci fanno
immergere in una tipica cittadina della provincia svedese. Il ragazzo morto era
un po’ emarginato, ed un po’ bullizzato, tanto da cambiare scuola per evitare
molestie. Con un solo amico, con una ragazza (però finta, visto che a tutte e
due serviva di facciata), con una storia con … (beh, mica posso dire tutto).
Fatto sta che, intorno alla morte ne cominciano a fioccare altre, tutte in
qualche modo collegate alla prima, quasi che si volesse fare terra bruciata
intorno.
Tra
l’altro, la compulsività sessuale di Sebastian lo porta nel letto sia della
madre del morto che della madre dell’amico del morto. Infaticabile! Comunque,
come ci si aspetta, nonostante l’antipatia, saranno le intuizioni di Sebastian
a delucidare il mistero, in una serie di finali e sottofinali che ci
porteranno, grazie a Billy, a risolvere anche il problema delle lettere.
Soluzione che darà uno scossone spero definitivo alla granitica supponenza di
Sebastian.
Come
spesso in questo tipo di filone svedese, il ritmo generale è abbastanza buono.
Anche perché i due autori sono legati a produzioni televisive, tanto che, se
cercate sulla rete ZDF, trovate una produzione seriale credo in tre o quattro
episodi, basata su Sebastian e realizzata dai nostri due sceneggiatori. Una
buona lettura, pur non eccelsa, che proseguirà (forse) se i due verranno
inseriti in altre collane. Altrimenti, finisce qui.
Abbiamo
una sequenza di gialli anglo-svedesi, allora vi porgo una (lunga) sequenza di
parole e di ricordi di un autore (anche) di gialli, il zimbabwese-scozzese Alexander
Mc Call Smith, presente in tre uscite tra scritti d’amore, scritti para-filosofici
e scritti di formazione.
Le prime
frasi sono tratte da “Amici, amanti,
cioccolato” (e già il titolo mi aveva
fatto innamorare del libro):
“Non potrai mai diventare me. E io non potrò
mai trasformarmi in te. Non si arriva mai a conoscere gli altri abbastanza
da vestire i loro panni. Forse ne siamo convinti, ma in realtà non è così” (16)
“Era innamorato. Quando amiamo qualcuno ci
viene spontaneo parlarne, vogliamo vantarcene, come se si trattasse di un
trofeo sentimentale. Pensiamo che questa persona possa suscitare negli altri il
fascino che esercita su di noi: vana speranza, gli amanti altrui raramente
ci interessano.” (54-55)
“Ogni angolo le rievocava qualcosa. Non era
così per gli abitanti di tutte le città? Si ricordava dove erano accaduti certi
episodi, gli angoli in cui un tempo c’era una caffetteria o un bar, oppure il
palazzo in cui era stata assunta per il suo primo impiego; posti in cui aveva
ricevuto un incarico, subito una delusione, collezionato un successo.” (82-83)
“- Non gliel’ho detto… - è una buona idea? –
Probabilmente no. Eppure, ci capita spesso di mentire alle persone che amiamo o
di omettere delle cose, proprio perché le amiamo, non credi?” (204)
Continuiamo poi con “Il piacere sottile della pioggia”:
“Quanti di noi sono sempre felici di
trovarsi nel posto in cui stanno? … solo chi è contento del tutto pensa di
trovarsi nel posto giusto” (11)
“Se [il carattere] … e la personalità erano
la stessa cosa, allora qualcuno si sbagliava: gli psicologi che sostenevano che
il carattere non si modifica o i filosofi che ritenevano la personalità
malleabile?” (30)
“Quando si rivela qualcosa che ci riguarda
si prova sempre un senso di alleggerimento da quel fardello che ci portiamo
tutti sulle spalle: il peso di essere noi stessi” (83)
“Non importa quando ti capita, a che età
muoiono i tuoi genitori. Ti mancano … Si chiude un capitolo. E due dei
personaggi più importanti della storia scompaiono” (97)
“Saper ricevere era importante quanto
essere capace di donare” (133)
“Quando parliamo di qualcosa è perché ci
interessa, o a volte perché ci crediamo, persino se affermiamo il contrario.
Per questo ci capita di criticare gli altri quando fanno esattamente ciò che
vorremmo fare noi, ma non osiamo: quindi è legittimo non credere a uno
scrittore quando afferma che le parole che ha scritto non avevano niente a che
vedere con lui” (169)
“le persone sono portate a riscrivere la
propria storia personale, come biografi troppo clementi, in modo da apparire
sempre sotto la luce migliore” (256)
Finendo poi con “L’uso sapiente delle buone maniere”
“Dei suoi innumerevoli difetti, quello di
pensare troppo era sicuramente il più eclatante.” (10)
“Era quello, in un certo senso, il peso
della filosofia: si sapeva bene cosa si dovesse fare, ma spesso era l’opposto
di ciò che si desiderava davvero.” (35)
“Avere un bambino voleva dire mettere
un’ipoteca sul futuro, si. Ma non valeva lo stesso anche per tutti i rapporti
umani e d’amicizia?” (69)
“Pura sfortuna quella di innamorarsi della
persona sbagliata. Ma capitava di continuo: ci si innamora di qualcuno che per
un motivo o per l’altro non ci poteva appartenere. E di lì in poi si scontava
la pena, la condanna all’amore impossibile o non corrisposto, che poteva durare
anni e anni, senza sconti per buona condotta, senza amnistia.” (74)
“Non credi sia possibile … che si finisca
per amare più persone? Persone che amavamo un tempo e a cui vogliamo ancora
bene. Ma che restano sullo sfondo, e noi cominciamo ad amarne altre, persone
che appartengono al presente e non al passato.” (93)
“Abbiamo bisogno di qualcosa da amare, e ci
si può innamorare di tutto: l’amore ha solo bisogno di un oggetto” (164)
“Si può volere e non volere una cosa nello
stesso istante? Certo che sì, si rispose.” (171)
“- Stavolta hai fatto la cosa giusta… - Però
… ho capito che era la cosa giusta solo dopo aver agito.” (257)
Siamo arrivati alla metà di un giugno che si pensava più calmo e rilassato, ma tant’è, l’importante è riposarsi, programmare e guardare avanti, che indietro ci pensano i libri a fartelo tornare in mente. E perciò non possiamo non dirci contenti di quello che abbiamo sino ad ora raggiunto. Un pensiero rilassante e marino e un abbraccio salato.
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