domenica 28 luglio 2024

Pluralismo letterario - 28 luglio 2024

Una settimana con cinque lingue diverse, quattro con una solida sufficienza ed una subito sotto. Abbiamo l’inglese Winspear con la sua Maisie Dobbs, la danese Engberg con l’ispettore Jeppe Kørner, il greco Maris con il commissario Ghiorghos Bekas ed il drammone storico dello svedese Niklas Natt och Dag. Rimane indietro, forse troppo preoccupato dagli intrecci politici, lo spagnolo Cercas con il suo poliziotto Melchor Marín, qui alla seconda puntata di una che dovrebbe essere una trilogia.

Un giro d’Europa di moderato interesse, al fine di entrare nelle varie epopee nazionali, laddove, in effetti, la nazione meglio dipinta nei testi è per l’appunto la Grecia di Maris, per cui ringrazio chi me lo ha fatto conoscere.

Jacqueline Winspear “Un semplice caso di infedeltà” Repubblica Essenza Noir 39 euro 8,90 (in realtà, scontato a 8 euro)

[A: 27/03/2023– I: 27/10/2023 – T: 28/10/2023] - &&&  

[tit. or.: Maisie Dobbs; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 2003]

Non conoscevo Jacqueline Winspear, quasi mia coetanea, cresciuta nell’ambiente dell’editoria scolastica in Inghilterra, poi emigrata in America dove vive in California con il marito. Da sempre colpita dagli avvenimenti della Prima Guerra Mondiale, nei primi anni 2000, in seguito anche ad un incidente che la costringe al riposo, si costruisce un possibile mondo di personaggi che agiscono nel periodo che è sempre stato base dei suoi studi.

Nasce così Maisie Dobbs, di cui stiamo parlando, primo volume di una serie che vede la signorina in questione come protagonista, e che dopo questo libro, ne vede uscire altri sedici (l’ultimo lo scorso anno). Fortunatamente, per la mia mania dell’ordine, leggo questo primo episodio, che serve anche a costruire il mondo “Dobbs”.

Lasciando al fine le mie solite rimostranze sui titoli, per costruire il suo personaggio, invece di farne una cronologia, usa, e questa volta non dispiace, un flashback a intarsio. C’è una prima parte che serve ad introdurre Maisie del 1929, anno dell’azione del libro, ed il suo stato attuale. Una possibile carriera di investigatrice, ma capiamo anche che è qualcosa in più. Introduce un codice etico, da condividere con i clienti, e non si accontenta di arrivare alla risoluzione del caso, ma mette le basi affinché la soluzione sia anche il trampolino di lancio per la ricostruzione. In fondo, un caso è sempre sintomo della rottura di qualcosa.

Nel flashback, veniamo alla costruzione della storia di Maisie. Di umile famiglia, madre morta, vive con il padre che porta verdura e altri viveri a clienti vari con il suo carro tirato dalla fedele cavalla Penelope. In base a circostanze fortuite, su richiesta del padre, Maisie entra a servizio nella casa di Lady Rowan, aristocratica illuminata, con una forte amicizia con lo strano dottor Maurice Blanche. Strano non come personaggio, ma per le sue iniziative a tutto campo non solo nel campo medico, ma anche nell’aiuto verso le classi lavoratrici, inusuale per l’epoca.

Maisie si fa benvolere per la sua attenzione, ma anche, ad un certo punto, per la sua propensione alla lettura ed all’accrescimento personale. Sfruttando di nascosto la biblioteca di casa, dalle tre alle cinque del mattino legge di tutto, dai filosofi ai letterati, cercando anche di studiare il latino. Scoperta, non viene licenziata, ma incoraggiata nella sua indole, avendo lady Rowan e Maurice come mentori. Maisie dovrebbe essere nata nel 1897, visto che ha tredici anni nel 1910, ed a 18 passa brillantemente per entrare a Cambridge. Non al college maggiore, che solo nel 1920 venne concesso alle donne di laurearsi ad Oxford, ma al Girton College, il primo istituto universitario femminile inglese.

Purtroppo, la guerra irrompe nello scenario, e Maisie decide, come molte ragazze della sua età, di studiare da infermiera, e di arruolarsi nel corpo medico. Vedremo quindi le sue peripezie in Francia per aiutare i malati, ed assistiamo alla nascita del suo amore verso il dottor Simon. Amore interrotto da una granata che colpisce alla testa Simon, togliendoli il contatto con il mondo esterno. Alla fine della guerra, intuiamo che Maisie si laurea e comincia a fare da assistente alle iniziative di Maurice.

Nell’anno dell’inizio del romanzo, Maurice è andato in pensione e Maisie inizia a volare con le sue gambe. Imbattendosi nella storia di una donna che il marito sospetta lo tradisca, ma che lei scopre usare le ore di “fuga” dal quotidiano per visitare la tomba di un soldato. Morto, ma non in guerra. Ferito gravemente, sfigurato, Victor (il morto) si rifugia in una struttura gestita da un ex soldato, Adam Jenkins, chiamata “La Ritirata”, dove si rifugiano soldati feriti che non riescono a reinserirsi nella società. La cosa che fa subodorare problemi è il fatto che, per entrare, debbano lasciare tutti i loro beni a Jenkins.

La storia di Victor si mescola con quella del figlio di Lady Rowan, che vuole entrare nella casa di Adam, e con la ricerca di Maisie per trovare i motivi di una serie di morti sospette legate alla casa. Non vi dico certo come, Maisie, con l’aiuto di Billy, un tuttofare al suo servizio, e la supervisione di Maurice, riesce a trovare il bandolo dell’intricata matassa.

Ora, il lato giallo della storia non è molto avvincente, ed un po’ scontato. Buone invece sono sia le ambientazioni nell’Inghilterra dei primi trenta anni del secolo scorso, nonché la figura stessa di Maisie. Sostenute da una scrittura partecipe e mai troppo fuori linea. I personaggi principali vengono fuori con decisione, così come i guasti derivanti dalla guerra.

Come detto all’inizio, invece, poco ho gradito le scelte editoriali. Incentrare il titolo su un caso di infedeltà è una forzatura. Non solo, nella quarta da infedeltà si passa a divorzio, forzando di molto il testo. Certo capisco, ma non approvo, che lasciare il solo nome della protagonista non avrebbe invogliato molto il lettore. Pur tuttavia è il primo di 17 volumi che trattano le azioni di Maisie Dobbs dal ’29 in avanti. Quindi, la signorina avrebbe diritto al suo spazio.

Javier Cercas “Indipendenza” Repubblica Essenza Noir 13 euro 8,90 (in realtà, scontato a 8,50 euro)

[A: 04/10/2022 – I: 30/04/2024 – T: 03/05/2024] - && e ½     

[tit. or.: Independencia; ling. or.: spagnolo; pagine: 2394; anno 2021]

Spesso indicato come “Terra Alta 2”, in effetti, questo secondo libro nel solco del giallo di Javier Cercas riprende temi e personaggi del primo libro, per costruire una trama un po’ meno poliziesca ed un po’ più politica, così come meglio si addice alle sue corde.

Certo, abbiamo indagini, anche intrecciate, ed abbiamo il protagonista che attraversa le vicende ed un po’ come mr. Wolf di Tarantino, risolve problemi. Ritroviamo cioè il poliziotto amante dei libri Melchor Marín, quello che ha chiamato la figlia Cosette in onore dei Miserabili. Nel primo libro, in quel di Terra Alta, risolve il mistero della morte di due persone, subisce la morte di Olga, e non riesce ancora a risolvere il mistero della morte della madre prostituta.

In questo secondo episodio, c’è una trama nera legata ad un ricatto perpetrato attraverso dei video hard che colpisce la sindaca di Barcellona. Una trama cui, come un serpente, se ne attorcigliano due. Una sempre legata alla madre di Melchor. L’altra legata alle vicende politiche della Catalogna negli ultimi quindici – venti anni. Forse, poi, a Cercas interessa dire qualcosa in questa direzione, più che farci seguire le vicende nere. Tanto che, soprattutto il ricatto, è di così facile comprensione, che non si capisce appunto se sia stato messo lì solo per fare da filo conduttore ad altro. A quello che più interessa l’autore.

Allora, la vicenda “privata” comincia nel passato dove tre barcellonesi bene ed un quarto loro compagno di studi, ma un po’ scapestrato (anche se sempre di buon ambiente) organizzano festini hard con molto sesso e molte riprese video. Attività che ad un certo punto si ferma (ed alla fine scopriremo il perché, ma non ve lo dico né ora né mai), con i tre che veleggiano verso i vertici della politica e dell’imprenditoria catalana, e Ricky, il quarto, anche in seguito a tracolli privati, più verso i bassifondi: commerci strani, falsificazioni di bitcoin, spaccio ed altre turperie.

Quando Ricky ritrova casualmente i video di cui sopra, pensa di organizzare qualche ricatto, che alla fine sfocia nel ricatto principe verso la sindaca. Anche se, almeno ufficialmente, Ricky muore d’infarto e viene seppellito. Alla fine, seguendo fili labili ma di grande intuito, Melchor capisce meglio come possono essere andate le cose, ed in un finale leggibile ma spezzettato in maniera letterariamente, per me, poco intellegibile, Melchor risolve i casi che gli stanno a cuore: salva Barcellona dal ricatto, trova gli assassini della madre, e, un po’ alla Maigret, decide lui chi sia da perseguire e chi sia da scordare, nella massa degli interpreti di contorno della vicenda.

Ma non è questo, o non è solo questo, che interessa a Cercas. Perché, non volendo fare un pamphlet di difficile sostenibilità (rispetto, ad esempio, al documentatissimo “Anatomia di un istante”), preferisce giocare con la fiction, dandoci la sua versione degli avvenimenti catalani tra il 2014 ed il 2019. Riesce così a dire delle cose che forse sono vere ma di cui prove nulle.

Sostiene Javier, che tutta la mobilitazione di quegli anni sia stata messa in atto non tanto e non solo come momento di rivendicazione da parte della Catalogna, motore pulsante della Spagna, ma come tentativo di una parte imprenditoriale di ristabilire equilibri economici che si stavano deteriorando. Così, uno dei personaggi, ci parla dell’ascesa di Carles Puigdemont messo alla presidenza della Regione dai “poteri forti”, a cui però sfugge essendo in realtà “un talebano della politica”, che vuole realmente l’indipendenza della Catalogna. I manovratori nell’ombra, i “grandi vecchi”, pensavano di poter muovere i fili senza spezzarli. Così come si riusciva a fare le grandi manifestazioni, non come proteste ma, come dice un personaggio, “erano sfilate”.

Ed allo stesso modo, sono sempre loro, quelli che “si muovono dietro le tende del potere”, che decidono di far precipitare il tutto verso una resa dei conti. Arrivando così a quello che in Spagna viene chiamato “juicio del procés”, cioè il giudizio intentato al processo di indipendenza. Una battaglia legale che vedrà trionfare il potere di Madrid, condannare molti imputati, fuggire all’estero Puigdemont. Fino a che, tra il 2021 ed il 2022 (in pieno finale di Covid) il governo Sanchez, nel processo di pacificazione del paese, decide la grazia per tutti gli imputati, onde riaprire un processo di unificazione reale del paese e delle sue esigenze.

Cercas si ferma prima, che scrive il libro prima della grazia (inciso: poi con un altro gioco da prestigiatore, decide che la vicenda si svolga nel 2025, lontano dal turpe oggi e dalla pandemia), ma fa capire che, sotto, ci sono più cose di quante ne sappiamo. Insomma, la trama gialla è esile e scoperta, la trama politica è pesante, e soprattutto, a volte, non sempre decifrabile da chi non sia spagnolo.

Ci sono altre due cose che vorrei riportare prima di chiudere. Una di fondo, che nella felicità della scrittura, Cercas si inventa un gioco metaletterario, dove si narra di un libro, scritto da un certo Javier Cercas, che si intitola “Terra Alta” e che descrive le azioni di Melchor come le conosciamo. Un libro che viene citato a più riprese, sottolineando, soprattutto da parte del nostro, che la verità è diversa da quanto viene scritto in quel libro. Un bel gioco di rimandi.

Infine, una sottigliezza editoriale: a pagina 119 si parla di poliziotti presenti in una stanza, dicendo: “nell’Ufficio … si trovano sei persone”. Poi si vanno elencando: “oltre a Gonzalez ed allo stesso Vazquez, ci sono Torrent, Ricart, Roig e Cortabarrìa; e anche Melchor”. Ora, se non vado errando coi numeri, a me le persone sembrano sette. Un po’ di attenzione, poffarbacco.

“Keynes: quando i fatti cambiano, io cambio opinione … Io sono cambiata perché il mondo è cambiato. La gente che pensa sempre la stessa cosa non pensa.” (104)

“Tutti i buoni romanzi parlano di noi.” (388)

“I romanzi non servono a niente, tranne che a salvare le vite.” (389)

Katrine Engberg “Il guardiano dei coccodrilli” Feltrinelli euro 12,50 (in realtà, scontato a 4,95 euro)

[A: 18/04/2021 – I: 07/02/2021 – T: 09/02/2021] - &&&---

[tit. or.: Krokodillevogteren; ling. or.: danese; pagine: 376; anno 2016]

L’ormai cinquantenne Katrine inizia la sua carriera artistica come coreografa e la prosegue, sin che possibile, nell’ambito del ballo. Una decina di anni fa, dopo alcuni tentativi non particolarmente riusciti, si impegna in una serie di gialli ambientati nella sua città Copenaghen. Sarà per alcune conoscenze cittadine che ci rendono vivida la città stessa, sarà per alcuni spunti narrativi, la serie, di cui questo è il primo dei cinque libri usciti, ha un discreto successo, locale e internazionale.

Intanto, come primo appunto, non si capisce perché in italiano venga indicata come “La serie di Copenaghen”, mentre in patria si identifica con il protagonista, Jeppe Kørner. Probabilmente, il disguido viene dal fatto che la prima pubblicazione non danese fu il tedesco, e lì venne sottotitolata come “Kopenhagen-Thriller”.

A parte questo interrogativo, ed alcuni punti deboli che vedremo più avanti, il testo si mantiene ad un buon livello di scrittura e di tensione, anche se, talvolta, la tensione stessa scema, in particolare quando ci si allontana dal fulcro della vicenda. Fulcro dove orbitano quelli che dovrebbero essere i protagonisti (e che in effetti hanno il compito finale di spiegare l’intricata vicenda). Sono l’investigatore Jeppe Kørner, e la sua aiutante Anette Werner. Un duo un po’ troppo stereotipato. Lui viene da un divorzio doloroso, continua a pensare alla ex-moglie, entrando in spirali di deficienza di stima. Lei invece è ben maritata, ed è anche sempre allegra, nonché dedita ad un culto immotivato per il cibo spazzatura.

L’intrigo, soprattutto all’inizio, prende abbastanza. Si trova il corpo martoriato della bella Julie che abita nel palazzo di proprietà di Esther de Laurenti, un passato nella pubblica amministrazione, ed ora, pensionata, con velleità artistiche. Non solo, ma, proprietaria del palazzo, non si tira indietro né ad organizzare feste molto alcoliche, né ad affittare appartamenti dello stesso a svariati personaggi. Come Julie, la morta, o come Gregers, un anziano vedovo verso cui alla fine si dirigeranno i pensieri di Esther.

Qui, nasce anche un accenno di trama metaletteraria, che Esther, tra le altre cose, tenta di diventare un scrittrice di gialli, sia frequentando scuole di scrittura, sia scrivendo essa stessa un giallo. Non sapendo come iniziarlo, prende a prestito alcuni aspetti di Julie, per poi svilupparlo in una direzione propria. Peccato che l’assassino di Julie sembra proprio uscire da quelle pagine, ponendo Esther, immotivatamente, in testa alla lista dei sospettati.

Con una scena che a poco a poco si complica. C’è uno strano agente della scientifica che sembra più propenso ad ingarbugliare le prove che a portarne alla luce quelle significative. C’è il padre di Julie, che non ha mai digerito i comportamenti della figlia, soprattutto quando lei rimane incinta. C’è il tutto fare del teatro, nonché cuoco speciale per Esther, che ha visto qualcosa, e che farà una fine dubbiosa (omicidio ben perpetrato o suicidio per pesi morali non sopportabili). C’è il circolo di aspiranti scrittori, gli unici che hanno letto i capitoli del romanzo di Esther in anteprima, da dove potevano prendere gli spunti omicidi. In particolare, uno di loro Klingo, iperprotettivo nei confronti del figlio e della sua prole adottiva.

Il bello è che, pur negando tutto all’inizio, man mano scopriamo che tutti si conoscono. Un sasso lanciato nell’acqua dei sospetti, che allarga molto il cerchio dei probabili assassini. Ma che, se letto con attenzione, in effetti, lo restringe ad un elemento solo di possibilità.

Come detto, un giallo interessante, una serie che promette dei seguiti probabilmente leggibili, anche se Katrine deve rinforzare il profilo di Jeppe ed Anette. In effetti, di tutti i personaggi del libro, sono quelli più omologati al mondo del giallo classico, mentre altri co-protagonisti vengono descritti ed affrontati con maggior acume.

Un appunto finale sulle forze-debolezze del testo viene dal titolo e dal suo significato. Ad un certo punto Jeppe spiega l’agire del guardiano dei coccodrilli, un uccello che si nutre degli avanzi di cibo in bocca agli alligatori. Finché lavora bene, tutto procede. Se sbaglia, “Addio guardiano”.

La leggenda viene da lontano, laddove Erodoto narra dell’esistenza di un uccello, il “Trochilo spazzolino”, che opererebbe come descritto da Jeppe. Leggenda ripresa poi da Aristotele, da Plinio, fino ai tempi moderni, dove il figlio del grande organizzatore di viaggi, Thomas Cook, ne attesterebbe la presenza vicino ai coccodrilli del Nilo. Tanto che, per descrizione ed assemblaggio di informazioni, il trochilo viene individuato come il “Piviere egiziano” o come il “Pavoncello dello sperone”.

Peccato che quella di Erodoto sia, appunto, una leggenda, e che mai nessuno ha mostrato una fotografia di queste descrizioni. Tuttavia, Jeppe ben descrive con quella metafora il comportamento di alcuni personaggi. Comunque, aspettiamo altre avventure di Jeppe e Anette.

Ghiannis Maris “Il tredicesimo passeggero” Feltrinelli s.p. (prestito di Fako)

[A: 29/05/2024– I: 31/05/2024 – T: 01/06/2024] - &&& 

[tit. or.: Ο 13ος επιβάτης; ling. or.: greco; pagine: 179; anno 1956]

Una lettura filologica ed interessante, cui devo ringraziare il mio amico Fako per avermela sottoposta. Da sempre, ipotizzavo che l’asse portante della letteratura gialla greca fossero le costruzioni, tra noir e politica di Petros Markaris e del suo commissario Charitos. Così come Sjöwall e Wahlöö sono gli iniziatori del giallo svedese, o come, per venire ai nostri lidi, le scritture precise e ben argomentate del padre del giallo italiano, Augusto De Angelis.

Con questa lettura, ed anche grazie alle parole stesse di Markaris, facciamo un salto all’indietro di quarant’anni, passando dagli anni ’90 di Petros agli anni ’50 di Yannis Maris (in greco Γιάννης Μαρής) pseudonimo letterario del giornalista Ioannis Tsirimokos. Che appunto nell’anno mirabile 1953 fa il suo esordio con il primo libro “Delitto a Kolonaki”, in cui compare il suo personaggio cardine, il commissario Ghiorghos Bekas, anche solo dal secondo libro comincerà ad avere una sua fisionomia.

Un commissario pingue e lento, formalmente corretto, sempre in giacca e cravatta, anche sotto i 39° dell’estate ateniese. Una persona che cerca di capire l’ambito del crimine, riprendendo alla lontana alcuni modi del Maigret di Simenon. Un investigatore ostinato, con il vizio (ahi, che cosa grave) di leggere i giornali al mattino (che ormai faccio solo io e pochi altri miei epigoni). Una fissa che Markaris riprenderà, mutando gli obsolescenti giornali con l’intramontabile dizionario della lingua greca.

Bekas è intimamente deduttivo, non arrischia ipotesi di nessun tipo: si esaminano i fatti, si parla con le persone, ed alla fine se ne deduce uno schema. Da qui in poi, si tratta solo di trovare le prove per incastrare il colpevole. Un modus operandi che ho letto nei commenti degli altri suoi libri, e che ritrovo in questo, considerato se non uno dei suoi migliori, senza dubbio uno di quelli più tradotti all’estero.

Un libro che, ad onor del vero, incomincia molto in sordina, con una serie, piccola ma significativa, di persone che muoiono. Alcune vediamo che vengono uccise, quindi sicuramente sono omicidi. Altri potrebbero anche essere suicidi o morti accidentali. Certo è che quando le informative giungono a Bekas, il nostro commissario comincia a farsi delle domande. E quando non trova risposte alle sue domande, di certo non riesce a staccare il pensiero.

Dopo una serie di capitoli ben scritti, e che ci conducono nell’atmosfera greca degli anni Cinquanta, finalmente si riesce a trovare un paio di svolte significative al romanzo. La prima è la presenza, misteriosa, di una persona vestita con un abito bianco, sempre presente nelle vicinanze delle persone che muoiono. Potrebbe essere un caso, ma costringe Bekas a tirare qualche filo, arrivando al nodo del problema.

Anni prima, nel 1942, al fine di sfuggire alla guerra, il greco Ambàzoglu cerca di rifugiarsi in America. Ma si trova di fronte ad un naufragio, insieme ad altre persone, e si salvano tutte miracolosamente, e con una buona dose di solidarietà reciproca. Il nostro poi riesce nel suo intento, fa una barca di soldi, e quando muore lascia tutte le sue fortune ai sodali del naufragio, o ai loro discendenti.

Ecco trovato il filo rosso della trama, che si unisce ad altri due elementi “da basso continuo”, direbbe un musicista. Cioè che martellano in sottofondo, per mantenere il ritmo. La storia d’amore di una coppia, lei erede del naufragio, lui sodale in America del morto, con frequenti assenze ed abbigliamenti stravaganti. La storia di miseria e riscatto di un ladro (anch’egli erede) e della sua donna, proveniente dall’ambiente delle signorine di facili costumi.

La trama si sviluppa forse un po’ troppo sulla falsariga di “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie, anche se Ambàzoglu è sicuramente morto. La novità, ed abilità di Bekas attraverso la penna di Maris è trovare gli elementi probanti che lo portano alla soluzione del mistero. Con un paio di pecche finali: lo scioglimento avviene un po’ troppo in fretta, senza dar modo a Bekas, ed al lettore, di ricapitolare gli avvenimenti alla luce della soluzione. Secondariamente, qualche personaggio ad un certo punto si eclissa, senza che il lettore venga reso edotto della sua fine o della sua evoluzione o dei motivi di tale eclissi.

Un punto invece a favore del testo è la presenza di un “Watson” per il nostro “Bekas-Holmes”. Cioè il giornalista Makris quasi a rappresentare un alter-ego dello scrittore giornalista, ed utile nella risoluzione della trama verso il suo epigono felice.

Sicuramente un buon libro, e sicuramente un libro che ci rappresenta la Grecia dal suo interno, senza troppe colorazioni posticce. Potrebbe avere qualche altra freccia al suo arco, anche se l’età si senta sia passata. Quasi settant’anni, ed al contrario di altro, un po’ sono notati.

Niklas Natt och Dag “1793” Repubblica Brivido Noir 16 euro 8,90

[A: 17/09/2020 – I: 28/06/2024 – T: 29/06/2024] - &&& 

[tit. or.: 1793; ling. or.: svedese; pagine: 492; anno 2017]

Niklas Natt och Dag è uno degli ultimi epigoni di una delle famiglie di più alta nobiltà della Svezia, i “Natt och Dag”, cioè “Notte e giorno”, nome derivante dal contrasto dei colori della bandiera della casata, uno stemma diviso in due, con gialla la parte superiore e blu quella inferiore (colori che sono da sempre associati alla Svezia, come denota l’attuale bandiera).

Dopo lauree e varie attività, prova a dedicarsi alla scrittura, sfornando, dopo altre prove poco note questo potente dramma ambientato in un periodo cruciale, sia della Svezia che dell’Europa intera. Un romanzo con delle potenzialità (tanto che l’autore ne ha scritto altri libri, intitolati “1794” e “1795”, andando a formare quella che in Svezia è nota come “Bellman trilogy”), ma anche con dei punti bassi, o di poca presa.

In realtà, a parte il romanzo storico e le sue implicazioni su cui torneremo, Niklas scrive tre romanzi, che poi intreccia, per fornire una traccia più o meno unitaria. E due dei tre romanzi sono “fuori dal tempo”, cioè potrebbero essere letti e vissuti a prescindere dall’identità temporale del 1793.

Sono le due parti centrali quelle che a me sono sempre lunghe ed un po’ posticce. C’è la vicenda del giovane Kristofer Blix, giovane diciassettenne, venuto dalle campagne in quel di Stoccolma con un piccolo bagaglio medico e molta voglia di fare fortuna. Che però non gli arride, cadendo in un giro di truffatori e malandrini. Per finire nelle grinfie di qualcuno che utilizza le sue (poche) conoscenze mediche per scopi che turpi è dir poco.

La seconda coinvolge la ragazza Anna Stina Knapp, tipico esempio di donna sfruttata dalle aberranti condizioni femminili dell’epoca. Avendo rifiutato la corte di un ragazzo, si vede accusata di meretricio, condannata senza prove e rinchiusa in un correttorio femminile. Utile per l’immagine dell’epoca la descrizione della prigionia, da dove, sfruttando la sua intelligenza e qualche inaspettato aggancio, riesce a fuggire ed a tornare nella capitale.

Ma queste sono le storie di contorno, che il filone principale si avvolge intorno al ritrovamento di un corpo orrendamente mutilato. Ritrovamento che avviene per mano di Jean Michel (Mickel) Cardell, un ex-soldato che ha perso un braccio in una battaglia navale, e che passa i suoi giorni come guardia civica e buttafuori occasionale. Le indagini sulla morte vengono affidate dal capo della polizia Norlin (su cui torneremo) ad un ex-brillante avvocato trentenne, Cecil Winge, sull’orlo della morte per via di una tubercolosi quasi fulminante (ma non ancora definitiva). E Cecil non trova di meglio che farsi aiutare da Mickel nella sua indagine.

Abbiamo così una coppia classica di investigatori mal assortiti: il cerebrale Winge ed il brutale Mickel. Il primo è sempre stato una punta di diamante dei tribunali, unico a concedere i benefici della discussione pubblica agli accusati (dove in quei tempi, ti accusavano, ti torturavano, confessavi anche non volente, e venivi condannato, a prescindere dalla colpevolezza), ed in quell’epoca illuminata, unico ad avere sempre fede nella ragione. Il secondo sempre pronto a menare il suo braccio di faggio per convincere i più reticenti a parlare di quello che sanno.

I due, a partire dal lino che avvolge il corpo del morto, risalgono ad una portantina che potrebbe averlo scaricato nel lago, e da questa ad una casa di piacere estremo, piena di sesso ma anche di sadomasochismo terminale, con quelle sequenze che, in termini attuali, verrebbero chiamate di “snuff movie” (e se non ne conoscete il significato, cercatelo).

Ma la casa è ben frequentata e l’indagine si potrebbe arrestare qui, se non ci fosse il primo tassello che mette una zeppa: ai nostri viene recapitato il diario di Kristofer che nel frattempo, per motivi vari, ha aiutato Anna nel nascondersi e si è ucciso nel mare ghiacciato. La lettura del diario porta Cecil a trovare il bandolo della matassa, a risalire all’identità del morto ed a trovare l’assassino. Il tutto ben inserito nel marasma di quegli anni (se non che senso avrebbe il 1793?), con un finale acconcio, in cui, forzando un po’ la mano sia Cecil che Mickel trovano i loro brandelli di giustizia.

Due considerazioni sui tempi e gli avvenimenti. Il 1793 è preso ad emblema di un momento di gran turbamento in Europa. Ci sono gli avvenimenti francesi, che, a partire dal 1789 turbano la quiete europea. E molti aristocratici, fuori la Francia, temono disordine e rivolte, così che si impegnano a soffocare molti piccoli fuochi, anche a costo di far di tutta l’erba un fascio. Ed in particolare in Svezia, dove, per chi non ne fosse a conoscenza, nel marzo del 1792 viene assassinato il re Gustavo III di Svezia. Un re-despota dallo strano destino. Molto duro, militaresco con le sue campagne contro la Norvegia prima e la Russia poi (che portarono morti e distruzioni), ma anche illuminato patrono delle arti, e fondatore dell’Accademia Svedese (quella che oggi assegna i Premi Nobel).

Ucciso da una congiura di nobili che vedevano intaccate le loro fortune (tra l’altro il re aveva liberalizzato la professione di tutte le religioni), e che porta ad un periodo di torbida reggenza (essendo l’erede Gustavo Adolfo minorenne) con a capo il perfido Gustaf Adolf Reuterholm.

Ma dove ci porta tutto ciò rispetto al libro? È che questa è la parte storica ben documentata e descritta da Niklas. Perché l’omicidio del re fu investigato dal capo della polizia Nils Henric Liljensparre. Dopo aver trovato i colpevoli materiali, questi fu allontanato per chiamare al suo posto Johan Gustav Norlin, giovane trentenne, che vediamo gire nel libro di Niklas in quanto amico carissimo di Cecil Winge, cui affida le indagini. Che si debbono comunque concludere al più presto, che l’ascesa di Reuterholm porta all’esilio di Norlin nel Norrland. In ogni caso, questa parte storica è senza dubbio molto interessante e stimolante.

Il nobile Niklas ha di certo confezionato un libro accattivante, anche se, oltre alla parte storica ed alle descrizioni ambientali, i personaggi e la trama sono un po’ sottotono. Niente che salti al cuore subito, che tutti rimangono un po’ piatti. Tanto che non si capisce perché il moribondo Cecil sia ancora in vita dopo tutto l’inverno. Né si empatizza molto con Mickel, a meno che non trovi qualche altra freccia al suo arco. Che potrebbe venire dall’unica persona forse positiva, Anna, che speriamo, qui e altrove, e per tutte le donne sfruttate, possa avere un destino migliore di quello descritto nel libro.

Non mi è dispiaciuto leggerne anche se non so, ad ora, se ne leggerò altro.

Abbiamo parlato di autori stranieri? Eccovi allora subito una citazione italiana, romana e personale, che la pasticceria menzionata mi ha visto più volte entrare dalle sue dolci porte in cerca prima di cioccolato, poi di scagliette d’arancio. Mi riferisco a Sandra Petrignani che nel suo “E in mezzo il fiume” ci racconta: “Luigina [della Pasticceria Valzani di vicolo del Moro] approva la nostra comune passione per le scagliette d’arancio rivestite di fondente, ne abbiamo acquistato una cartocciata” (36)

Ancora una settimana di transizione, alla ricerca da un lato di tregua dal caldo, dall’altro di mettere qualche paletto dove forse servirebbero palafitte. Ma queste sono vicende prive di interesse comune. Meglio pensare che abbiamo almeno un paio di viaggi cui porre mano e tanti amici da salutare con un abbraccio.

domenica 21 luglio 2024

Sempre meglio Libera - 21 luglio 2024

Come dicevo, sto cercando di smaltire alcuni accumuli di gialli, ed in particolare italiani (cui riservo un posto speciale nella mia libreria). Questa settimana, torniamo sul commissario Stefania Valenti della coppia Cocco & Magella di medio risultato. Un po’ meno la dialogia di Lorenza Ghinelli incentrata sulla piccola Sara. Sempre meglio, invece, la Miss Marple del Giambellino, la nostra Libera di Rosa Teruzzi, che mantiene alto lo standard ed il piccolo piacere della lettura.

Giovanni Cocco & Amneris Magella “La sposa nel lago” Feltrinelli – Marsilio euro 10 (in realtà, scontato a 9,50 euro)

[A: 03/05/2022 – I: 11/02/2024 – T: 12/02/2024] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 205; anno: 2019]

Dopo solo un anno torniamo sulla coppia di scrittori del lago di Como per seguire la, credo, penultima avventura pubblicata delle inchieste del commissario Stefania Valenti.

Sempre una scrittura scorrevole che si lascia leggere senza intoppi particolari, ma non è più coinvolgente come nelle prime due avventure. Si incarta un po’, lasciando molto in ombra la parte “personale” delle vicende per cercare di sviluppare meglio la parte investigativa. Tentativo che però non riesce pienamente, che il “giallo” non prende mai una sua buona andatura, anzi ci sono momenti che lasciano perplessi.

Ad esempio, c’è un piccolo mistero da affrontare, ed a Stefania viene fornito un numero di telefono che potrebbe svelarlo. Bene, passano più di cinquanta pagine prima che venga fatta la telefonata, con risvolti che avrebbero di certo accelerato nella giusta direzione le indagini.

Comunque, come in ogni buon giallo seriale, c’è appunto il doppio binario che gli autori portano avanti. Tuttavia, la parte privata non è molto avvincente. La protagonista sta sempre con il più giovane Luca, anche se affiorano degli screzi. Sua figlia Camilla fa una piccola e poco interessante comparsa. È tornato da Milano il commissario capo Guido che aveva avuto una piccola storia con Stefania all’inizio, ma ora pare accompagnarsi da una non ben identificata Eva. Anche i due aiutanti, Piras e Lucchesi, fanno la loro brava presenza, senza brillare particolarmente. Aiuti di routine e poco altro. Forse solo la scoperta di una foto che qualcosa svela, ma poco altro.

La storia ruota intorno a due morti: un clochard rinvenuto lungo una strada ma non morto lì e Ginevra, una ragazza ritrovata nel lago, ma dove era stata gettata già morta. Le complicazioni sono da una parte la misteriosa identità del primo morto (senza documenti e senza nessuno che ne conoscesse il nome), dall’altra la mancanza immediata di moventi per la donna, anche se, stranamente, molti alti papaveri si muovono per indagare insieme alla nostra.

Ginevra era andata via di casa, vivendo nell’abitazione di Stefano, un pilota gay, e si era da poco lasciata con il suo fidanzato storico, Alessio. Perché era incinta? Perché stava con un’altra persona più grande e insospettabile? Perché aveva abortito? Perché non aveva abortito e dato il figlio alle suore?

Nel frattempo, grazie anche a quella telefonata di cui sopra, la nostra poliziotta scopre che il clochard si chiama Valerio Bassi, bancario in pensione, maneggione di soldi, distrutto dalla morte del figlio, motivo per cui si ritirò dal mondo, anche se mantiene rapporti più che civili, anzi di aiuto e collaborazione con Don Antonio, simpatico prete, anche perché a lui è indirizzata la citazione in fondo.

Ma soprattutto Valerio è il nonno di Ginevra. Ci sarà un collegamento tra le due morti? Perché Valerio andava in giro elegante il giorno prima di morire? Perché si confida con don Antonio, come sapesse di essere in pericolo? E forse sapeva qualcosa delle storie della nipote?

Insomma, tanti sarebbero gli spunti per creare un giallo avvincente, anche all’interno di un numero contenuto di pagine. Cosa che ultimamente i gialli classici tendono a dimenticare esondando spesso oltre le 400 pagine. Qui il romanzo si fa leggere, ci si appassiona un po’ anche alla vita privata di Stefania, anche se, come detto, qui un po’ in disparte. Ma rimangono alcuni spunti che a me non dispiacciono: passeggiate, scorci del lago, gite a Bellano sull’altra sponda, un cornetto al bar, magari con un caffè che a me il cappuccino non piace tanto.

Insomma, una lettura quasi da riposo estivo e non da tempi di carnevale. Con altri punti in sospeso che mi son venuti a mente ora che termino la trama. Del tipo che c’è il prete che trova il cadavere di Ginevra. Sembra uno spunto promettente, ma viene lasciato lì: perché il prete si mostra impaurito dal ritrovamento del cadavere? Cioè ci sono spunti, qua e là, che vengono posti all’attenzione del lettore attento (scusate la ripetizione rafforzativa) e poi fatti morire.

Anche il finale è un po’ troppo rapido per essere soddisfacente. Certo, viene detto quasi tutto il come ed il perché, ma lascia un po’ di amaro non avere delucidazioni più approfondite. Vedremo se in un futuro ci saranno prove più convincenti.

“Accanto ai testi religiosi, trovavano posto numerosi romanzi. L’intera collezione dei romanzi di Simenon.” (53)

“Dimenticare, a volte, è l’unico modo per riuscire a sopravvivere.” (178)

Lorenza Ghinelli “Tracce dal silenzio” Feltrinelli euro 12,50 (in realtà, scontato a 4,95 euro)

[A: 18/03/2021 – I: 29/03/2024 – T: 31/03/2024] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 263; anno: 2019]

È la mia prima lettura di un libro di Lorenza Ghinelli che invece pare scrittrice già ben avviata, sia sul versante noir o giallo, sia in ambienti di letteratura adolescenziale. Elementi che compaiono potentemente in questo romanzo, che, tuttavia, per una piccola serie di motivi, non mi ha convinto completamente. Comunque, e si sente da alcune tipiche scelte stilistiche, la buona base le è derivata dallo studio con la Scuola Holden di Baricco, dove ora è anche docente.

Molto sinteticamente, non sono convinto del modo in cui tratta i giovani, che hanno modi a volte troppo adulti di essere. Poi, la presenza di elementi che non possono mancare in un politcally correct. Ci sono giovani, quindi scuola, quindi immigrati che hanno problemi e sono problematici. Nonché, e qui ne finisco, l’uso di quel corsivo per sottolineare i flashback che, qui come altrove, mi ha sempre dato una certa dose di fastidio.

Dati i suoi trascorsi letterari, non ci meravigliamo che Lorenza riesca ad imbastire una trama che partendo da acque quasi calme, si vada intorbidendo e tinteggiando di nero e di giallo. Infatti, iniziamo conoscendo una famiglia normale: Marco, Sara, Alfredo e Nina. Due genitori impegnati, lui professore lei affarista in carriera, con due figli abbastanza solidali, il grande liceale e la piccola dieci anni di pronta intelligenza. Poi cominciamo a vedere le crepe.

Nina, a causa di un incidente, è sorda e riesce a sentire solo innestandosi nell’osso dietro l’orecchio un impianto cocleare (un piccolo dispositivo elettronico, tecnologicamente molto complesso, che permette alle persone sorde di sentire nuovamente i suoni). Quindi la notte, senza impianto è decisamente sorda. Peccato che sembra sentire musiche degli anni Trenta, vedere accendersi citofoni ed avere strane premonizioni.

Così Nina “sente” un omicidio, che è di un compagno di classe del fratello, a suo tempo coinvolto in uno stupro ai danni di una coetanea. Entriamo così anche nel mondo di Alfredo, e soprattutto nel suo sentimento verso l’immigrata Nur (per ora non corrisposto) che coinvolge nel tentativo di far colpo, la di lei amica Rasha. Due profughe che hanno visto orrori profondi che segnano l’anima, e da cui, per ora, non riescono ad uscire, né a farsi capire da qualche ottuso insegnante.

L’incidente di Nina aveva (ha) anche messo a dura prova l’equilibrio familiare. Che Sara ne incolpa il marito per disattenzione, e cerca consolazioni altrove. Ma sono momenti effimeri, e quando si stringe verso l’essenziale, la famiglia non può che ricompattarsi. Anche se a me, Marco non fa mai una grande impressione, lungo tutto il romanzo.

A questo punto dobbiamo anche inserire l’ultimo personaggio, l’arcigna ed anziana vicina di casa, Rebecca. Che gentilmente intrattiene Nina, e di cui leggiamo i miei poco amati flashback in cui si risale alla sua infanzia durante la guerra, allo stupro ed all’uccisione della sua sorellona Maria Sole ed a tutti gli anni della ricerca di una vendetta da parte sua e del fidanzato della sorella, Francesco.

Dopo tutta la prima parte che ci consente la conoscenza di tutta questa tribù, nella seconda Lorenza effettua un crescendo di tensione: Nina sente altre voci, un altro ragazzo viene quasi ucciso, Alfredo potrebbe essere coinvolto, un misterioso barbone si aggira nel quartiere, Rebecca si comporta in modo assai strano. Ma Marco e Sara fanno una pace armata, Alfredo salva Rasha da una sicura bocciatura guadagnando la riconoscenza di Nur. E Nina viene salvata all’ultimo istante da un'altra pericolosa avventura.

Purtroppo, il meccanismo giallo è fin troppo palese. Restando qualcosa di noir, che la scrittrice sembra domandarci: forse Nina è paranormale? Ma noi siamo troppo razionali per cadere nel tranello, ed anche se qui, una volta risolti i misteri, non si va molto oltre, ci si aspetta nel secondo episodio un chiarimento su molti fronti.

La scrittura è molto “Holden”, chiara e senza intoppi. Ed ha il pregio di affrontare, in un romanzo multiforme, tra horror (nullo), thriller (poco) e romanzo di formazione una serie di temi di grande importanza ed impatto nel mondo moderno: bullismo, integrazione, tradimento, vendetta, giovani verso e contro il sistema scolastico retrogrado, fino ai passi dedicati alla memoria, un tema che non si dovrebbe mai dimenticare.

Alla fine, tuttavia, non è né un romanzo pienamente adulto né un testo fortemente adolescenziale. Rimane a metà strada, un po’ incompiuto. E così rimane anche il mio giudizio.

Lorenza Ghinelli “Bunny Boy” Feltrinelli s.p. (Regalo della sig.ra Laura)

[A: 08/04/2024 – I: 14/04/2024 – T: 15/04/2024] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 249; anno: 2021]

Approfittando del regalo pasquale della signora Laura, ho completato la dialogia di Nina scritta da Lorenza Ghinelli. Purtroppo, questa seconda uscita non alza molto il livello della scrittura, anzi, soprattutto la trama, rimane un po’ semplicistica e poco coinvolgente.

Gli unici elementi che rimangono dopo la lettura sono i rapporti interpersonali tra i principali protagonisti. Ricordo che al centro della trama dei due romanzi è la famiglia composta dai genitori, Marco e Sara, e dai due figli, l’adolescente Alfredo e l’undicenne Nina, il motore del testo. Imperniato sul suo impianto cocleare per ripristinare l’udito, perso durante un incidente di macchina. Ed è il passaggio tra il brusio del mondo quando mette l’impianto ed il silenzio quando lo toglie che si compone il nodo centrale della trama.

Che, a mo’ di avvisaglia di sensazioni al di là del comprensibile, quando toglie l’apparecchio, Nina è capace di sentire avvenimenti dolorosi, in genere morti, uccisioni e catastrofi varie. Ma se nel primo c’era un intreccio interessante con la storia di Rebecca, qui la storia di Graziano non riesce a muovere sentimenti positivi.

Il “cattivo”, come al solito incastonato nella trama da lunghi intarsi in corsivo, ha una lunga storia di angherie alle spalle. È bruttino, con i denti all’infuori, e spesso preso di mira dai compagni di classe. In particolare, dalla banda capeggiata da Federico. Il padre di Graziano se ne andò presto di casa, e la madre trova modo di sbarcare il lunario accompagnandosi proprio con il padre di Federico. Non stupisce che Graziano sviluppi un forte astio verso tutta la generazione dei padri. Non solo, morta la madre, vorrebbe vendicarsi del padre, che però, coinvolto in loschi giri, viene ucciso prima che lo faccia lui.

Così, il nostro bruttone, si riprende su due fronti: uno è l’affezione verso tal Kenshiro, un super eroe dei manga giapponesi (di cui ignoro quasi tutto) e l’altro il travestimento da coniglio, visto che fin da piccolo veniva chiamato Bunny Boy. Con questo travestimento è protagonista di efferati delitti, con incluse orrende mutilazioni di cadaveri, rivolti a padri che trattano male i loro figli. Un giustiziere della notte in formato coniglietto.

Per contrastarlo e debellarlo, la nostra famiglia tipo si impegna alla grande. Non i genitori, che, mentre nel primo romanzo avevano sprazzi di azione a loro carico, qui sono un po’ da sfondo, senza molto incidere sulla trama stessa.

Allora, ai nostri due la Ghinelli affianca le diciannovenni extracomunitarie, Nur e Rasha, anche loro, tuttavia, vittime di un’evoluzione. Se prima il povero Alfredo cercava di capire quale delle due gli piaceva di più, qui rimane con il cerino in mano dopo che scopre che le due sono innamoratissime tra di loro. Ma qui non possono che prevalere i buoni sentimenti, e quindi Alfredo incassa e cerca comunque di aiutarle.

Unico elemento nuovo, e positivo, è l’entrata in scena di un ragazzino, Giaime, coevo di Nina, con fratello sordo, che introduce Nina al linguaggio dei non udenti, la LIS (Lingua Italiana dei Segni). Ed è proprio Giaime che convince Nina a fare una sessione profonda senza impianto per scoprire segreti e luoghi del coniglio assassino.

Non ci si meraviglia quindi che ci sarà un momento finale in cui tutti convergono in un unico luogo (tutti cioè Nina, Alfredo, Nur, Rasha, Bunny Boy ed un padre morente), dove assistiamo all’incontro scontro tra i due protagonisti, e dove la dialettica di Nina avrà la meglio sulla negatività di Graziano. Purtroppo, poi, poco altro rimane, oltre ad alcuni elementi sospesi che non si capisce se lo siano per dimenticanza o per eventuali riprese in nuovi romanzi.

Di certo, ci si aspettava un qualche ritorno vendicativo verso il bullo Federico, che invece rimane nelle brume del corsivo. Così come, le azioni di Luca, gestore della casa famiglia di Nur e Rasha, e di suo fratello Ricky rimangono sospese. Ed altrettanto dicasi dell’incerto futuro delle nostre due bellezze. In positivo, abbiamo solo, e ce lo aspettavamo, il primo timido bacio tra Nina e Giaime.

Altro e finale elemento di positività è il tentativo dell’autrice di far emergere le interazioni tra i ragazzi, ma soprattutto tra questi e gli adulti. Ribadendo, come ben sappiamo, che gli adulti raramente sentono veramente cosa dicono i ragazzi, essendo sempre convinti che loro, adulti appunti, sanno sempre come si sentono, cosa pensano i ragazzi. Che invece, a volte, sono molto più attenti dei genitori alla realtà che li circonda. E di sicuro molto più simpatici.

Rosa Teruzzi “Il valzer dei traditori” Feltrinelli s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 02/04/2024 – I: 07/04/2024 – T: 08/04/2024] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 156; anno: 2023]

Quasi un anno fa completai la prima grande infornata dei volumetti giallo-ironici di Rosa Teruzzi incentrati sulle vicende della “Miss Marple del Giambellino”, Libera Cairati, e della sua coorte familiare, mamma Iole e figlia Vittoria. Più alcuni comprimari su cui torneremo. Pur essendo quel settimo volume abbastanza concluso, lasciava qualche spiraglio per una prosecuzione delle vicende seriali. Cosa che puntualmente è avvenuta. Con questo ottavo, e con l’annuncio che, a breve, ne uscirà anche un nono.

Ricordo intanto che, a dispetto del sottotitolo fuorviante messo dagli editori, io ho ribattezzato gli episodi con “Le detective del casello”, che mi sembra più calzante e meno fuorviante sia da “I delitti del casello”, laddove nel casello non sono mai avvenuti delitti, sia da quell’accenno ad Agatha Christie, buono solo per lanci giornalistici.

Anche in questo episodio, comunque, la scrittura di Rosa si mantiene agile, ci porta lungo la trama senza troppi scossoni, e con il solito piglio ironico. Manca solo un po’ di slancio in più nel personaggio di Libera, che risulta più ingessato del solito, anche se capiamo le montagne di dilemmi che le si parano incontro. Dai rapporti mai troppo sereni con mamma e figlia, al dilemma amoroso: meglio il sereno ménage con Gabriele o gli stimolanti incontri con Furio?

Come detto, è anche abile nell’uso della lezione dei feuilleton ottocenteschi, che alcuni filoni di racconto serpeggiano di episodio in episodio, quasi, anche qui, a rilanciare il lettore verso l’attesa di nuovi sviluppi. Abbiamo patito sei libri per arrivare a risolvere l’assassinio del marito di Libera, ed ora, questo creda sia il terzo in cui striscia latente la ricerca del padre mai conosciuto. Un tarlo che si scontra con il mutismo, al riguardo, di Iole e con l’ipotesi che il fantomatico ladro “Gatto con gli Stivali” in qualche modo possa entrarci.

Qui, inoltre, la saga familiare si allarga quasi a rendere onnicomprensivo il mondo delle nostre detective, inglobando anche Vittoria ed il suo semi-nascosto ragazzo. Infatti, scopriamo ben presto che una serie di misteri di Vittoria derivano dalla ricerca di prove per la non-colpevolezza di Armando il padre di Achille, il suo ragazzo tatuato. Armando è infatti in carcere da undici anni giudicato colpevole dell’omicidio di tal Fiorella, usuraia e ricattatrice.

Tutte le prove sono contro di lui, che comunque era stato sempre un po’ al di là della legge (in genere furti, rapine e riciclaggio). Ma Achille è convinto della sua innocenza, e coinvolge prima Vittoria e poi anche Libera e Iole. Ovvio che a questo punto non può che venire in soccorso anche Irene la Smilza, la reporter super informata su tutto, agli ordini esclusivi e tassativi del capo del giornale del pomeriggio, il famigerato Dog.

Muovendosi per una Milano fuori dai terreni battuti, le nostre indagatrici non possono che scavare nel passato dei protagonisti della vicenda. Risalendo sino alla giovinezza dei bulli della Binda (una zona con le vie dedicate ai personaggi dei Promessi Sposi): Armando il bello, Lilly da sempre innamorata di lui, Lina, che invece è innamorata di Lilly, e Bernardo, quello messo sempre in secondo piano. Tanto che nel giro il gruppo era chiamato i Belardinelli’s ed i due maschi erano A e B, per sottolineare il capo ed il gregario.

Armando sposerà Lilly, ma, da puro maschio alfa, continuerà a far cadere tutte le donne ai suoi piedi, ingenerando girandole di fraintendimenti e di situazioni pericolose. Non può certo confessare che al momento del delitto stava intavolando una tresca con Lady Eroina (ed il nome dice tutto). E contemporaneamente, Pablito, il pappagallo di Fiorella, sembra incastrarlo continuando a cantare la canzone di Jannacci “L’Armando”.

Tuttavia, le nostre detective della “Premiata Ditta Fiori e Delitti”, come le battezza Vittoria, riusciranno, con il decisivo aiuto di Irene, a srotolare il filo della memoria, ed a riportare tutto alla sua giusta risoluzione. Aspettando che nella prossima puntata anche il Gatto si risolva.

Altro elemento che ha un po’ limitato il plauso al romanzo è la mancanza di rimandi forti, anche se qualcosa c’è. Ci sono canzoni degli anni ’70 ed anche prima (da Jannacci a De André a Battisti). E ci sono dei libri, il solito immancabile Scerbanenco, i romanzi per giovani di Giana Anguissola. Il solo pezzo forte è la citazione della cronaca nera redatta da Dino Buzzati per i delitti commessi da Rina Fort, la Belva di San Gregorio. Se non ne conoscete la storia, vi consiglio di leggerla nel libro “Cronache Nere” di Buzzati, un capolavoro giornalistico.

Ultimo punto che denota un po’ di stanchezza è la mancanza di un finale alla preparazione del doppio bouquet da sposa con cui si apre il libro, ma che cade ben presto nel dimenticatoio, travolto dagli eventi. Come poco sfruttato è anche il lato vivaistico delle vicende, pur presente con lo studio di un bouquet per un addio (e non vi dico per chi né come) ed anche con un altro elemento foriero di sviluppi. Anche Achille ha il pollice verde, e per ora aiuta un amica di Libera, anch’essa fioraia. Chissà che in futuro…

Tanto già so che presto tornerò a parlare delle donne del Giambellino.

“Non succede mai che un libro, se è buono, non abbia una suggestione da darci.” (35)

“La verità, quando arriva, può essere crudele, ma è più crudele non conoscere la verità.” (82)

Rosa Teruzzi “La ballata dei padri infedeli” Sonzogno s.p. (Regalo di Francesco)

[A: 07/05/2024 – I: 09/05/2024 – T: 11/05/2024] &&& --- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 154; anno: 2024]

Come supponevo, eccoci al nono episodio della saga delle donne del Giambellino, imbastite dall’ottima Rosa Teruzzi. Non torno di nuovo sulla sua tipologia di scrittura, calma e rassicurante, con buone doti di rappresentazione delle situazioni, unita a conoscenze floreali di cui mi dichiaro colpevolmente ignorante.

Purtroppo, benché la scrittrice e la serie mi siano molto simpatiche, questo l’ho trovato l’episodio più debole scritto fino ad ora. Pochi rimandi esterni, poche o quasi assenti citazioni letterarie degne di essere ricordate. C’è solo questo tema di fondo, della ricerca delle radici, della mancanza di punti di riferimento paterni che tiene in piedi il testo. Ma non molto di più.

Ovvio che ci sono le nostre tre donne di riferimento, Iole, Libera e Vittoria, con la ruota di scorta della Smilza, la giornalista Irene, che appare poco ma quando appare è decisiva. Avevamo lasciato le nostre tre, nell’ultima puntata con alcuni dilemmi. Vittoria sembra ormai avviata ad un rapporto con il floreale Achille, anche se viene presa dalla routine poliziesca e qui compare solo in veste laterale. Iole è colpita dalla tristezza di Libera verso la mancanza di un padre certo, così che continua a cercare la soluzione del mistero. Intanto, provando a vedere se Diego, uno dei suoi amanti dell’epoca (e che noi conosciamo come Gatto con gli Stivali) possa ricoprire quel ruolo.

Libera invece continua a dibattersi su tanti fronti. La ricerca del padre, su cui questo testo è centrato. Ma anche la ricerca di un ruolo verso le persone cui vuole bene. C’è Gabriele, con cui ha passato una piacevole vacanza, che potrebbe assolvere al compito di futuro compagno stabile, dopo tanta attesa. Tuttavia, con due problemi seri: non gli fornisce stimoli per renderle la vita “sempre felice” e poi c’è quella donna da cui Gabriele aspetta un figlio, ed è un’altra ombra che non può sparire. C’è poi Furio, che la fa ridere, che è pieno di attenzioni, che le ha regalato un bouquet significativo, ma che è altalenante, cioè non sempre affidabile. E Libera ha bisogno di sorrisi e di fiducia.

Come dicevo, questo romanzo è centrato sulla figura dei padri. Perché se il motivo di fondo è capire se Diego è il padre di Libera, c’è un altro doppio rapporto padre – figlio che va seguito. Diego, in effetti, si è affezionato al piccolo Gianni, figlio di uno spacciatore di piccolo calibro. Ma quando il padre Alì scompare, Diego butta alle ortiche le sue remore e si mette alla ricerca del bandolo della matassa.

Sul fronte floreale, poi tutta la storia è collegata ad una pianta, per me ignota, la “Sansevieria” (così chiamata in onore di Raimondo di Sangro principe di San Severo, quello del “Cristo velato” per intenderci), che ha da un lato alcune proprietà velenose, dall’altro, per motivi che scoprirete, è al centro delle vicende di stupefacenti che portano alla scomparsa di Alì ed alla comparsa di uno dei tanti cartelli della droga milanese.

Come detto le vicende si intersecano, con devo dire abbastanza abilità da parte di Rosa di non dimenticare per strada neanche la Fata Turchina (che ricorderete dagli episodi precedenti) che ha una sua parte nella vicenda, anche se, appunto, da comprimaria.

Quello che emerge, è la figura di Diego, sempre scapestrato per tutta la sua vita, ma che, nel rapporto con il piccolo Gianni, capisce che qualcosa ha perso, qualcosa deve (può?) recuperare. Fino all’ultimo questo tasto sembra portare anche allo scioglimento delle radici di Libera, ma una sorpresa finale rimescolerà le carte, facendo in modo che ci sia spazio per altre puntate della saga delle nostre casellanti.

Dovremmo capire il futuro di Vittoria, quello di Gabriele, quello di Furio nonché, di fondo, quello di Libera. Che a me è di certo simpatica, ma vorrei dirle: apri gli occhi e datti una mossa. Non dico di seguire le orme materne, “folleggiando di fiore in fior”, ma non è molto intelligente continuare ad arrovellarsi, e ad intorcinarsi su tutte le questioni. Un po’ di leggerezza, che diamine. E, secondo me, dovresti accettare quello di buono che può venire da Gabriele e da Furio, senza, per ora, legarti a nessuno dei due. Che nessuno dei due ha fatto finora quello scatto che consente di dire, alla Mina, “è l’uomo per me, fatto apposta per me”.

Finendo sul fronte del giallo in sé, direi, appunto, che tutti i nodi alla fine la nostra tessitrice di storie li tira a fondo, sciogliendoli. Certo Diego sparisce di nuovo, certo il piccolo Gianni non può che riparare con la madre da Franca, la facoltosa amica di famiglia. Certo si trova il motivo per cui compariva la benedetta sansevieria.

Ma soprattutto, mentre è in ospedale per l’ennesima botta in testa, presa a fin di bene, e senza conseguenze durevoli, Libera riceve rose con alcuni petali incisi con delle lettere “P E R A C”. Che nascondono un mistero che di certo si risolverà alla prossima puntata.

Questa settimana, senza metafore e con una legge del contrappasso, da autori gialli italiani vi sforno una serie di frasi di un autore non italiano e non di gialli che a me è molto caro, anche se, purtroppo, ci ha lasciato.

Vi parlo di Amos Oz e di alcuni suoi libri.

Dal primo, “Scene dalla vita di un villaggio”, alcuni pensieri sul rapporto di coppia e sull’amore: “Era perdutamente ma anche disperatamente innamorato, visto che lei aveva quasi il doppio dei suoi anni, oltre che un fidanzato, ed era chiaro che provava per lui solo una generosa pietà” (135)

“Magari avessi trovato il coraggio … di dirle diritto in faccia … che io e lei … siamo due anime gemelle … ma non si può rimediare al fatto che sono nato una quindicina d’anni dopo di te” (153)

“Intanto pensavo che se persino Bialik, il poeta nazionale, si domanda che cosa sia l’amore, allora noi che non siamo poeti come potremmo pretendere di conoscere la risposta a questa domanda?” (165)

Dal secondo, che è anche uno dei suoi primi ed interessanti libri, “Michele mio”, vi consiglio soprattutto quella sul dimenticare e ricordare: “Scrivo questa storia perché quando ero giovane avevo una grande capacità di amare, e ora questa capacità di amare sta morendo.” (7)

“Le sue parole mi davano quel senso di tranquillità che provo dopo una siesta, la tranquillità di un risveglio al crepuscolo, quando l’aria è più dolce e io sono calma e tutto è calmo intorno a me.” (19)

“Non ho dimenticato nulla. Dimenticare significa morire. E io non voglio morire.” (56)

“Non c’è tristezza al mondo che non possa trasformarsi in una grande gioia.” (89)

“Il tempo vola sapete… Il tempo vola. Voi due vivete la vostra vita come se il tempo stesse fermo ad aspettare voi. Lasciate che vi dica che il tempo non sta fermo. Il tempo non si ferma per nessuno.” (157)

“Non voleva provocare nuovi sogni. I sogni possono essere infranti. E come conseguenza rimane la bocca amara.” (221)

Infine, dal poco noto “Fima”, alcune perle, di cui sottolineo, per alcuni miei amici e parenti, quella sugli indiani cherokee: “Il suo tempo libero lo trascorreva in compagnia delle donne.” (67)

“I cherokee hanno una legge che proibisce di buttar via qualunque cosa. … Tutto quello che ti è servito una volta … non buttarlo, forse ora è lui ad avere bisogno di te.” (138)

“Fima … decise in cuor suo che non avrebbe fatto più lo scemo in sua presenza. O in presenza di altri. D’ora in poi si sarebbe concentrato.” (258)

Per il resto, come suggeriscono parenti e amici, sto pensando a dare anche altri scopi a queste mie note sparse. Vedremo, anche perché ci si deve concentrare soprattutto sui prossimi possibili viaggi. Sempre con il vento in poppa e la sabbia negli occhi, un abbraccio.

domenica 14 luglio 2024

Applausi per i Frilli - 14 luglio 2024

Una settimana nuovamente dedicata a gialli italiani, ed in particolare a quella bella fucina messa in piedi dai Fratelli Frilli di Genova. Un editore di nicchia, che tuttavia continua, e con discreto successo, a pubblicare gialli di autori italiani, dedicati al territorio.

Come questi, tutti sufficientemente leggibili, pur se non eccelsi, dove spaziamo dalla Livorno di Collaveri alla Genova di Di Tillo, dalla doppia uscita di Reali tra Paiva e Milano per terminare nelle Langhe di Borgio. Una lettura turistica (l’Italia è sempre molto bella e va visitata) e rilassante.

Diego Collaveri “L'odore salmastro dei Fossi” Corriere Noir Italia 16 euro 7,99

[A: 20/09/2023 – I: 31/12/2023 – T: 01/01/2024] &&  +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 148; anno: 2015]

Diego Collaveri, livornese puro sangue, esordisce qui con la saga del commissario Mario Botteghi, anche se aveva già esordito nella scrittura e non solo. In effetti, Diego comincia come musicista, e come tale, oltre a suonare, fonda un’etichetta discografica, e nelle more, comincia a scrivere, in genere racconti.

Una decina di anni fa decide di passare al romanzo, con questo “L'odore salmastro dei Fossi”, dal sottotitolo “Caccia all’uomo per il commissario Botteghi”. Dove appunto nasce il personaggio che poi farà da protagonista per altre quattro o cinque scritture, sempre edite dalla benemerita casa dei Fratelli Frilli, una fucina per giovani scrittori di gialli.

Bisogna anche dire che il coprotagonista, almeno di questa prima uscita, è la città di Livorno, quella nella parte nascosta e corrotta, quella che si aggira per i canali del quartiere Venezia (e se andrete a Livorno ne capirete il motivo del nome). Una città che in realtà non conosco, ma che ho visitato un paio di volte nel passato, e che mi ha lasciato la sensazione che ci sia qualcosa in più da vedere, oltre la Terrazza Mascagni ed il lungomare. Ma questo fa parte di altre vicende, che qui dobbiamo tornare al testo, al giallo, ed ai Fossi, in particolare il Fosso Reale (quello che vide le gesta del ritrovamento dei falsi Modigliani).

Pur essendo il primo romanzo con il commissario Botteghi, l’autore non ce lo presenta, se non per la parte fisica. Il personaggio si palesa lentamente, anche se, per ora, non conosciamo molto del suo passato. È di certo in gamba come poliziotto, ha indagini positive al suo attivo, nonché una rete di conoscenze e di informatori di cui si serve per le sue indagini. Quello che di certo veniamo a sapere è lo scontro con un politico corrotto, cui ha messo i bastoni tra le ruote, frenandone l’ascesa politica.

Il libro inizia con Botteghi steso per terra, una pistola fumante vicino ed un cadavere poco più in là. Botteghi, che narra la storia in prima persona, non può che scappare da questa situazione. Non sa cos’è successo, ma tutto è contro di lui, ed anche alcuni suoi colleghi pensano che sia lui direttamente implicato in qualche loco traffico.

Il modo espositivo ricalca sentieri classici che ci fermiamo, facciamo un salto indietro per poi seguire i fili della trama che ci riportano a questo punto e da qui partono per arrivare all’epilogo. Un finale che seppur non sorprendente, non è così scontato come pare.

Tutto parte da indagini sull’immigrazione clandestina, su un infiltrato che cerca di capire come si muovono i cinesi che gestiscono il traffico, la morte dell’infiltrato ed il coinvolgimento di chi lo stava gestendo nelle indagini. Anche perché tutto si collega con gli sforzi del politico di cui sopra di rientrare nel giro proponendo un progetto di riqualificazione della zona infestata da questi traffici e dal rinnovamento delle zone portuali per permettere l’attracco di barche commerciali sempre più grandi.

Botteghi cerca aiuto dai suoi contatti (ma alcuni verranno uccisi prima che riesca ad avere informazioni), dai finanzieri che gestivano l’infiltrato, da un investigatore suo amico e suo ex-collega nella polizia. Ma i fili si ingarbugliano. Muoiono tizi legati al politico, guardaspalle, ed altre amenità poliziesche. Con la sensazione che qualcuno sia sempre un passo avanti a Botteghi, sappia sempre quello che potrebbe fare, e trovi il modo di invischiarlo sempre più nelle trame malandrine.

Sarà solo il suo intuito, nonché l’aiuto di poliziotti buoni (in particolare alcuni interessanti elementi della sua squadra) che lo porterà a comprendere un’affermazione fuori contesto e quindi a seguirne le tracce ed arrivare a quelle singolari conclusioni di cui accennavo.

Collaveri riesce a costruire un giallo agile, che tiene legati alla pagina, anche se, mettendo a volte troppa carne a fuoco, si perdono qualche filo del discorso. Fortunatamente, edotto dai consigli del grande Van Dine, non si tira indietro a dare un grande spiegone finale che mette tutto nella giusta prospettiva.

Non dispiace neanche il finale gastronomico, che porterà Botteghi verso “La Boa” il ristorante della sua amica Mariella ed alla sua cucina livornese, che è sempre una garanzia.

Marco Di Tillo “Tutte le strade portano a Genova” Corriere Noir Italia 40 euro 7,99

[A: 06/03/2024 – I: 10/03/2024 – T: 12/03/2024] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 157; anno: 2018]

Marco Di Tillo è un ben attempato signore della scrittura, che, pur non disdegnando la sua laurea in Psicologia, ha scritto sceneggiature, diretto due film, scritto libri per ragazzi, nonché autore, in solitario o in compagnia, di diverse trasmissioni televisive.  Poi ha cominciato anche a scrivere romanzi polizieschi, e qui, su invito dei benemeriti fratelli Frilli di Genova, decide di iniziare una serie ambientata nel capoluogo ligure, pur essendo lui un ben radicato romano.

Nascono così le indagini dell’ispettore Mario Canepa, poliziotto nella famosa (famigerata) stazione di via Armando Diaz. Delle storie dirette e semplici, godibili, ben scritte, certo che non ti stravolgono la vita, ma che possono accompagnare degli altrimenti noiosi momenti di attesa. Così come ha fatto questo veloce libro durante una pausa della mia ultima trasferta nelle terre del Nord. Tra l’altro suggellate proprio da Canepa nel finale quando cita le sette stelle del Carro (ed io non ne ricordavo neanche una), dove mi ricordai invece che le sette stelle, nell’antica Roma, venivano chiamate sette (septem) buoi da lavoro (triones), da cui deriva con facilità la sinonimia che indica il Nord (settentrione). Ma ci si può anche collegare al greco, che le indicava come “Arktos” (orso) dove ben si vede come si arrivi all’artico che stavo attraversando.

Ma Canepa si muove a Genova, e qui cominciamo a conoscere lui, la sua storia, la sua squadra, e qualche contorno forse foriero di sviluppo futuri. Avranno in futuro contorni più marcati il viceispettore Bruno Tozzi, che per ora sembra destroide e palestrato, l’ispettrice Massa ed i vari agenti, Gatta, Cavicchi, Sottile ed altri. nonché l’anatomopatologo Tedeschi. Ma soprattutto il pubblico ministero Tiziana Anselmi, sembra da poco trasferitasi da Roma, della quale porta movenze e parole. Ed intuiamo subito che tra lei e Canepa potrebbe nascere una storia.

Canepa, tuttavia, ce l’ha una storia, che era sposato con la bella Simona, che anni prima decide di essere stufa del mondo occidentale, e si trasferisce a lavorare con qualche ong nelle favelas brasiliane. Canepa, nonostante gli anni che passano, sembra sempre innamorato. O forse è innamorato dell’idea dell’amore. Tuttavia, difficile è scuotersi, anche se la madre (come tutte le madri) ci si impegna a fondo. Dimenticavo, Canepa è patito del ping-pong e della cucina cinese della signora Huan.

La storia si avvia con il ritrovamento di una giovane donna morta, nuda, con accanto un orsacchiotto con la maglia del Genova. Nessun documento, nessuna traccia, ma di sicuro qualcosa di losco in quel palazzo, dove tutti gli appartamenti sono di proprietà di una società svizzera.

Seguendo la traccia svizzera, inclusa trasferta a Ginevra, si arriva ad individuare nella morta, ed in altre con identiche modalità compreso l’orsacchiotto, seppur di maglie con squadre diverse, un filone di donne ucraine. Ucraina la morta, ucraina una seconda, ucraine una serie di ragazze che lavorano in bar equivoco della zone malfamate di Genova.

Canepa non potrà far altro che seguire le tracce ucraine (ricordo che siamo nel 2018, ancora lontani dalle aggressioni putiniane) fino ad Odessa, scoprendo il filone, che era già abbastanza ovvio da pagine e pagine. La società svizzera si occupa di consegne, utilizza camion che scorrazzano in giro per l’Europa, e lì a Genova fanno capo ad un losco figuro soprannominato Maxelà. Che vuol dire macellaio, e che a me ricorda un vecchio ristorante di carne che stava in quel di Borgo a Prati. Le consegne, oltre quelle giuste, prevedevano lo smistamento di materiale femminile in varie zone europee, laddove il nostro macellaio, a mo’ di pagamento, veniva rifornito con una quota parte di donne da usare per il suo business locale.

La storia nasce da un trio di ucraine che avevano altri progetti, che cercano di sganciarsi, che qualcuno impedisce lo facciano. Forse solo Vera sembra trovare un filone di fuga, quando riesce ad introdursi nell’atelier dell’archistar Renzo Piano (Di Tillo, in tanti anni televisivi si può anche permettere di usarlo per un cammeo, neanche riuscito male). Quando Canepa risale a Piano e a Vera, la strada si mette in discesa, anche se non vi dico dove si arriverà a frenare, portando alla fine Marco e Tiziana nel ristorante cinese a lui congeniale.

E poi… aspettiamo, se capita, la seconda puntata.

Intanto, ribadisco che, pur romano, Di Tillo riesce a disegnare bene il protagonista nascosto del romanzo, la città di Genova. Con i suoi carrugi, che abbiamo imparato a conoscere dalla penna di Bruno Morchio, con le sue vie del Campo, devote alla memoria di Paoli e di De André. Con il ponte Morandi, con la tangenziale, con i bar, con le zone bene e quelle meno, e con le piccole puntate verso il mare passeggiando per il lungomare Bettolo a Recco.

Un solo appunto, non capisco perché a pagina 74 si parli di un Cinema d’Essay. Non me ne risultano di questo nome a Genova, e se, come si evince dal testo, si parla di cinema d’avanguardia, forse il termine corretto era Cinema d’essai. Peccato la, spero, svista.

“Si fermò in una nota gelateria della zona e ordinò una coppetta media con i soliti gusti che gli piacevano tanto, pistacchio, stracciatella e cioccolato fondente.” (72) [per me una piccola senza stracciatella]

Alessandro Reali “La morte scherza sul Ticino” Corriere Noir Italia 16 euro 7,99

[A: 12/10/2023 – I: 14/03/2024 – T: 16/03/2024] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 165; anno: 2013]

Una seconda puntata degli scritti noir del pavese Alessandro Reali, che abbiamo da poco incontrato nel primo libro (“Fitte nebbie”) dedicato ad un strampalata coppia di investigatori. Una puntata dolente, in punta di penna, molto noir (come ambiente generale) e poco thriller. Si c’è qualcosa che si scoprirà nel finale, che forse darà un piccolo senso in più a tutto il libro, ma un romanzo, in definitiva, che scorre via con lentezza, senza lasciare molto dietro di sé.

Intanto, e di sicuro, uno dei punti forti è proprio l’ambiente, Pavia, il fiume Ticino che la attraversa, la pioggia, insistente, che rende tutto più cupo, più dolente, in attesa che i personaggi agiscano e nella speranza che il fiume non straripi.

Anche se non in tutto il fulcro dell’azione, ritroviamo l’Agenzia Investigativa Sambuco & Dall’Oro nel pieno delle sue funzioni, imparando, a poco a poco, qualcosa in più sui due personaggi. Gino Sambuco, sempre discretamente impeccabile, bloccato da un grande dolore (sappiamo della morte del figlio, ma non sappiamo, ancora, come e perché), alle prese anche con la, comprensibile, depressione della moglie, che naviga tra ricordi ed antidepressivi. Animo dolente Gino, che ben si inserisce in una trama altrettanto dolente. Il contraltare è Selmo Dall’Oro, ex-teppista, con strascichi presenti nell’alcol, cui abusa, nel carattere rissoso, che mai lo abbandona, e nell’inseguimento, forse involontario ma costante, di piccole avventure femminili. Che ovviamente hanno risvolti sulla sua vita coniugale, visto che la moglie, giustamente, quando passa il limite, preferisce sbatterlo fuori casa in attesa che torni a miti consigli.

I nostri saranno coinvolti nella ricerca di eventuali prove di un rapporto sbilanciato tra un professore in pensione e la giovane figlia di un amico di famiglia. E sarà questo tormentone il filo conduttore del romanzo, soprattutto nelle parole e nei pensieri del vero protagonista, appunto il professore Giorgio Grechi, ex-insegnante di Lettere del locale Liceo Classico.

Grechi, sempre inclinato verso il sesso e le sue manifestazioni, non estreme, ma costanti nel tempo, ci parla a lungo, svelandoci la sua vita. Lettore accanito, fruitore di musica, insegnante di rispetto (almeno di facciata), mai sposato che non vuole legami, preferendo cercare, laddove trova, piaceri sessuali effimeri, dopo aver frequentato per anni il bar davanti scuola, conosce e si invaghisce di Adele, la proprietaria. Donna esuberante, costretta al duro lavoro di barista da un marito ludopatico, a contatto con Giorgio, sboccia e con lei sboccia la sua sessualità. Un rapporto sbilanciato, che lei si innamora, e lui continua invece a pensarlo come una sua personale palestra di sesso.

Momento topico di svolta quando Adele si scopre malata oncologica, assai vicina all’ultimo stadio, e Giorgio si trova avvolto nelle trame di Silvana, giovanetta annoiata della Pavia bene, figlia di un amico di Giorgio. Silvana che irrompe nella vita del professore, proponendogli un salto di sessualità cui il nostro non sa resistere. Tanto da abbandonare Adele al suo destino, e di praticare sfacciatamente le nuove vie della sua libido ormai senza controllo.

Ma tutto è venato dalla malinconia di Giorgio che, pur ricordandoci tutto questo suo vissuto, è tormentato dall’idea di aver ucciso una persona. Omicidio che non può che macchiare tutta la sua esistenza, costringendolo a fare i conti, finalmente, con sé stesso. E con i nostri investigatori, che facilmente scoprono la tresca, anche se ne hanno due atteggiamenti opposti.

Selmo intravede la possibilità di usarla come arma di ricatto verso il professore, Gino come tentativo di portare Silvana a più miti consigli, e di capire chi sia, realmente, l’impeccabile Giorgio Grechi. In quella città bagnata i due filoni vanno avanti e si mescolano, anche se la parte migliore è proprio il lungo colloquio rivelatore tra il dolente Gino e l’addolorato Giorgio.

Certo, la tresca non può che finire, ma non il romanzo, che dobbiamo capire se Giorgio è un assassino, se Adele muore, se Selmo & Gino ne usciranno bene o malconci, se, infine, Giorgio capirà sé stesso, e, prendendone atto, capirà cosa vuole. Noi lo avevamo pensato da tempo, ma lo sapremo solo alla fine.

Un romanzo sul male di vivere, o sul vivere male non sapendo essere sé stessi. Ma anche, ed è stato un piacere per me, un libro pieno di Pavia, che mi fa sempre pensare alla mia amica Nicoletta dei dromedari, e pieno di musica che ho sempre amato. Tengo, Ciampi, Endrigo e Paolo Conte. Non a caso, tutti cantautori che del male di vivere hanno fatto il filo conduttore delle loro canzoni.

Non mi è piaciuto tutto, del libro, lasciandomi un po’ un sapore di incompiuto, e che tuttavia ben si è adattato al freddo clima delle Lofoten dove, guardando la neve, l’ho velocemente letto.

Alessandro Reali “La matta di Milano” Corriere Noir Italia 37 euro 7,99

[A: 14/02/2024 – I: 21/05/2024 – T: 23/05/2024] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 155; anno: 2020]

Dopo le due avventure degli investigatori Sambuco e Dall’Oro, datate più di dieci anni fa, e, come vi ricordo, molto piene di “pavesità”, ecco che all’inizio di questo decennio la penna di Reali si sposta nel tempo e nello spazio. L’autore ci porta alla Milano degli anni Sessanta (per l’esattezza siamo negli ultimi mesi del 1964) facendoci conoscere uno strano tipo di poliziotto, il commissario (che all’epoca si chiamavano ancora così) Caronte (anche senza “l’occhi di bragia” per la dotta citazione).

Facendo sempre un rispettoso saluto alla penna di chi scrive, Reali imbastisce un racconto lungo con alcuni spunti interessanti (ambiente, commissario) e momenti di pausa (in particolare una trama “noir” che non prende, in particolare con alcuni flashback in corsivo che non sembrano congruenti con la storia; io ne avrei fatto a meno).

Pur non amando in maniera particolare Milano, anche se ne riconosco alcuni punti affascinanti, l’ambientazione invernale del ’64 è di sicuro interessante. Intanto perché poco prima (in effetti il 1° novembre) viene inaugurata la prima linea della Metropolitana, la Linea 1 da Lotto a Sesto Marelli (con le importanti fermate in centro città, come S. Babila, Duomo e Cordusio). Poi perché il nostro si aggira volentieri per i Navigli, in particolare a Ripa di Porta Ticinese, per bere del buon vino e giocare a carte con i suoi migliori amici, casualmente giornalisti. E non di testate qualsiasi, dato che Beppe, il gourmet, lavora alla “Gazzetta” e Rommel (com’è soprannominato il playboy) al “Corsera”.

Non solo, ma si parla anche della Milano di notte, dei cabaret, dei locali dove cantavano i Gufi, Gaber, Jannacci (ricordo ai meno ferrati che i due esordirono in duo con il nome di “I due Corsari”). In particolare, il Derby Club, una pietra miliare dell’avanguardia non solo milanese, fondato dagli zii di Diego Abatantuono, e dove passarono tutti i comici più importanti, e non solo (menziono solo per omaggio sentito, Beppe Viola). Senza scordare Brera…

In questa città che sta crescendo verso la futura “Milano da bere”, si muove il nostro commissario Caronte. Atipico per l’epoca e per il ruolo. Vive solo, ma ha una relazione stabile con la bella Luisella, legge molto, ma soprattutto classici e romanzi d’avventura (laddove ha una passione sfrenata per Dumas). Con gli amici gioca a carte, a biliardo e parla di calcio, soprattutto di Rivera e del Milan, che in quell’inizio di campionato stava veleggiando a gonfie vele, anche se alla fine il torneo fu vinto dall’Inter.

La vicenda nasce dal ritrovamento, in un edificio in viale Monte Nero (verso Porta Romana, per chi vuole indicazioni precise) di un ragazzo con la testa fracassata, e senza documenti. Caronte avrà un bel da fare per trovarne l’identità, seppur ben aiutato dal fido ispettore Perotti, anche se, coinvolgendo contatti con le zone d’ombra tra bene e malaffare, ben presto ne esce un quadro abbastanza netto. Tanto che le indagini sembrano volare.

Il morto è Giuseppe Magnaghi, detto Pino. Viene dalla Bovisa, e come tanti giovani cerca una scorciatoia per “trovà i dané”. In questo spalleggiato dalla sorella Maristella. Cercano la bella vita, ma Caronte, dopo aver sfrondato i primi punti oscuri, si trova ad affrontare anche la morte di Maristella, senza riuscire a comprendere dove i due ragazzi pensavano di arricchirsi. Che le zone d’ombra aumentano, anche seguendo i percorsi quasi malavitosi dei due. Come se ci fosse, ad un certo punto, un salto di qualità “noir” che né noi né Caronte riusciamo a comprendere immediatamente.

Caronte, un po’ “maigrettiano”, non nasconde che solo entrando nella psicologia dei personaggi, solo immedesimandosi, si può arrivare a squarciare la nebbia milanese. Arrovellandosi sul motivo per cui, tra tanti posti, proprio verso Porta Romana viene ritrovato il primo morto.

Con qualche salto logico, che forse io non ho capito a fondo, Caronte trova il punto d’avvio per dipanare l’intricata matassa. Rimanendomi in testa l’inutilità romanzesca di inserire una persona un po’ squilibrata nella trama, che, a posteriori, chiarisce alcuni motivi, ma che, nel corso della lettura, rallenta e distrae.

Insomma, un esordio di un personaggio interessante, che non nego proverò a vedere se ha prodotto altro. Anche se, nel complesso, un libro in tono minore.

Tornando a quanto si diceva della Milano d’autore, Caronte, a pagina 66, mi fa un regalo raccontando di aver ascoltato Nanni Svampa cantare in milanese alcune canzoni di Brassens. Un autore che ho sempre amato, sia in originale, sia nel milanese di Svampa, sia in uno dei miei primi vinili, tradotto in italiano da Duilio Del Prete. Un disco mitologico.

Fabrizio Borgio “Vino rosso sangue” Corriere Noir Italia 14 euro 7,99

[A: 10/09/2023 – I: 25/05/2024 – T: 26/05/2024] && e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 166; anno: 2014]

Fabrizio Borgio è un onesto scrittore della grande scuderia gestita dai Fratelli Frilli di Genova. Una casa editrice specializzata nel proporre una buona messe di scrittori italiani con storie italiane, un po’ com’era all’inizio la RoundRobin romana (anche se gli autori erano più eclettici). Ogni tanto esce qualche autore di peso, come è il caso di Bruno Morchio, spesso ci sono autori di buona caratura, a volte non si va oltre una striminzita sufficienza.

Borgio, in questa prima prova da me letta, si colloca nella medianità di gradimento, e, non a caso, viene di accostarlo, per tipologie di scelte di scrittura al primo Bacci Pagano di Morchio. Anche se, come dice Borgio stesso in un’intervista, le sue scritture iniziali pendevano verso un detective del paranormale (che nelle descrizioni rimanda quasi ad un Dylan Dog di campagna). Lo scarso o poco interessato seguito di pubblico, spinge l’editore alla richiesta di un cambio di registro, che porta a questa scrittura, senz’altro degna di interesse.

In particolare, perché riesce a coniugare una discreta dose di thriller, con l’ambiente in cui si svolge l’azione. Poiché siamo nello stretto territorio astigiano, tra le Langhe e il Monferrato, è ovvio che si parli di vino ed annessi. Situazione che Borgio ben conosce, per nascita e per aver lui stesso frequentato l’enocoltura ed i suoi vari aspetti.

Nasce così il personaggio di Giorgio Martinengo, investigatore privato delle Langhe. Un personaggio che, per una serie di aspetti, riesce più simpatico di quanto la penna dell’autore riesca a farci capire. Viene da una famiglia di viticoltori, ma, pur conoscendo la materia, decide che quella non è la sua strada, e dopo un breve passaggio in polizia, prima con altri, poi in solitaria decide di imbarcarsi nell’investigazione.

Rimanendo tuttavia legato al territorio. Abita nelle campagne, dove il suo casolare è anche il suo ufficio (d’altra parte, ormai, dopo il Covid, abbiamo imparato quanto si possa anche lavorare da remoto). Ha inoltre una simpatica tendenza ad appassionarsi alle cose che incontra, mostrando una sete di conoscenza, in cui mi ritrovo, ed alla quale augurerei aspirassero molti giovani d’oggi.

In tutto ciò, il via alla vicenda viene dato da Elena Rondissone, responsabile di un consorzio vinicolo, che ingaggia il nostro nella ricerca di una bottiglia scomparsa. E non una qualunque ma un “Balthazar” di Barbera (per i meno addetti, ricordo si tratta di una grossa bottiglia che contiene circa 12 litri). Peccato che insieme alla bottiglia, sia scomparso anche il titolare del Consorzio.

Martinengo indaga, e ben presto quindi conosciamo tutti i possibili attori. Oltre al padre scomparso, ed alla bella Elena, determinata ed incalzante il nostro investigatore nello sveltire le indagini, abbiamo Loris, il fratello giovane, odioso ed inutile al punto giusto, le due segretarie tuttofare, Olga, rumena nonché amante di Loris, e Gloria, giovane ex-stagista di vini, peripatetica nell’area economica tedesco-polacca, Barovero, l’amministratore del consorzio, e Baldissero, il capo cantiere.

Alcune circostanze fortuite legate poi alla morte sia di Barovero che di Baldissero, portano Martinengo alla ricerca di un filo che unisce vari aspetti della deriva economica di chi, alla ricerca del profitto, calpesta tutte le regole della civiltà. Certo, come dice Borgio nel prologo, aveva in mente sia il crollo di alcuni consorzi vinicoli negli anni Sessanta sia il famoso scandalo del vino al metanolo del 1986 (quello che uccise 19 consumatori e ad altri portò cecità).

Tutto nasce dalla ricerca di abbassare i costi dei vini da tavola, importando vino a basso prezzo dalla Romania, ed aggiustando i gradi alcolici e gli zuccheri proprio con il metanolo. Peccato che ciò porti alla morte di un rumeno in qualche modo legato alle vicende dell’azienda Rondissone. Non a caso nelle bottiglie in esposizione vengono trovati gli occhi dei morti.

Il finale, pur con qualche contorsione, è tuttavia abbastanza lineare. Ovvio non il più semplice, ma comunque di facile lettura. Con un agire del nostro investigatore in empatia con le situazione, che fa ben sperare nelle sicure uscite seguenti. Ma è anche interessante il viaggio intorno alle adulterazioni vinicole, descritto con cognizione di cosa può produrre la speculazione ed il malaffare, e letto con indignazione, per i danni provocati alla salute dei consumatori ignari.

Finisco con un piccolo saggio enologico, tributando un grazie al mio amico Fabio Del Frate (forte delle unite frequentazioni alla scomparsa libreria “L’Asterisco” di via Silla), dove, in forza della sua formidabile enoteca, vi posso al fine deliziare con l’elenco dei formati delle bottiglie che seguono la classica “Magnum” da 1 litro. Abbiamo quindi a salire: Jeroboam (il primo re del regno di Israele, 3 litri), Rehoboam (il primo re del regno di Giuda, 4,5 litri), Mathusalem (il patriarca biblico, 6 litri), Salmanazar (il primo re assiro, 9 litri), Balthazar (uno dei re magi, 12 litri), Nabuchodonosor (il sovrano babilonese, 15 litri), Salomon (ultimo sovrano dei regni ebraici unificati, 18 litri), finendo con Melchisedech (nella Bibbia un nome alternativo a Sem figlio di Noè, 30 litri). Esistono anche altri formati, ma io mi fermo a questi biblici.

Vi auguro quindi una buona lettura, con il giusto calice in mano.

Anzi, proseguendo la metafora, non solo con un calice, ma seduti a godervi paesaggi e letture, magari avendo accanto, oltre a qualche giallo questo libro di Beppe Sebaste “Panchine”. Una bella lettura, di cui vi regalo alcune perle, soprattutto l’ultima da meditare quando riprendete a leggere i vostri libri abituali:

“Sulle panchine si contempla lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere visti, e ci si dà il tempo di perdere il tempo, come leggere un romanzo” (quarta di copertina)

“La lettura è un atto anarchico … per il rapporto che stabilisce con la cosiddetta realtà. A parte lo straniamento che induce una lettura prolungata … al lettore viene … rinfacciato continuamente di avere uno scarso rapporto con la realtà, di essere cioè uno svitato.” (117)

“L’altro giorno ero nella fase finale della lettura di un mastodontico giallo svedese … e improvvisamente mi è venuta per la prima volta l’idea che non era vero che non stavo facendo niente…. [stavo leggendo e] senza di me, se cioè avessi smesso di leggere, che ne sarebbe stato della storia e dei suoi personaggi?” (118)

Ciò detto, per ora si prosegue veleggiando a vista, dribblando il caldo, aspettando ch’a da passà a’ nuttata. Ma sempre con la mente verso nuove idee. Vedremo. Per ora abbracci.