domenica 14 luglio 2024

Applausi per i Frilli - 14 luglio 2024

Una settimana nuovamente dedicata a gialli italiani, ed in particolare a quella bella fucina messa in piedi dai Fratelli Frilli di Genova. Un editore di nicchia, che tuttavia continua, e con discreto successo, a pubblicare gialli di autori italiani, dedicati al territorio.

Come questi, tutti sufficientemente leggibili, pur se non eccelsi, dove spaziamo dalla Livorno di Collaveri alla Genova di Di Tillo, dalla doppia uscita di Reali tra Paiva e Milano per terminare nelle Langhe di Borgio. Una lettura turistica (l’Italia è sempre molto bella e va visitata) e rilassante.

Diego Collaveri “L'odore salmastro dei Fossi” Corriere Noir Italia 16 euro 7,99

[A: 20/09/2023 – I: 31/12/2023 – T: 01/01/2024] &&  +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 148; anno: 2015]

Diego Collaveri, livornese puro sangue, esordisce qui con la saga del commissario Mario Botteghi, anche se aveva già esordito nella scrittura e non solo. In effetti, Diego comincia come musicista, e come tale, oltre a suonare, fonda un’etichetta discografica, e nelle more, comincia a scrivere, in genere racconti.

Una decina di anni fa decide di passare al romanzo, con questo “L'odore salmastro dei Fossi”, dal sottotitolo “Caccia all’uomo per il commissario Botteghi”. Dove appunto nasce il personaggio che poi farà da protagonista per altre quattro o cinque scritture, sempre edite dalla benemerita casa dei Fratelli Frilli, una fucina per giovani scrittori di gialli.

Bisogna anche dire che il coprotagonista, almeno di questa prima uscita, è la città di Livorno, quella nella parte nascosta e corrotta, quella che si aggira per i canali del quartiere Venezia (e se andrete a Livorno ne capirete il motivo del nome). Una città che in realtà non conosco, ma che ho visitato un paio di volte nel passato, e che mi ha lasciato la sensazione che ci sia qualcosa in più da vedere, oltre la Terrazza Mascagni ed il lungomare. Ma questo fa parte di altre vicende, che qui dobbiamo tornare al testo, al giallo, ed ai Fossi, in particolare il Fosso Reale (quello che vide le gesta del ritrovamento dei falsi Modigliani).

Pur essendo il primo romanzo con il commissario Botteghi, l’autore non ce lo presenta, se non per la parte fisica. Il personaggio si palesa lentamente, anche se, per ora, non conosciamo molto del suo passato. È di certo in gamba come poliziotto, ha indagini positive al suo attivo, nonché una rete di conoscenze e di informatori di cui si serve per le sue indagini. Quello che di certo veniamo a sapere è lo scontro con un politico corrotto, cui ha messo i bastoni tra le ruote, frenandone l’ascesa politica.

Il libro inizia con Botteghi steso per terra, una pistola fumante vicino ed un cadavere poco più in là. Botteghi, che narra la storia in prima persona, non può che scappare da questa situazione. Non sa cos’è successo, ma tutto è contro di lui, ed anche alcuni suoi colleghi pensano che sia lui direttamente implicato in qualche loco traffico.

Il modo espositivo ricalca sentieri classici che ci fermiamo, facciamo un salto indietro per poi seguire i fili della trama che ci riportano a questo punto e da qui partono per arrivare all’epilogo. Un finale che seppur non sorprendente, non è così scontato come pare.

Tutto parte da indagini sull’immigrazione clandestina, su un infiltrato che cerca di capire come si muovono i cinesi che gestiscono il traffico, la morte dell’infiltrato ed il coinvolgimento di chi lo stava gestendo nelle indagini. Anche perché tutto si collega con gli sforzi del politico di cui sopra di rientrare nel giro proponendo un progetto di riqualificazione della zona infestata da questi traffici e dal rinnovamento delle zone portuali per permettere l’attracco di barche commerciali sempre più grandi.

Botteghi cerca aiuto dai suoi contatti (ma alcuni verranno uccisi prima che riesca ad avere informazioni), dai finanzieri che gestivano l’infiltrato, da un investigatore suo amico e suo ex-collega nella polizia. Ma i fili si ingarbugliano. Muoiono tizi legati al politico, guardaspalle, ed altre amenità poliziesche. Con la sensazione che qualcuno sia sempre un passo avanti a Botteghi, sappia sempre quello che potrebbe fare, e trovi il modo di invischiarlo sempre più nelle trame malandrine.

Sarà solo il suo intuito, nonché l’aiuto di poliziotti buoni (in particolare alcuni interessanti elementi della sua squadra) che lo porterà a comprendere un’affermazione fuori contesto e quindi a seguirne le tracce ed arrivare a quelle singolari conclusioni di cui accennavo.

Collaveri riesce a costruire un giallo agile, che tiene legati alla pagina, anche se, mettendo a volte troppa carne a fuoco, si perdono qualche filo del discorso. Fortunatamente, edotto dai consigli del grande Van Dine, non si tira indietro a dare un grande spiegone finale che mette tutto nella giusta prospettiva.

Non dispiace neanche il finale gastronomico, che porterà Botteghi verso “La Boa” il ristorante della sua amica Mariella ed alla sua cucina livornese, che è sempre una garanzia.

Marco Di Tillo “Tutte le strade portano a Genova” Corriere Noir Italia 40 euro 7,99

[A: 06/03/2024 – I: 10/03/2024 – T: 12/03/2024] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 157; anno: 2018]

Marco Di Tillo è un ben attempato signore della scrittura, che, pur non disdegnando la sua laurea in Psicologia, ha scritto sceneggiature, diretto due film, scritto libri per ragazzi, nonché autore, in solitario o in compagnia, di diverse trasmissioni televisive.  Poi ha cominciato anche a scrivere romanzi polizieschi, e qui, su invito dei benemeriti fratelli Frilli di Genova, decide di iniziare una serie ambientata nel capoluogo ligure, pur essendo lui un ben radicato romano.

Nascono così le indagini dell’ispettore Mario Canepa, poliziotto nella famosa (famigerata) stazione di via Armando Diaz. Delle storie dirette e semplici, godibili, ben scritte, certo che non ti stravolgono la vita, ma che possono accompagnare degli altrimenti noiosi momenti di attesa. Così come ha fatto questo veloce libro durante una pausa della mia ultima trasferta nelle terre del Nord. Tra l’altro suggellate proprio da Canepa nel finale quando cita le sette stelle del Carro (ed io non ne ricordavo neanche una), dove mi ricordai invece che le sette stelle, nell’antica Roma, venivano chiamate sette (septem) buoi da lavoro (triones), da cui deriva con facilità la sinonimia che indica il Nord (settentrione). Ma ci si può anche collegare al greco, che le indicava come “Arktos” (orso) dove ben si vede come si arrivi all’artico che stavo attraversando.

Ma Canepa si muove a Genova, e qui cominciamo a conoscere lui, la sua storia, la sua squadra, e qualche contorno forse foriero di sviluppo futuri. Avranno in futuro contorni più marcati il viceispettore Bruno Tozzi, che per ora sembra destroide e palestrato, l’ispettrice Massa ed i vari agenti, Gatta, Cavicchi, Sottile ed altri. nonché l’anatomopatologo Tedeschi. Ma soprattutto il pubblico ministero Tiziana Anselmi, sembra da poco trasferitasi da Roma, della quale porta movenze e parole. Ed intuiamo subito che tra lei e Canepa potrebbe nascere una storia.

Canepa, tuttavia, ce l’ha una storia, che era sposato con la bella Simona, che anni prima decide di essere stufa del mondo occidentale, e si trasferisce a lavorare con qualche ong nelle favelas brasiliane. Canepa, nonostante gli anni che passano, sembra sempre innamorato. O forse è innamorato dell’idea dell’amore. Tuttavia, difficile è scuotersi, anche se la madre (come tutte le madri) ci si impegna a fondo. Dimenticavo, Canepa è patito del ping-pong e della cucina cinese della signora Huan.

La storia si avvia con il ritrovamento di una giovane donna morta, nuda, con accanto un orsacchiotto con la maglia del Genova. Nessun documento, nessuna traccia, ma di sicuro qualcosa di losco in quel palazzo, dove tutti gli appartamenti sono di proprietà di una società svizzera.

Seguendo la traccia svizzera, inclusa trasferta a Ginevra, si arriva ad individuare nella morta, ed in altre con identiche modalità compreso l’orsacchiotto, seppur di maglie con squadre diverse, un filone di donne ucraine. Ucraina la morta, ucraina una seconda, ucraine una serie di ragazze che lavorano in bar equivoco della zone malfamate di Genova.

Canepa non potrà far altro che seguire le tracce ucraine (ricordo che siamo nel 2018, ancora lontani dalle aggressioni putiniane) fino ad Odessa, scoprendo il filone, che era già abbastanza ovvio da pagine e pagine. La società svizzera si occupa di consegne, utilizza camion che scorrazzano in giro per l’Europa, e lì a Genova fanno capo ad un losco figuro soprannominato Maxelà. Che vuol dire macellaio, e che a me ricorda un vecchio ristorante di carne che stava in quel di Borgo a Prati. Le consegne, oltre quelle giuste, prevedevano lo smistamento di materiale femminile in varie zone europee, laddove il nostro macellaio, a mo’ di pagamento, veniva rifornito con una quota parte di donne da usare per il suo business locale.

La storia nasce da un trio di ucraine che avevano altri progetti, che cercano di sganciarsi, che qualcuno impedisce lo facciano. Forse solo Vera sembra trovare un filone di fuga, quando riesce ad introdursi nell’atelier dell’archistar Renzo Piano (Di Tillo, in tanti anni televisivi si può anche permettere di usarlo per un cammeo, neanche riuscito male). Quando Canepa risale a Piano e a Vera, la strada si mette in discesa, anche se non vi dico dove si arriverà a frenare, portando alla fine Marco e Tiziana nel ristorante cinese a lui congeniale.

E poi… aspettiamo, se capita, la seconda puntata.

Intanto, ribadisco che, pur romano, Di Tillo riesce a disegnare bene il protagonista nascosto del romanzo, la città di Genova. Con i suoi carrugi, che abbiamo imparato a conoscere dalla penna di Bruno Morchio, con le sue vie del Campo, devote alla memoria di Paoli e di De André. Con il ponte Morandi, con la tangenziale, con i bar, con le zone bene e quelle meno, e con le piccole puntate verso il mare passeggiando per il lungomare Bettolo a Recco.

Un solo appunto, non capisco perché a pagina 74 si parli di un Cinema d’Essay. Non me ne risultano di questo nome a Genova, e se, come si evince dal testo, si parla di cinema d’avanguardia, forse il termine corretto era Cinema d’essai. Peccato la, spero, svista.

“Si fermò in una nota gelateria della zona e ordinò una coppetta media con i soliti gusti che gli piacevano tanto, pistacchio, stracciatella e cioccolato fondente.” (72) [per me una piccola senza stracciatella]

Alessandro Reali “La morte scherza sul Ticino” Corriere Noir Italia 16 euro 7,99

[A: 12/10/2023 – I: 14/03/2024 – T: 16/03/2024] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 165; anno: 2013]

Una seconda puntata degli scritti noir del pavese Alessandro Reali, che abbiamo da poco incontrato nel primo libro (“Fitte nebbie”) dedicato ad un strampalata coppia di investigatori. Una puntata dolente, in punta di penna, molto noir (come ambiente generale) e poco thriller. Si c’è qualcosa che si scoprirà nel finale, che forse darà un piccolo senso in più a tutto il libro, ma un romanzo, in definitiva, che scorre via con lentezza, senza lasciare molto dietro di sé.

Intanto, e di sicuro, uno dei punti forti è proprio l’ambiente, Pavia, il fiume Ticino che la attraversa, la pioggia, insistente, che rende tutto più cupo, più dolente, in attesa che i personaggi agiscano e nella speranza che il fiume non straripi.

Anche se non in tutto il fulcro dell’azione, ritroviamo l’Agenzia Investigativa Sambuco & Dall’Oro nel pieno delle sue funzioni, imparando, a poco a poco, qualcosa in più sui due personaggi. Gino Sambuco, sempre discretamente impeccabile, bloccato da un grande dolore (sappiamo della morte del figlio, ma non sappiamo, ancora, come e perché), alle prese anche con la, comprensibile, depressione della moglie, che naviga tra ricordi ed antidepressivi. Animo dolente Gino, che ben si inserisce in una trama altrettanto dolente. Il contraltare è Selmo Dall’Oro, ex-teppista, con strascichi presenti nell’alcol, cui abusa, nel carattere rissoso, che mai lo abbandona, e nell’inseguimento, forse involontario ma costante, di piccole avventure femminili. Che ovviamente hanno risvolti sulla sua vita coniugale, visto che la moglie, giustamente, quando passa il limite, preferisce sbatterlo fuori casa in attesa che torni a miti consigli.

I nostri saranno coinvolti nella ricerca di eventuali prove di un rapporto sbilanciato tra un professore in pensione e la giovane figlia di un amico di famiglia. E sarà questo tormentone il filo conduttore del romanzo, soprattutto nelle parole e nei pensieri del vero protagonista, appunto il professore Giorgio Grechi, ex-insegnante di Lettere del locale Liceo Classico.

Grechi, sempre inclinato verso il sesso e le sue manifestazioni, non estreme, ma costanti nel tempo, ci parla a lungo, svelandoci la sua vita. Lettore accanito, fruitore di musica, insegnante di rispetto (almeno di facciata), mai sposato che non vuole legami, preferendo cercare, laddove trova, piaceri sessuali effimeri, dopo aver frequentato per anni il bar davanti scuola, conosce e si invaghisce di Adele, la proprietaria. Donna esuberante, costretta al duro lavoro di barista da un marito ludopatico, a contatto con Giorgio, sboccia e con lei sboccia la sua sessualità. Un rapporto sbilanciato, che lei si innamora, e lui continua invece a pensarlo come una sua personale palestra di sesso.

Momento topico di svolta quando Adele si scopre malata oncologica, assai vicina all’ultimo stadio, e Giorgio si trova avvolto nelle trame di Silvana, giovanetta annoiata della Pavia bene, figlia di un amico di Giorgio. Silvana che irrompe nella vita del professore, proponendogli un salto di sessualità cui il nostro non sa resistere. Tanto da abbandonare Adele al suo destino, e di praticare sfacciatamente le nuove vie della sua libido ormai senza controllo.

Ma tutto è venato dalla malinconia di Giorgio che, pur ricordandoci tutto questo suo vissuto, è tormentato dall’idea di aver ucciso una persona. Omicidio che non può che macchiare tutta la sua esistenza, costringendolo a fare i conti, finalmente, con sé stesso. E con i nostri investigatori, che facilmente scoprono la tresca, anche se ne hanno due atteggiamenti opposti.

Selmo intravede la possibilità di usarla come arma di ricatto verso il professore, Gino come tentativo di portare Silvana a più miti consigli, e di capire chi sia, realmente, l’impeccabile Giorgio Grechi. In quella città bagnata i due filoni vanno avanti e si mescolano, anche se la parte migliore è proprio il lungo colloquio rivelatore tra il dolente Gino e l’addolorato Giorgio.

Certo, la tresca non può che finire, ma non il romanzo, che dobbiamo capire se Giorgio è un assassino, se Adele muore, se Selmo & Gino ne usciranno bene o malconci, se, infine, Giorgio capirà sé stesso, e, prendendone atto, capirà cosa vuole. Noi lo avevamo pensato da tempo, ma lo sapremo solo alla fine.

Un romanzo sul male di vivere, o sul vivere male non sapendo essere sé stessi. Ma anche, ed è stato un piacere per me, un libro pieno di Pavia, che mi fa sempre pensare alla mia amica Nicoletta dei dromedari, e pieno di musica che ho sempre amato. Tengo, Ciampi, Endrigo e Paolo Conte. Non a caso, tutti cantautori che del male di vivere hanno fatto il filo conduttore delle loro canzoni.

Non mi è piaciuto tutto, del libro, lasciandomi un po’ un sapore di incompiuto, e che tuttavia ben si è adattato al freddo clima delle Lofoten dove, guardando la neve, l’ho velocemente letto.

Alessandro Reali “La matta di Milano” Corriere Noir Italia 37 euro 7,99

[A: 14/02/2024 – I: 21/05/2024 – T: 23/05/2024] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 155; anno: 2020]

Dopo le due avventure degli investigatori Sambuco e Dall’Oro, datate più di dieci anni fa, e, come vi ricordo, molto piene di “pavesità”, ecco che all’inizio di questo decennio la penna di Reali si sposta nel tempo e nello spazio. L’autore ci porta alla Milano degli anni Sessanta (per l’esattezza siamo negli ultimi mesi del 1964) facendoci conoscere uno strano tipo di poliziotto, il commissario (che all’epoca si chiamavano ancora così) Caronte (anche senza “l’occhi di bragia” per la dotta citazione).

Facendo sempre un rispettoso saluto alla penna di chi scrive, Reali imbastisce un racconto lungo con alcuni spunti interessanti (ambiente, commissario) e momenti di pausa (in particolare una trama “noir” che non prende, in particolare con alcuni flashback in corsivo che non sembrano congruenti con la storia; io ne avrei fatto a meno).

Pur non amando in maniera particolare Milano, anche se ne riconosco alcuni punti affascinanti, l’ambientazione invernale del ’64 è di sicuro interessante. Intanto perché poco prima (in effetti il 1° novembre) viene inaugurata la prima linea della Metropolitana, la Linea 1 da Lotto a Sesto Marelli (con le importanti fermate in centro città, come S. Babila, Duomo e Cordusio). Poi perché il nostro si aggira volentieri per i Navigli, in particolare a Ripa di Porta Ticinese, per bere del buon vino e giocare a carte con i suoi migliori amici, casualmente giornalisti. E non di testate qualsiasi, dato che Beppe, il gourmet, lavora alla “Gazzetta” e Rommel (com’è soprannominato il playboy) al “Corsera”.

Non solo, ma si parla anche della Milano di notte, dei cabaret, dei locali dove cantavano i Gufi, Gaber, Jannacci (ricordo ai meno ferrati che i due esordirono in duo con il nome di “I due Corsari”). In particolare, il Derby Club, una pietra miliare dell’avanguardia non solo milanese, fondato dagli zii di Diego Abatantuono, e dove passarono tutti i comici più importanti, e non solo (menziono solo per omaggio sentito, Beppe Viola). Senza scordare Brera…

In questa città che sta crescendo verso la futura “Milano da bere”, si muove il nostro commissario Caronte. Atipico per l’epoca e per il ruolo. Vive solo, ma ha una relazione stabile con la bella Luisella, legge molto, ma soprattutto classici e romanzi d’avventura (laddove ha una passione sfrenata per Dumas). Con gli amici gioca a carte, a biliardo e parla di calcio, soprattutto di Rivera e del Milan, che in quell’inizio di campionato stava veleggiando a gonfie vele, anche se alla fine il torneo fu vinto dall’Inter.

La vicenda nasce dal ritrovamento, in un edificio in viale Monte Nero (verso Porta Romana, per chi vuole indicazioni precise) di un ragazzo con la testa fracassata, e senza documenti. Caronte avrà un bel da fare per trovarne l’identità, seppur ben aiutato dal fido ispettore Perotti, anche se, coinvolgendo contatti con le zone d’ombra tra bene e malaffare, ben presto ne esce un quadro abbastanza netto. Tanto che le indagini sembrano volare.

Il morto è Giuseppe Magnaghi, detto Pino. Viene dalla Bovisa, e come tanti giovani cerca una scorciatoia per “trovà i dané”. In questo spalleggiato dalla sorella Maristella. Cercano la bella vita, ma Caronte, dopo aver sfrondato i primi punti oscuri, si trova ad affrontare anche la morte di Maristella, senza riuscire a comprendere dove i due ragazzi pensavano di arricchirsi. Che le zone d’ombra aumentano, anche seguendo i percorsi quasi malavitosi dei due. Come se ci fosse, ad un certo punto, un salto di qualità “noir” che né noi né Caronte riusciamo a comprendere immediatamente.

Caronte, un po’ “maigrettiano”, non nasconde che solo entrando nella psicologia dei personaggi, solo immedesimandosi, si può arrivare a squarciare la nebbia milanese. Arrovellandosi sul motivo per cui, tra tanti posti, proprio verso Porta Romana viene ritrovato il primo morto.

Con qualche salto logico, che forse io non ho capito a fondo, Caronte trova il punto d’avvio per dipanare l’intricata matassa. Rimanendomi in testa l’inutilità romanzesca di inserire una persona un po’ squilibrata nella trama, che, a posteriori, chiarisce alcuni motivi, ma che, nel corso della lettura, rallenta e distrae.

Insomma, un esordio di un personaggio interessante, che non nego proverò a vedere se ha prodotto altro. Anche se, nel complesso, un libro in tono minore.

Tornando a quanto si diceva della Milano d’autore, Caronte, a pagina 66, mi fa un regalo raccontando di aver ascoltato Nanni Svampa cantare in milanese alcune canzoni di Brassens. Un autore che ho sempre amato, sia in originale, sia nel milanese di Svampa, sia in uno dei miei primi vinili, tradotto in italiano da Duilio Del Prete. Un disco mitologico.

Fabrizio Borgio “Vino rosso sangue” Corriere Noir Italia 14 euro 7,99

[A: 10/09/2023 – I: 25/05/2024 – T: 26/05/2024] && e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 166; anno: 2014]

Fabrizio Borgio è un onesto scrittore della grande scuderia gestita dai Fratelli Frilli di Genova. Una casa editrice specializzata nel proporre una buona messe di scrittori italiani con storie italiane, un po’ com’era all’inizio la RoundRobin romana (anche se gli autori erano più eclettici). Ogni tanto esce qualche autore di peso, come è il caso di Bruno Morchio, spesso ci sono autori di buona caratura, a volte non si va oltre una striminzita sufficienza.

Borgio, in questa prima prova da me letta, si colloca nella medianità di gradimento, e, non a caso, viene di accostarlo, per tipologie di scelte di scrittura al primo Bacci Pagano di Morchio. Anche se, come dice Borgio stesso in un’intervista, le sue scritture iniziali pendevano verso un detective del paranormale (che nelle descrizioni rimanda quasi ad un Dylan Dog di campagna). Lo scarso o poco interessato seguito di pubblico, spinge l’editore alla richiesta di un cambio di registro, che porta a questa scrittura, senz’altro degna di interesse.

In particolare, perché riesce a coniugare una discreta dose di thriller, con l’ambiente in cui si svolge l’azione. Poiché siamo nello stretto territorio astigiano, tra le Langhe e il Monferrato, è ovvio che si parli di vino ed annessi. Situazione che Borgio ben conosce, per nascita e per aver lui stesso frequentato l’enocoltura ed i suoi vari aspetti.

Nasce così il personaggio di Giorgio Martinengo, investigatore privato delle Langhe. Un personaggio che, per una serie di aspetti, riesce più simpatico di quanto la penna dell’autore riesca a farci capire. Viene da una famiglia di viticoltori, ma, pur conoscendo la materia, decide che quella non è la sua strada, e dopo un breve passaggio in polizia, prima con altri, poi in solitaria decide di imbarcarsi nell’investigazione.

Rimanendo tuttavia legato al territorio. Abita nelle campagne, dove il suo casolare è anche il suo ufficio (d’altra parte, ormai, dopo il Covid, abbiamo imparato quanto si possa anche lavorare da remoto). Ha inoltre una simpatica tendenza ad appassionarsi alle cose che incontra, mostrando una sete di conoscenza, in cui mi ritrovo, ed alla quale augurerei aspirassero molti giovani d’oggi.

In tutto ciò, il via alla vicenda viene dato da Elena Rondissone, responsabile di un consorzio vinicolo, che ingaggia il nostro nella ricerca di una bottiglia scomparsa. E non una qualunque ma un “Balthazar” di Barbera (per i meno addetti, ricordo si tratta di una grossa bottiglia che contiene circa 12 litri). Peccato che insieme alla bottiglia, sia scomparso anche il titolare del Consorzio.

Martinengo indaga, e ben presto quindi conosciamo tutti i possibili attori. Oltre al padre scomparso, ed alla bella Elena, determinata ed incalzante il nostro investigatore nello sveltire le indagini, abbiamo Loris, il fratello giovane, odioso ed inutile al punto giusto, le due segretarie tuttofare, Olga, rumena nonché amante di Loris, e Gloria, giovane ex-stagista di vini, peripatetica nell’area economica tedesco-polacca, Barovero, l’amministratore del consorzio, e Baldissero, il capo cantiere.

Alcune circostanze fortuite legate poi alla morte sia di Barovero che di Baldissero, portano Martinengo alla ricerca di un filo che unisce vari aspetti della deriva economica di chi, alla ricerca del profitto, calpesta tutte le regole della civiltà. Certo, come dice Borgio nel prologo, aveva in mente sia il crollo di alcuni consorzi vinicoli negli anni Sessanta sia il famoso scandalo del vino al metanolo del 1986 (quello che uccise 19 consumatori e ad altri portò cecità).

Tutto nasce dalla ricerca di abbassare i costi dei vini da tavola, importando vino a basso prezzo dalla Romania, ed aggiustando i gradi alcolici e gli zuccheri proprio con il metanolo. Peccato che ciò porti alla morte di un rumeno in qualche modo legato alle vicende dell’azienda Rondissone. Non a caso nelle bottiglie in esposizione vengono trovati gli occhi dei morti.

Il finale, pur con qualche contorsione, è tuttavia abbastanza lineare. Ovvio non il più semplice, ma comunque di facile lettura. Con un agire del nostro investigatore in empatia con le situazione, che fa ben sperare nelle sicure uscite seguenti. Ma è anche interessante il viaggio intorno alle adulterazioni vinicole, descritto con cognizione di cosa può produrre la speculazione ed il malaffare, e letto con indignazione, per i danni provocati alla salute dei consumatori ignari.

Finisco con un piccolo saggio enologico, tributando un grazie al mio amico Fabio Del Frate (forte delle unite frequentazioni alla scomparsa libreria “L’Asterisco” di via Silla), dove, in forza della sua formidabile enoteca, vi posso al fine deliziare con l’elenco dei formati delle bottiglie che seguono la classica “Magnum” da 1 litro. Abbiamo quindi a salire: Jeroboam (il primo re del regno di Israele, 3 litri), Rehoboam (il primo re del regno di Giuda, 4,5 litri), Mathusalem (il patriarca biblico, 6 litri), Salmanazar (il primo re assiro, 9 litri), Balthazar (uno dei re magi, 12 litri), Nabuchodonosor (il sovrano babilonese, 15 litri), Salomon (ultimo sovrano dei regni ebraici unificati, 18 litri), finendo con Melchisedech (nella Bibbia un nome alternativo a Sem figlio di Noè, 30 litri). Esistono anche altri formati, ma io mi fermo a questi biblici.

Vi auguro quindi una buona lettura, con il giusto calice in mano.

Anzi, proseguendo la metafora, non solo con un calice, ma seduti a godervi paesaggi e letture, magari avendo accanto, oltre a qualche giallo questo libro di Beppe Sebaste “Panchine”. Una bella lettura, di cui vi regalo alcune perle, soprattutto l’ultima da meditare quando riprendete a leggere i vostri libri abituali:

“Sulle panchine si contempla lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere visti, e ci si dà il tempo di perdere il tempo, come leggere un romanzo” (quarta di copertina)

“La lettura è un atto anarchico … per il rapporto che stabilisce con la cosiddetta realtà. A parte lo straniamento che induce una lettura prolungata … al lettore viene … rinfacciato continuamente di avere uno scarso rapporto con la realtà, di essere cioè uno svitato.” (117)

“L’altro giorno ero nella fase finale della lettura di un mastodontico giallo svedese … e improvvisamente mi è venuta per la prima volta l’idea che non era vero che non stavo facendo niente…. [stavo leggendo e] senza di me, se cioè avessi smesso di leggere, che ne sarebbe stato della storia e dei suoi personaggi?” (118)

Ciò detto, per ora si prosegue veleggiando a vista, dribblando il caldo, aspettando ch’a da passà a’ nuttata. Ma sempre con la mente verso nuove idee. Vedremo. Per ora abbracci.

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