domenica 25 agosto 2024

Simenon, encore - 25 agosto 2024

Riprendiamo di nuovo a percorrere le strade degli scritti di Simenon, ricominciando ancora una volta dagli anni Trenta. Seguiamo così la seconda tornata della collana dedicata allo scrittore belga da parte di Repubblica. Questi cinque scritti variano dal ’33 al ’37, crescendo un po’ in capacità di coinvolgere ed interessare il lettore. Perché la scrittura, e l’autore, maturano. Ci sono molti echi dei viaggi che Simenon intraprese all’epoca. Ed anche i suoi soliti contrappassi, come nell’ultima trama, forse la migliore, dove parla di un sobborgo cittadino mentre scrive all’ombra di un sole accecante nelle spiagge polinesiane.

Georges Simenon “Colpo di luna” Repubblica Simenon II 15 euro 9,90

[A: 23/06/2023 – I: 08/11/2023 – T: 09/11/2023] - && e ½    

[tit. or.: Coup de lune; ling. or.: francese; pagine: 140; anno 1933]

Cominciamo il secondo giro dei capolavori di Simenon, tornando quindi alla produzione degli anni Trenta, riprendendo a girare intorno alla vita del maestro belga. Dal punto di vista editoriale ha un contratto ferreo con Fayard, per il quale produce numerosi Maigret di successo. Tra la fine del ’31 ed i primi mesi del ’32 abita a Cap d’Antibes, produce 4 libri, ma soprattutto cerca di seguire la lavorazione del primo film tratto dai Maigret (“Nuit du carrefour” di Renoir). Ma non entra in sintonia con l’ambiente e si accontenterà dei cospicui incassi dei diritti cinematografici.

A febbraio, nel Congo Belga, nasce suo nipote George, quindi in primavera cambia casa, e si installa a “La Richardière” un villino nella Charente, che sarà la sua residenza per alcuni anni e dove scriverà una dozzina di libri. In estate, inviato del magazzino “Voilà”, intraprende un lungo viaggio in Africa. Attraversa il Mediterraneo sulla nave “Angkor” e sbarca in Egitto. Lì visita Il Cairo e Assuan, poi prosegue per Karthoum in Sudan. Si sposta poi in Congo ed affronta una traversata di 1700 km sul fiume Congo sino a Leopoldville. Dopo aver salutato il fratello ed il nipote, raggiunge la costa, dove si imbarca sul transatlantico “Amérique” per tornare a Bordeaux, facendo sosta a Libreville in Gabon e Conakry in Guinea.

Un viaggio foriero di molti articoli, e da dove prenderà spunto anche per alcuni libri. Il primo dei quali lo scrive nel suo ritiro di Marsilly, nell’autunno, anche se sarà dato alle stampe solo nell’aprile del ’33. Un romanzo cui Simenon teneva molto, uno dei primi non Maigret da quando era cominciata la fortuna con le avventure del Commissario. Simenon, infatti, era sicuro di essere un romanziere a tutto tondo, cosa che però, per una serie di avverse vicende, non venne mai affermata pienamente in vita. Di sicuro, troppo successo aveva Maigret, e questo di certo non fece sempre piacere al nostro.

Qui, intanto, c’è un piccolo grado di suspense, ma molto dello scritto è rivolto ad una serie di critiche profonde. La prima, all’illusione che prendeva i giovani europei all’idea di andare in Africa e fare fortuna. Simenon l’aveva visto con il fratello Christian, ma anche confermato nel suo lungo viaggio africano. Giovani che arrivano in Africa certi della superiorità europea e che si trovano invischiati in un mondo che spesso non capiscono. E dove spesso, coloni che da tempo si sono trasferiti, girano le leve del potere sprezzando i nuovi arrivati, ma anche e soprattutto i locali.

Questa è la seconda lancia che vuole spezzare l’autore: la cattiva politica coloniale di tutti, e sottolineo tutti, i paesi europei presenti in Africa. Si sopravvive solo attraverso la corruzione, ed è la corruzione che viene insegnata ai locali per sopravvivere. Si sprezza il valore della vita, in particolare, la potenza delle armi europee e dei liquori, rende schiavi ed impotenti i locali, che non hanno la forza di reagire.

Tutto questo è messo in luce dalla vicenda di Joseph Timar, giovane un po’ allo sbando in patria che accetta di andare in Gabon, per conto dello zio, a far fortuna. Ma appena arrivato si accorge di alcune cose fondamentali: un caldo cui non è abituato, un ambiente europeo chiuso che fatica ad accettarlo, una impossibilità di comunicare, e quindi di capire, i locali avendo una barriera linguistica e mentale quasi insormontabile.

Timar aspetta, frequenta i potenti e non li capisce, alloggia nell’unico albergo di Libreville, divenendo presto anche l’amante della bella Adèle, la proprietaria. In una notte di tregenda e ubriacatura, il marito di Adèle muore di bilharziosi ed un negro viene ucciso, forse dalla stessa Adèle. Il nostro, pur ubriaco, assiste a tutto ciò, ma non fa nulla, al momento, per dire la sua versione.

Timar viene coinvolto da Adèle in un’impresa di vendita di legname, per cui si addentrano all’interno del paese. Ma è vera passione o un tentativo di distogliere il giovane dai suoi pensieri sempre più foschi? Quando viene istituito un processo per la morte del negro, Adèle è un’imputata, e potrebbe venir salvata dalla confessione (prezzolata) di un povero vecchio.

Tutti gli europei fanno muro per salvare Adèle, meno il nostro povero giovane, che grida la sua verità. Ma è già sconvolto dai caldi africani, dall’abuso di liquori, nonché dalla gelosia nei confronti della vedova, che finisce la sua accusa farfugliando parole.

Facile il gioco dei bianchi di farlo passare per un colpo di luna e di rispedire il giovane, solo e senza più un soldo, di nuovo verso casa. Rimanendo oscura nelle more la decisione del Tribunale sulla sorte della bella Adèle.

Ci sono tanti momenti di grande scrittura, anche in questo breve (e tutto sommato giovanile visto che Simenon all’epoca non ha ancora trent’anni) scritto. L’atmosfera dell’albergo rifugio dei bianchi, ad esempio, dove Joseph all’inizio viene quasi isolato, poi, man mano che diventa chiara la sua confusione e la sua poca incisività, introdotto, nel bere e nel giocare. Parentesi: qui Simenon si riferisce a due giochi francesi che non so quanto noti in Italia. Un gioco di carte chiamato “belote”, una sorta di briscola a chiamata, ed un gioco di dadi chiamato “zanzi”, una sorta di poker a tre dadi.

Poi ci sono le scene del tribunale, che vengono riprodotte con una fedeltà nella confusione che ci fa immergere proprio nella confusione locale. Tutti che urlano, negri che fanno la loro testimonianza in lingua locale, magari parlando per dieci minuti, e con l’interprete che traduce tutta la tirata con “Ha detto che è d’accordo”. Ma anche la presupponenza dei presunti giudici, l’invadenza degli europei (direi meglio, la loro arroganza e presupponenza). Alcune pagine da immortalare per la loro capacità evocativa.

Infine, c’è tutta la storia in sé, vista sempre dalla prospettiva di Joseph, e con lui le pagine si fanno sempre più confuse, oniriche, fino ad un finale che, per l’appunto, lui non capisce, ne rimane stordito, riuscendo solo a ripetere: “Non esiste!”.

Rimane da dire del titolo, che si riferisce ad una sindrome che può avvenire durante i pleniluni, dove, in soggetti predisposti (magari per stress e calore) provoca aritmie e stati confusionali con possibili attacchi anche epilettici. Questo il “colpo di luna” che Simenon inferisce a Joseph.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Libreville, capitale del Gabon

Joseph Timar, figlio di un funzionario e nipote di un politico, celibe, 23 anni

Adèle Renaud, sposata poi vedova, albergatrice

Alcuni mesi

Epoca tra le due guerre mondiali

 

Georges Simenon “La casa sul canale” Repubblica Simenon II 13 euro 9,90

[A: 09/06/2023 – I: 14/01/2024 – T: 15/01/2024] - && e ½    

[tit. or.: La maison du canal; ling. or.: francese; pagine: 143; anno 1933]

Georges Simenon è da poco ritornato dal lungo viaggio in Africa, a valle del quale scrive a caldo il romanzo precedente. Poi, installato con Tigy quasi in riposo a “La Richardière” a Marsilly (poco sopra La Rochelle, dove trascorre la maggior parte dei primi anni Trenta), si dedica alla moglie, alle sue amanti (sempre presenti) ed alla scrittura.

Sente che continuare a scrivere di Maigret lo sta legando ad un cliché che mal sopporta, così si rivolge alla scrittura in senso ampio, tornando a quelli che chiamerà “romanzi duri”. L’idea forte di questo romanzo, innovativo del genere, anche se non riuscitissimo, è di rovesciare l’andamento classico del giallo. Non ci sono morti nei primi capitoli, non ci sono inchieste. C’è un lungo percorso che scava nei personaggi, in particolare nella protagonista Edmée. Solo l’ultimo capitolo squarcia alcuni veli, riprende toni abituali, e segue la breve indagine del procuratore distrettuale che porta alla chiusura del libro.

Facciamo un piccolo passo indietro. Simenon ha quasi trent’anni (li compirà a febbraio e il libro viene scritto a metà gennaio del ’33), ma è già avviato ad una grande produzione letteraria. Ha redatto già 19 romanzi “Maigret” e questo è l’ottavo “romanzo duro”. Ma vuole anche fare un salto nella sua produzione. Si rifà quindi a situazioni a lui ben note, ed ambienta la trama nella parte fiamminga del Belgio.

Perché se è vero che Simenon è un cittadino, un “ligeois”, le sue ascendenze da parte materna vengono proprio dal Limburgo, la provincia belga al confine olandese. Il suo nonno materno, Guillaume Joseph Brüll, nell’infanzia del nostro, vive prima a Dilsen-Stokkem, ricoprendo la carica di “Responsabile delle dighe” (ovvio che è una zona piena di canali), per poi spostarsi dieci chilometri a nord, nella cittadina di Neeroeteren. Ed è lì che talvolta il giovane Georges lo va a trovare. E non è un caso che, oltre ad ambientare il romanzo a Neeroeteren, la fattoria dei Van Elst si chiama “Les Irrigations”.

Sarà proprio attraverso i suoi ricordi degli scomodi trasferimenti in treno da Liegi per trovare il nonno, che prende spunto l’inizio del romanzo, in cui vediamo la giovane (16 anni) Edmée Van Elst viaggiare da Bruxelles, dove è nata, ma dove i suoi genitori sono morti, verso la profonda provincia fiamminga, al fine di rifugiarsi dagli unici parenti viventi. Il clan dei Van Elst.

Da qui comincia a descrivere, con una capacità sorprendente per la giovane età, lo scontro di mentalità tra Edmée ed il resto della famiglia, per sottolineare il brusco cambiamento cui è sottoposta la giovane. Non solo un cambiamento di ambiente, ma anche, e soprattutto, di mentalità.

Edmée è cittadina, come Georges, abituata a leggere, andare a scuola, avere un rapporto non subalterno con il padre medico. Nella provincia profonda, invece, abbiamo i rozzi abitanti, tutti tesi al lavoro quotidiano che serve per portare avanti la loro non abbiente vita. Lo scontro è acuito dal fatto che papà Van Elst muore mentre arriva la nostra, ed il clan si trova ad affrontare una profonda crisi. Le redini dell’azienda vengono prese dal figlio anziano, Fred, di soli 21 anni, mentre il secondogenito, Jef (19 anni) è un orso selvatico che deve gestire le terre ed i contadini. C’è la coetanea cugina Mia, aiutante principe di mamma Van Elst nella gestione quotidiana della casa, e le tre piccole Van Elst che vanno a scuola.

Lo scontro tra Edmée ed il clan è acuito dal fatto che tutti i Van Elst parlano solo fiammingo, e solo i cugini grandi, chi più chi meno, parlano un po’ di francese. Una solitudine della lingua anch’essa ben descritta da Simenon, che riporta i brevi dialoghi in francese, mentre lascia trapelare, ma non scrive direttamente, quanto si dice e si discute in fiammingo.

In questa atmosfera in cui si sente reclusa, vediamo l’evolversi del personaggio Edmée. Comincia appunto timida nell’arrivare dai cugini, non li capisce, si isola. Mia cerca di avvicinarsi, ma sono due mondi diversi. Forse Jef sembra capirla, o forse lei comincia, con Jef, a crescere, a vedere le sue potenzialità. Non può integrarsi, ma può ritagliarsi il suo spazio. Iniziando a manipolare Jef, a fargli fare quello che lei vuole (uccidere scoiattoli, rubare delle pietre in chiesa).

Con il tempo, anche se poco, sboccia meglio anche il suo corpo, e se ne accorge Fred, che, invece di andare nella grande città in cerca di donne a pagamento, comincia a guardarla con altri occhi. E lei non trova di meglio che aizzare la lotta, già da sempre latente, tra i due fratelli. Fino a farli complici nella morte di un ragazzo, fino a costringere Fred a dichiararsi, fino ad umiliare Jef per la sua testa un po’ idrocefala.

Qui si apre anche una piccola parentesi antropologica di Simenon sul mondo rurale. Che lo zio morto era sifilitico, e genera ragazzi con delle piccole tare. Una macchia sulla gamba di Mia, foruncoli sul collo di Fred, una testa fuori misura per Jef. Loro sono di campagna, e per loro, ci sottolinea Simenon, sembrano cose normali. Edmée è cittadina, ha letto i libri medici del padre e sa che non sono cose normali. Ed usa anche questa sua conoscenza per aumentare il suo potere, per diventare, pur ancor giovane, quasi un prototipo di “femme fatale”.

Procede tutto così per undici capitoli in cui vediamo svolgersi il ruolo di Edmée verso posizioni sempre più centrali e di potere. Poi, con un salto narrativo di cui solo Simenon è capace, nell’ultimo capitolo i nodi, che si erano attorcigliati, vengono gordianamente sciolti. Edmée ha accettato di sposare Fred, Fred ha dovuto vendere la fattoria per far fronte ai debiti, Jef ha aperto un forno in città non avendo più la terra cui badare. Ed a questo punto… Certo non vi dirò cosa succede, ci sono solo le parole del procuratore che ci fanno seguire la trama, e quelle di un personaggio che chiosa chiedendogli: “Lei cosa avrebbe fatto?”.

Simenon ci mostra tutto il suo astio per la vita di provincia, ed esalta il ruolo di Edmée come testimone e catalizzatrice della decadenza della famiglia Van Elst.

Un ultimo accenno al nome. Ho scoperto che Edmée è una modificazione fonetica al femminile del nome francese Edmond. Sarà, per me rimane un anagramma di Médée. Non so se fosse nelle intenzioni di Simenon, ma potrebbe avere un senso.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Neeroeteren, villaggio belga del Limburgo

Edmée van Elst, belga di Bruxelles, orfana, 16 anni

Fred (21 anni) e Jef (19 anni) Van Elst, suoi cugini agricoltori a Neeroeteren

Alcuni mesi

Epoca contemporanea alla scrittura

 

Georges Simenon “L’uomo di Londra” Repubblica Simenon II 12 euro 9,90

[A: 01/06/2023 – I: 26/03/2024 – T: 28/03/2024] - &&&    

[tit. or.: L’Homme de Londres; ling. or.: francese; pagine: 140; anno 1934]

Il 1933 è un anno cruciale per il trentenne Simenon. Ha deciso di interrompere la produzione dei romanzi-Maigret per dedicarsi a quelli che chiama romanzi-duri, ed ha altresì deciso, proprio per avere più lanci di mercato, di abbandonare l’editore Fayard, e di legarsi a Gallimard, la potenza editoriale francese.

Sempre installato a “La Richardière” di Marsilly, poco sopra La Rochelle, questo è anche un anno di viaggi e di reportage. Per disintossicarsi dai romanzi e dalla scrittura lunga, pagato da alcuni settimanali, parte per un giro in Europa che lo porta prima in Belgio, poi a Berlino (dove incontra Hitler in un ascensore), in Polonia e nei Paesi Baltici, scendendo poi verso l’Ungheria, la Romania ed imbarcandosi a Odessa in Ucraina per girare su un battello italiano il Mar Nero. Tornato sulla terraferma, visitando a lungo Istanbul ed Ankara, riceve un messaggio di recarsi a Prinkipo, un’isola poco distante da Istanbul. Dove incontra Trotzkij, che diverrà il centro di una lunga intervista poi pubblicata nel giugno del ’33 su “Paris Soir”.

Anche se vede molto, non percepisce i segni delle minacce che avanzano, tanto che anche qui i suoi reportage non hanno la risonanza che lui si aspettava. Eccolo allora tornare a Marsilly ed alla scrittura, producendo di getto nella seconda parte dell’anno almeno cinque romanzi senza Maigret. Tra cui questo, che risulterà, a posteriori, l’ultimo romanzo pubblicato dall’editore Fayard, avendo in autunno perfezionato il contratto con Gallimard. Un romanzo che dovrebbe aver scritto nell’autunno dell’anno, anche se nei suoi archivi risulterebbe in dicembre. Tra l’altro, Fayard che spera in un ripensamento di Simenon, lo pubblica a tamburo battente.

Tuttavia, il libro non ha la risonanza che si aspetta l’autore, che conferma i suoi propositi e dal ’34 pubblicherà una sessantina di titoli per Gallimard.

Altro dato tipico di Simenon, è collocare l’azione in un luogo che conosce bene, per averne usufruito del porto quando, solo pochi anni prima, girava per le acque ed i canali francesi con il suo battello. Ed anche facilmente ipotizza una storia molto “psicologica”, seppur dai contorni noir, visto che Dieppe, dove colloca la vicenda, è una città “di confine”, dove, come tutte le città simili, è facile imbattersi in avvenimenti intrecciati, in situazioni a rischio, in momenti problematici.

E quando Simenon decide un filone, ecco che ci si butta a corpo morto. Quello che meglio gli riesce, al momento, è costruire la trama intorno ad un personaggio, metterlo in una situazione critica, e poi seguirne l’evoluzione. Compaiono anche altri elementi, durante il percorso, ma è l’uomo quello a cui Simenon si interessa, ai suoi percorsi mentali che lo portano ad azioni e a decisioni, fino alla fine del romanzo, spesso come in questo caso affrettato, ma forse volutamente sfumato dall’autore stesso, avendo egli esaurito a quel punto i suoi spunti d’interesse.

Seguiamo così le vicende di Louis Maloin, uomo in età matura, ex-marinaio, ora controllore addetto agli scambi ed alle segnalazioni presso la stazione marittima di Dieppe. Ha una moglie, con la quale la vita procede ad alti e bassi, un ragazzo in età scolare, ed una figlia adolescente, cui è molto legato. Come è legato, ma non vincolato, a Camille, una “escort” del vicino locale con cui ogni si apparta per alcuni momenti di relax.

Maloin ha il turno notturno agli scambi, e dalla torretta da dove controlla il traffico, ha un’ampia visuale di quanto avviene nel porto e nella stazione ferroviaria. Così che una notte vede un tizio lanciare una valigia sulla banchina, valigia raccolta da un compare. Il primo, quindi, può passare indenne la dogana, e raggiungere l’amico. Maloin vede tutto, e vede anche che i due litigano e l’uomo della nave colpisce a morte l’altro che con tutta la valigia cade nel porto e affoga. L’assassino, l’uomo di Londra, fugge, e Maloin recupera la valigia scoprendo che contiene una grossa fortuna in banconote.

Da qui comincia tutta la parte intermedia del romanzo. Incentrata, sul senso di riscatto che gli dà il denaro, lui sempre tartassato, sempre quasi un passo indietro. Vediamo l’insorgere ed il manifestarsi in Maloin di tutti i sentimenti di rivincita covati per anni. Risponde alla moglie, si compra un pipa costosa, fa licenziare la figlia maltrattata dai datori di lavoro.

Dall’altra, Simenon ci informa, mai direttamente, del contorno. Brown, l’uomo di Londra, è un ladro sfortunato cui non riesce mai un colpo. Ha rubato i soldi al direttore di un teatro, anche se quei soldi erano l’ultima speranza del signor Mitchell di ritirarsi a vita privata un po’ più in agiatezza. Tutto dalla bocca di un ispettore di polizia inglese che si reca sul posto, spaventando il povero Brown che fugge rifugiandosi in un capanno di proprietà di Maloin.

Maloin è l’unico a conoscere tutta la vicenda, e tenta la via della pietà portando del cibo a Brown. Che però lo assale e nella colluttazione ha la peggio. Questo crimine segna internamente la fine del sogno di Maloin. Riporta il denaro rubato e si accusa dell’omicidio. Nessuno capisce la sua determinazione e la sua compostezza. Perché nessuno immagina che ora non gli importi nulla. Per Maloin, è tutto finito e i soldi non lo hanno reso un uomo diverso

Un completo dramma della mediocrità: Simenon ci dice che non è l’esterno che ci modifica, ma il nostro interno. E Maloin non riesce a tirarlo fuori. Per cui accetta il suo destino, quasi che la confessione possa comunque riscattarlo dalla sua vita inutile.

Non capisco soltanto l’insistere nel titolo a focalizzarsi sull’uomo di Londra, quando questi non è che il motore di un processo di cui Maloin è il vero interprete, ed è su Maloin che si devono incentrare le nostre attenzioni.

È un tipico romanzo duro di Simenon, con le sue cupezze, con i piccoli accenni di mestiere che gli consentono di costruire una dozzina di capitoli di uguale lunghezza, da cui, senza perdersi in troppe parole, riesce a far uscire i suoi messaggi. Una buona ma non eccelsa prova.

Da rilevare, infine, che la prima edizione italiana, uscita sempre nel ’34 per Mondadori, ha usufruito dell’eccellente traduzione di Giorgio Monicelli, fratellastro di Mario, ma per me per sempre legato alla parola che inventò per lanciare una serie di pubblicazioni che tuttora continuano dopo più di settanta anni: “fantascienza”.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Dieppe, porto normanno sulla Manica

Louis Maloin, ex-marinaio, controllore del traffico alla stazione marittima di Dieppe. Sposato con due figli (una ragazza ed un giovane)

Pitt Brown (soprannominato “Sfortuna”) ex clown e ladro senza fortuna

Harold Mitchel direttore di un music-hall a Londra e sua figlia Eva

Molisson ispettore della polizia inglese

Alcuni giorni

Epoca contemporanea alla scrittura

 

Georges Simenon “Cargo” Repubblica Simenon II 4 euro 9,90

[A: 09/04/2023 – I: 03/06/2024 – T: 05/06/2024] - &&&    

[tit. or.: Long cours; ling. or.: francese; pagine: 348; anno 1936]

Ormai deciso a buttarsi a capo fitto nella “letteratura”, dopo il precedente scrive 8 romanzi di cui un solo Maigret. Ma soprattutto comincia a pubblicare da Gallimard. In effetti, e lo abbiamo già scritto in altre note relative a questo periodo, in realtà due sono i tratti salienti della vita del poco più che trentenne Simenon.

Il primo riguarda alcuni spostamenti di abitazioni, girovagando prima intorno alla Bretagna, per poi tornare a Parigi, o nelle sue vicinanze. Come detto, rompe con il suo editore precedente. Grazie a Gide comincia ad avere un rapporto stabile con Gallimard. Ed infine, si installa al numero 7 di boulevard Richard-Wallace a Neuilly-sur-Seine, che al tempo era fuori della prima cinta parigina, al di là del Bois de Boulogne.

L’altro riguarda i viaggi, sempre cari al nostro scrittore. Anche perché gli consentono di scrivere articoli subito remunerativi, e gli danno spunti per i suoi libri, in genere spesso quelli senza Maigret. In questi due anni, ne effettua due. Nella primavera-estate affitta un veliero italiano a due alberi, l’Araldo, con il quale, insieme alla moglie, fa un giro del Mediterraneo: Sanremo, Genova, l’isola d’Elba, Napoli, Messina e Siracusa in Sicilia, poi Malta, Atene, Tunisi, per terminare a Cagliari. L’anno seguente, invece, effettua il giro del mondo in 155 giorni (quasi il doppio di Phileas Fogg).

Inizia con la traversata da Le Havre a New York a bordo della La Fayette; poi prosegue attraversando il Canale di Panama, si ferma a Buenaventura (Colombia) e a Guayaquil (Ecuador), dove indaga su un misterioso dramma avvenuto alle Galapagos; quindi, grande traversata verso Papeete a bordo di una nave mercantile mista francese; passa circa due mesi a Tahiti per proseguire da Papeete a Sydney, via Isole Cook e Nuova Zelanda, a bordo della nave statunitense Makura; dopo un breve soggiorno in Australia, si imbarca per l'Europa a bordo del transatlantico britannico Mooltan, attraversa il Mar di Timor, l'Oceano Indiano (con scali a Ceylon e Bombay), il Mar Rosso e il Canale di Suez (ultimi scali ad Alessandria e Malta).

Questo tour mondiale di soli cinque mesi lo ha ispirato a scrivere non meno di sei romanzi e otto racconti. Ovvio che, se avete letto alcuni scali, questo libro è direttamente ispirato dal viaggio. Inoltre, e sappiamo che da poco era entrato in sintonia con Gide, è il primo tentativo di romanzo complesso senza Maigret, che, secondo Simenon avrebbero dovuto portargli la fama che si meritava. Complesso e lungo, superato solo l’anno successivo da “Il testamento Donadieu”. Ma la cifra di Simenon rimarrà invece giustamente legata ai testi che si aggirano sulle 150 pagine, la sua misura di scrittura.

Infatti, qui la lunghezza serve di certo a rappresentare una situazione complessa, ma alla fine, è un po’ stanchevole e fa perdere di vista l’assunto centrale cui l’autore si voleva legare. Quasi che fossero tre romanzi legati insieme, percorsi da un filo che li congiunge e da un’idea. Che poi è sempre la stessa riproposta in vari modi: analizzare il comportamento umano quando si attraversa quella “linea d’ombra” che, dalle letture di Conrad, sempre gli rimane in testa.

Ed a Conrad deve anche il testo, nella riproposizione di alcune situazioni e modalità. I viaggi per mare, e quello che rappresentano per chi li affronta. La giungla ed i suoi misteri, che tendono a far vacillare la mente umana (e qui si sente molto “Cuore di tenebra”). Le località che sembrano paradisiache, ma che non riescono a pacificare i tormenti dell’uomo.

Proprio in questa tripartizione troviamo spalmata la vicenda che vede al centro Joseph Mittel detto Jef, con i suoi co-protagonisti principali, il capitano Mopps e la loro amante Charlotte.

Tutto comincia a Dieppe (che era il teatro del precedente testo tramato) dove riparano gli anarchici Jef e Charlotte. Lui (anche se lo scopriremo solo durante tutto il testo) è figlio di un anarchico, membro della famosa “banda Bonnot” che si suicida in carcere. Per questo Jef è da sempre negli ambienti anarchici, dove conosce la cameriera libertaria Charlotte. Costei ha una relazione con il suo datore di lavoro, ma per liberarsene (certo) e per finanziare l’anarchia (falso) lo uccide. Costringendo così Jef a fuggire con lei.

A Dieppe si imbarcano, fortunosamente, sul cargo “Croix-de-Vie”, comandante dal capitano Mopps. Per nasconderli, Mopps assume Jef come fuochista e si prende Charlotte per amante. Il cargo è in realtà una nave contrabbandiera, che porta fucili mitragliatori a dei ribelli che tentano un colpo di stato in Ecuador. Tuttavia, giunti a Panama, vengono a sapere che la rivoluzione è fallita. Mopps si trova quindi con un carico inutile e senza soldi. L’ultimo tentativo, prima di riprendere il largo, è coinvolgere Dominico, un malvivente colombiano residente a Buenaventura, di prendersi carico della merce e dei nostri due fuggiaschi.

Comincia così la seconda parte, in cui Dominico invia i due nella giungla colombiana, a gestire contabilmente una miniera d’oro sulla riva del fiume Chocò (probabilmente si tratta del fiume Atrato che attraversa il dipartimento di Chocò in Colombia; oppure il fiume Cauca della Valle omonima, a distanza ragionevole da Buenaventura). Qui si intrecciano due fatti: il rapporto con il geologo belga che dovrebbe gestire la miniera e l’inizio della maternità di Charlotte. Il primo è un pazzo, come lo sono tutti quelli che vivono nella giungla (sostiene Simenon) ed instilla germi di follia in Jef. La seconda è turbata da un attacco di tifo, cui Charlotte sopravvive solo grazie alle cure di Jef. Che alla fine, suicidatosi il belga, convince la gang di Dominico a farli tornare in città, dove Charlotte partorisce un bel bambino. Che da subito instilla in Jef il dubbio su chi sia realmente il padre.

Dopo aver ricevuto una lettera da Mopps, anche qui fortunosamente, i nostri eroi riescono a fuggire dalla Colombia e ad arrivare a Papeete sull’isola di Tahiti, dove si riuniscono con Mopps. Ma il loro rapporto non è sereno, per Jef tormentato dal dubbio che Mopps sia il vero padre del bimbo. Anche se coinvolto nella vita idilliaca dell’isola, non riesce a rasserenarsi. Charlotte riprende la sua vita libera (lei sostiene che essendo anarchica, non deve avere legami) molto con Mopps ma anche con altri locali. Mentre Jef, consolato dalle belle polinesiane, non riesce a sfuggire ai tarli, ai dubbi, al malessere, che fin da Dieppe si porta appresso.

Arriviamo così, finalmente, al finale “tragico”. Charlotte viene denunciata, deve quindi fuggire ancora, e si appresta a farlo con Mopps ed il bambino. Che Jef, ripreso dalle febbri tubercoloidi di cui da sempre soffriva, non è in grado di andarsene. Loro si salvano, lui, probabilmente (anche se non detto esplicitamente) muore tra le braccia di una bella donna locale.

Capita che è una trama a volte improbabile, che sembra seguire le tappe del viaggio di Simenon, quasi a voler coniugare gli articoli descrittivi pubblicati sulla rivista “Marianne” con le tematiche che gli sono proprie. Non si capisce, intanto, perché Jef sia un anarchico, quasi a voler dare un segno distintivo laddove non ce n’è bisogno. Né si comprende la luna storia nella miniera d’oro con il suicidio del belga, se non per parlare della cura di Jef nel salvare Charlotte. O come arrivi la lettera di Mopps in Colombia. C’è poi il piccolo intervento del capo fuochista dello sloop che porta i nostri a Tahiti, che compare, sembra avere un ruolo, e poi viene abbandonato. Infine, viene poco sviluppato, quasi lasciato al folklore, la gioiosa vitalità delle donne polinesiane.

Come detto, è un romanzo di formazione, di linea d’ombra, che Jef oltrepassa molte volte, ma da cui esce sempre sconfitto. Sconfitto dall’anarchia francese, sconfitto dalla giungla, sconfitto da Charlotte che pensava di amare, ma a cui tiene solo per la presenza del figlio. In fondo, Simenon ci dice che Jef si è sentito sé stesso solo a bordo del cargo, lontano da Charlotte e da Mopps, condividendo la dura vita e l’amicizia dei fuochisti. Di certo, siamo sempre in attesa di un cambiamento, di uno scatto in Jef, che non avviene mai, e che non può che portarlo inevitabilmente al fallimento: si scontra con tanti elementi avversi, e ne esce sempre sconfitto.

L’altro elemento, cui forse Simenon non aveva dato peso, ma che a distanza di tanti e tanti anni è uno degli elementi positivi del testo, è la descrizione delle diverse atmosfere che Jef affronta nel corso della sua breve esistenza (a Papeete dovrebbe arrivare intorno ai suoi venticinque anni). La Francia del Nord, buia, fredda, piovosa, da dove scappare, ma che ritorna nelle notti insonni con il ricordo della sempre amata Parigi. La luce forte, quasi insostenibile, del Mar delle Antille. L’umidità ed il caldo che stronca azioni e pensieri nella giungla colombiana. Le atmosfere luminose di Tahiti, che dovrebbero portare tutti alla gioia, ma non sarà mai così. Un piccolo messaggio, quindi, nascosto in più di trecento pagine: potete andare ovunque, ma se affrontate la vostra linea d’ombra, dovete cambiare, o sarete costretti a perire.

Tornerei infine al titolo. L’originale si riferisce ai “lunghi percorsi”, quelli che ci pone la vita dinanzi e che noi si deve affrontare (come da frase precedente). In Italia, si è deciso di optare per il riferimento al bastimento che fa fuggire Jef e Charlotte, soprattutto per l’analisi che ne fa ad un certo punto il capitano Mopps: due sono le navi da trasporto, i tram ed i cargo. I tram fanno sempre lo stesso tragitto, tornando da dove sono partite. I cargo partono e credono di tornare allo stesso porto, ma trovando un nuovo carico, si imbarcano in una via che li porta altrove. E così via, senza mai fermarsi. Ed i titolisti italiani ci suggeriscono: Jef tu sei un cargo, non ti fermerai mai, fino a che non sarai messo in disarmo.

Un altro Simenon da riflessione, anche se, come ho detto sin dall’inizio, non mi ha convinto né coinvolto come altre prove del maestro.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Dieppe; il cargo Croix-de- Vie”; Colon (Panama); Buenaventura (Colombia); una miniera d’oro sulla riva del fiume Choco (Colombia); Papeete (Tahiti)

Joseph Mittel, figlio del famoso Mittelhauser (della banda Bonnot). Senza impiego fisso. Celibe. 22 anni

Mopps, capitano del Croix-de- Vie” e più tardi presidente del Circolo franco-inglese a Papeete

Charlotte Godebieu, ex-cameriera, amante di Mopps e di Mittel, 22 anni.

Almeno un paio di anni (forse tre)

Epoca contemporanea alla scrittura

 

Georges Simenon “Faubourg” Repubblica Simenon II 18 euro 9,90

[A: 19/05/2023 – I: 14/08/2024 – T: 15/08/2024] - &&& e ½ 

[tit. or.: Faubourg; ling. or.: francese; pagine: 134; anno 1937]

Come ormai sappiamo dalla lunga frequentazione con il grande Simenon, spesso passa un congruo lasso di tempo tra la redazione del testo e la sua pubblicazione. In particolare, in questo periodo temporale della seconda metà degli anni ’30, dove il nostro stava effettuando il cambio storico di edizioni.

Per cui ci rimangono poche le indicazioni delle vicissitudini temporali. Dopo il lungo viaggio intorno al mondo, di cui ho parlato, si installa a Parigi, anzi per l’esattezza a Boulevard Richard-Wallace in quel di Neuilly, e si occupa più che altro di incontrare gente e di spingere affinché i suoi romanzi senza Maigret siano accettati dall’intellighenzia francese.

Ed è così che nel ’37, Gallimard pubblica questo “Faubourg”, scritto due anni prima, nel ’35, durante i due mesi di sosta a Papeete nel corso del giro del mondo. E come spesso accade a Simenon, in questi casi è spesso preso dal bisogno del contrappasso, come anche vedremo nel prossimo romanzo. Infatti, laggiù in riva ad un mare affascinante, con gli occhi sulle spiagge bianche di Tahiti (ed anche sulle polinesiane, e non andiamo oltre) scrive un romanzo tutto ambientato in città, anzi in un sobborgo. Non solo, ma pieno di un aria gravida di piogge e di tempo cupo.

Proprio per far onore alle sue mire di scrittore alto, la scrittura di questa periferia è molto rarefatta, così come l’aria che respira Renè quando vi arriva, scendendo da un treno, in una notte fredda, insieme a Léa, da lui incontrata in un bordello a Clermont-Ferrand, e che Renè ha convinto a seguirlo con le sue millanterie verbali, quelle che gli hanno permesso di barcamenarsi in questi quarant’anni di vita.

Sono frasi brevi, che dipingono situazioni momenti sensazioni. Nelle frasi di Simenon, e con gli occhi di René, vediamo tram, massaie, scolari, bancarelle, vetrine di negozi, cafè, marciapiedi, persone. Non c’è una grossa attenzione temporale, si passa da fatti che avvengono quasi in contemporanea, ad una frase successiva dopo sono passate settimane. Così che l’autore ci rende partecipi della sospensione anche dell’anima del suo protagonista senza qualità.

Infatti, è lui che riempie le pagine, René de Ritter, tornato nella periferia natia dopo ventiquattro anni di assenza. Tornato con un nome trasposto, che in olandese Ritter significa “cavaliere”, e lui nasce lì, in quella periferia come René Chevalier. Riempie e svuota le pagine, che le immagini che ci trasmette girando per il quartiere permettono all’autore di fare scatti nel passato, ricollegando magistralmente le figure del presente a quello che erano un dì.

È così con Albert, ora proprietario di un albergo dove vanno a vivere lui e Léa. Che ricorda quando da bambini vestiva il suo grembiule pulito, mangia in casa merende saporite, mentre lui e gli altri ragazzini erano i teppistelli senza speranza dei loro genitori. Così con la zia Mathilde, che lo riempiva di premure nell’infanzia, e che ora va a ritrovare solo per aver del denaro a scrocco. Anche la madre è trasposta, tanto che ad una prima occhiata non lo riconosce. Al fine la va a trovare, la riempie di regali facendole credere di aver fatto fortuna, ma poi dovendo confessare di aver fatto molte tappe a vuoto in tutti questi anni, rischiando anche di finire in prigione a Panama.

Quello che gli rimane è sempre la parola. Che usa bene, almeno nelle fasi iniziali di tutti gli incontri. Affascina Albert, incanta i giocatori di belote al bar, si fa ingaggiare per scrivere delle brevi note sul “Moniteur” il giornale locale. Dove parla dei suoi viaggi, descrive luoghi e situazioni sconosciute ed altre, che non possono che affascinare i piccoli borghesi di periferia.

Continuando i suoi piccoli intrallazzi, spillando soldi ad Albert ricattandolo per aver questi preso Léa come amante. Tra l’altro spingendo Léa stessa a riprendere la vita di un tempo, sfruttando il suo corpo per aver soldi a disposizione. L’immagine che Simenon ci restituisce di Renè è proprio esemplare in questa via di mezzo: non è abbastanza furfante per essere un vero malvivente, ma è troppo furbetto per essere realmente una persona perbene. In fondo, come gli dice Léa in un momento di irosa sincerità, è solamente un dilettante.

E da dilettante si fa coinvolgere in una storia con una sua vecchia conoscenza di giovinezza. La non proprio bellina Marthe, da sempre innamorata di lui, ma ancora zitella, gestisce con il padre un fiorente negozio. Così che Renè, pur restando sempre con Léa, la corteggia, la sposa, si installa in questo nuovo momento di vita, quasi che, finalmente, possa raggiungere quel sé stesso che ha cercato da sempre in giro per il mondo.

Léa lo accusa di essersi imborghesito, di aver abbandonato tutti quei sogni per i quali lei lo aveva seguito lungo le strade francesi, senza nessuna reale speranza. Accuse che si accumulano al fatto che, come tutti i dilettanti, il suo gioco non resiste molto, alla lunga gli altri cominciano a trovarvi buchi ed incongruenze. La matrice profonda dell’atteggiamento di Simenon scatta quando scopre che Léa si accompagna stabilmente con un giovanotto, e questo mette in ridicolo gli scritti e le avventure che Renè descrive con tanta cura.

Uno scatto che farà cade tutto il suo castello di carte, che Renè, per il suo dilettantismo, è l’emblema di tanti personaggi di Simenon, votati alla cattiva sorte, ingenui ed allo stesso tempo presuntosi e meschini, grandi compagnoni esternamente, ma internamente soli, di una solitudine senza rimedio. Proprio nella prima parte del romanzo, quando ancora non siamo entrati completamente in sintonia con lo scritto, che in realtà parte un po’ sottotono, ci accorgiamo dell’elemento descrittivo che riletto a fine romanzo ci dà la chiave del romanzo stesso.

Renè ricorda tutto, camminando per il quartiere. Guarda le cose e le case e ricorda i rumori, gli odori, le facce delle persone, i loro atteggiamenti. Nel contempo, ora, nel presente, nessuno si ricorda di lui. Potrebbe (e lo fa) attraversare tutta la vita senza lasciare traccia.

Non è un romanzo da “dieci e lode”, ma è una punta verso l’alto della scrittura del nostro. Tanto che Simenon stesso teneva molto al lancio del romanzo. Passò tempo e fatica per cercare di convincere il vecchio Gallimard a farne un lancio pubblicitario, ad investire soldi e tempi in messaggi radiofonici per promuoverlo. Cosa che l’editore si guardò bene di fare. Ed è un peccato, che il romanzo stesso avrebbe meritato più successo fin dalla sua uscita.

Ora, in pubblicazioni varie, da Adelphi a Repubblica, ha un suo spazio, ma sono passati purtroppo quasi ottant’anni.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Il sobborgo di una cittadina francese, senza maggiori dettagli

René Chevalier, detto De Ritter. Nessun lavoro fisso, dopo aver esercitato tanti lavori, 41 anni, celibe

Léa, ex-pensionata di una casa di piacere a Clermont-Ferrand, compagna di De Ritter

Marthe Soubirot, commerciante, 38 anni, nubile, amica d’infanzia di René

Qualche mese

Epoca contemporanea alla scrittura

 

Da un autore belga di lingua francese, questa volta passiamo a citare un autore francese di chiare origini italiane. Tonino Benacquista con la sua saga dedicata ad una famiglia sotto protezione. Dalla prima, “Malavita, pensiamo allo scopo dello scrivere: “Il se foutait bien de savoir si les mots qu’il frappait seraient lus un jour, si ses phrases lui survivraient.” [Non gli importava molto di sapere se le parole che scriveva sarebbero state lette un giorno, né se le sue frasi gli sarebbero sopravvissute.] (132)

Dalla seconda, “Malavita encore”, un’espressione di puro disincanto : “Pour vous, un type est a priori bon jusqu’à ce qu’il se révèle mauvais. Pour moi, il est mauvais par nature, jusqu’à ce qu’il me surprenne par un geste envers son prochain.” [Per te, una persona è a priori buona, sino a che non compie una malvagità. Per me, le persone son cattive per loro indole, fino a che non vengo sorpreso da un loro gesto verso il prossimo.] (170)

Ormai siamo alla fine del mese di agosto, avendo fatto gli auguri a tanti di anni compiuti e pensando a quelli che li compiranno. Comunque, un mese di riposo, anche se di piccoli acciacchi (ah, l’età). Ed un mese, come si vedrà in futuro, anche di lunghe letture. Perché a settembre tempo di leggere ne avremo poco. Vedremo di farlo fruttare con i consueti tanti abbracci.