domenica 11 agosto 2024

Brividi stranieri - 11 agosto 2024

Una settimana dedicata alla collana di Repubblica “Brivido Noir”, con quattro autori anglofoni ed un francese. È proprio Jean Failler che si piazza in prima posizione con le indagini di Mary Lester, avendo accanto le vicende indiane dell’anglo-indiano Abir Mukherjee. Poco distanti le avventure della giovane Flavia de Luce di Alan Bradley e quella della famiglia Mitford di Jessica Fellowes. Chiude la rassegna l’anglo-cipriota Michaelidis con una prova che non mi ha convinto.

Alan Bradley “Il Natale di Flavia de Luce” Repubblica Brivido Noir 30 euro 8,90

[A: 25/12/2020– I: 31/01/2024 – T: 02/02/2024] - && e ½    

[tit. or.: I am half-sick of shadows; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 2011]

Avendone già letto alcuni anni fa un episodio (il terzo di questa scrittura seriale che ad ora conta dieci titoli), non mi sono sorpreso né irritato. Certo è una lettura a tratti “juvenilia”, non sempre ben inserita nei “gialli maggiori”, ma ha alcune particolarità divertenti, un andamento godibile, ed un punto d’onore: in Italia viene generalmente pubblicata da Sellerio, che è una garanzia di serietà editoriale.

Andiamo comunque con ordine. Intanto, l’autore è canadese, che potrebbe essere un elemento significativo per le descrizioni degli aristocratici inglesi un po’ da burletta, con i soliti rocchi eccentrici (magioni non gestibili per la loro grandezza, thè a tutte le ore, domestici furbetti e padroni di casa poco attenti). Qualcosa c’è, tuttavia Alan e la moglie, dopo la scrittura del primo libro della serie, girovagano per le colonie inglesi, fino a stabilirsi, dove ancora sono, in quel di Malta.

La seconda cosa da sottolineare è che, in generale, una delle cose migliori (o più interessanti) di questa serie sono i titoli, come avevo sottolineato in altre trame. Qui, in effetti, si fa riferimento un verso di una poesia di Alfred Tennyson, “La signora di Shalott”, che recita “Sono stanca delle ombre”! Un verso che, ricordiamo, fa riferimento alla poesia del grande poeta inglese che riprende un tema del ciclo di Re Artù, proveniente da un breve racconto arturiano contenuto nella raccolta di novelle toscane “Il Novellino o Le Cento novelle antiche”. Questa è la numero LXXXII e parla di una donna che si innamora non riamata di Lancillotto e per questo si lascia morire.

Seppur vero è che le vicende si svolgono nell’approssimarsi del Natale, ed il clou lo avremo proprio nel giorno e nella notte della Santa Vigilia, non capisco la necessità di modificare il messaggio dell’autore, che di ombre, nel corso del testo, se ne scoprono tante.

Per i tanti che non conoscono la serie, ricapitolo che la vicenda si svolge introno al 1950 in Inghilterra, nella fittizia cittadina di Bishop’s Lacey, dove, nella tenuta di Buckshaw, vive la famiglia De Luce. Composta dal padre Haviland, e da tre sorelle, Daphne (detta Daffy), Ophelia (detta Feely) e Flavia, la protagonista, nonché narratrice in prima persona degli eventi. Presenza non costante ma significativa, la zia Felicity, stramba ma sempre ben informata. Manca la madre, Harriet, scomparsa tragicamente dieci anni prima in Tibet.

Flavia ha undici anni, una curiosità attenta su quanto la circonda, ma soprattutto una passione sfrenata per la chimica, ed i suoi esperimenti. Basandosi sui libri che le lasciò il defunto zio Tar (ed in particolare sugli appunti sparsi dell’anziano misantropo) e su un piccolo laboratorio ben attrezzato (e non da piccolo chimico infantile, ma ricolmo di provette, becchi Bunsen, e sostanze varie da innocue a velenose).

La vita scorre (quasi) placidamente nella tenuta, con Daffy china sui libri, Feely alle prese con uno stuolo di spasimanti, la domestica Muffet, autrice di manicaretti improbabili, e Dogger, un tuttofare, sodale di papà De Luce, ma che forse è anche altro (qui ne avremo indizi, che forse saranno palesi in altri libri della serie). Ma soprattutto con Flavia che, in vista della visita di Babbo Natale, si appresta a ungere di una sostanza collosa il comignolo della tenuta, al fine di scoprire finalmente l’esistenza o meno del vecchio dalla barba bianca.

La quiete della tenuta viene sconvolta dall’arrivo di una troupe cinematografica, cui è stata affittata parte della magione al fine di girare un film in costume. Affitto necessario per far fronte alle copiose spese di gestione della tenuta. Arriva così la diva Phyllis Wyvern, il primattore Desmond Duncan, il regista Van Lampman e l’aiuto di tutto Marion Trodd.

Per non farsi mancare nulla, il vicario locale convince Phyllis ad inscenare una piccola rappresentazione di beneficenza, cui viene ad assistere quasi tutto il villaggio. Peccato che una copiosa nevicata blocchi tutti a Buckshaw. Non ci stupiamo quindi che in questo contesto avvenga un omicidio. Sono tutti presenti: la famiglia De Luce, i domestici, la troupe e metà villaggio. Cosa chiedere di meglio?

Flavia allora comincia le sue indagini, parallele e convergenti con quelle dei poliziotti locali. Scopre indizi, collegamenti, vincoli familiari insospettati. Utilizzando tutte le risorse possibili del luogo: riviste cinematografiche, testi shakespeariani, tomi del “Who’s who” (il Wikipedia dell’epoca). Nonché le rimembranze della zia Felicity. Così da scoprire per prima cosa ha fatto e chi lo ha fatto, finendo inoltre in una scorribanda sui tetti, dove viene giustamente salvata proprio dalla colla del camino.

L’intrigo scorre piacevole, intervallato dalle intemperie della nostra, e da vari avvenimenti collaterali, poco inerenti la trama principale, ma d’atmosfera. Una lettura gradevole, che non mancherà di future rivisitazioni.

Un ultimo accenno di cross-letteratura. A pagina 260 viene citato il discorso, tenuto nel 1890 da Friedrich August Kekulé von Stradonitz che narrava come alcune sue scoperta da chimico (ovvio sia un chimico, data la mania di Flavia) siano avvenuto a seguito di sogni. Qui si narra come la struttura dei legami molecolari gli sia venuta sognando un suo viaggio su di un omnibus trainato da cavalli molto vivaci. Pochi libri fa, ne “Il passeggero”, McCarthy parla del sogno del serpente che si mangia la coda, che aveva permesso a Kekulé di ipotizzare la struttura del benzene. Coincidenze letterarie…

Jessica Fellowes “Morte di un giovane di belle speranze” Repubblica Brivido Noir 20 euro 8,90

[A: 20/10/2020– I: 15/05/2024 – T: 19/05/2024] - && e ½   

[tit. or.: Bright Young Dead; ling. or.: inglese; pagine: 410; anno 2018]

Affrontiamo qui il secondo libro di un progetto in sei volumi ideato dalla scrittrice Jessica Fellowes, ruotante intorno alle sei sorelle Mitford. Come si può immaginare, quindi, un libro per ciascuna sorella. Jessica ha una buona conoscenza dell’ambiente generale, in quanto nipote ed assistente di Julian Fellowes, il creatore della serie TV “Downtown Abbey”.

Nella scrittura originale, poi, ogni capitolo si riferiva esplicitamente ai Mitford. Così il primo, di cui ho scritto un paio di anni fa, si intitolava “The Mitford Murders”, anche se in italiano il titolo fu stravolto. Qui, il titolo originale era “The Mitford Affairs”, anche se recava nel titolo stesso anche quello sopra indicato “Bright Young Dead”, visto che i personaggi potevano essere facilmente ricondotti ai “Bright Young People” (traducibili come “Giovani Brillanti”), un insieme di giovani aristocratici ed intellettuali che imperversavano nella Londra degli Anni Venti. Giovani come Cecile Beaton, il fotografo, Robert Byron, il grande viaggiatore, Evelyn Waugh, lo scrittore ed ovviamente le sorelle Mitford.

Per queste prime due uscite, le principali protagoniste, dal lato Mitford, sono appunto le prime due sorelle, come epigrafate dal Times, Nancy la romanziera e Pamela la contadina. Immagino quindi che poi seguiranno Diana la fascista, Jessica la comunista, Unity l’amante di Hitler e Debora la duchessa. Anche se Nancy ha sempre un suo ruolo di primo piano, e Pamela c’entra come vedremo ma solo per l’ambientazione del delitto.

Come poi già si diceva nel primo romanzo, i veri “investigatori” sono Louisa, la cameriera di casa Mitford, e Guy Sullivan, in questo romanzo poliziotto entrato in organico. Con un aiuto, marginale ma prospettivamente significativo, di una delle prime donne poliziotto, Molly Moon.

Sono passati cinque anni dal primo romanzo, e quindi abbiamo Nancy che ormai ha ventun anni e Pamela si avvia ai diciotto. Anzi è proprio questo il via alla narrazione. Pamela deve organizzare la festa per il suo compleanno, motivo per cui Nancy la porta a Londra per fargli conoscere i giovani brillanti.

La scrittura di Jessica passa quindi dalla descrizione della vita di campagna al sorgere dei “Roaring Twenty” in Inghilterra. E nelle feste londinesi, conosciamo il brillante Sebastian Atlas,

Clara Fisher, detta “l’Americana”, e la sua amica Phoebe Moreton, la giovane Charlotte Curtis, sempre un po’ spaesata, e suo fratello Adrian, lo scapolo d’oro cui bisogna trovare un buon partito, Oliver Watney, afflitto da una tosse d’origine tubercolotica, nonché lo sfuggente lord Ted De Clifford. Un esegeta sopraffino, che non sono io, vedrebbe io collegamenti con i “bright”, ma noi ne siamo esentati.

Alla fine del giro di feste, sarà Adrian a lanciare l’idea di festeggiare Pamela con una festa collegata ad una caccia al tesoro, uno sport molto in voga all’epoca.

La trasferta londinese vedeva presente anche Louisa che nell’occasione conosce Dulcie, la cameriera di Charlotte, che la introduce nel mondo “roaring” dell’altra parte della capitale, quello più legato al mezzo mondo, quando non ad imprese truffaldine, impersonato dalla carismatica Alice Diamond. Un personaggio reale, legato al territorio poco raccomandabile di “Elephant and Castle”, zona piena di pub e di gente ai limiti della legge. Tanto che Alice capeggia una banda di truffaldine che vengono soprannominate “le Quaranta ladrone”. Questa è un’altra incursione nella non-fiction, visto che Alice è stato un personaggio reale.

È abbastanza ovvio che, durante la festa di Pamela, ci scappi il morto, nella fattispecie per l’appunto Adrian. Con gli ovvi sospetti che si appuntano su Dulcie che non solo era fraudolentemente presente nei pressi del delitto, ma che era anche incinta del suddetto Adrian.

Sarà così che Louisa si attiva per scagionare l’amica Dulcie (“tanto sono sempre i servi che ci vanno di mezzo”), aiutata da Guy e da Molly Moon, che parallelamente stavano indagando sulle malefatte di Alice. Dopo un po’ troppe pagine, condite con i classici del giallo di un tempo (caccia al tesoro con morto, sedute spiritiche e via narrando) si arriva ad un finale “alla Agatha Christie”, con tutti i possibili colpevoli radunati nella residenza dei Mitford, ed uno stratagemma legato al funzionamento (o alla manomissione) di orologi a pendolo.

Tuttavia, non è il giallo la parte migliore del testo, ma la ricostruzione di una società in un momento di passaggio. Finisce l’era vittoriana, ma non si è ancora entrati nell’era moderna. Anche se molto ne vediamo più dal lato dei giovani in evoluzione che della società borghese. Giovani anticonformisti, che ascoltano jazz, che si ubriacano e fanno uso di droghe, quasi a certificare un malessere che non ha ancora uno sbocco. Altrettanto importante, per la comprensione del momento storico è il ruolo delle donne. Sia nel mondo dei giovani, sia in quello degli onesti lavoratori, dove però ancora devono lottare. Come fa la neo-poliziotta Molly, come fa, da cameriera, Louisa, come fa, da ladra, anche Alicia.

Per finire, come ricordiamo l’evolversi di Nancy descritto nella precedente trama (con i suoi libri di cui ho parlato), qui possiamo sottolineare che Pamela sarà sempre un po’ defilata. Dopo un matrimoni poco voluto, dagli anni ’50, dopo il divorzio, si ritirerà in campagna, con una cavallerizza, Giuditta Tommasi, con cui vivrà fino alla morte nel ’94 a quasi 90 anni.

Jean Failler “Le ombre del collegio” Repubblica Brivido Noir 37 euro 8,90

[A: 14/02/2021 – I: 01/06/2024 – T: 03/06/2024] - &&& ---

[tit. or.: Ça ira mieux demain; ling. or.: francese; pagine: 284; anno 2005]

Di Jean Failler avevo letto due anni fa il primo libro delle indagini di Mary Lester (scritto più di trenta anni fa), che mi era parso di buon livello e di gradevole impianto. A partire da quel lontano 1992 in cui scrisse il primo capitolo, il buon bretone ha inanellato un numero impressionante di libri basati sulle indagini di Mary (credo che siano arrivati a 63), con l’idea, ogni volta, di spostare l’azione in diverse zone della Bretagna.

Questo, facendo quindi un salto enorme, è il capitolo venticinque, e l’azione si svolge intorno a Cap Sizun, un promontorio nella regione di Finisterra in Bretagna. Cosa che viene riconosciuta, nel corso del romanzo, da alcuni spostamenti territoriali dell’azione, anche se il promontorio in sé non ha un suo ruolo specifico. Anche perché la polizia cui afferisce Mary è di base a Quimper, la capitale della Cornovaglia francese.

L’altro dato importante per comprendere meglio anche l’andamento non proprio incalzante del testo, è che pochi libri prima (il 22° per l’esattezza) Failler viene accusato di aver plagiato un personaggio reale nel suo libro. Motivo per cui dal 23° al 28° lo scrittore decide di far uscire i romanzi con lo pseudonimo dell’eroina della serie, firmandoli Mary Lester. Così, anche se ora ha ripreso la firma usuale, è un interessante motivo culturale legge un romanzo scritto in prima persona da chi ne firma la copertina (un gioco metaletterario che come saprete non mi lascia indifferente).

Tuttavia, seppur gradevole come romanzo in sé, non è propriamente un giallo, tanto che non ci sono morti ed indagini particolari. Cioè, c’è un’indagine, ma tutta basata su intrecci, discorsi, ammissioni e deduzioni, con l’azione ridotta praticamente a zero. Però con al centro la vera protagonista di questo (e di quasi tutti i romanzi di Failler): la Bretagna. Ci sono le componenti marine, un porto, le barche che tornano dalla pesca, le scogliere, e gli abitanti duri e complessi di questa terra aspra (che se non l’avete visitata vi consiglio di rimediare).

Certo, alcune componenti del poliziesco classico, di impianto deduttivo, ci sono: il nostro capitano Mary Lester, sempre pronto a disobbedire se gli ordini le sembrano fuori luogo, il suo aiuto, il tenente Fortin, sempre in sintonia con il capo, il neoassunto genio informatico totalmente imbranato, il questore arrivista e senza idee operative valide.

E poi, le donne. Oltre a Mary, ovviamente. C’è Anastasie Tristani, venuta dal nulla, ma con un carattere ferreo e determinato, tanto che nella zona viene soprannominata “la Grande”. Prima operaia nella grande industria del vecchio Tristani, poi sua segretaria (e forse qualcosa in più), ed infine convinta dal vecchio a sposare il figlio Firmin, omosessuale dichiarato. Dalla coppia nasce Mathilde (ma sarà veramente figlia genetica di Firmin?). Una ragazza poco adusa a sottostare alle direttive materne che vorrebbe meglio dedicarsi alla pittura ed alle Belle Arti, come il padre. E c’è la tata di Mathilde, ormai anziana (bel personaggio di governante) con la figlia infermiera ed empatica con tutte le situazioni irregolari.

Nel frattempo, costretta in un collegio di suore (quello del titolo italiano). Da cui scappa, forse aiutata dal suo amore, il giovane Vincent, cantante di rock ma anche contabile di capacità. È proprio questa fuga che dà il via al romanzo, laddove si chiede a Mary di ritrovarla senza far troppo polverone. Ma Mary dovrà per forza sollevare i tappeti del perbenismo, perché la fuga di Mathilde è volontaria, anche per sottrarsi sia alla madre tiranna sia al padre gay omologato.

Con il ragionamento e l’astuzia, Mary riuscirà ad unire i puntini del rompicapo, riuscendo a trovare il posto giusto per ogni pezzo. Con alcune frecciate sul perbenismo di facciata delle classi sociali che sono tutte da sottoscrivere.

Dimenticavo, tra le donne “forti” c’è anche Suor Marie-Madaleine de la Contrizione, ora superiora del collegio di Mathilde ma a suo tempo anche suor tiranna nel collegio frequentato in gioventù da Mary. E gli scontri verbali tra la suora ed il poliziotto sono tra le cose migliori, a livello di dialogo.

Ne cito solo uno scampolo, quando, essendo il cognome della suora Lacaune, Mary la colpisce nell’orgoglio, suggerendo di sostituire il dittongo con una o. Avete studiato il francese? No, allora vi dico che con la sostituzione il cognome diventa Lacone (che in argot assona a … la stronza).

Vorrei solo citare che in Italia, per molto tempo, i romanzi di Failler sono stati pubblicati dalla meritevole casa editrice romana “Round Robin”, che a cavallo del secolo presentava una serie di autori, italiani e stranieri, con romanzi legati al territorio. Oltre a quelli di Failler, non posso non ricordare le avventure romane del commissario Maré scritte dall’ottimo Mario Quartucci.

Per finire, il titolo italiano è assolutamente “anodino”, anche perché l’originale dice “Andrà meglio domani”. Una prosecuzione di una citazione-calembour interna al romanzo. Laddove, la ragazza viene ritrovata nella cittadina di Esquibien, ed il tenente Fortin esclama “à Esquibien tout va bien” e Mary guardandolo prosegue muta “mais ça ira mieux demain”. Che si capisce anche da chi non conosce il francese.

Abir Mukherjee “Un male necessario” Repubblica Brivido Noir 27 euro 8,90

[A: 08/12/2020– I: 09/06/2024 – T: 11/06/2024] - &&&   

[tit. or.: A Necessary Evil; ling. or.: inglese; pagine: 398; anno 2017]

Eccoci alla seconda avventura di Sam Wyndham, il capitano inglese di stanza a Calcutta negli anni Venti dello scorso secolo, dovuta alla penna dell’anglo-indiano Abir Mukherjee. E come dissi in occasione del primo volume, la storia è interessante dal punto di vista di ricostruzione ambientale, un po’ meno da quello del poliziesco o del noir.

Qui, Abir ce lo riconferma dandoci una panoramica dell’India quattordici mesi dopo il primo episodio (che ricordo era incentrato sulle vicende e sulle ripercussioni in seguito al massacro dei sikh avvenuto ad Amritsar il 13 aprile 1919). La vicenda, infatti, si svolge nella settimana dal 18 al 24 giugno 1920, con una serie di avvenimenti sia legati alle date in sé sia, e questo è un merito dell’autore, perché rievocano magari eventi limitrofi, ma che servono ad esemplificare cosa fosse l’India prima e durante l’occupazione inglese.

Intanto, l’ottima ambientazione. Sia nella parte iniziale, pur breve, in quel di Calcutta (uso i termini dell’epoca e non quelli attuali), in particolare le brevi ma indovinatissime descrizioni di Howrah, la stazione ferroviaria di Calcutta (come riporto in basso). Sia, nelle lunghe sequenze che si svolgono in Orissa, uno stato che ho visitato anni fa, ma che a circa cento anni non è che si sia discostato molto da quello descritto da Abir.

In particolare, la vicenda si svolge durante una delle feste tipiche dello Stato, quella dedicata a Jagannath, uno delle incarnazioni di Krishna, anche se, secondo i miei calcoli, l’autore sposta la festa leggermente in avanti. Il sito indù ufficiale la colloca al 18 giugno, mentre Abir in quel giorno fa iniziare la storia, spostando la festa di due settimane in avanti. Comunque, l’autore, nelle more del racconto, ci narra correttamente le vicende del dio Jagannath, “signore del mondo”, come recita il suo nome in sanscrito. Nella complessa cosmologia indiana, i vari dei hanno, a seconda dei momenti e delle attività, incarnazioni e nomi differenti. Così Krishna, il supremo, quando vuole essere benigno si trasforma in Jagannath. Il problema è che, apparentemente, il dio sembrerebbe cattivo, essendo rappresentato da una grande tronco con grandi occhi, ma arti superiori e inferiori praticamente “talidomitici”.

Questo è dovuto alla leggenda della sua nascita. Uno dei re dell’antichità chiede all’architetto celeste di scolpire un legno con le sembianze di un’incarnazione di Krishna. Costui chiede di poter lavorare indisturbato per 25 giorni, ma dopo 15, il re, curioso come un volpe, entra nell’atelier. L’architetto, indispettito, lascia il lavoro e la scultura rimane incompiuta nelle estremità. Una bella favola. Ma per finire con il dio, questi, appunto, è una delle divinità fondamentali dell’Orissa, adorato principalmente nella città di Puri, dove si svolge il rito (descritto nel testo) del Ratha Yatra, dove il simulacro del dio viene portato a giro in città, dove il re, prima di farlo rientrare nel tempio, pulisce la strada con una scopa dorata, tanto da essere soprannominato “sweeper king” (re spazzino) ad indicare che, di fronte al dio, il re è uguale al più umile dei paria indiani.

Ultimo tema toccato da Abir è quello del ruolo delle donne nel governo degli Stati indiani. Avendo deciso di ambientare la vicenda in uno stato dell’Orissa, inventa un sottotesto che però avrebbe dovuto essere ambientato in un diverso Stato, e precisamente Bophal. Lì, in effetti, dal 1817 al 1926 sono le donne, le begum, che governano e saggiamente lo Stato, pur rimanendo spesso confinate nella “zenana”, l’equivalente indù dell’harem mussulmano.

Meno solido, invece, è sia il giallo sia la parte privata. Il capitano Wyndham è bravo, ragiona, ma è debole nei rapporti umani. Il suo aiutante Surendranath (ricordo che poi viene detto “Surrender-not”) quasi non compare, se non nell’analisi dei documenti relativi alle miniere, che analizza con competenza, trovando le magagne che ci si aspetta, ma fa poco altro. Infine, Annie, che Sam cerca di conquistare fin dal primo libro, appare, ma non viene descritta in maniera né che attiri simpatie, né che se ne ricordi contributi particolari alla vicenda.

Una vicenda che nasce a Calcutta, dove il principe Adhir, erede al trono del regno di Sambalpore ed amico di “Surrender-not”, viene ucciso di fronte a Sam da un indù con i segni di Visnù sulla fronte. La polizia di Calcutta, volendo approfondire la vicenda, invia i nostri a Sambalpore, dove vengono raggiunti da Annie, anche lei conoscente del principe. Lì si mescolano le vicende religiose delle feste di Jagannath, con le vicende politiche della dinastia al trono. Il vecchio Maharajah sta morendo e Adhir dove succedergli, con due problemi evidenti: l’erede non era in buoni rapporti né con gli inglesi né con i gestori delle miniere di diamanti, fonte principale delle ricchezze locali. Morto Adhir, i principali pretendenti al trono sono Punit, fratello del precedente, più o meno coevo, figlio della seconda moglie del Maharajah, e Alok, bambino di sette anni, figlio della sua terza moglie che gli inglesi, durante un pettegolezzo maligno, dicono essere di bassa origine sociale, figlia di uno spazzino.

Le vicende reali si intrecciano con le vicende legate alle miniere di diamanti, ed alla loro vendita cercando di gonfiarne il prezzo, data anche che si stanno esaurendo. Non a caso, il residente inglese suggeriva da tempo di dedicarsi al carbone, che sarebbe stato più durature.

Si alternano vari accadimenti, intervallati da feste regali e cacce alle tigri, con i vari personaggi che salgono e scendono sui piedistalli dei sospettati. Nell’ombra restando le donne della zenana, in particolare la prima begum, che, per una maledizione atavica, come tutte le prime begum del regno, non poteva avere figli. Ma si sa che le donne ne sanno una più del diavolo.

Sam si barcamena tra le varie fazioni, pensando di sostenerne prima una poi l’altra, fino ad arrivare alla soluzione del mistero, quando anche Punit muore, e lui si trova a descrivere in un lungo colloquio non vi dico con chi, quale è la verità degli avvenimenti. Ricevendo l’ammonizione che, spesso, verità non coincide con giustizia. Da qui anche il titolo.

Un ultimo accenno. Nelle mie numerosi visite indiane, sono riuscito una sola volta, a Delhi, ad avvicinarmi (non ad entrare) ad un tempio indù. Qui Abir, forse per motivi di finzione, riesce a far entrare nel tempio sia Sam che Annie. Forse con qualche forzatura, oppure sono io che vedo troppi retroscena. A volte la verità è solo una necessità testuale.

Comunque, ho già comperato e prima o poi leggerò anche il terzo volume.

“Entrare nella stazione di Howrah era come entrare nella torre di Babele prima che il Signore si sentisse offeso dalla costruzione … la stazione di Howrah non era per i deboli di cuore.” (81) [Howrah è il nome della stazione dei treni di Calcutta e viene descritta magistralmente, come posso confermare dalle diverse volte che l’ho frequentata]

Alex Michaelides “La paziente silenziosa” Repubblica Brivido Noir 24 euro 8,90

[A: 15/11/2020– I: 26/07/2024 – T: 29/07/2024] - &&--  

[tit. or.: The Silent Patient; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2019]

Purtroppo, mi è sembrato un grande bluff. Alex Michaelides è un anglo-cipriota meglio noto per la sua attività di sceneggiatore. Qui è alla sua prima opera letteraria, dove decide di attingere anche alla sua esperienza triennale di psicoterapeuta per giovani. Seppur acclamato dal New York Times, e ben accolto dal pubblico, la sua struttura è deboluccia e risente molto di influenze varie, sia dal punto di vista psicologico che dal punto di vista del giallo in sé, tributando un omaggio troppo palese ad alcuni autori classici, in primis Agatha Christie.

Tuttavia, non avendone lo spessore, la trama risulta mediamente interessante per quasi trecento pagine, per poi cadere di tono e risolversi in un finale che dire scontato è dargli troppo valore. Ma lo sforzo, e l’intreccio iniziale meritano una quasi sufficienza, mitigata al fine con le negatività che ho segnalato.

La storia è principalmente narrata da Theo, uno psicoterapeuta che decide di lasciare una promettente carriera per poter lavorare in una clinica psichiatrica dove è rinchiusa Alicia, una pittrice di successo, accusata di aver ucciso il marito. Sulla scena del delitto, oltre al marito Gabriel, c’è solo lei con una pistola in mano. Lei che per il trauma diventa muta. O forse finge?

Una piccola parte del testo è invece dedicata al diario di Alicia, dove seguiamo in contraltare le vicende che portano alla morte di Gabriel. Il doppio binario dovrebbe fornire le tracce per arrivare a sciogliere il mistero, ma, seguendo attentamente il diario (che tra l’altro sembra tutto fuorché un diario) l’esperto lettore vede arrivare da lontano il colpo di scena finale, con buona pace di un finale stesso che, alla lettura, non aggiunge nulla, lasciando svariati punti in sospeso.

Ma facciamo un piccolo passo indietro. Alicia dipinge ed ha un discreto successo, anche se i suoi quadri, per chi li vede e per come sono descritti, sembrano carichi di angoscia. D’altra parte, Alicia nella sua vita ha subito diversi traumi. La madre si è lanciata a folle velocità con la sua macchina contro un muro, con Alicia dentro l’auto. Muore la madre ed Alicia ne esce illesa. Il padre non le perdona mai di essere sopravvissuta, e ad un certo punto, anche lui si uccide. Ce n’è ben donde per sbroccare ed entrare in analisi.

Unica ancora di salvezza è il marito Gabriel di cui è intensamente innamorata. Mentre è ancora in analisi, comincia ad avere strane visioni. Vede un uomo che la guarda di nascosto. Una presenza che solo lei vede, cosa che rafforza le tendenze psicotiche. Poi c’è la scena del delitto, di cui ho detto.

Ora sono passati sei anni, in cui Alicia non ha detto una parola. Theo inizia a lavorare nella clinica, e ci si domanda in base a quale ragionamento voglia solo lei come paziente. Certo, era rimasto scioccato dall’ultimo quadro di Alicia, che non vi sto a descrivere ma che lei intitola “Alcesti”. Theo ha anche una sua vita, una moglie cui pare particolarmente legato. Così che procedendo veniamo anche inconsapevolmente attratti dalle due coppie speculari (soprattutto nei flashback che vengono fatti, con l’unico punto veramente dolente che non sappiamo mai se sono salti indietro, in avanti o di lato): dove Alicia e Theo vengono da infanzie problematiche mentre Gabriel e Kathy (la moglie di Theo) sono baciati da successi professionali.

Comunque, lo psicologo Theo entra nelle confidenze della paziente Alicia. O al contrario, è Alicia che apre qualche spiraglio per irretire nel suo mutismo lo psicologo ed il suo inevitabile transfert? Fatto sta che si accavallano notizie su notizie utili a confondere il poco attento lettore. C’è uno psicologo, collega di Theo, che aveva in cura Alicia, ma con qualche problema deontologico che non vi diciamo. C’è il fratello di Alicia, inspiegabilmente nervoso ogni volta che parla con Theo. C’è il cugino di Alicia, ludopatico, che forse ha un grosso debito (anche) con Alicia. C’è il gallerista di Alicia, cui la pittrice aveva comunicato di voler cambiare scuderia artistica, cos poi bloccata dalle vicende giudiziarie di Alicia.

Insomma, tutta una serie di indizi che però non ingannano l’astuto lettore, che aspetta il (finto) colpo di scena finale, rimpiangendo che Alex non abbia deciso di sopprimere le ultime sessanta pagine. Ne avrebbe guadagnato il suspense e la trama stessa.

Un accenno finale alle simbologie, per i pochi che non conoscono Euripide. “Alcesti” è un drammone poco noto, e poco rappresentato nella modernità teatrale. Nella sostanza è la storia di Admeto che, per motivi che non ci interessano, viene condannato a morte. Si potrà salvare se troverà qualcuno che muore al suo posto. Dopo tante vane richieste, sarà Alcesti, sua moglie, che accetta il sacrificio. Ercole, saputo della vicenda, si precipita nell’Ade e riporta Alcesti nel regno dei viventi. Con Alcesti che decide tuttavia di non parlare più. Tutto chiaro, no?

Forse no, perché nel dramma, Ercole dice che Alcesti si deve purificare dopo essere stata tra i morti, e dopo i tre giorni di purificazione, ricomincerà a parlare. Certo, non sappiamo a dire cosa. Vediamo solo, nelle descrizioni di Euripide, che la donna guarda il marito, domandandosi muta fino a che punto Admeto la ami realmente, visto che ha permesso che la morte si pigli la donna che lui dovrebbe amare.

L’autore cerca di pescare nel torbido anche utilizzando la tragedia come cartina di tornasole delle vicende del libro. Ma Euripide, Agatha Christie, Freud o Sartre non riescono a salvare il libro dal naufragio finale. Rimandato ad ottobre.

“Ci vuole coraggio per essere onesti … e tanto tempo.” (63)

Continuando nella mia opera di contrappassi, da una cinquina di noir, vi fornisco alcune citazioni del grande Jorge Amado tratte da “Il paese del carnevale”. Citazioni, invero, molto personali e personalizzabili.

“È finito il tempo dei paradossi… Infatti. Ed è arrivato quello delle citazioni” (66)

“-Non ti fidi di me? –No, è di me stesso che non mi fido” (20)

“Aveva tutto per riuscire. Era buono ed era sciocco” (74)

“-Avevo pensato che la filosofia … risolvesse i nostri problemi. Mi sono sbagliato. Una nuova delusione. –L’esperienza è fatta di delusioni. –Allora possiedo una grande esperienza.” (101)

Quest’anno sembra tutto destinato a creare barriere verso una gestione serena delle proprie giornate. Ed il caldo di questo agosto bisestile serve solo ad aumentare i problemi di siccità e di disagio. Ma l’ottimismo che ancora (per poco forse) ci contraddistingue permette di sperare in momenti altri, per cui vi mando un augurale abbraccio bagnato.

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