Alan Bradley “Il Natale di Flavia de Luce”
Repubblica Brivido Noir 30 euro 8,90
[A: 25/12/2020– I: 31/01/2024 – T: 02/02/2024] - && e ½
[tit. or.: I am half-sick of shadows; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 2011]
Avendone già letto alcuni anni fa un
episodio (il terzo di questa scrittura seriale che ad ora conta dieci titoli),
non mi sono sorpreso né irritato. Certo è una lettura a tratti “juvenilia”, non
sempre ben inserita nei “gialli maggiori”, ma ha alcune particolarità
divertenti, un andamento godibile, ed un punto d’onore: in Italia viene
generalmente pubblicata da Sellerio, che è una garanzia di serietà editoriale.
Andiamo comunque con ordine. Intanto,
l’autore è canadese, che potrebbe essere un elemento significativo per le
descrizioni degli aristocratici inglesi un po’ da burletta, con i soliti rocchi
eccentrici (magioni non gestibili per la loro grandezza, thè a tutte le ore,
domestici furbetti e padroni di casa poco attenti). Qualcosa c’è, tuttavia Alan
e la moglie, dopo la scrittura del primo libro della serie, girovagano per le
colonie inglesi, fino a stabilirsi, dove ancora sono, in quel di Malta.
La seconda cosa da sottolineare è
che, in generale, una delle cose migliori (o più interessanti) di questa serie
sono i titoli, come avevo sottolineato in altre trame. Qui, in effetti, si fa
riferimento un verso di una poesia di Alfred Tennyson, “La signora di Shalott”,
che recita “Sono stanca delle ombre”! Un verso che, ricordiamo, fa
riferimento alla poesia del grande poeta inglese che riprende un tema del ciclo
di Re Artù, proveniente da un breve racconto arturiano contenuto nella raccolta
di novelle toscane “Il Novellino o Le Cento novelle antiche”. Questa è la
numero LXXXII e parla di una donna che si innamora non riamata di Lancillotto e
per questo si lascia morire.
Seppur vero è che le vicende si svolgono
nell’approssimarsi del Natale, ed il clou lo avremo proprio nel giorno e nella
notte della Santa Vigilia, non capisco la necessità di modificare il messaggio
dell’autore, che di ombre, nel corso del testo, se ne scoprono tante.
Per i tanti che non conoscono la
serie, ricapitolo che la vicenda si svolge introno al 1950 in Inghilterra,
nella fittizia cittadina di Bishop’s Lacey, dove, nella tenuta di Buckshaw,
vive la famiglia De Luce. Composta dal padre Haviland, e da tre sorelle, Daphne
(detta Daffy), Ophelia (detta Feely) e Flavia, la protagonista, nonché
narratrice in prima persona degli eventi. Presenza non costante ma
significativa, la zia Felicity, stramba ma sempre ben informata. Manca la
madre, Harriet, scomparsa tragicamente dieci anni prima in Tibet.
Flavia ha undici anni, una curiosità
attenta su quanto la circonda, ma soprattutto una passione sfrenata per la
chimica, ed i suoi esperimenti. Basandosi sui libri che le lasciò il defunto
zio Tar (ed in particolare sugli appunti sparsi dell’anziano misantropo) e su
un piccolo laboratorio ben attrezzato (e non da piccolo chimico infantile, ma
ricolmo di provette, becchi Bunsen, e sostanze varie da innocue a velenose).
La vita scorre (quasi) placidamente
nella tenuta, con Daffy china sui libri, Feely alle prese con uno stuolo di
spasimanti, la domestica Muffet, autrice di manicaretti improbabili, e Dogger,
un tuttofare, sodale di papà De Luce, ma che forse è anche altro (qui ne avremo
indizi, che forse saranno palesi in altri libri della serie). Ma soprattutto
con Flavia che, in vista della visita di Babbo Natale, si appresta a ungere di
una sostanza collosa il comignolo della tenuta, al fine di scoprire finalmente
l’esistenza o meno del vecchio dalla barba bianca.
La quiete della tenuta viene
sconvolta dall’arrivo di una troupe cinematografica, cui è stata affittata
parte della magione al fine di girare un film in costume. Affitto necessario
per far fronte alle copiose spese di gestione della tenuta. Arriva così la diva
Phyllis Wyvern, il primattore Desmond Duncan, il regista Van Lampman e l’aiuto
di tutto Marion Trodd.
Per non farsi mancare nulla, il
vicario locale convince Phyllis ad inscenare una piccola rappresentazione di
beneficenza, cui viene ad assistere quasi tutto il villaggio. Peccato che una
copiosa nevicata blocchi tutti a Buckshaw. Non ci stupiamo quindi che in questo
contesto avvenga un omicidio. Sono tutti presenti: la famiglia De Luce, i
domestici, la troupe e metà villaggio. Cosa chiedere di meglio?
Flavia allora comincia le sue
indagini, parallele e convergenti con quelle dei poliziotti locali. Scopre
indizi, collegamenti, vincoli familiari insospettati. Utilizzando tutte le
risorse possibili del luogo: riviste cinematografiche, testi shakespeariani,
tomi del “Who’s who” (il Wikipedia dell’epoca). Nonché le rimembranze della zia
Felicity. Così da scoprire per prima cosa ha fatto e chi lo ha fatto, finendo
inoltre in una scorribanda sui tetti, dove viene giustamente salvata proprio
dalla colla del camino.
L’intrigo scorre piacevole,
intervallato dalle intemperie della nostra, e da vari avvenimenti collaterali,
poco inerenti la trama principale, ma d’atmosfera. Una lettura gradevole, che
non mancherà di future rivisitazioni.
Un ultimo accenno di
cross-letteratura. A pagina 260 viene citato il discorso, tenuto nel 1890 da Friedrich
August Kekulé von Stradonitz che narrava come alcune sue scoperta da chimico
(ovvio sia un chimico, data la mania di Flavia) siano avvenuto a seguito di
sogni. Qui si narra come la struttura dei legami molecolari gli sia venuta
sognando un suo viaggio su di un omnibus trainato da cavalli molto vivaci.
Pochi libri fa, ne “Il passeggero”, McCarthy parla del sogno del serpente che
si mangia la coda, che aveva permesso a Kekulé di ipotizzare la struttura del
benzene. Coincidenze letterarie…
Jessica Fellowes “Morte di un giovane di
belle speranze” Repubblica Brivido Noir 20 euro 8,90
[A: 20/10/2020– I: 15/05/2024 – T: 19/05/2024] - && e ½
[tit. or.: Bright Young Dead; ling. or.: inglese; pagine: 410; anno 2018]
Affrontiamo qui il secondo libro di
un progetto in sei volumi ideato dalla scrittrice Jessica Fellowes, ruotante
intorno alle sei sorelle Mitford. Come si può immaginare, quindi, un libro per
ciascuna sorella. Jessica ha una buona conoscenza dell’ambiente generale, in
quanto nipote ed assistente di Julian Fellowes, il creatore della serie TV
“Downtown Abbey”.
Nella scrittura originale, poi, ogni
capitolo si riferiva esplicitamente ai Mitford. Così il primo, di cui ho
scritto un paio di anni fa, si intitolava “The Mitford Murders”, anche se in
italiano il titolo fu stravolto. Qui, il titolo originale era “The Mitford
Affairs”, anche se recava nel titolo stesso anche quello sopra indicato “Bright
Young Dead”, visto che i personaggi potevano essere facilmente ricondotti ai
“Bright Young People” (traducibili come “Giovani Brillanti”), un insieme di
giovani aristocratici ed intellettuali che imperversavano nella Londra degli
Anni Venti. Giovani come Cecile Beaton, il fotografo, Robert Byron, il grande
viaggiatore, Evelyn Waugh, lo scrittore ed ovviamente le sorelle Mitford.
Per queste prime due uscite, le
principali protagoniste, dal lato Mitford, sono appunto le prime due sorelle,
come epigrafate dal Times, Nancy la romanziera e Pamela la contadina. Immagino
quindi che poi seguiranno Diana la fascista, Jessica la comunista, Unity
l’amante di Hitler e Debora la duchessa. Anche se Nancy ha sempre un suo ruolo
di primo piano, e Pamela c’entra come vedremo ma solo per l’ambientazione del
delitto.
Come poi già si diceva nel primo
romanzo, i veri “investigatori” sono Louisa, la cameriera di casa Mitford, e
Guy Sullivan, in questo romanzo poliziotto entrato in organico. Con un aiuto,
marginale ma prospettivamente significativo, di una delle prime donne
poliziotto, Molly Moon.
Sono passati cinque anni dal primo
romanzo, e quindi abbiamo Nancy che ormai ha ventun anni e Pamela si avvia ai
diciotto. Anzi è proprio questo il via alla narrazione. Pamela deve organizzare
la festa per il suo compleanno, motivo per cui Nancy la porta a Londra per
fargli conoscere i giovani brillanti.
La scrittura di Jessica passa quindi
dalla descrizione della vita di campagna al sorgere dei “Roaring Twenty” in
Inghilterra. E nelle feste londinesi, conosciamo il brillante Sebastian Atlas,
Clara Fisher, detta “l’Americana”, e
la sua amica Phoebe Moreton, la giovane Charlotte Curtis, sempre un po’
spaesata, e suo fratello Adrian, lo scapolo d’oro cui bisogna trovare un buon
partito, Oliver Watney, afflitto da una tosse d’origine tubercolotica, nonché lo
sfuggente lord Ted De Clifford. Un esegeta sopraffino, che non sono io,
vedrebbe io collegamenti con i “bright”, ma noi ne siamo esentati.
Alla fine del giro di feste, sarà
Adrian a lanciare l’idea di festeggiare Pamela con una festa collegata ad una
caccia al tesoro, uno sport molto in voga all’epoca.
La trasferta londinese vedeva
presente anche Louisa che nell’occasione conosce Dulcie, la cameriera di
Charlotte, che la introduce nel mondo “roaring” dell’altra parte della
capitale, quello più legato al mezzo mondo, quando non ad imprese truffaldine,
impersonato dalla carismatica Alice Diamond. Un personaggio reale, legato al
territorio poco raccomandabile di “Elephant and Castle”, zona piena di pub e di
gente ai limiti della legge. Tanto che Alice capeggia una banda di truffaldine
che vengono soprannominate “le Quaranta ladrone”. Questa è un’altra incursione
nella non-fiction, visto che Alice è stato un personaggio reale.
È abbastanza ovvio che, durante la
festa di Pamela, ci scappi il morto, nella fattispecie per l’appunto Adrian.
Con gli ovvi sospetti che si appuntano su Dulcie che non solo era
fraudolentemente presente nei pressi del delitto, ma che era anche incinta del
suddetto Adrian.
Sarà così che Louisa si attiva per
scagionare l’amica Dulcie (“tanto sono sempre i servi che ci vanno di mezzo”),
aiutata da Guy e da Molly Moon, che parallelamente stavano indagando sulle
malefatte di Alice. Dopo un po’ troppe pagine, condite con i classici del
giallo di un tempo (caccia al tesoro con morto, sedute spiritiche e via
narrando) si arriva ad un finale “alla Agatha Christie”, con tutti i possibili
colpevoli radunati nella residenza dei Mitford, ed uno stratagemma legato al
funzionamento (o alla manomissione) di orologi a pendolo.
Tuttavia, non è il giallo la parte
migliore del testo, ma la ricostruzione di una società in un momento di
passaggio. Finisce l’era vittoriana, ma non si è ancora entrati nell’era
moderna. Anche se molto ne vediamo più dal lato dei giovani in evoluzione che
della società borghese. Giovani anticonformisti, che ascoltano jazz, che si
ubriacano e fanno uso di droghe, quasi a certificare un malessere che non ha
ancora uno sbocco. Altrettanto importante, per la comprensione del momento
storico è il ruolo delle donne. Sia nel mondo dei giovani, sia in quello degli
onesti lavoratori, dove però ancora devono lottare. Come fa la neo-poliziotta
Molly, come fa, da cameriera, Louisa, come fa, da ladra, anche Alicia.
Per finire, come ricordiamo
l’evolversi di Nancy descritto nella precedente trama (con i suoi libri di cui
ho parlato), qui possiamo sottolineare che Pamela sarà sempre un po’ defilata.
Dopo un matrimoni poco voluto, dagli anni ’50, dopo il divorzio, si ritirerà in
campagna, con una cavallerizza, Giuditta Tommasi, con cui vivrà fino alla morte
nel ’94 a quasi 90 anni.
Jean Failler “Le ombre del collegio”
Repubblica Brivido Noir 37 euro 8,90
[A: 14/02/2021 – I: 01/06/2024 – T: 03/06/2024] - &&& ---
[tit. or.: Ça
ira mieux demain; ling. or.: francese; pagine: 284; anno 2005]
Questo,
facendo quindi un salto enorme, è il capitolo venticinque, e l’azione si svolge
intorno a Cap Sizun, un promontorio nella regione di Finisterra in Bretagna.
Cosa che viene riconosciuta, nel corso del romanzo, da alcuni spostamenti
territoriali dell’azione, anche se il promontorio in sé non ha un suo ruolo
specifico. Anche perché la polizia cui afferisce Mary è di base a Quimper, la
capitale della Cornovaglia francese.
L’altro
dato importante per comprendere meglio anche l’andamento non proprio incalzante
del testo, è che pochi libri prima (il 22° per l’esattezza) Failler viene
accusato di aver plagiato un personaggio reale nel suo libro. Motivo per cui
dal 23° al 28° lo scrittore decide di far uscire i romanzi con lo pseudonimo
dell’eroina della serie, firmandoli Mary Lester. Così, anche se ora ha ripreso
la firma usuale, è un interessante motivo culturale legge un romanzo scritto in
prima persona da chi ne firma la copertina (un gioco metaletterario che come
saprete non mi lascia indifferente).
Tuttavia,
seppur gradevole come romanzo in sé, non è propriamente un giallo, tanto che
non ci sono morti ed indagini particolari. Cioè, c’è un’indagine, ma tutta
basata su intrecci, discorsi, ammissioni e deduzioni, con l’azione ridotta
praticamente a zero. Però con al centro la vera protagonista di questo (e di
quasi tutti i romanzi di Failler): la Bretagna. Ci sono le componenti marine,
un porto, le barche che tornano dalla pesca, le scogliere, e gli abitanti duri
e complessi di questa terra aspra (che se non l’avete visitata vi consiglio di
rimediare).
Certo,
alcune componenti del poliziesco classico, di impianto deduttivo, ci sono: il
nostro capitano Mary Lester, sempre pronto a disobbedire se gli ordini le
sembrano fuori luogo, il suo aiuto, il tenente Fortin, sempre in sintonia con
il capo, il neoassunto genio informatico totalmente imbranato, il questore
arrivista e senza idee operative valide.
E
poi, le donne. Oltre a Mary, ovviamente. C’è Anastasie Tristani, venuta dal
nulla, ma con un carattere ferreo e determinato, tanto che nella zona viene
soprannominata “la Grande”. Prima operaia nella grande industria del vecchio
Tristani, poi sua segretaria (e forse qualcosa in più), ed infine convinta dal
vecchio a sposare il figlio Firmin, omosessuale dichiarato. Dalla coppia nasce
Mathilde (ma sarà veramente figlia genetica di Firmin?). Una ragazza poco adusa
a sottostare alle direttive materne che vorrebbe meglio dedicarsi alla pittura
ed alle Belle Arti, come il padre. E c’è la tata di Mathilde, ormai anziana
(bel personaggio di governante) con la figlia infermiera ed empatica con tutte
le situazioni irregolari.
Nel
frattempo, costretta in un collegio di suore (quello del titolo italiano). Da
cui scappa, forse aiutata dal suo amore, il giovane Vincent, cantante di rock
ma anche contabile di capacità. È proprio questa fuga che dà il via al romanzo,
laddove si chiede a Mary di ritrovarla senza far troppo polverone. Ma Mary
dovrà per forza sollevare i tappeti del perbenismo, perché la fuga di Mathilde
è volontaria, anche per sottrarsi sia alla madre tiranna sia al padre gay
omologato.
Con
il ragionamento e l’astuzia, Mary riuscirà ad unire i puntini del rompicapo,
riuscendo a trovare il posto giusto per ogni pezzo. Con alcune frecciate sul
perbenismo di facciata delle classi sociali che sono tutte da sottoscrivere.
Dimenticavo,
tra le donne “forti” c’è anche Suor Marie-Madaleine de la Contrizione, ora
superiora del collegio di Mathilde ma a suo tempo anche suor tiranna nel
collegio frequentato in gioventù da Mary. E gli scontri verbali tra la suora ed
il poliziotto sono tra le cose migliori, a livello di dialogo.
Ne
cito solo uno scampolo, quando, essendo il cognome della suora Lacaune, Mary la
colpisce nell’orgoglio, suggerendo di sostituire il dittongo con una o. Avete
studiato il francese? No, allora vi dico che con la sostituzione il cognome
diventa Lacone (che in argot assona a … la stronza).
Vorrei
solo citare che in Italia, per molto tempo, i romanzi di Failler sono stati
pubblicati dalla meritevole casa editrice romana “Round Robin”, che a cavallo
del secolo presentava una serie di autori, italiani e stranieri, con romanzi
legati al territorio. Oltre a quelli di Failler, non posso non ricordare le
avventure romane del commissario Maré scritte dall’ottimo Mario Quartucci.
Per
finire, il titolo italiano è assolutamente “anodino”, anche perché l’originale
dice “Andrà meglio domani”. Una prosecuzione di una citazione-calembour interna
al romanzo. Laddove, la ragazza viene ritrovata nella cittadina di Esquibien,
ed il tenente Fortin esclama “à Esquibien tout va bien” e Mary guardandolo
prosegue muta “mais ça ira mieux demain”. Che si capisce anche da chi non
conosce il francese.
Abir Mukherjee “Un male necessario”
Repubblica Brivido Noir 27 euro 8,90
[A: 08/12/2020– I: 09/06/2024 – T:
11/06/2024] - &&&
[tit. or.: A Necessary Evil; ling. or.:
inglese; pagine: 398; anno 2017]
Qui,
Abir ce lo riconferma dandoci una panoramica dell’India quattordici mesi dopo
il primo episodio (che ricordo era incentrato sulle vicende e sulle
ripercussioni in seguito al massacro dei sikh avvenuto ad Amritsar il 13 aprile
1919). La vicenda, infatti, si svolge nella settimana dal 18 al 24 giugno 1920,
con una serie di avvenimenti sia legati alle date in sé sia, e questo è un
merito dell’autore, perché rievocano magari eventi limitrofi, ma che servono ad
esemplificare cosa fosse l’India prima e durante l’occupazione inglese.
Intanto,
l’ottima ambientazione. Sia nella parte iniziale, pur breve, in quel di
Calcutta (uso i termini dell’epoca e non quelli attuali), in particolare le
brevi ma indovinatissime descrizioni di Howrah, la stazione ferroviaria di
Calcutta (come riporto in basso). Sia, nelle lunghe sequenze che si svolgono in
Orissa, uno stato che ho visitato anni fa, ma che a circa cento anni non è che
si sia discostato molto da quello descritto da Abir.
In
particolare, la vicenda si svolge durante una delle feste tipiche dello Stato,
quella dedicata a Jagannath, uno delle incarnazioni di Krishna, anche se,
secondo i miei calcoli, l’autore sposta la festa leggermente in avanti. Il sito
indù ufficiale la colloca al 18 giugno, mentre Abir in quel giorno fa iniziare
la storia, spostando la festa di due settimane in avanti. Comunque, l’autore,
nelle more del racconto, ci narra correttamente le vicende del dio Jagannath,
“signore del mondo”, come recita il suo nome in sanscrito. Nella complessa
cosmologia indiana, i vari dei hanno, a seconda dei momenti e delle attività,
incarnazioni e nomi differenti. Così Krishna, il supremo, quando vuole essere
benigno si trasforma in Jagannath. Il problema è che, apparentemente, il dio sembrerebbe
cattivo, essendo rappresentato da una grande tronco con grandi occhi, ma arti
superiori e inferiori praticamente “talidomitici”.
Questo
è dovuto alla leggenda della sua nascita. Uno dei re dell’antichità chiede
all’architetto celeste di scolpire un legno con le sembianze di un’incarnazione
di Krishna. Costui chiede di poter lavorare indisturbato per 25 giorni, ma dopo
15, il re, curioso come un volpe, entra nell’atelier. L’architetto,
indispettito, lascia il lavoro e la scultura rimane incompiuta nelle estremità.
Una bella favola. Ma per finire con il dio, questi, appunto, è una delle
divinità fondamentali dell’Orissa, adorato principalmente nella città di Puri,
dove si svolge il rito (descritto nel testo) del Ratha Yatra, dove il simulacro
del dio viene portato a giro in città, dove il re, prima di farlo rientrare nel
tempio, pulisce la strada con una scopa dorata, tanto da essere soprannominato
“sweeper king” (re spazzino) ad indicare che, di fronte al dio, il re è uguale
al più umile dei paria indiani.
Ultimo
tema toccato da Abir è quello del ruolo delle donne nel governo degli Stati
indiani. Avendo deciso di ambientare la vicenda in uno stato dell’Orissa,
inventa un sottotesto che però avrebbe dovuto essere ambientato in un diverso
Stato, e precisamente Bophal. Lì, in effetti, dal 1817 al 1926 sono le donne,
le begum, che governano e saggiamente lo Stato, pur rimanendo spesso confinate
nella “zenana”, l’equivalente indù dell’harem mussulmano.
Meno
solido, invece, è sia il giallo sia la parte privata. Il capitano Wyndham è
bravo, ragiona, ma è debole nei rapporti umani. Il suo aiutante Surendranath
(ricordo che poi viene detto “Surrender-not”) quasi non compare, se non
nell’analisi dei documenti relativi alle miniere, che analizza con competenza,
trovando le magagne che ci si aspetta, ma fa poco altro. Infine, Annie, che Sam
cerca di conquistare fin dal primo libro, appare, ma non viene descritta in
maniera né che attiri simpatie, né che se ne ricordi contributi particolari
alla vicenda.
Una
vicenda che nasce a Calcutta, dove il principe Adhir, erede al trono del regno
di Sambalpore ed amico di “Surrender-not”, viene ucciso di fronte a Sam da un
indù con i segni di Visnù sulla fronte. La polizia di Calcutta, volendo
approfondire la vicenda, invia i nostri a Sambalpore, dove vengono raggiunti da
Annie, anche lei conoscente del principe. Lì si mescolano le vicende religiose
delle feste di Jagannath, con le vicende politiche della dinastia al trono. Il
vecchio Maharajah sta morendo e Adhir dove succedergli, con due problemi
evidenti: l’erede non era in buoni rapporti né con gli inglesi né con i gestori
delle miniere di diamanti, fonte principale delle ricchezze locali. Morto
Adhir, i principali pretendenti al trono sono Punit, fratello del precedente,
più o meno coevo, figlio della seconda moglie del Maharajah, e Alok, bambino di
sette anni, figlio della sua terza moglie che gli inglesi, durante un
pettegolezzo maligno, dicono essere di bassa origine sociale, figlia di uno
spazzino.
Le
vicende reali si intrecciano con le vicende legate alle miniere di diamanti, ed
alla loro vendita cercando di gonfiarne il prezzo, data anche che si stanno
esaurendo. Non a caso, il residente inglese suggeriva da tempo di dedicarsi al
carbone, che sarebbe stato più durature.
Si
alternano vari accadimenti, intervallati da feste regali e cacce alle tigri,
con i vari personaggi che salgono e scendono sui piedistalli dei sospettati.
Nell’ombra restando le donne della zenana, in particolare la prima begum, che,
per una maledizione atavica, come tutte le prime begum del regno, non poteva
avere figli. Ma si sa che le donne ne sanno una più del diavolo.
Sam
si barcamena tra le varie fazioni, pensando di sostenerne prima una poi
l’altra, fino ad arrivare alla soluzione del mistero, quando anche Punit muore,
e lui si trova a descrivere in un lungo colloquio non vi dico con chi, quale è
la verità degli avvenimenti. Ricevendo l’ammonizione che, spesso, verità non
coincide con giustizia. Da qui anche il titolo.
Un
ultimo accenno. Nelle mie numerosi visite indiane, sono riuscito una sola
volta, a Delhi, ad avvicinarmi (non ad entrare) ad un tempio indù. Qui Abir,
forse per motivi di finzione, riesce a far entrare nel tempio sia Sam che
Annie. Forse con qualche forzatura, oppure sono io che vedo troppi retroscena.
A volte la verità è solo una necessità testuale.
Comunque,
ho già comperato e prima o poi leggerò anche il terzo volume.
“Entrare
nella stazione di Howrah era come entrare nella torre di Babele prima che il
Signore si sentisse offeso dalla costruzione … la stazione di Howrah non era
per i deboli di cuore.” (81) [Howrah è il nome della stazione dei treni di
Calcutta e viene descritta magistralmente, come posso confermare dalle diverse
volte che l’ho frequentata]
Alex Michaelides “La paziente silenziosa”
Repubblica Brivido Noir 24 euro 8,90
[A: 15/11/2020– I: 26/07/2024 – T: 29/07/2024] - &&--
[tit. or.: The Silent Patient; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2019]
Purtroppo, mi è sembrato un grande
bluff. Alex Michaelides è un anglo-cipriota meglio noto per la sua attività di
sceneggiatore. Qui è alla sua prima opera letteraria, dove decide di attingere
anche alla sua esperienza triennale di psicoterapeuta per giovani. Seppur
acclamato dal New York Times, e ben accolto dal pubblico, la sua struttura è
deboluccia e risente molto di influenze varie, sia dal punto di vista
psicologico che dal punto di vista del giallo in sé, tributando un omaggio
troppo palese ad alcuni autori classici, in primis Agatha Christie.
Tuttavia, non avendone lo spessore,
la trama risulta mediamente interessante per quasi trecento pagine, per poi
cadere di tono e risolversi in un finale che dire scontato è dargli troppo
valore. Ma lo sforzo, e l’intreccio iniziale meritano una quasi sufficienza,
mitigata al fine con le negatività che ho segnalato.
La storia è principalmente narrata da
Theo, uno psicoterapeuta che decide di lasciare una promettente carriera per
poter lavorare in una clinica psichiatrica dove è rinchiusa Alicia, una
pittrice di successo, accusata di aver ucciso il marito. Sulla scena del
delitto, oltre al marito Gabriel, c’è solo lei con una pistola in mano. Lei che
per il trauma diventa muta. O forse finge?
Una piccola parte del testo è invece
dedicata al diario di Alicia, dove seguiamo in contraltare le vicende che
portano alla morte di Gabriel. Il doppio binario dovrebbe fornire le tracce per
arrivare a sciogliere il mistero, ma, seguendo attentamente il diario (che tra
l’altro sembra tutto fuorché un diario) l’esperto lettore vede arrivare da
lontano il colpo di scena finale, con buona pace di un finale stesso che, alla
lettura, non aggiunge nulla, lasciando svariati punti in sospeso.
Ma facciamo un piccolo passo
indietro. Alicia dipinge ed ha un discreto successo, anche se i suoi quadri,
per chi li vede e per come sono descritti, sembrano carichi di angoscia.
D’altra parte, Alicia nella sua vita ha subito diversi traumi. La madre si è
lanciata a folle velocità con la sua macchina contro un muro, con Alicia dentro
l’auto. Muore la madre ed Alicia ne esce illesa. Il padre non le perdona mai di
essere sopravvissuta, e ad un certo punto, anche lui si uccide. Ce n’è ben
donde per sbroccare ed entrare in analisi.
Unica ancora di salvezza è il marito
Gabriel di cui è intensamente innamorata. Mentre è ancora in analisi, comincia
ad avere strane visioni. Vede un uomo che la guarda di nascosto. Una presenza
che solo lei vede, cosa che rafforza le tendenze psicotiche. Poi c’è la scena
del delitto, di cui ho detto.
Ora sono passati sei anni, in cui
Alicia non ha detto una parola. Theo inizia a lavorare nella clinica, e ci si
domanda in base a quale ragionamento voglia solo lei come paziente. Certo, era
rimasto scioccato dall’ultimo quadro di Alicia, che non vi sto a descrivere ma
che lei intitola “Alcesti”. Theo ha anche una sua vita, una moglie cui pare
particolarmente legato. Così che procedendo veniamo anche inconsapevolmente
attratti dalle due coppie speculari (soprattutto nei flashback che vengono
fatti, con l’unico punto veramente dolente che non sappiamo mai se sono salti
indietro, in avanti o di lato): dove Alicia e Theo vengono da infanzie
problematiche mentre Gabriel e Kathy (la moglie di Theo) sono baciati da
successi professionali.
Comunque, lo psicologo Theo entra
nelle confidenze della paziente Alicia. O al contrario, è Alicia che apre
qualche spiraglio per irretire nel suo mutismo lo psicologo ed il suo
inevitabile transfert? Fatto sta che si accavallano notizie su notizie utili a
confondere il poco attento lettore. C’è uno psicologo, collega di Theo, che
aveva in cura Alicia, ma con qualche problema deontologico che non vi diciamo.
C’è il fratello di Alicia, inspiegabilmente nervoso ogni volta che parla con
Theo. C’è il cugino di Alicia, ludopatico, che forse ha un grosso debito
(anche) con Alicia. C’è il gallerista di Alicia, cui la pittrice aveva
comunicato di voler cambiare scuderia artistica, cos poi bloccata dalle vicende
giudiziarie di Alicia.
Insomma, tutta una serie di indizi
che però non ingannano l’astuto lettore, che aspetta il (finto) colpo di scena
finale, rimpiangendo che Alex non abbia deciso di sopprimere le ultime sessanta
pagine. Ne avrebbe guadagnato il suspense e la trama stessa.
Un accenno finale alle simbologie,
per i pochi che non conoscono Euripide. “Alcesti” è un drammone poco noto, e
poco rappresentato nella modernità teatrale. Nella sostanza è la storia di
Admeto che, per motivi che non ci interessano, viene condannato a morte. Si
potrà salvare se troverà qualcuno che muore al suo posto. Dopo tante vane
richieste, sarà Alcesti, sua moglie, che accetta il sacrificio. Ercole, saputo
della vicenda, si precipita nell’Ade e riporta Alcesti nel regno dei viventi.
Con Alcesti che decide tuttavia di non parlare più. Tutto chiaro, no?
Forse no, perché nel dramma, Ercole
dice che Alcesti si deve purificare dopo essere stata tra i morti, e dopo i tre
giorni di purificazione, ricomincerà a parlare. Certo, non sappiamo a dire
cosa. Vediamo solo, nelle descrizioni di Euripide, che la donna guarda il
marito, domandandosi muta fino a che punto Admeto la ami realmente, visto che
ha permesso che la morte si pigli la donna che lui dovrebbe amare.
L’autore cerca di pescare nel torbido
anche utilizzando la tragedia come cartina di tornasole delle vicende del
libro. Ma Euripide, Agatha Christie, Freud o Sartre non riescono a salvare il
libro dal naufragio finale. Rimandato ad ottobre.
“Ci vuole coraggio per essere onesti
… e tanto tempo.” (63)
Continuando nella mia opera di contrappassi,
da una cinquina di noir, vi fornisco alcune citazioni del grande Jorge Amado tratte da “Il paese del
carnevale”. Citazioni, invero,
molto personali e personalizzabili.
“È
finito il tempo dei paradossi… Infatti. Ed è arrivato quello delle citazioni”
(66)
“-Non
ti fidi di me? –No, è di me stesso che non mi fido” (20)
“Aveva
tutto per riuscire. Era buono ed era sciocco” (74)
“-Avevo
pensato che la filosofia … risolvesse i nostri problemi. Mi sono sbagliato. Una
nuova delusione. –L’esperienza è fatta di delusioni. –Allora possiedo una
grande esperienza.” (101)
Quest’anno sembra tutto destinato a creare barriere verso una gestione serena delle proprie giornate. Ed il caldo di questo agosto bisestile serve solo ad aumentare i problemi di siccità e di disagio. Ma l’ottimismo che ancora (per poco forse) ci contraddistingue permette di sperare in momenti altri, per cui vi mando un augurale abbraccio bagnato.
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