Una settimana ancora noir, ancora di scrittori stranieri, con la particolarità che ci portano in cinque nazioni diverse, quattro lingue e tre continenti Non elevatissimi, laddove l’emozione è solo nel titolo della collana. In testa abbiamo la Svizzera di cui scrive Fazioli in italiano, con a ruota l’Irlanda di Banville. Sempre in inglese, poco lontano, il Botswana di McCall Smith. Terminando in Sudamerica, con una discreta Argentina di Caparrós ed un pessimo Brasile del franco-armeno Manook.
Come leggerete, metto comunque Fazioli tra
gli stranieri perché comunque è del Canton Ticino.
Martín Caparrós
“Tutto
per la patria” Repubblica Brivido Noir 25 euro 8,90
[A: 21/11/2020
– I: 24/02/2024 – T: 26/02/2024] - &&
+
[tit.
or.: Todo por la patria; ling. or.: spagnolo; pagine: 293;
anno 2018]
Un
altro libro poco assimilabile ad un “noir” puro, che per molta parte è più un
romanzo sull’Argentina e sugli argentini, che tuttavia ha quel poco di tinta
poliziesca che, bene o male, me lo fa rimanere negli elenchi del genere.
L’autore
è nato giornalista verso i vent’anni, per poi rifugiarsi in Europa all’avvento
della dittatura militare in Argentina negli anni 70. In Spagna matura scrivendo
per “El Pais”, per poi tornare in patria, lavorare in giornali, riviste e
telecomunicazioni (radio e tv), e cominciando la sua carriera di scrittore. Per
poi decidere comunque di tornare in Argentina, dove vive e scrive tuttora,
avviandosi verso i suoi settanta.
Come
detto, questo libro è un po’ tutto, tra una fotografia in movimento
dell’Argentina degli anni Trenta, un trattato sugli albori del calcio, una
critica alla letteratura modaiola, una panoramica su come (non) si fa
giornalismo, un accenno alle deviazioni delle forze dell’ordine, un richiamo
all’attenzione verso un ultradestra sempre presente, una piccola puntata tra
femminismo e machismo ed un inno, completo “y final” al tango.
Tutto
prende il via in un locale di biliardo dove conosciamo il protagonista, Andrés
Rivarola. Trentenne, divorziato, con figlia che non riesce a vedere mai, senza
un lavoro fisso, è l’emblema di quello che i locali chiamano “atorrante”, un
misto di fannullone e scansafatiche, con l’aggiunta della presupponenza di
saper aggiustare i problemi. Andrés lo vedremo sempre così, per tutto il
romanzo, con delle belle idee che non mette mai in pratica, anzi che spesso
capovolge quando si muove nel mondo, dove è schiacciato da avvenimenti più
grandi di lui.
Andrés,
detto “el Pibe” (ragazzo) ma non “de Oro” alla Diego, lì nel biliardo inizia la
sequela di improbabili avvenimenti molto possibili. Il suo amico “el Gorrion”
(il Passero) è uno spacciatore di piccola taglia che ha un grosso credito
inesigibile con un famoso calciatore che è scappato da Buenos Aires. Andrés decide
di aiutarlo e va alla ricerca di Bernabé Ferreyra (personaggio reale su cui
torneremo), lo trova, ma non riesce nella sua missione, che Bernabé gliene
affida una diversa: capire perché Mercedes de Olavieta non risponde alle sue
chiamate.
Tornato
nella capitale, aggirandosi tra i cafè notabili (anche su questo torneremo), si
fa aiutare dalla bella Raquel Gleizer detta “la Rusa”, una emigrata moldava,
libera, bella, anarco-comunista dai capelli rossi di cui lui è segretamente (e
pateticamente) innamorato. Insieme scoprono che Mercedes è morta, uccisa in
casa, e che al funerale il padre accusa apertamente “immigrati, anarchici e
sindacalisti” di averla uccisa per vendicarsi della sua politica.
Dovendo
a questo punto prendere ancora contatto con il calciatore, si fa circuire dal
manager del River Plate, la squadra di Ferreyra, perché lo aiuti a riportare
“el puntero” (il centravanti) nella squadra campione, magari soffiando notizie
gonfiate ai giornali dell’epoca. Andrés diventa quindi, anche, sodale del
capocronaca del giornale “La Critica”, con cui, da un lato frequenta il capo
della polizia, dall’altro convince a pubblicare le notizie della relazione tra
Mercedes e Bernabé. Il campione ritorna, come tornerà a giocare e segnare, ma
l’inchiesta sulla morte della ragazza non va avanti.
Sarà
soltanto indagando sempre più a fondo e vicino agli ambienti di casa Olavieta,
sentendo le parole accorate della gemella suora, interrogando e sorbendosi i
deliri nazionalisti del padre, nonché visitando i circoli degli immigrati, che
la Rusa e il Pibe ci diranno la realtà della storia. Ma forse non servirà, che
anche qui c’è una grande distanza tra legge e giustizia. Ma questa è la parte
“noir” del libro, utile ma non sufficiente a farne un giallo puro, che tutto il
resto, come accennato, ha la valenza per Caparrós, che usa la scrittura per
denunciare e ricordare.
Così,
entriamo anche noi nell’Argentina (e nel mondo) degli anni Trenta, con fascisti
e nazisti che salgono al potere (l’azione si svolge proprio nel ’33), ed anche
lì, senza che io possa fare la storia locale, ci sono alti e bassi, colpi di
stato e colpi di mano. Ultradestra nazionalista (come quella guidata dal
fittizio señor de Olavieta) e giornali vari che si barcamenano. Non a caso, el
Pibe si rivolge ad un giornale di tendenze miste, come allora era “La Critica”,
fondato dal conservatore Natalio Félix Botana ma con la presenza di sua moglie,
anarchica e femminista, Salvadora Medina Onrubia. Tutto per denunciare il clima
pesante in cui el Pibe e la Rusa si muovono.
Ma
poi abbiamo altri spunti, di cui ne ricordo tre che mi hanno incuriosito e
divertito.
C’è
la presenza di personaggi letterari reali che si aggirano tra le pagine, come
il trentacinquenne Borges che gira per la Recoleta con il suo amico Bioy
Casares, che si aggira per i cafè bairensi insieme a sue presunte amanti, che
ricorda il suo sodalizio con Victoria Ocampo. Questo perché la Rusa, ma anche
la morta, avevano velleità letterarie, ed in quel tempo i letterati si davano a
grandi discussioni nei caffè, divisi tra gli europeisti del Florida (Ocampo,
Marechal, e ovviamente Borges e Bioy Casares) contro i social-realisti di
Boedo, capeggiati da Roberto Arlt.
Così
parliamo anche dei cafè storici della città, che molta parte delle avventure
pubbliche avvengono proprio nei cafè. In quelli che ben ricordo, e che ho
visitato: La Martona, Los 36 Billares (dove el Pibe gioca a biliardo), Las
Cuartetas, il Richmond (la miglior pasticceria locale), il Suárez, il Tortoni
(che ha il tavolo dove sedeva Borges). Insomma, l’autore usa il romanzo anche
per parlarci della sua terra. E della passione che nasceva allora per diventare
il fenomeno di massa che tutti ormai ben conosciamo.
Infatti,
Bernabé Ferreyra fu un giocatore ritenuto uno dei più forti al mondo, un
centravanti che giocò quasi 200 partite in dieci anni di carriera segnando più
di 200 goal (uno dei pochi al mondo con un rapporto superiore ad 1). A parte la
fiction in cui è coinvolto, Caparrós ce lo vuole ricordare perché, alla fine,
era un emarginato dal potere. Dotato di un tiro dalla forza tremenda (ruppe i
due polsi ad un portiere tirando il rigore, un'altra volta tirò così forte che
il portiere svenne, lui ripresa la palla e segnò), ma che, appunto, venendo
“dalla campagna”, giocò solo quattro partite in Nazionale, anche se partecipò
alla vittoria dell’Argentina nella Coppa America del ’37 (giocando solo la
finale).
Infine,
lo scrittore non può esimersi dal parlare del rapporto uomo – donna, che el
Pibe e la Rusa esemplificano alla grande. Lei, libera e motivata, lui con
qualche afflato di sentimenti, ma rinchiuso in un quasi machismo molto
pronunciato all’epoca, ma mai scomparso. Chissà se in qualche futuro libro si
rincontreranno e riusciranno a capirsi.
Intanto,
ed è l’ultima freccia che scaglia l’autore, sono anche gli anni della nascita
del tango come fenomeno popolare, con l’ascesa del grande Carlos Gardel. E dove
il nostro “atorrante” Andres pensa di risolvere la sua vita scrivendo parole
per la musica. Ed entrando in rottura con Borges che, fin d’allora, rimpiangeva
i tanghi di una volta.
Insomma,
ci sono tante letture da fare, oltre alla trama gialla. Interessanti,
stimolanti, ma che l’autore non porta a compimento, svolazzando con maestria ma
senza affondare. Una scelta, che alla fine, per me, paga poco.
“Non
sa quanto mi manca la mia giovinezza … quando mi prendevo tutte le malattie che
c’erano in giro. … Un uomo si rende conto di essere vecchio quando starnutisce
e ha paura. Non sarà il cancro? Non sarà il cuore? Non si spezzerà tutto
dentro? Non sa quanto mi manca il tempo in cui una malattia era soltanto una
malattia, non il messaggero della parca.” (223)
Alexander McCall Smith “L’accademia dei
detective” Repubblica Emozione Noir 23 euro 7,90
[A: 18/11/2019 – I: 16/03/2024 – T: 19/03/2024] - &&
[tit. or.: The Limpopo Academy of Private
Detection; ling. or.: inglese; pagine: 282; anno 2012]
Molti, non tutti, dei suoi testi sono
usciti in Italia, dove le traduzioni riproducono fedelmente questo “andamento
lento”, motivo per cui l’autore stesso non suscita clamori e tirature da
best-seller. Tuttavia, penso sia meritevole l’operato dell’editore Guanda che
da anni, direttamente o tramite le sue sottomarche, continua la pubblicazione
di questi testi.
Tralasciando
le altre due, questo è il tredicesimo episodio della serie maggiore (arrivata
ora al numero ventiquattro), quella dedicata alle avventure dell’Agenzia
Investigativa di Precious Ramotswe, ed ambientata nel mondo vicino alla terra
natale dell’autore. Alexander è nato infatti nell’ex-Rhodesia (da cui si
allontanò contestandone il razzismo e tornando nella Scozia dei suoi avi) e qui
le azioni si svolgono nel vicino Botswana. Terra dell’etnia Tswana e luogo di
grandi deserti (ricordo il mio splendido giro nel Kalahari) eccetto la capitale
Gaborone, dove si svolge la vicenda.
Per
chi non conoscesse la storia, le vicende nascono dalla decisione di Precious di
fondare un Agenzia Investigativa tutto femminile, tra l’altro unica nel paese.
Nel corso delle puntate lei si è sposata con un valente meccanico, JLB
Matekoni, ed ha associato all’agenzia la signorina Grace Makutsi. La quale,
qualche puntata fa, è convolata a nozze con il possidente (di un mobilificio)
Phuti Radiputhi. Altri personaggi fissi sono la signora Silvia Potokwane,
gestore di un rifugio per orfani e molto attiva sul territorio, ed i due
assistenti di JLB, il disinvolto Charlie ed il timido Fanwell.
La
storia, in sé molto semplice e quasi banale, coinvolge due filoni e mezzo.
Quest’ultimo deriva dalla presenza, improvvisa ed inaspettata, di un bianco,
l’americano Clovis Anderson, autore del libro “I principi dell’investigazione”.
Libro considerato una Bibbia da Precious, ma che Clovis confessa di aver
autoprodotto. La sua presenza, comunque, serve ad indirizzare le indagini dei
due filoni verso binari che ne porteranno a felice conclusione.
Il
filone più debole coinvolge Fanwell, che per amicizia aiuta un suo amico a
riparare un’auto, che risulta rubata. Arrestato per ricettazione, assistito da
un avvocato assolutamente incapace (gustose le scene in tribunale), verrà
assolto tramite uno stratagemma del suo amico Charlie.
L’altro
filone tocca da vicino la signora Potokwane, che, opponendosi alle ingerenze,
dettate da aspetti finanziari poco chiari, del ricco signor Ditso Ditso, viene
da lui licenziata. La scoperta di Precious di un’amante del riccone, e di
Clovis degli affari disonesti del riccone, consentono ai nostri di ribaltare la
situazione, portando tutto a felice conclusione.
Come
sottotesto, c’è poi l’ormai signora Makutsi, che un po’ fa l’imbranata, ma che
butta là l’idea del titolo, quella di fondare una scuola per detective, sotto
l’egida, pur distante, di Clovis. Dico sottotesto, che quest’idea, sbocciata
nelle ultime pagine, diviene invece il titolo del libro, pur con le dovute
differenze di messaggio tra l’italiano, dove si parla genericamente di “Agenzia
per detective”, e l’originale “L’Accademia Limpopo di Investigazione Privata”.
Che vedrà la luce solo nelle puntate seguenti, quasi a creare un lancio di
curiosità per le successive letture.
Dicevo,
la storia è semplice e lineare, ma quello che interessa ad Alexander è
sviluppare poche ma chiare idee sul mondo africano. Con poche e chiare frasi
riesce ad illustrare la diversa presenza femminile, divisa tra occupazioni
tradizionali e no. A presentare un quadro preciso dello stile di vita rurale in
Africa meridionale, contrapposto ad un’urbanizzazione forzata. Sono altrettanto
toccati altri temi non solo localmente forti: la rete di relazioni sociali che
sostengono la vita locale, il contrapporsi tra credenze tradizionali e
cristianesimo. Nonché, ed è una costante in tutti i suoi libri, l’anelito alla
saggezza, ed il comportamento di persone che lo sono.
Qui,
inoltre, si affronta la corruzione, a diversi livelli, e la buona fede mal
riposta.
Un
ultimo accenno mi piace dedicarlo ancora a Precious, persona dall’intelligenza
vivace, con atteggiamenti a volte protofemministi. Soprattutto quando,
apostrofata sull’essere leggermente sovrappeso, ribatte che, al contrario, lei
ha una “corporatura tradizionale”.
Di
certo, se e quando sarà, non mi tiro indietro in altre sue letture, anche se,
personalmente, sono più attratto dalle storie di McCall Smith ambientate in
Scozia.
Andrea
Fazioli “Gli Svizzeri muoiono felici” Repubblica Emozione Noir 26 euro 7,90
[A: 05/12/2019
– I: 31/05/2024 – T: 01/06/2024] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 286; anno: 2018]
Non
scrive molto, Andrea Fazioli, ma spesso compare nella mia libreria. Anche se
sono passati più di tre anni dall’ultimo romanzo letto. Romanzi che sempre
ruotano intorno al suo personaggio storico seriale, l’investigatore Elia
Contini.
Ed
in queste periodiche visite, ritroviamo, di fondo, una scrittura simile a sé
stessa ed un personaggio che, pur non evolvendosi, mantiene dei tratti
caratteristici interessanti. Solitario, amante della natura, spesso fuori nei
boschi di notte a fotografare le volpi, con un rapporto stabile/instabile con
la simpatica Francesca. Direi un tipico rapporto LAT (Living Apart Together,
per chi volesse approfondire).
Inoltre,
i suoi romanzi hanno per me proprio un sapore “svizzero”: un po’ dolci al
cioccolato, un po’ rarefatti da quell’aria di montagna che, seppur non mi
dispiace, a volte non mi convince fino in fondo. Anche se qui, Fazioli dà una
forte spallata alle mie convinzioni, facendomi riflettere su di un’analogia che
anche a me frullava nella testa, e che quindi diventa più pressante.
Infatti,
la parte più interessante, al di là della trama su cui tornerò, è una citazione
di Ibrahim al Koni, uno dei maggiori scrittori di lingua araba contemporaneo,
nato in Libia (tra l’altro a Ghadames, meta di uno dei più felici viaggi
organizzati con Rosa ed Emilio vent’anni fa) e da tantissimi anni residente in
Svizzera. Ebbene, Ibrahim paragona la Svizzera al Sahara. E se ci riflettete (e
se ne avete vissuto), il silenzio è uno delle costanti dei due posti. Nonché la
necessità di guardare, di potersi fermare ed abbracciare il mondo circostante
in uno sguardo. Una riflessione che viene ad un certo punto ripresa nel
romanzo, come vedremo.
Romanzo
che inizia scoprendo le carte: Carlo tradisce l’amico Eugenio imbastendo una
piccola tresca con la di lui moglie Sara. In uno strampalato tentativo di falsa
onestà, i due si affrontano ed Eugenio muore, con Carlo che riesce a farne
sparire tracce e corpo.
Venti
anni dopo, morta Sara, i due figli di Eugenio si rivolgono al nostro Elia
affinché cerchi di capire la vera fine di Eugenio: sembra ci siano segnali che
sia vivo, ma sono segnali di dubbia interpretazione. Fin dall’inizio poi
Fazioli mescola le carte, inventandosi un collegamento con gli altri libri che
sembra uscire dal cilindro di un mago. Infatti, confessa che Giona, l’eremita
amico di molte storie precedenti, è un fratello dello scomparso. Anzi, è
proprio Giona che, ricevuta una lettera apparentemente di Eugenio stesso, a
tanti anni dalla scomparsa, convince i figli ad aprire le indagini. E ad
affidarle a Contini, di cui Giona per l’appunto si fida.
Contini
studia il caso, parla con i protagonisti, cerca di trovare agganci (oltre a
risolvere piccoli casi marginali che servono a due scopi: mostrare il modo di
agire continiano e riempire qualche pagina in più), ma brancola sempre più nel
limbo dell’incertezza.
Due
fatti vengono a scuotere l’immobilità della trama: Carlo muore in un incidente
dove un’auto tampona la sua bicicletta (incidente o omicidio stradale?) e
compare dal deserto africano il buon Moussa, un tuareg del Niger (quindi, per
chi sa le lingue, nigerino e non nigeriano). Perché Eugenio, oltre ad essere un
dottore, era un amante del trekking, della montagna, nonché dell’Africa, tanto
da aver fondato una ong che si occupa dei problemi proprio del Niger.
Anche
Moussa aveva ricevuto una lettera di Eugenio, nonché i soldi per venire in
Europa. Una lettera che contiene un elemento criptico (una strana stringa di
numeri) che solo Contini riesce a risolvere (e che forse solo Fazioli conosce,
essendo legata ad uno strano strumento di indicazioni topografiche, chiamato
Swisstopo).
Da
queste scoperte le cose precipitano, che noi si capisce che a) Eugenio è
veramente morto; b) c’è qualcuno che ha scoperto la vecchia tresca di Carla e
Sara; c) che vuole vendicare Eugenio, e/o la sua memoria; d) che ci agisce, in
ogni caso, conosce la lingua tuareg.
Ed
il racconto, avete queste certezze interpretative, diventa più veloce,
inspiegabilmente se pensiamo alla lentezza svizzera ed a quella di Elia. Ma si
arriva (anche se con troppa facilità) ad una conclusione, laddove a volte
verità e conseguenze della stessa non sempre vanno di pari passo.
Comunque,
le cose migliori vengono da alcune riflessioni. Quella iniziale nello scontro
verbale tra Eugenio e Carlo sul bisogno di verità e sulle sue conseguenze. Ma
soprattutto quelle relative alla figura di Moussa, non un immigrato, ma un
tuareg che cerca di capire le sue sensazioni confrontando le Alpi Svizzere ed
il Sahara, confrontandosi con un diverso modo di vivere, lontano dalla lotta
quotidiana per la sopravvivenza. Anche qui, poi, le cose più interessanti
vengono nei dialoghi tra Moussa e Giona l’eremita, ed alle conseguenti
considerazioni che, pur vivendo in luoghi distanti viviamo comunque sullo
stesso pianeta.
Rimane
solo il dubbio, che Fazioli non esplicita, del motivo per cui gli svizzeri
muoiono felici. Dubbio che non ho risolto, ma su cui cercherò di riflettere
ancora.
Ian
Manook “Mato Grosso” Repubblica Emozione Noir 28 euro 7,90
[A:
21/12/2019 – I: 16/06/2024 – T: 17/06/2024] – ½
[tit.
or.: Mato Grosso; ling. or.: francese; pagine: 301;
anno 2017]
Che delusione! Avevo letto il primo
poliziesco di Ian Manook, ed era quanto meno interessante, per l’ambientazione,
per i personaggi, anche se la trama non era delle più facili da dipanare. In
realtà, il nostro autore ha anche altre frecce al suo arco che me ne avevano
fatto apprezzare simpaticamente le qualità.
Prima di tutto, è di origine armena,
chiamandosi Patrick Manoukian, adottando lo pseudonimo Manook quando comincia a
collaborare ad alcune serie di fumetti (secondo motivo di simpatia). Terzo è
stato (al passato non perché sia morto, ma perché, ora, all’età di
settantacinque anni lo fa di meno) un grande viaggiatore, soprattutto in
gioventù. Tanto che le sue prime uscite sono per l’appunto racconti di viaggio.
Poi, come detto, nel 2013 scrive il primo
giallo, firmandolo Ian Manook, ed iniziando la saga del poliziotto mongolo
Yeruldelgger. Di cui ho scritto in altri tempi. Ma dopo tre volumi in Mongolia,
non se per stanchezza o per voglia di cambiamento, comincia altro, tra cui
questo isolato romanzo, il cui unico pregio è l’ambientazione.
Infatti, pur se inserito in collane “noir”,
di nero ha solo l’umore che assale chi lo legge. Un racconto che per sua
fortuna è ambientato in Brasile. E si vede che Ian lo conosce bene, come
dimostra il suo passato viaggiatore e le descrizioni che ci fornisce.
Così seguiamo bene l’arrivo di Jacques Haret,
scrittore francese che dopo trent’anni di lontananza, torna in Brasile,
dall’atterraggio a Rio all’arrivo nella cittadina di Petropolis. Che non molti
ricordano, ma di sicuro per me legata al suicidio di Stefan Zweig e consorte.
Che anche se poi ritornano in citazione durante tutto il testo, sono solo un
tentativo di nobilitare il romanzo, pur senza mai riuscirci. Un tentativo che
prosegue perché Manook oltre ad aver viaggiato, ha anche molto letto. Così, oltre
a diverse citazioni di Zweig, sentiamo tra le pagine odore di Conrad e di
Hemingway, ma soprattutto del Salgari de “L’uomo di fuoco” e del Malraux di “La
vita reale”. Se non conoscete questi due libri, vi consiglio di cercarli in
rete.
Ma torniamo a Haret. Arrivato a Petropolis,
pensando di dover promuovere il suo ultimo libro, si trova invece invischiato
in una trama torbida. Entriamo così nel pieno del suo metaromanzo. Haret,
fuggito nel ’76 dal Mato Grosso, in patria scrive un libro, “Romanzo
brasiliano”, in cui narra, trasponendolo, il suo periodo brasiliano. Ma il
personaggio di contrappunto nel romanzo, è colui che ha invitato Haret, ed è
nient’altro che l’ex-commissario di polizia Figueiras.
La contorta vicenda, che viaggia tra il ’76
ed il ’06, presenta nel romanzo brasiliano la storia dello scrittore, che,
vagabondando per il mondo (così come Manook) si ritrova in Brasile, nel “Mato
Grosso” (che ricordo in brasiliano si traduce con “giungla fitta”), invischiato
in una torbida vicenda. Ci sono personaggi europei o di origine europea, che
pensano solo ad arricchirsi, sfruttando tutte le magagne locali, come Paul il
francese impegnato in un documentario sulle tristi condizioni dei locali, come
Eric che traffica in diamanti, come la nostalgica Isabelle. Ci sono donne di
grande bellezza, come Angèle o la mulatta Café. Ci sono locali corrotti sia
poliziotti sia avventurieri, che manipolano le storie per il loro piacimento, o
per piacere al regime vigente o che ne sono manipolati.
Così è Figueiras, che muove come un
burattinaio le pedine della storia del ’76, prima mettendo la bella Angèle tra
le braccia del protagonista, poi trovando il modo di far nascere una storia tra
la bella e tal Edoardo, che forse è implicato in attività che la polizia non
gradisce. Le attività del poliziotto fanno sì che il nostro scrittore nel
romanzo brasiliano roso dalla gelosia uccide Edoardo, senza sapere che Angèle è
incinta del tipo. Fatto sta che il poliziotto decide di far scappare il nostro
in Europa, mettendo tutto a tacere.
Fino a quando Jacques decide di scrivere il
romanzo di quei giorni, tirando fuori delle verità che in Europa sono innocue
ma che scatenano mostri e vendette nei territori brasiliani. In tutta una
sequenza di su e giù temporali seguiamo le vicende di tutti i personaggi, senza
però riuscire ad entrare in sintonia con nulla.
Non c’è un personaggio che ci prende il
cuore, non c’è una situazione che emerge come significativa. C’è solo una
sequenza di belle parole, che aspirano ad essere di elevata lettura, ma che non
rendono né leggibile né gradevole il libro.
Rimane un unico personaggio che salva il
mezzo punto iniziale: il Mato Grosso, la sua flora e la sua fauna. Le cose
migliori, le uniche, sono le descrizioni ambientali, i paesaggi allucinanti del
Pantanal allagato, la giungla opprimente che per giorni e giorni impedisce di
vedere il sole. E gli animali: giaguari, pantere, ragni velenosi. Ma
soprattutto due: il giboia e lo jacaré.
Il primo, di cui vediamo gesta digestive ben
descritte, non è altro che il nome locale del boa constrictor, presentato con
il nome con cui era descritto nelle saghe salgariane, e di cui non dico altro
che penso tutti lo conoscano. Il secondo è il caimano che pullula le paludi
americane. Animale che ho apprezzato da vicino nella mia ultima trasferta in
Florida. Ma che soprattutto, è l’omofonia del nome locale con lo pseudonimo
dello scrittore della storia. Che Jacques Haret, letto con la giusta intonazione
francese, non è altro che lo jacaré, il caimano. Un po’ poco per rendere
passabile un libro che consiglio vivamente di non leggere.
“La saudade è il ricordo felice di
quello che è stato.” (295)
John
Banville “Il cerchio si chiude” Repubblica Emozione Noir 33 euro 7,90
[A: 24/01/2020– I: 06/07/2024 – T:
08/07/2024] - && --
[tit. or.: Even the Dead; ling. or.: inglese; pagine: 302; anno 2015]
Intanto, e per una serie complessa di
ragioni, visto che non riuscivo ad entrare nel vivo della scrittura seriale di
Banville, non ne ho seguito le uscite editoriali di Guanda, aspettando che
nelle varie serie noir proposte in edicola ne uscissero episodi. Purtroppo, non
incontrando neanche molto favore di pubblico, anche queste uscite sono “a pezzi
e bocconi”. Così, dopo che sono usciti il primo ed il secondo volume (letti e
tramati), sono saltati il terzo ed il quarto, ho letto e scritto del quinto, ho
saltato il sesto, ed ora, appunto mi trovo al settimo.
Con l’ovvia difficoltà che i
personaggi (e qui l’autore non ci aiuta) rimandano spesso a degli avvenimenti
passati che si sono saltati, così che, rispetto ad altri autori seriali che non
ti fanno perdere il filo, si è costretti ad una fatica supplementare per
riannodare le fila delle storie.
Per quello che sappiamo, e che poi
costituisce il meglio del romanzo, abbiamo il personaggio centrale, Quirke che
sposatosi in giovane età, vede la moglie morire di parto dando alla luce la lor
figlia Phoebe. Non sentendosi in grado di fare il padre single, la fa adottare
dal fratellastro Malachy, al tempo sposato con tal Sarah. Al tempo, inoltre,
Mal ed il loro padre erano coinvolti in loschi affari (che ricordiamo dal primo
episodio della serie) coinvolgenti una Lavanderia che occupava giovani madri single
e che faceva affari vendendo i piccoli in America.
Ma passa il tempo, Mal rinsavisce, il
vecchio Griffin muore, muore anche Sarah di tumore e Mal si risposa con
un’americana, Rose, che, prima del loro matrimonio aveva avuto una storia con
Quirke. Il quale non disdegna né le storie (pare avesse avuto anche una lunga
relazione con Isabella un’attrice) né soprattutto l’alcool. Tanto da essere un
assiduo frequentatore di case di disintossicazione. In qualche episodio
precedente poi, istigati dal tal Joseph Costigan, ora responsabile di quella
Lavanderia, fu malmenato quasi a morte. Episodio che gli lascia strascichi di
deficit di attenzione. Nel frattempo, entra in scena David che, oltre a fargli
da assistente nella sezione cadaveri, si accompagna assiduamente con Phoebe.
Questo è lo scenario che ci troviamo
di fronte con: David e Phoebe che non vanno molto avanti nella loro relazione,
Quirke che teme guasti da Alzheimer si trova ospite di Mel, Rose che fa un po’
la svenevole, e Phoebe che inizia un nuovo lavoro di segretaria presso la
psichiatra Evelyn, vedova di un collega di Quirke. Come elemento esterno, ma
sempre presente in tutti i romanzi della serie, c’è poi l’ispettore Hackett,
che dovrebbe condurre le indagini di polizia nel caso di eventi delittuosi, ma
che si comporta come un Watson a fronte di Quirke-Holmes.
In questo contesto irlandese, dove la
cosa più bella riguarda le descrizioni di Dublino e della vita quotidiana in
Irlanda negli anni Cinquanta, si inserisce la quasi inutile vicenda gialla. C’è
un morto bruciato in una macchina, pare incidente, ma Quirke scopre essere un
omicidio. C’è il padre del morto, trozkista duro e puro che medita vendette se
sapesse chi è l’assassino (e se c’è). C’è la donna del morto, che putacaso è
incinta ed è amica di Phoebe.
Tutto ciò induce il nostro, insieme
all’ispettore, ad iniziare indagini, a fare domande, a capire che la Lavanderia
dei tristi inizi (era presente già nel primo volume della serie) è ancora alla
ribalta, e, con tutto un insieme di piccole prove, Quirke arriva alla verità,
arriva a capire cosa facesse Leon (il morto), chi fosse la donna incinta, quale
fossero le responsabilità di Costigan (e quali quelle della Chiesa Cattolica
che all’epoca tutto copriva d’un velo d’omertà).
Si arriva alla fine, dove, invece che
l’aiuto dei morti come chiede il titolo originale, in Italia si privilegia
indicare come la strada intrapresa sette volumi prima sia arrivata alla sua
fine, chiudendo metaforicamente il cerchio a suo tempo apertosi. Ripeto, la
storia gialla è praticamente nulla, Quirke e Phoebe sono moderatamente
simpatici, David e Rose no, ma soprattutto intriga l’entrata in scena di
Evelyn, oltre che in scena anche nel letto di Quirke. Quello che resta è
Dublino, ed il mio ricordo di Grafton Street e Temple Square. Laddove si
tornerà a mangiare delle alette di pollo piccanti da primi della classe.
“A
volte ho l’impressione di non pensare a nessuno se non a me, di essere incapace
di pensare ad altro. Sono più egoista di quanto gli altri non vedano.” (84)
“Quello
che veramente ami rimane, il resto è scorie / Quello che veramente ami non ti
verrà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità. Ezra Pound.”
(137)
“Non
capisco me stesso, figuriamoci gli altri.” (140)
Questa
settimana mi piace fare un contrappasso laterale, è molto tempo che non parlo
di autori in lingua. Mi pregio quindi di citare un autore che ho molto amato
una ventina di anni fa. Parlo e ricordo, Maxence Fermine, di cui adorai
“L’apicoltore”, e qui troviamo con altri due libri.
Mi
scuso se lascio anche l’originale, che le mie traduzioni non sempre rendono il
senso. Comunque, da “Opium” abbiamo il senso del muoversi, i segreti e
le promesse:
“Cependant,
s’il se trouvait bien partout, il n’était nulle part chez lui. Et cela ne
faisait qu’accentuer son besoin de poursuivre encore et toujours son voyage.” [Tuttavia,
benché si trovasse bene ovunque, non era in nessun luogo a casa sua. E ciò non
faceva che accentuare la sua necessità di proseguire ancora e sempre il suo
viaggio.] (29)
“Un
secret reste un secret. Et, parfois, il est préférable d’en savoir le moins
possible.” [Un segreto resta un segreto. E, a volte, è preferibile
saperne il meno possibile.] (40)
“Il
savait très bien que les plus belles promesses, même si elles finissent par
devenir poussières de souvenir, ne passent jamais le sablier du temps.” [Sapeva
molto bene che le più belle promesse, anche se finiscono per diventare polveri
di ricordo, non passano mai la clessidra del tempo.] (181)
“Son
long voyage … lui avait fait comprendre que la vie est un opium dont on ne se
lasse jamais.” [Il suo lungo viaggio… gli aveva fatto capire che la vita
è un oppio di cui non ci si stanca mai.] (187)
Mentre
da “Billard Blues”
non potevo che ripensare alla musica:
“Quand tu possèdes la musique, tu possèdes
tout” [Quando hai la musica, hai tutto.] (12)
«Ça reste tout de même la plus belle
histoire d’amour manquée de ma vie » [In ogni modo, rimane la più bella
storia d’amore mancata della mia vita.] (83)
«N’oublie pas ceci : jouer du jazz,
c’est comme raconter une histoire. Une fois la musique envolée e le morceau
terminé, il ne doit rester que du bonheur … Sinon ça ne sert à rien.»
[Non dimenticarlo mai: suonare jazz è come raccontare una storia. Una volta
finito il brano e volata via la musica, non deve restare che felicità … Altrimenti
è inutile.] (86)
Passata è la metà di agosto, il caldo resta ma non avanza. Si avvicinano altri tempi e forse altre mete. Vedremo cosa ci aspetta, guardando e godendo di cosa abbiamo. Tutto sommato non è poco, perciò vi abbraccio.
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