Attilio Veraldi “La mazzetta” Rizzoli euro
2 (copia usata)
[A: 18/04/2021 – I: 16/12/2023 – T: 18/12/2023]
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+
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 234; anno:
1976]
Avevo in lista la lettura di A. Varaldo,
autore degli anni Trenta, ma per distrazione l’ho scambiato con questo libro di
A. Veraldi del ’76. Libro che avevo trovato citato nel manuale del giallo di
Crovi, citazione che mi aveva incuriosito, per cui, trovandone una copia nel
mercato dell’usato, lo acquisii per la mia biblioteca.
Diamo quindi onore ad Attilio Veraldi,
esimio traduttore dall’inglese e da lingue scandinave che sui cinquant’anni fu
convinto da Mario Spagnol a scrivere un libro che riproducesse, in ambito
italiano, delle tipiche situazioni hard-boiled americane. Compito che portò
Veraldi alla produzione di un libro che anticipa di molto narrazioni cruente da
anni Novanta, ma che lo fa con una ambientazione ed uno spirito tipicamente
partenopeo. Un filone su cui lavorò anche in altre scritture, ma di cui questo
libro risulta l’esempio primo e meglio riuscito.
Ciò non toglie, tuttavia, il fatto che il
libro sia molto datato e legato ai tempi della scrittura, ed ai modi di
scrivere degli anni Settanta. Con il risultato che, alla fine, l’interesse
storico e filologico è primario, mentre la storia in sé non viene fuori con
altrettanto coinvolgimento da parte del lettore. E soprattutto del lettore
attuale, a quasi cinquanta anni dalla scrittura.
L’impianto generale è di tipo strettamente
camorristico napoletano. Due faccendieri, Miletti e Casali, si accordano per
ottenere una buona commessa pubblica, ma uno dei due ottiene un secondo
contratto, segreto, in cui si prospettano lavori irrisori pagati in modo
esorbitante. Un ovvio modo di frodare il denaro pubblico, per ottenere il quale
bisogna, ovviamente, ungere delle ruote.
La bolla scoppia quando la figlia di
Miletti, Giulia, scappa di casa, disgustata dalle attività paterne, portando
con sé le carte segrete che certificano la truffa. Miletti allora incarica il
suo “uomo per tutte le stagioni”, Sasà Iovine, di risolvere la faccenda,
ritrovando Giulia ma soprattutto le carte. Iovine che chiede un compenso per il
suo lavoro (la famosa “mazzetta”) e con la sua aria scanzonata, un po’
dongiovanni, un po’ “commercialista” si muove per tutto il romanzo,
all’inseguimento di una verità che pare trovarsi ogni volta qualche passo
avanti a lui.
Inseguendo Giulia, ne scopre il primo
rifugio sul Monte Faito, dove non trova la ragazza, ma due cadaveri: la quarta
moglie di Miletti, Tina, ed il suo amante Pino. Peccato che Pino sia anche
l’amante di Giulia avendola per soprammercato messa anche in cinta. Giulia
continuerà a fuggire per tutto il romanzo, senza che Sasà riesca ad
intercettarla, anche quando si rifugia da Luisella, la sua amante. Anche quando
si rifugia dalla matrigna Elena a Milano, dove Sasà scopre che Elena era la
madre naturale di Pino. Solo alla fine, in un monte vicino alla Svizzera ci
sarà un ricongiungimento, alcune rivelazioni, ed altre morti.
Anche perché tutto il romanzo è costellato
da violenza (d’altra parte siamo nell’hard boiled, no?). Sasà viene pestato
dagli scagnozzi di Casali che sta cercando di fare le scarpe a Miletti. Il
quale subisce un attentato per cui viene ricoverato in ospedale. Elena dice a
Sasà di sapere chi muove i fili, ma verrà uccisa prima di rivelarne il nome.
Anche gli scagnozzi di Casali fanno una brutta fine.
Un finale nel quale Sasà vedrà finalmente
ricucirsi tutti i punti della trama complessa ed annodata. In una bella
discussione con il commissario Assenza, che, fin dai morti al Faito, fa spesso
da contraltare alle vicende del nostro faccendiere. Certo tutte le bolle e le
faccende varie rischiano di saltare in aria, se Sasà avesse le prove oltre che
le supposizioni. Ma Veraldi è ben realista, e ci presenta, nel ’76, una realtà
italiana che sarà ben descritta dalle vicende italiane di tutti gli anni
Ottanta.
Miletti sarà sconfitto da Casali, in vario
modo. Sasà non avrà nessuna mazzetta. Il commissario sarà trasferito da Milano
in Sardegna prima che possa chiudere le indagini. Insomma, uno spaccato italico
di rara anticipazione.
Veraldi ha la capacità, come detto, di
rappresentarci un sottobosco italiano cruento, non ancora degradato come quello
che mi descrive Bissattini nella sua Roma d’oggi, ma realista e non
macchiettista. Una Napoli dura e cattiva. Tuttavia, la vicenda è troppo
ingarbugliata per essere serenamente accolta. Troppi punti si congiungono con
una casualità che sembra troppo forzata per essere realista. E questi sono i
punti deboli di un romanzo che, almeno filologicamente, ha punti di serio interesse.
Roberta De Falco “Sangue del mio sangue”
Repubblica Emozione Noir 37 euro 7,90
[A: 28/02/2020 – I: 15/04/2024 – T: 17/04/2024]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 281; anno:
2019]
Di Roberta De Falco, scrittrice,
sceneggiatrice ed altro, ho già scritto in occasione di una trama dedicata al
suo primo personaggio poliziesco seriali, il Commissario Ettore Benussi della
Mobile di Trieste. E già in quell’occasione ebbi modo di parlare della sua
squadra investigativa, di cui faceva parte, ed una parte non piccola, la vice
Elettra Morin.
Credo che, come tutti i creatori di
personaggi seriali, a volte si giunga ad un punto in cui il proprio personaggio
sembra esaurire le sue capacità propositive, vuoi per stanchezza dello
scrittore, vuoi perché il personaggio stesso sta arrivando ad un punto morto.
Così si cerca di cambiare cavallo, provando altre strade. I miei grandi autori
seriali, da Cussler a Smith a Connelly così hanno fatto nelle loro grandi
opere.
Qui, nel piccolo che ci lancia i suoi vagiti
dalla campagna orvietana, Roberta decide di puntare sul cavallo di riserva. Ed
ecco che passiamo quindi a seguire le vicende di Elettra Morin, ora diventata
commissario nella questura di Gorizia. Con un nuovo gruppo alle sue dipendenze,
costituito dall’ispettrice Tania Tommasi, da subito innamoratasi di Elettra, e
dall’ispettore Raul Bregant, da subito in odio sia perché orrendamente
maschilista sia perché voleva lui il posto.
Abbiamo invece perso Gargiulo che, pur
innamorato di Elettra come abbiamo visto nell’altra serie, decide di tornare a
fare l’avvocato in quel di Napoli, facendosi vivo qua e là per convincere la
sua bella a raggiungerlo. Vicende che si vedrà in altre scritture se ci saranno
e se saranno lette.
Ora entriamo invece subito nel vivo che
Elettra, appena nominata, ha una bella gatta da pelare: un corpo di donna
bruciato e senza particolari segni di riconoscimento a fronte, pare, di un
incidente d’auto. Ed un uomo nudo e fuori di testa che si aggira nelle
vicinanze. Mentre questi viene ben presto identificato con l’immigrato
(regolare) Ahmed, della prima si fa fatica a trovare possibili agganci con
qualcuno (che alla data nessuno sembra essere scomparso).
Ma proprio seguendo la pista Ahmed, il
nostro commissario penetra nei misteri di villa Donda. Conosce il patriarca,
Alvise, che nella villa viveva con i suoi figli gemelli fin dalla morte
dell’amata moglie. E ne conosce a grandi linee la storia. C’è la marocchina
Nabila che fa la badante ad Alvise. C’erano i due gemelli Donda ed il figlio di
Nabila cresciuti sempre insieme, fino a che un gemello muore di overdose e
Ahmed sparisce.
Ora, passati gli anni, oltre ad Alvise che
sta sulla via della fine, e Federico che va e viene con una sua vita
spericolata (ma è ritratto come veramente odioso), c’è anche Fabio, quasi
ventenne e balbuziente, tutto fare della villa (ma non giardiniere che ha il
pollice nero). Ci dovrebbe essere anche Nabila, ma sembra sia dovuta tornare in
Marocco per qualche lutto. E c’è Ahmed, anzi c’è e non c’è.
La nostra brava scrittrice metta altra carne
al fuoco: c’è Terry, una dj di cui Federico sembra innamorato, e c’è un
meccanico forse spacciatore ed un dj che non si capisce che sia. Alla fine,
esce fuori che Fabio è figlio naturale di Federico, che Federico è un poco di
buono matricolato, che Nabila vuole proteggere tutti, che Terry sembra morta ma
forse ricompare a Berlino.
Roberta Di Falco, con un po’ di ruggine, ci
porta alla fine della vicenda nera, che, come molte volte, è ben legata alla
famiglia, laddove si conferma che questa è come un paio di scarpe: più i
parenti sono stretti, più fanno male, proprio come le scarpe.
E se dalla famiglia Donda, la nostra ci fa
discendere una prima considerazione sui difficili rapporti familiari, che poi
vedremo anche in altro contesto, quello che più le preme è portare a galla le
problematiche connesse ad una donna che lavori in un mondo essenzialmente
maschile. Morin deve dimostrare il doppio della sua bravura per essere
considerata al pari di un qualsiasi uomo che faccia onestamente e senza
fronzoli il proprio lavoro. Ed alle problematiche dei Donda, si aggiungono
quelle private di Elettra: abbandonata dalla madre, e adottata dalla famiglia
Morin, ha riallacciato, non senza fatica, i rapporti con la madre naturale,
mentre non riuscirà mai a ritrovarsi con il padre naturale, ed a pacificarsi
con la sua morte.
Non è sempre tutto ben risolto, ma è sempre
ben scritto, ha una buona dose di suspense, un finale che tutto sommato non è
così scontato. Una discreta fotografia di uno spaccato del mondo italiano, così
come sanno fare i migliori gialli scritti da scrittori nostrani.
Antonio Paolacci & Paola Ronco “Nuvole
barocche” Repubblica Brivido Noir 25 euro 8,90
[A: 28/11/2020 – I: 22/04/2024 – T: 25/04/2024]
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e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 331; anno:
2019]
Debutto letterario della coppia Paolacci
& Ronco che sceglie un filone non usuale per sviluppare un pensiero
originale sul quotidiano. Scegliendo il poliziesco, che permette di raccontare
sospendendo, a volte, il giudizio sul mondo aspettando gli eventi. Ma
soprattutto, decidendo di centrare le storie sul vicequestore aggiunto Paolo
Nigra, omosessuale dichiarato.
La scrittura scorre abbastanza veloce,
nonostante il quadro generale sia delicato. Si parla di gay, ma non si scade
mai di tono, lasciando sempre intravedere la normalità in un mondo che normale
non è. E non per i gay, ma per tutto il contorno dove l’omofobia è un tratto
che non si può nascondere.
Nigra viene descritto in modo corretto,
senza cadute di tono. Tra le righe, conosciamo parte dell’infanzia, attraverso
l’excursus del suo viaggio tra le arti marziali: karate, aikido sino ad
approdare al Tai Chi Ch'üan. Normale progressione nelle forze dell’ordine, con
un lungo periodo a Bologna (lui di Torino) per approdare alla questura a
Genova, dove decide di fare coming out (e non outing come sottolinea più volte,
rimarcandone la differenza). È un poliziotto deduttivo, che ha bisogno di prove
e di connessioni tra gli avvenimenti per procedere nelle indagini, altrimenti
si blocca. E quando si blocca, si dedica ad una cucina ricca di grassi e
carboidrati.
Ha da tre anni una storia con l’attore
Rocco, che invece rimane un gay nascosto (almeno ai più). Napoletano atipico,
ma capace di riflessioni e spunti, che spesso aiutano Nigra a focalizzare i
suoi pensieri. Altra presenza è la bella e sbarazzina Sarah, sua vicina di
casa, estroversa ed anche un po’ sopra le righe, che ha una storia con il capo
di Nigra, il sostituto procuratore Elia Evangelisti, altro personaggio ben
delineato, altero, ma dotato di profonda cultura letteraria. Finisce l’ambiente
dei personaggi centrali, l’assistente capo Marta Santamaria, romana nel
profondo (e qui il dialetto viene un po’ troppo marcato), con il vizio di
fumare la pipa e di interloquire con il capo con analisi spesso un po’
strampalate, ma è in ogni caso di sicura simpatia.
Ora, il quadro già di difficile gestione (in
una questura sicuramente poco propensa all’indulgenza verso i gay) si aggiunge
il caso che i nostri devono affrontare: l’omicidio di Andrea Pittaluga, un
ragazzo gay, al termine di una festa in onore delle unioni civili.
Per quasi tutto il romanzo si brancola nel
buio. Omicidio avvenuto di notte, senza testimoni, in una notte di pioggia che
ha lavato tutte le possibili impronte ed altre tracce riconducibili al
fattaccio. Non solo, anche Andrea non è di facile comprensione. Gay dichiarato,
molto sopra le righe, viene da una famiglia bene della città, dove, a otto
anni, i suoi genitori scompaiono e lui viene affidato allo zio, unico parente
rimasto.
Nei tentoni di inutili ricerche di sbocco,
due rimangono le piste, teoriche, che Nigra può ipotizzare: un omicidio
provocato dall’omofobia (ed allora si ricercano ragazzi sbandati che della
caccia ai negri ed ai gay hanno fatto la cifra della loro vita) o un omicidio
su commissione (magari organizzato dallo zio che non solo non accetta la vita
di Andrea, ma ne cura l’ingente patrimonio familiare, e magari in contrasto con
le idee libertarie di Andrea stesso).
La capacità degli autori è farci entrare
nella routine delle ricerche criminali, laddove, non essendoci elementi eclatanti,
bisogna andare passo dopo passo, scavando, entrando nella vita della vittima e
dei suoi possibili (anche se non probabili) assassini. Il tutto contornato
dalla descrizione della vita di Nigra e dei suoi sodali, gay e no, magari a
volte un po’ lentamente, ma sempre senza mai uscire dal seminato.
Come detto, la deduzione è l’arma di Nigra,
e sarà deducendo comportamenti dello zio, di Andrea, degli omofobi, e di
Attilio, altro gay colpito dalla condotta solare di Andrea, che il nostro
riesce a collegare i puntini dell’omicidio e magari di altre sparizioni che
forse sono omicidi o forse fughe verso la libertà.
Quel che rimane comunque è la città di
Genova, nelle sue mille sfaccettature. Sia per le descrizioni del centro, del
porto e di altri luoghi tipici, sia per quel rimandare, anche nel titolo, al
grande genovese Fabrizio de André. Tra l’altro citando una canzone d’amore che
è “asessuata”, cioè adattabile a tutti gli amori, e nel contesto sopra
descritto ben ci sta.
Finisco solo ricordando un altro rimando a
quello che Paolacci & Ronco indicano come loro amico e mentore: Carlo
Lucarelli (un nome anch’esso a me caro per motivi che scrissi altrove). Rimando
doppio, per il nome del protagonista, che a me che Paolo Nigra mi si è subito
collegato a Grazia Negro, protagonista di molti romanzi di Carlo. Ma anche per
aver citato di passaggio un ispettore che avrebbe collaborato ad altre
indagini, indicandolo come “ispettore Coliandro”, e qui non c’è alcun dubbio
che tenga.
Marco Ghizzoni “Il cappello del
maresciallo” Repubblica Emozione Noir 39 euro 7,90
[A: 09/03/2020 – I: 03/05/2024 – T: 05/05/2024]
&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 331; anno:
2019]
Avevo letto cinque anni fa il secondo
capitolo delle storie del maresciallo Nitto Bellomo, ambientate dal cremonese
Ghizzoni nel fittizio quartiere di Boscobasso, prospicente il fiume Po. Ed in
quella trama affermai che non avevo per quei tempi intenzione di cercare il
primo capitolo. Ora che mi viene fornito in una delle esimie collane di
Repubblica, ho provato a leggerne e, devo dire, confermo i miei precedenti
giudizi.
Capitoli molto corti che rimangono spesso
sospesi, in genere, con quella tendenza da feuilleton francese dell’Ottocento,
di sottolineare nelle ultime righe qualcosa che potrebbe accadere o sicuramente
accadrà nelle pagine seguenti. Questo, però, non da aria alla narrazione, né
riesce, se non in qualche caso, a dare un’immagine più vivida dei personaggi.
Rimane, come ripeto, quell’aria alla Vitali di fiume (laddove il mastro Andrea,
ricordo, è il mago del lago di Como).
Il merito di questo primo capitolo, in ogni
caso, è di farci conoscere i vari protagonisti “fissi” delle storie di
Ghizzoni. In primo luogo, il maresciallo dei
carabinieri Nitto Bellomo, siciliano di Agrigento, che si aggira come se avesse
sempre in mano la situazione ed invece ne è sempre un passo indietro. A farne
il coro sono i due militi, il brigadiere Mancuso sbruffone e scansafatiche e
l’appuntato Cannizzaro, timido al limite dell’autismo, che qui vediamo metterci
circa duecento pagine per capire di essere innamorato di Elena la più bella
ragazza del paese. Quindi, c’è Elena stessa, timida, imbranata e complessata
per il suo accento troppo “lumbard”, con la madre Franca, perpetua, e don
Fausto, l’immancabile parroco del paese.
La
storia in sé è poi un improbabile accumulo di piccole vicissitudini che,
laddove la gente fosse più propensa a parlare, si sarebbe risolta in poche
parole e poche pagine. Al centro dobbiamo collocare il cimitero, dove
convergono i problemi della sepoltura del liutaio del paese, trovato morto con
i pantaloni abbassati nelle vicinanze della zona battuta dalle “belle di
notte”. Le conseguenze sono gestite da Edwige, la bella e procace moglie, che
vuol mettere a tacere il probabile scandalo ed in parallelo avere una tomba
bella e visibile per il defunto.
Per
questo coinvolge il becchino Bigio che, volendo entrare nelle grazie (e nel
letto) di Edwige decide di collocare il morto al posto del da poco defunto
ex-sindaco del paese, entrando in una spirale di disavventure: la seconda tomba
è troppo piccola, la bara si sfascia, per cui Bigio decide di chiuderla vuota,
di smembrare il secondo morto e seppellirlo in campagna. Peccato che ne perda
la testa, e che il cane del macellaio faccia ritrovare i resti, costringendo
Bellomo ad avviare indagini su tutti questi fatti.
Ed
è sempre Edwige che tira le fila: promette a Bigio di coprirlo, e ricatta
Bellomo rubandogli il cappello (quello del titolo) costringendolo a trovare il
modo di mettere tutto a tacere, millantando un presunto assalto sessuale. A
complicare ancor di più la scena c’è la vamp Giuditta (vamp nella sua testa,
che lei è una sessantenne, seppur ben portata) che spiffera le sue idee sulla
storia al cronista Villa, emarginato pennivendolo di provincia, in cerca sempre
di un improbabile scoop.
L’unico
che conserva la testa sulle spalle è il buon Cannizzaro, unico che unisce i
vari puntini, seppur solo nella sua testa, scoprendo l’identità del morto
smembrato, tracce dello smembratore, nonché un sovradosaggio di viagra nelle
vene del liutaio. Il tutto mentre scopre di essersi innamorato della bella
Elena, e che forse ne è ricambiato.
Ma
come in tutte le farse non tanto ben riuscite, tutto si muove alla fine senza
che nulla venga rimesso al suo posto. Edwige si consola con il tenente dei
carabinieri, capo di Bellomo. Il maresciallo ritrova il suo cappello. Il
brigadiere Mancuso torna ai suoi videogiochi. Ed a farne le spese, per incauta
condotta, sarà solo Bigio, che verrà, giustamente, licenziato.
Come
dicevo, se ognuno, quando ha il pallino in mano della trama, avesse il coraggio
di dire quello che sa, la storia si sarebbe sgonfiata subito. Il becchino
avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione agli spostamenti a Giuditta,
responsabile comunale dei cimiteri. Il medico avrebbe dovuto comunicare i suoi
accertamenti direttamente a Bellomo. E via elencando tutti i possibili “non
detti” della storia (che non ve li dico tutti, tanto pochi saranno i possibili
lettori di questo poco appetibile romanzo, del quale, in ogni caso, vi ho detto
abbastanza così che possiate tenerlo fra le letture comunque fatte).
Ghizzoni
ha certamente una mente fervida, ed una buona propensione alla scrittura, che
potrebbe finalizzare decisamente meglio. Tuttavia, se ad uno scrittore vengono
pubblicate le sue fatiche, io non posso che essere contento per lui.
Christian Frascella “Fa troppo freddo per
morire” Repubblica Emozione Noir 30 euro 7,90
[A: 22/01/2020 – I: 16/07/2024 – T: 17/07/2024]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 348; anno:
2018]
Avevo sentito parlare di Christian Frascella
e della sua scrittura ironica e scanzonata, come il suo libro d’esordio “Mia
sorella è una foca monaca”. Finalmente trovo modo e tempo di leggerne, quando
dalla narrativa generalista passa a quella di genere, introducendoci in un
giallo che non è proprio banale, e con un investigatore che, con i suoi alti e
bassi, mi è risultato decisamente simpatico.
Fin dalle prime righe facciamo conoscenza
con Contrera, che lui, come il Colombo televisivo o il Morse del grande Dexter,
usa solo il cognome, anche se ad un certo punto ci dà indizi per arrivare anche
al nome, ma non ce lo dice (noi lo abbiamo capito ma non ve lo diciamo). Ma
farne la conoscenza lì dove trascorre gran parte del suo tempo, aspettando
improbabili clienti, in un angolo della lavanderia del maghrebino Mohammed,
sorseggiando, con qualsiasi tempo, quantità industriali di birra Corona è solo
il punto di partenza.
Ci vorranno pagine e pagine, nonché suoi
piccoli cedimenti, per arrivare a farne un ritratto decente, benché (visto che
questo è solo il primo romanzo di una serie) di certo non esaustivo. Figlio di
un poliziotto integerrimo, purtroppo tifoso del Torino come il figlio,
intraprende anche lui la carriera nell’arma. Ma ad un certo punto (che sappiamo
collocare nel tempo, ma non nei motivi), sbanda, comincia a prendere e
rivendere droga, prende bustarelle, nonché massacra di botte un malvivente (pur
se con ragione). È anche sposato con figlia, Valentina, allora di cinque-sei
anni. Ma niente lo può salvare dall’essere radiato dalla polizia.
Solo il commissario amico Baseggi non lo
abbandona, anzi lo aiuta a prendere la licenza, e gli rimane accanto in questi
dieci anni (che ora Valentina ne ha sedici). E lo introduce nel mondo
multietnico di Barriera di Milano, uno dei protagonisti del romanzo, un
quartiere di Torino dove gli italiani sono pochi ed i malviventi molti. Lì
Contrera si arena e si barcamena con piccole indagini, dove mantiene uno strano
punto d’onore: mi ingaggi per un motivo, io indago, poi ti dico il risultato.
Ma niente prove, o mi credi oppure puoi anche mollare tutto.
E lì in Barriera comincia anche la storia
poliziesca di Contrera. Mohammed gli chiede id ritrovare il nipote Driss,
scomparso anche perché inseguito da un boss albanese cui deve soldi. Con
Contrera, nella ricerca di Driss, entriamo nel sottobosco del quartiere.
L’albanese è uno dei capi ‘ndrina di un boss calabrese, e gestisce un locale
dove signorine compiacenti fanno il solito doppio mestiere: ubriacare i clienti
e, nel caso, accompagnarsi con loro. Inseguendo il filone soldi, Contrera trova
anche il motivo dei debiti di Driss: una serie di puntate su partite di calcio,
truccate ma con il risultato che non viene mai convalidato (è una situazione di
scommesse complicate, non chiedetemi di più).
Seguendo le tracce di Driss, lo incontra nel
locale dell’albanese, poco prima che questi venga ucciso con un pugnale di
proprietà del giovane. Per la polizia tutto semplice: omicidio per mancanza di
soldi. Ovvio che Contrera non ci crede, si pone domande, e continua la ricerca
di Driss. Che alla fine trova, ma anche lui ucciso in una scena di palese finto
suicidio.
Ma cosa aveva spinto il giovane ad
indebitarsi ed a trovarsi coinvolto in sì brutte trame? Ovvio, che siamo nel
più classico “cherchez la femme”. Ma dove sarà, la donna? Chi sarà? Una delle
signorine del locale? Qualcuno di esterno? Forse la procace commessa delle
scommesse?
La soluzione del giallo è ingegnosa ed
inaspettata. Tuttavia, siccome viene descritta più di cento pagine prima della
fine, tutti sospettiamo che manchi qualcosa, che ci sia altro. Ed in questo
Frascella ha una buona dose di inventiva, nonché buone conoscenze dei
meccanismi gialli. Infatti, ci spinge verso possibili modi di scioglimento dei
nodi irrisolti che sono plausibili, che potrebbero ma che nel caso in cui ci
farebbe dispiacere.
Che ve lo dico a fa’, è una parte da leggere
tutta d’un fiato, che la fine arriva, i nodi si sciolgono, anche se Contrera
dovrà fare ancora molta strada prima che il suo modo di affrontare questa fine
ci soddisfi.
In tutto ciò, Frascella comincia anche a
mettere dei ponti verso possibili altre puntate. Di certo c’è il non rapporto
con la figlia, nonché il buon rapporto con i nipoti. Ma entra in gioco anche
Erica, la commessa di cui sopra, con cui Contrera comincia una storia, anche se
non proprio limpida (e non vi dico perché). Quello che piace a me è l’ironia
con cui introduce Luca, il figlio di Erica, e le sue battute fulminanti.
Il fatto che Erica possa essere sospettata
lascia punti di domanda, tanto che Contrera, per ora, sembra troncare i
rapporti con tutti. Ha risolto il caso, ma non salvato Driss. Però Frascella è
riuscito a mettere tanta legna al fuoco che non potrà che nascere almeno una se
non più puntate del serial.
Ha me questo tipo di scrittura, anche se
contorna il giallo senza essere un modello di suspense, piace ed intriga. Anche
perché introduce nel mondo reale le gesta dei protagonisti. Le lavanderie, i
bar, i locali fumosi, la gente al limite dell’onestà. Una bella foto dell’oggi.
Non eccelsa ma gradevole.
Primo scritto di agosto, quindi andiamo a
vedere le letture di maggio, per ora il più prolifico di letture, purtroppo non
particolarmente elevate. Se si eccettua un ottimo libro di Murakami sul jazz e
l’ultima prova di Joel Dicker sempre di livello. Un livello che invece vede da
molto lontano una pur onesta ma poco riuscita prova di Marco Ghizzoni.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Javier Cercas |
Indipendenza |
Repubblica
Essenza Noir |
8,90 |
2,5 |
2 |
Roy Jacobsen |
The Unseen |
MacLehose |
15 |
2 |
3 |
Marco Ghizzoni |
Il cappello del
maresciallo |
Repubblica
Emozione Noir |
7,90 |
1,5 |
4 |
Rino
Cammilleri |
L’inquisitore |
Mondadori |
6,90 |
2 |
5 |
Haruki Murakami |
Ritratti in Jazz |
Corriere |
9,90 |
4 |
6 |
Augusto De
Angelis |
L’impronta del
gatto |
Mondadori |
6,50 |
2,5 |
7 |
Rosa Teruzzi |
La ballata dei
padri infedeli |
Sonzogno |
s.p. |
3 |
8 |
Gabriel Garcia
Marquez |
En agosto nos
vemos |
Random House |
s.p. |
3 |
9 |
Katrine Engberg |
Il guardiano dei
coccodrilli |
Feltrinelli |
12,5 |
3 |
10 |
Maurizio De
Giovanni |
Pioggia |
Einaudi |
s.p. |
2,5 |
11 |
Joel Dicker |
Un animale
selvaggio |
La Nave di Teseo |
s.p. |
4 |
12 |
Jessica Fellowes |
Morte di un giovane di belle speranze |
Repubblica Brivido Noir |
8,90 |
2,5 |
13 |
Gianrico Carofiglio |
Le tre del
mattino |
Repubblica |
8,90 |
2,5 |
14 |
Alessandro Reali |
La matta di
Milano |
Corriere Gazzetta |
7,99 |
2 |
15 |
Leonardo Sciascia |
Le parrocchie di
Regalpetra |
Repubblica |
8,90 |
2 |
16 |
Fabrizio
Borgio |
Vino rosso sangue |
Corriere Gazzetta |
7,99 |
2,5 |
17 |
Alicia Gimenez-Bartlett |
La donna che fugge |
Sellerio |
s.p. |
3,5 |
18 |
Isabel Allende |
Il vento conosce
il mio nome |
Feltrinelli |
s.p. |
3 |
19 |
Andrea Fazioli |
Gli Svizzeri
muoiono felici |
Repubblica
Emozione Noir |
7,90 |
3 |
Con il mio solito gusto del contrappasso,
alterniamo vari tipi di romanzi. Questo mese di, spero, vacanze per tutti, vi
porto nel mondo di Alessandro Baricco. In particolare, il suo “City”, dove in particolare, vi riporto il sunto del libro che si immagina abbia
scritto il professor Mondrian Kilroy.
“è
così quasi sempre: si scopre alla fine che il dolore, tutto quel dolore, era
inutile, che si è sofferto come bestie, ed era inutile, non era né giusto né
ingiusto, non era bello o brutto, era solo inutile, tutto quello che puoi dire
alla fine è: era un dolore inutile” (19)
“Quando
ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da
fuori. Non ci sei mai dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei mai.” (37)
“di
colpo, ti viene in mente quella domanda, chissà come sto, IO? vorrei sapere
solo questo, come sto, IO? Qualcuno sa se sono buono, o vecchio, qualcuno sa se
sono VIVO?” (130)
“SAGGIO
SULL'ONESTA' INTELLETTUALE: 1. Gli uomini hanno idee. 2. Gli uomini esprimono
idee. 3. Gli uomini esprimono idee che non sono loro. 4. Le idee, una volta
espresse e dunque sottoposte alla pressione di un pubblico, diventano oggetti
artificiali privi di un reale rapporto con la loro origine. Gli uomini le
affinano con tale ingegno da renderle micidiali. Col tempo scoprono di poterle
usare come armi. Non ci pensano su un attimo. E sparano. 5: Gli uomini usano le
idee come armi, e in questo gesto se ne allontanano per sempre. 6. L'onestà
intellettuale è un ossimoro. Conclusione: Un’altra vita, saremo onesti. Saremo
capaci di tacere.” (161)
Comunque, finalmente siamo riusciti ad allontanarci da Roma, prendendo pianta stabile nel nostro fresco e buon ritiro, sperando si riesca a lavorare un po’ sulle parole, ed a riposare un po’ dai piccoli acciacchi che continuano ad imperversare. Per ora, vince l’allontanamento dall’afa, per cui vi posso inviare un fresco abbraccio.
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