domenica 4 agosto 2024

Italiani di rincorsa - 04 agosto 2024

Come succede altrove in questi giorni olimpicamente augusti, anche nelle letture gli italiani stanno lì sulla soglia. Alcune prove d’annata discrete, come la mazzetta di Veraldi, o solo discrete come l’ironico Frascella o il duo Paolacci&Ronco. Agli estremi una più che sufficiente Roberta De Falco ed un molto insufficiente Marco Ghizzoni.

Attilio Veraldi “La mazzetta” Rizzoli euro 2 (copia usata)

[A: 18/04/2021 – I: 16/12/2023 – T: 18/12/2023] && +   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 234; anno: 1976]

Avevo in lista la lettura di A. Varaldo, autore degli anni Trenta, ma per distrazione l’ho scambiato con questo libro di A. Veraldi del ’76. Libro che avevo trovato citato nel manuale del giallo di Crovi, citazione che mi aveva incuriosito, per cui, trovandone una copia nel mercato dell’usato, lo acquisii per la mia biblioteca.

Diamo quindi onore ad Attilio Veraldi, esimio traduttore dall’inglese e da lingue scandinave che sui cinquant’anni fu convinto da Mario Spagnol a scrivere un libro che riproducesse, in ambito italiano, delle tipiche situazioni hard-boiled americane. Compito che portò Veraldi alla produzione di un libro che anticipa di molto narrazioni cruente da anni Novanta, ma che lo fa con una ambientazione ed uno spirito tipicamente partenopeo. Un filone su cui lavorò anche in altre scritture, ma di cui questo libro risulta l’esempio primo e meglio riuscito.

Ciò non toglie, tuttavia, il fatto che il libro sia molto datato e legato ai tempi della scrittura, ed ai modi di scrivere degli anni Settanta. Con il risultato che, alla fine, l’interesse storico e filologico è primario, mentre la storia in sé non viene fuori con altrettanto coinvolgimento da parte del lettore. E soprattutto del lettore attuale, a quasi cinquanta anni dalla scrittura.

L’impianto generale è di tipo strettamente camorristico napoletano. Due faccendieri, Miletti e Casali, si accordano per ottenere una buona commessa pubblica, ma uno dei due ottiene un secondo contratto, segreto, in cui si prospettano lavori irrisori pagati in modo esorbitante. Un ovvio modo di frodare il denaro pubblico, per ottenere il quale bisogna, ovviamente, ungere delle ruote.

La bolla scoppia quando la figlia di Miletti, Giulia, scappa di casa, disgustata dalle attività paterne, portando con sé le carte segrete che certificano la truffa. Miletti allora incarica il suo “uomo per tutte le stagioni”, Sasà Iovine, di risolvere la faccenda, ritrovando Giulia ma soprattutto le carte. Iovine che chiede un compenso per il suo lavoro (la famosa “mazzetta”) e con la sua aria scanzonata, un po’ dongiovanni, un po’ “commercialista” si muove per tutto il romanzo, all’inseguimento di una verità che pare trovarsi ogni volta qualche passo avanti a lui.

Inseguendo Giulia, ne scopre il primo rifugio sul Monte Faito, dove non trova la ragazza, ma due cadaveri: la quarta moglie di Miletti, Tina, ed il suo amante Pino. Peccato che Pino sia anche l’amante di Giulia avendola per soprammercato messa anche in cinta. Giulia continuerà a fuggire per tutto il romanzo, senza che Sasà riesca ad intercettarla, anche quando si rifugia da Luisella, la sua amante. Anche quando si rifugia dalla matrigna Elena a Milano, dove Sasà scopre che Elena era la madre naturale di Pino. Solo alla fine, in un monte vicino alla Svizzera ci sarà un ricongiungimento, alcune rivelazioni, ed altre morti.

Anche perché tutto il romanzo è costellato da violenza (d’altra parte siamo nell’hard boiled, no?). Sasà viene pestato dagli scagnozzi di Casali che sta cercando di fare le scarpe a Miletti. Il quale subisce un attentato per cui viene ricoverato in ospedale. Elena dice a Sasà di sapere chi muove i fili, ma verrà uccisa prima di rivelarne il nome. Anche gli scagnozzi di Casali fanno una brutta fine.

Un finale nel quale Sasà vedrà finalmente ricucirsi tutti i punti della trama complessa ed annodata. In una bella discussione con il commissario Assenza, che, fin dai morti al Faito, fa spesso da contraltare alle vicende del nostro faccendiere. Certo tutte le bolle e le faccende varie rischiano di saltare in aria, se Sasà avesse le prove oltre che le supposizioni. Ma Veraldi è ben realista, e ci presenta, nel ’76, una realtà italiana che sarà ben descritta dalle vicende italiane di tutti gli anni Ottanta.

Miletti sarà sconfitto da Casali, in vario modo. Sasà non avrà nessuna mazzetta. Il commissario sarà trasferito da Milano in Sardegna prima che possa chiudere le indagini. Insomma, uno spaccato italico di rara anticipazione.

Veraldi ha la capacità, come detto, di rappresentarci un sottobosco italiano cruento, non ancora degradato come quello che mi descrive Bissattini nella sua Roma d’oggi, ma realista e non macchiettista. Una Napoli dura e cattiva. Tuttavia, la vicenda è troppo ingarbugliata per essere serenamente accolta. Troppi punti si congiungono con una casualità che sembra troppo forzata per essere realista. E questi sono i punti deboli di un romanzo che, almeno filologicamente, ha punti di serio interesse.

Roberta De Falco “Sangue del mio sangue” Repubblica Emozione Noir 37 euro 7,90

[A: 28/02/2020 – I: 15/04/2024 – T: 17/04/2024] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 281; anno: 2019]

Di Roberta De Falco, scrittrice, sceneggiatrice ed altro, ho già scritto in occasione di una trama dedicata al suo primo personaggio poliziesco seriali, il Commissario Ettore Benussi della Mobile di Trieste. E già in quell’occasione ebbi modo di parlare della sua squadra investigativa, di cui faceva parte, ed una parte non piccola, la vice Elettra Morin.

Credo che, come tutti i creatori di personaggi seriali, a volte si giunga ad un punto in cui il proprio personaggio sembra esaurire le sue capacità propositive, vuoi per stanchezza dello scrittore, vuoi perché il personaggio stesso sta arrivando ad un punto morto. Così si cerca di cambiare cavallo, provando altre strade. I miei grandi autori seriali, da Cussler a Smith a Connelly così hanno fatto nelle loro grandi opere.

Qui, nel piccolo che ci lancia i suoi vagiti dalla campagna orvietana, Roberta decide di puntare sul cavallo di riserva. Ed ecco che passiamo quindi a seguire le vicende di Elettra Morin, ora diventata commissario nella questura di Gorizia. Con un nuovo gruppo alle sue dipendenze, costituito dall’ispettrice Tania Tommasi, da subito innamoratasi di Elettra, e dall’ispettore Raul Bregant, da subito in odio sia perché orrendamente maschilista sia perché voleva lui il posto.

Abbiamo invece perso Gargiulo che, pur innamorato di Elettra come abbiamo visto nell’altra serie, decide di tornare a fare l’avvocato in quel di Napoli, facendosi vivo qua e là per convincere la sua bella a raggiungerlo. Vicende che si vedrà in altre scritture se ci saranno e se saranno lette.

Ora entriamo invece subito nel vivo che Elettra, appena nominata, ha una bella gatta da pelare: un corpo di donna bruciato e senza particolari segni di riconoscimento a fronte, pare, di un incidente d’auto. Ed un uomo nudo e fuori di testa che si aggira nelle vicinanze. Mentre questi viene ben presto identificato con l’immigrato (regolare) Ahmed, della prima si fa fatica a trovare possibili agganci con qualcuno (che alla data nessuno sembra essere scomparso).

Ma proprio seguendo la pista Ahmed, il nostro commissario penetra nei misteri di villa Donda. Conosce il patriarca, Alvise, che nella villa viveva con i suoi figli gemelli fin dalla morte dell’amata moglie. E ne conosce a grandi linee la storia. C’è la marocchina Nabila che fa la badante ad Alvise. C’erano i due gemelli Donda ed il figlio di Nabila cresciuti sempre insieme, fino a che un gemello muore di overdose e Ahmed sparisce.

Ora, passati gli anni, oltre ad Alvise che sta sulla via della fine, e Federico che va e viene con una sua vita spericolata (ma è ritratto come veramente odioso), c’è anche Fabio, quasi ventenne e balbuziente, tutto fare della villa (ma non giardiniere che ha il pollice nero). Ci dovrebbe essere anche Nabila, ma sembra sia dovuta tornare in Marocco per qualche lutto. E c’è Ahmed, anzi c’è e non c’è.

La nostra brava scrittrice metta altra carne al fuoco: c’è Terry, una dj di cui Federico sembra innamorato, e c’è un meccanico forse spacciatore ed un dj che non si capisce che sia. Alla fine, esce fuori che Fabio è figlio naturale di Federico, che Federico è un poco di buono matricolato, che Nabila vuole proteggere tutti, che Terry sembra morta ma forse ricompare a Berlino.

Roberta Di Falco, con un po’ di ruggine, ci porta alla fine della vicenda nera, che, come molte volte, è ben legata alla famiglia, laddove si conferma che questa è come un paio di scarpe: più i parenti sono stretti, più fanno male, proprio come le scarpe.

E se dalla famiglia Donda, la nostra ci fa discendere una prima considerazione sui difficili rapporti familiari, che poi vedremo anche in altro contesto, quello che più le preme è portare a galla le problematiche connesse ad una donna che lavori in un mondo essenzialmente maschile. Morin deve dimostrare il doppio della sua bravura per essere considerata al pari di un qualsiasi uomo che faccia onestamente e senza fronzoli il proprio lavoro. Ed alle problematiche dei Donda, si aggiungono quelle private di Elettra: abbandonata dalla madre, e adottata dalla famiglia Morin, ha riallacciato, non senza fatica, i rapporti con la madre naturale, mentre non riuscirà mai a ritrovarsi con il padre naturale, ed a pacificarsi con la sua morte.

Non è sempre tutto ben risolto, ma è sempre ben scritto, ha una buona dose di suspense, un finale che tutto sommato non è così scontato. Una discreta fotografia di uno spaccato del mondo italiano, così come sanno fare i migliori gialli scritti da scrittori nostrani.

Antonio Paolacci & Paola Ronco “Nuvole barocche” Repubblica Brivido Noir 25 euro 8,90

[A: 28/11/2020 – I: 22/04/2024 – T: 25/04/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 331; anno: 2019]

Debutto letterario della coppia Paolacci & Ronco che sceglie un filone non usuale per sviluppare un pensiero originale sul quotidiano. Scegliendo il poliziesco, che permette di raccontare sospendendo, a volte, il giudizio sul mondo aspettando gli eventi. Ma soprattutto, decidendo di centrare le storie sul vicequestore aggiunto Paolo Nigra, omosessuale dichiarato.

La scrittura scorre abbastanza veloce, nonostante il quadro generale sia delicato. Si parla di gay, ma non si scade mai di tono, lasciando sempre intravedere la normalità in un mondo che normale non è. E non per i gay, ma per tutto il contorno dove l’omofobia è un tratto che non si può nascondere.

Nigra viene descritto in modo corretto, senza cadute di tono. Tra le righe, conosciamo parte dell’infanzia, attraverso l’excursus del suo viaggio tra le arti marziali: karate, aikido sino ad approdare al Tai Chi Ch'üan. Normale progressione nelle forze dell’ordine, con un lungo periodo a Bologna (lui di Torino) per approdare alla questura a Genova, dove decide di fare coming out (e non outing come sottolinea più volte, rimarcandone la differenza). È un poliziotto deduttivo, che ha bisogno di prove e di connessioni tra gli avvenimenti per procedere nelle indagini, altrimenti si blocca. E quando si blocca, si dedica ad una cucina ricca di grassi e carboidrati.

Ha da tre anni una storia con l’attore Rocco, che invece rimane un gay nascosto (almeno ai più). Napoletano atipico, ma capace di riflessioni e spunti, che spesso aiutano Nigra a focalizzare i suoi pensieri. Altra presenza è la bella e sbarazzina Sarah, sua vicina di casa, estroversa ed anche un po’ sopra le righe, che ha una storia con il capo di Nigra, il sostituto procuratore Elia Evangelisti, altro personaggio ben delineato, altero, ma dotato di profonda cultura letteraria. Finisce l’ambiente dei personaggi centrali, l’assistente capo Marta Santamaria, romana nel profondo (e qui il dialetto viene un po’ troppo marcato), con il vizio di fumare la pipa e di interloquire con il capo con analisi spesso un po’ strampalate, ma è in ogni caso di sicura simpatia.

Ora, il quadro già di difficile gestione (in una questura sicuramente poco propensa all’indulgenza verso i gay) si aggiunge il caso che i nostri devono affrontare: l’omicidio di Andrea Pittaluga, un ragazzo gay, al termine di una festa in onore delle unioni civili.

Per quasi tutto il romanzo si brancola nel buio. Omicidio avvenuto di notte, senza testimoni, in una notte di pioggia che ha lavato tutte le possibili impronte ed altre tracce riconducibili al fattaccio. Non solo, anche Andrea non è di facile comprensione. Gay dichiarato, molto sopra le righe, viene da una famiglia bene della città, dove, a otto anni, i suoi genitori scompaiono e lui viene affidato allo zio, unico parente rimasto.

Nei tentoni di inutili ricerche di sbocco, due rimangono le piste, teoriche, che Nigra può ipotizzare: un omicidio provocato dall’omofobia (ed allora si ricercano ragazzi sbandati che della caccia ai negri ed ai gay hanno fatto la cifra della loro vita) o un omicidio su commissione (magari organizzato dallo zio che non solo non accetta la vita di Andrea, ma ne cura l’ingente patrimonio familiare, e magari in contrasto con le idee libertarie di Andrea stesso).

La capacità degli autori è farci entrare nella routine delle ricerche criminali, laddove, non essendoci elementi eclatanti, bisogna andare passo dopo passo, scavando, entrando nella vita della vittima e dei suoi possibili (anche se non probabili) assassini. Il tutto contornato dalla descrizione della vita di Nigra e dei suoi sodali, gay e no, magari a volte un po’ lentamente, ma sempre senza mai uscire dal seminato.

Come detto, la deduzione è l’arma di Nigra, e sarà deducendo comportamenti dello zio, di Andrea, degli omofobi, e di Attilio, altro gay colpito dalla condotta solare di Andrea, che il nostro riesce a collegare i puntini dell’omicidio e magari di altre sparizioni che forse sono omicidi o forse fughe verso la libertà.

Quel che rimane comunque è la città di Genova, nelle sue mille sfaccettature. Sia per le descrizioni del centro, del porto e di altri luoghi tipici, sia per quel rimandare, anche nel titolo, al grande genovese Fabrizio de André. Tra l’altro citando una canzone d’amore che è “asessuata”, cioè adattabile a tutti gli amori, e nel contesto sopra descritto ben ci sta.

Finisco solo ricordando un altro rimando a quello che Paolacci & Ronco indicano come loro amico e mentore: Carlo Lucarelli (un nome anch’esso a me caro per motivi che scrissi altrove). Rimando doppio, per il nome del protagonista, che a me che Paolo Nigra mi si è subito collegato a Grazia Negro, protagonista di molti romanzi di Carlo. Ma anche per aver citato di passaggio un ispettore che avrebbe collaborato ad altre indagini, indicandolo come “ispettore Coliandro”, e qui non c’è alcun dubbio che tenga.

Marco Ghizzoni “Il cappello del maresciallo” Repubblica Emozione Noir 39 euro 7,90

[A: 09/03/2020 – I: 03/05/2024 – T: 05/05/2024] & e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 331; anno: 2019]

Avevo letto cinque anni fa il secondo capitolo delle storie del maresciallo Nitto Bellomo, ambientate dal cremonese Ghizzoni nel fittizio quartiere di Boscobasso, prospicente il fiume Po. Ed in quella trama affermai che non avevo per quei tempi intenzione di cercare il primo capitolo. Ora che mi viene fornito in una delle esimie collane di Repubblica, ho provato a leggerne e, devo dire, confermo i miei precedenti giudizi.

Capitoli molto corti che rimangono spesso sospesi, in genere, con quella tendenza da feuilleton francese dell’Ottocento, di sottolineare nelle ultime righe qualcosa che potrebbe accadere o sicuramente accadrà nelle pagine seguenti. Questo, però, non da aria alla narrazione, né riesce, se non in qualche caso, a dare un’immagine più vivida dei personaggi. Rimane, come ripeto, quell’aria alla Vitali di fiume (laddove il mastro Andrea, ricordo, è il mago del lago di Como).

Il merito di questo primo capitolo, in ogni caso, è di farci conoscere i vari protagonisti “fissi” delle storie di Ghizzoni. In primo luogo, il maresciallo dei carabinieri Nitto Bellomo, siciliano di Agrigento, che si aggira come se avesse sempre in mano la situazione ed invece ne è sempre un passo indietro. A farne il coro sono i due militi, il brigadiere Mancuso sbruffone e scansafatiche e l’appuntato Cannizzaro, timido al limite dell’autismo, che qui vediamo metterci circa duecento pagine per capire di essere innamorato di Elena la più bella ragazza del paese. Quindi, c’è Elena stessa, timida, imbranata e complessata per il suo accento troppo “lumbard”, con la madre Franca, perpetua, e don Fausto, l’immancabile parroco del paese.

La storia in sé è poi un improbabile accumulo di piccole vicissitudini che, laddove la gente fosse più propensa a parlare, si sarebbe risolta in poche parole e poche pagine. Al centro dobbiamo collocare il cimitero, dove convergono i problemi della sepoltura del liutaio del paese, trovato morto con i pantaloni abbassati nelle vicinanze della zona battuta dalle “belle di notte”. Le conseguenze sono gestite da Edwige, la bella e procace moglie, che vuol mettere a tacere il probabile scandalo ed in parallelo avere una tomba bella e visibile per il defunto.

Per questo coinvolge il becchino Bigio che, volendo entrare nelle grazie (e nel letto) di Edwige decide di collocare il morto al posto del da poco defunto ex-sindaco del paese, entrando in una spirale di disavventure: la seconda tomba è troppo piccola, la bara si sfascia, per cui Bigio decide di chiuderla vuota, di smembrare il secondo morto e seppellirlo in campagna. Peccato che ne perda la testa, e che il cane del macellaio faccia ritrovare i resti, costringendo Bellomo ad avviare indagini su tutti questi fatti.

Ed è sempre Edwige che tira le fila: promette a Bigio di coprirlo, e ricatta Bellomo rubandogli il cappello (quello del titolo) costringendolo a trovare il modo di mettere tutto a tacere, millantando un presunto assalto sessuale. A complicare ancor di più la scena c’è la vamp Giuditta (vamp nella sua testa, che lei è una sessantenne, seppur ben portata) che spiffera le sue idee sulla storia al cronista Villa, emarginato pennivendolo di provincia, in cerca sempre di un improbabile scoop.

L’unico che conserva la testa sulle spalle è il buon Cannizzaro, unico che unisce i vari puntini, seppur solo nella sua testa, scoprendo l’identità del morto smembrato, tracce dello smembratore, nonché un sovradosaggio di viagra nelle vene del liutaio. Il tutto mentre scopre di essersi innamorato della bella Elena, e che forse ne è ricambiato.

Ma come in tutte le farse non tanto ben riuscite, tutto si muove alla fine senza che nulla venga rimesso al suo posto. Edwige si consola con il tenente dei carabinieri, capo di Bellomo. Il maresciallo ritrova il suo cappello. Il brigadiere Mancuso torna ai suoi videogiochi. Ed a farne le spese, per incauta condotta, sarà solo Bigio, che verrà, giustamente, licenziato.

Come dicevo, se ognuno, quando ha il pallino in mano della trama, avesse il coraggio di dire quello che sa, la storia si sarebbe sgonfiata subito. Il becchino avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione agli spostamenti a Giuditta, responsabile comunale dei cimiteri. Il medico avrebbe dovuto comunicare i suoi accertamenti direttamente a Bellomo. E via elencando tutti i possibili “non detti” della storia (che non ve li dico tutti, tanto pochi saranno i possibili lettori di questo poco appetibile romanzo, del quale, in ogni caso, vi ho detto abbastanza così che possiate tenerlo fra le letture comunque fatte).

Ghizzoni ha certamente una mente fervida, ed una buona propensione alla scrittura, che potrebbe finalizzare decisamente meglio. Tuttavia, se ad uno scrittore vengono pubblicate le sue fatiche, io non posso che essere contento per lui.

Christian Frascella “Fa troppo freddo per morire” Repubblica Emozione Noir 30 euro 7,90

[A: 22/01/2020 – I: 16/07/2024 – T: 17/07/2024] &&& ---  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 348; anno: 2018]

Avevo sentito parlare di Christian Frascella e della sua scrittura ironica e scanzonata, come il suo libro d’esordio “Mia sorella è una foca monaca”. Finalmente trovo modo e tempo di leggerne, quando dalla narrativa generalista passa a quella di genere, introducendoci in un giallo che non è proprio banale, e con un investigatore che, con i suoi alti e bassi, mi è risultato decisamente simpatico.

Fin dalle prime righe facciamo conoscenza con Contrera, che lui, come il Colombo televisivo o il Morse del grande Dexter, usa solo il cognome, anche se ad un certo punto ci dà indizi per arrivare anche al nome, ma non ce lo dice (noi lo abbiamo capito ma non ve lo diciamo). Ma farne la conoscenza lì dove trascorre gran parte del suo tempo, aspettando improbabili clienti, in un angolo della lavanderia del maghrebino Mohammed, sorseggiando, con qualsiasi tempo, quantità industriali di birra Corona è solo il punto di partenza.

Ci vorranno pagine e pagine, nonché suoi piccoli cedimenti, per arrivare a farne un ritratto decente, benché (visto che questo è solo il primo romanzo di una serie) di certo non esaustivo. Figlio di un poliziotto integerrimo, purtroppo tifoso del Torino come il figlio, intraprende anche lui la carriera nell’arma. Ma ad un certo punto (che sappiamo collocare nel tempo, ma non nei motivi), sbanda, comincia a prendere e rivendere droga, prende bustarelle, nonché massacra di botte un malvivente (pur se con ragione). È anche sposato con figlia, Valentina, allora di cinque-sei anni. Ma niente lo può salvare dall’essere radiato dalla polizia.

Solo il commissario amico Baseggi non lo abbandona, anzi lo aiuta a prendere la licenza, e gli rimane accanto in questi dieci anni (che ora Valentina ne ha sedici). E lo introduce nel mondo multietnico di Barriera di Milano, uno dei protagonisti del romanzo, un quartiere di Torino dove gli italiani sono pochi ed i malviventi molti. Lì Contrera si arena e si barcamena con piccole indagini, dove mantiene uno strano punto d’onore: mi ingaggi per un motivo, io indago, poi ti dico il risultato. Ma niente prove, o mi credi oppure puoi anche mollare tutto.

E lì in Barriera comincia anche la storia poliziesca di Contrera. Mohammed gli chiede id ritrovare il nipote Driss, scomparso anche perché inseguito da un boss albanese cui deve soldi. Con Contrera, nella ricerca di Driss, entriamo nel sottobosco del quartiere. L’albanese è uno dei capi ‘ndrina di un boss calabrese, e gestisce un locale dove signorine compiacenti fanno il solito doppio mestiere: ubriacare i clienti e, nel caso, accompagnarsi con loro. Inseguendo il filone soldi, Contrera trova anche il motivo dei debiti di Driss: una serie di puntate su partite di calcio, truccate ma con il risultato che non viene mai convalidato (è una situazione di scommesse complicate, non chiedetemi di più).

Seguendo le tracce di Driss, lo incontra nel locale dell’albanese, poco prima che questi venga ucciso con un pugnale di proprietà del giovane. Per la polizia tutto semplice: omicidio per mancanza di soldi. Ovvio che Contrera non ci crede, si pone domande, e continua la ricerca di Driss. Che alla fine trova, ma anche lui ucciso in una scena di palese finto suicidio.

Ma cosa aveva spinto il giovane ad indebitarsi ed a trovarsi coinvolto in sì brutte trame? Ovvio, che siamo nel più classico “cherchez la femme”. Ma dove sarà, la donna? Chi sarà? Una delle signorine del locale? Qualcuno di esterno? Forse la procace commessa delle scommesse?

La soluzione del giallo è ingegnosa ed inaspettata. Tuttavia, siccome viene descritta più di cento pagine prima della fine, tutti sospettiamo che manchi qualcosa, che ci sia altro. Ed in questo Frascella ha una buona dose di inventiva, nonché buone conoscenze dei meccanismi gialli. Infatti, ci spinge verso possibili modi di scioglimento dei nodi irrisolti che sono plausibili, che potrebbero ma che nel caso in cui ci farebbe dispiacere.

Che ve lo dico a fa’, è una parte da leggere tutta d’un fiato, che la fine arriva, i nodi si sciolgono, anche se Contrera dovrà fare ancora molta strada prima che il suo modo di affrontare questa fine ci soddisfi.

In tutto ciò, Frascella comincia anche a mettere dei ponti verso possibili altre puntate. Di certo c’è il non rapporto con la figlia, nonché il buon rapporto con i nipoti. Ma entra in gioco anche Erica, la commessa di cui sopra, con cui Contrera comincia una storia, anche se non proprio limpida (e non vi dico perché). Quello che piace a me è l’ironia con cui introduce Luca, il figlio di Erica, e le sue battute fulminanti.

Il fatto che Erica possa essere sospettata lascia punti di domanda, tanto che Contrera, per ora, sembra troncare i rapporti con tutti. Ha risolto il caso, ma non salvato Driss. Però Frascella è riuscito a mettere tanta legna al fuoco che non potrà che nascere almeno una se non più puntate del serial.

Ha me questo tipo di scrittura, anche se contorna il giallo senza essere un modello di suspense, piace ed intriga. Anche perché introduce nel mondo reale le gesta dei protagonisti. Le lavanderie, i bar, i locali fumosi, la gente al limite dell’onestà. Una bella foto dell’oggi. Non eccelsa ma gradevole.

Primo scritto di agosto, quindi andiamo a vedere le letture di maggio, per ora il più prolifico di letture, purtroppo non particolarmente elevate. Se si eccettua un ottimo libro di Murakami sul jazz e l’ultima prova di Joel Dicker sempre di livello. Un livello che invece vede da molto lontano una pur onesta ma poco riuscita prova di Marco Ghizzoni.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Javier Cercas

Indipendenza

Repubblica Essenza Noir

8,90

2,5

2

Roy Jacobsen

The Unseen

MacLehose

15

2

3

Marco Ghizzoni

Il cappello del maresciallo

Repubblica Emozione Noir

7,90

1,5

4

Rino Cammilleri

L’inquisitore

Mondadori

6,90

2

5

Haruki Murakami

Ritratti in Jazz

Corriere

9,90

4

6

Augusto De Angelis

L’impronta del gatto

Mondadori

6,50

2,5

7

Rosa Teruzzi

La ballata dei padri infedeli

Sonzogno

s.p.

3

8

Gabriel Garcia Marquez

En agosto nos vemos

Random House

s.p.

3

9

Katrine Engberg

Il guardiano dei coccodrilli

Feltrinelli

12,5

3

10

Maurizio De Giovanni

Pioggia

Einaudi

s.p.

2,5

11

Joel Dicker

Un animale selvaggio

La Nave di Teseo

s.p.

4

12

Jessica Fellowes

Morte di un giovane di belle speranze

Repubblica Brivido Noir

8,90

2,5

13

Gianrico Carofiglio

Le tre del mattino

Repubblica

8,90

2,5

14

Alessandro Reali

La matta di Milano

Corriere Gazzetta

7,99

2

15

Leonardo Sciascia

Le parrocchie di Regalpetra

Repubblica

8,90

2

16

Fabrizio Borgio

Vino rosso sangue

Corriere Gazzetta

7,99

2,5

17

Alicia Gimenez-Bartlett

La donna che fugge

Sellerio

s.p.

3,5

18

Isabel Allende

Il vento conosce il mio nome

Feltrinelli

s.p.

3

19

Andrea Fazioli

Gli Svizzeri muoiono felici

Repubblica Emozione Noir

7,90

3

 

Con il mio solito gusto del contrappasso, alterniamo vari tipi di romanzi. Questo mese di, spero, vacanze per tutti, vi porto nel mondo di Alessandro Baricco. In particolare, il suo “City”, dove in particolare, vi riporto il sunto del libro che si immagina abbia scritto il professor Mondrian Kilroy.

“è così quasi sempre: si scopre alla fine che il dolore, tutto quel dolore, era inutile, che si è sofferto come bestie, ed era inutile, non era né giusto né ingiusto, non era bello o brutto, era solo inutile, tutto quello che puoi dire alla fine è: era un dolore inutile” (19)

“Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei mai.” (37)

“di colpo, ti viene in mente quella domanda, chissà come sto, IO? vorrei sapere solo questo, come sto, IO? Qualcuno sa se sono buono, o vecchio, qualcuno sa se sono VIVO?” (130)

“SAGGIO SULL'ONESTA' INTELLETTUALE: 1. Gli uomini hanno idee. 2. Gli uomini esprimono idee. 3. Gli uomini esprimono idee che non sono loro. 4. Le idee, una volta espresse e dunque sottoposte alla pressione di un pubblico, diventano oggetti artificiali privi di un reale rapporto con la loro origine. Gli uomini le affinano con tale ingegno da renderle micidiali. Col tempo scoprono di poterle usare come armi. Non ci pensano su un attimo. E sparano. 5: Gli uomini usano le idee come armi, e in questo gesto se ne allontanano per sempre. 6. L'onestà intellettuale è un ossimoro. Conclusione: Un’altra vita, saremo onesti. Saremo capaci di tacere.” (161)

Comunque, finalmente siamo riusciti ad allontanarci da Roma, prendendo pianta stabile nel nostro fresco e buon ritiro, sperando si riesca a lavorare un po’ sulle parole, ed a riposare un po’ dai piccoli acciacchi che continuano ad imperversare. Per ora, vince l’allontanamento dall’afa, per cui vi posso inviare un fresco abbraccio.

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