Riprendiamo di nuovo a percorrere le strade degli scritti di Simenon, ricominciando ancora una volta dagli anni Trenta. Seguiamo così la seconda tornata della collana dedicata allo scrittore belga da parte di Repubblica. Questi cinque scritti variano dal ’33 al ’37, crescendo un po’ in capacità di coinvolgere ed interessare il lettore. Perché la scrittura, e l’autore, maturano. Ci sono molti echi dei viaggi che Simenon intraprese all’epoca. Ed anche i suoi soliti contrappassi, come nell’ultima trama, forse la migliore, dove parla di un sobborgo cittadino mentre scrive all’ombra di un sole accecante nelle spiagge polinesiane.
Georges Simenon “Colpo di luna”
Repubblica Simenon II 15 euro 9,90
[A: 23/06/2023 –
I: 08/11/2023 – T: 09/11/2023] - && e ½
[tit. or.: Coup de lune; ling. or.: francese; pagine: 140; anno 1933]
Cominciamo il secondo giro dei capolavori di
Simenon, tornando quindi alla produzione degli anni Trenta, riprendendo a girare
intorno alla vita del maestro belga. Dal punto di vista editoriale ha un
contratto ferreo con Fayard, per il quale produce numerosi Maigret di successo.
Tra la fine del ’31 ed i primi mesi del ’32 abita a Cap d’Antibes, produce 4
libri, ma soprattutto cerca di seguire la lavorazione del primo film tratto dai
Maigret (“Nuit du carrefour” di Renoir). Ma non entra in sintonia con
l’ambiente e si accontenterà dei cospicui incassi dei diritti cinematografici.
A febbraio, nel Congo Belga, nasce suo
nipote George, quindi in primavera cambia casa, e si installa a “La
Richardière” un villino nella Charente, che sarà la sua residenza per alcuni
anni e dove scriverà una dozzina di libri. In estate, inviato del magazzino
“Voilà”, intraprende un lungo viaggio in Africa. Attraversa il Mediterraneo
sulla nave “Angkor” e sbarca in Egitto. Lì visita Il Cairo e Assuan, poi
prosegue per Karthoum in Sudan. Si sposta poi in Congo ed affronta una
traversata di 1700 km sul fiume Congo sino a Leopoldville. Dopo aver salutato
il fratello ed il nipote, raggiunge la costa, dove si imbarca sul
transatlantico “Amérique” per tornare a Bordeaux, facendo sosta a Libreville in
Gabon e Conakry in Guinea.
Un viaggio foriero di molti articoli, e da
dove prenderà spunto anche per alcuni libri. Il primo dei quali lo scrive nel
suo ritiro di Marsilly, nell’autunno, anche se sarà dato alle stampe solo
nell’aprile del ’33. Un romanzo cui Simenon teneva molto, uno dei primi non
Maigret da quando era cominciata la fortuna con le avventure del Commissario.
Simenon, infatti, era sicuro di essere un romanziere a tutto tondo, cosa che
però, per una serie di avverse vicende, non venne mai affermata pienamente in
vita. Di sicuro, troppo successo aveva Maigret, e questo di certo non fece
sempre piacere al nostro.
Qui, intanto, c’è un piccolo grado di
suspense, ma molto dello scritto è rivolto ad una serie di critiche profonde.
La prima, all’illusione che prendeva i giovani europei all’idea di andare in
Africa e fare fortuna. Simenon l’aveva visto con il fratello Christian, ma
anche confermato nel suo lungo viaggio africano. Giovani che arrivano in Africa
certi della superiorità europea e che si trovano invischiati in un mondo che
spesso non capiscono. E dove spesso, coloni che da tempo si sono trasferiti,
girano le leve del potere sprezzando i nuovi arrivati, ma anche e soprattutto i
locali.
Questa è la seconda lancia che vuole
spezzare l’autore: la cattiva politica coloniale di tutti, e sottolineo tutti,
i paesi europei presenti in Africa. Si sopravvive solo attraverso la
corruzione, ed è la corruzione che viene insegnata ai locali per sopravvivere.
Si sprezza il valore della vita, in particolare, la potenza delle armi europee
e dei liquori, rende schiavi ed impotenti i locali, che non hanno la forza di
reagire.
Tutto questo è messo in luce dalla vicenda
di Joseph Timar, giovane un po’ allo sbando in patria che accetta di andare in
Gabon, per conto dello zio, a far fortuna. Ma appena arrivato si accorge di
alcune cose fondamentali: un caldo cui non è abituato, un ambiente europeo
chiuso che fatica ad accettarlo, una impossibilità di comunicare, e quindi di
capire, i locali avendo una barriera linguistica e mentale quasi
insormontabile.
Timar aspetta, frequenta i potenti e non li
capisce, alloggia nell’unico albergo di Libreville, divenendo presto anche
l’amante della bella Adèle, la proprietaria. In una notte di tregenda e
ubriacatura, il marito di Adèle muore di bilharziosi ed un negro viene ucciso,
forse dalla stessa Adèle. Il nostro, pur ubriaco, assiste a tutto ciò, ma non
fa nulla, al momento, per dire la sua versione.
Timar viene coinvolto da Adèle in un’impresa
di vendita di legname, per cui si addentrano all’interno del paese. Ma è vera
passione o un tentativo di distogliere il giovane dai suoi pensieri sempre più
foschi? Quando viene istituito un processo per la morte del negro, Adèle è
un’imputata, e potrebbe venir salvata dalla confessione (prezzolata) di un
povero vecchio.
Tutti gli europei fanno muro per salvare
Adèle, meno il nostro povero giovane, che grida la sua verità. Ma è già
sconvolto dai caldi africani, dall’abuso di liquori, nonché dalla gelosia nei
confronti della vedova, che finisce la sua accusa farfugliando parole.
Facile il gioco dei bianchi di farlo passare
per un colpo di luna e di rispedire il giovane, solo e senza più un soldo, di
nuovo verso casa. Rimanendo oscura nelle more la decisione del Tribunale sulla
sorte della bella Adèle.
Ci sono tanti momenti di grande scrittura,
anche in questo breve (e tutto sommato giovanile visto che Simenon all’epoca
non ha ancora trent’anni) scritto. L’atmosfera dell’albergo rifugio dei
bianchi, ad esempio, dove Joseph all’inizio viene quasi isolato, poi, man mano
che diventa chiara la sua confusione e la sua poca incisività, introdotto, nel
bere e nel giocare. Parentesi: qui Simenon si riferisce a due giochi francesi
che non so quanto noti in Italia. Un gioco di carte chiamato “belote”, una
sorta di briscola a chiamata, ed un gioco di dadi chiamato “zanzi”, una sorta
di poker a tre dadi.
Poi ci sono le scene del tribunale, che
vengono riprodotte con una fedeltà nella confusione che ci fa immergere proprio
nella confusione locale. Tutti che urlano, negri che fanno la loro
testimonianza in lingua locale, magari parlando per dieci minuti, e con
l’interprete che traduce tutta la tirata con “Ha detto che è d’accordo”. Ma
anche la presupponenza dei presunti giudici, l’invadenza degli europei (direi
meglio, la loro arroganza e presupponenza). Alcune pagine da immortalare per la
loro capacità evocativa.
Infine, c’è tutta la storia in sé, vista
sempre dalla prospettiva di Joseph, e con lui le pagine si fanno sempre più
confuse, oniriche, fino ad un finale che, per l’appunto, lui non capisce, ne
rimane stordito, riuscendo solo a ripetere: “Non esiste!”.
Rimane da dire del titolo, che si riferisce
ad una sindrome che può avvenire durante i pleniluni, dove, in soggetti
predisposti (magari per stress e calore) provoca aritmie e stati confusionali
con possibili attacchi anche epilettici. Questo il “colpo di luna” che Simenon
inferisce a Joseph.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Libreville, capitale del Gabon |
Joseph
Timar, figlio di un funzionario e nipote di un
politico, celibe, 23 anni |
Adèle
Renaud, sposata poi vedova, albergatrice |
Alcuni
mesi |
Epoca
tra le due guerre mondiali |
Georges
Simenon “La casa sul canale” Repubblica Simenon II 13 euro 9,90
[A: 09/06/2023 –
I: 14/01/2024 – T: 15/01/2024] - && e ½
[tit. or.: La maison du
canal; ling. or.: francese; pagine: 143; anno 1933]
Georges Simenon è da poco ritornato dal
lungo viaggio in Africa, a valle del quale scrive a caldo il romanzo
precedente. Poi, installato con Tigy quasi in riposo a “La Richardière” a
Marsilly (poco sopra La Rochelle, dove trascorre la maggior parte dei primi
anni Trenta), si dedica alla moglie, alle sue amanti (sempre presenti) ed alla
scrittura.
Sente che continuare a scrivere di Maigret
lo sta legando ad un cliché che mal sopporta, così si rivolge alla scrittura in
senso ampio, tornando a quelli che chiamerà “romanzi duri”. L’idea forte di
questo romanzo, innovativo del genere, anche se non riuscitissimo, è di
rovesciare l’andamento classico del giallo. Non ci sono morti nei primi
capitoli, non ci sono inchieste. C’è un lungo percorso che scava nei
personaggi, in particolare nella protagonista Edmée. Solo l’ultimo capitolo
squarcia alcuni veli, riprende toni abituali, e segue la breve indagine del
procuratore distrettuale che porta alla chiusura del libro.
Facciamo un piccolo passo indietro. Simenon
ha quasi trent’anni (li compirà a febbraio e il libro viene scritto a metà
gennaio del ’33), ma è già avviato ad una grande produzione letteraria. Ha
redatto già 19 romanzi “Maigret” e questo è l’ottavo “romanzo duro”. Ma vuole
anche fare un salto nella sua produzione. Si rifà quindi a situazioni a lui ben
note, ed ambienta la trama nella parte fiamminga del Belgio.
Perché se è vero che Simenon è un cittadino,
un “ligeois”, le sue ascendenze da parte materna vengono proprio dal Limburgo,
la provincia belga al confine olandese. Il suo nonno materno, Guillaume Joseph
Brüll, nell’infanzia del nostro, vive prima a Dilsen-Stokkem, ricoprendo la
carica di “Responsabile delle dighe” (ovvio che è una zona piena di canali),
per poi spostarsi dieci chilometri a nord, nella cittadina di Neeroeteren. Ed è
lì che talvolta il giovane Georges lo va a trovare. E non è un caso che, oltre
ad ambientare il romanzo a Neeroeteren, la fattoria dei Van Elst si chiama “Les
Irrigations”.
Sarà proprio attraverso i suoi ricordi degli
scomodi trasferimenti in treno da Liegi per trovare il nonno, che prende spunto
l’inizio del romanzo, in cui vediamo la giovane (16 anni) Edmée Van Elst
viaggiare da Bruxelles, dove è nata, ma dove i suoi genitori sono morti, verso
la profonda provincia fiamminga, al fine di rifugiarsi dagli unici parenti
viventi. Il clan dei Van Elst.
Da qui comincia a descrivere, con una
capacità sorprendente per la giovane età, lo scontro di mentalità tra Edmée ed
il resto della famiglia, per sottolineare il brusco cambiamento cui è
sottoposta la giovane. Non solo un cambiamento di ambiente, ma anche, e
soprattutto, di mentalità.
Edmée è cittadina, come Georges, abituata a
leggere, andare a scuola, avere un rapporto non subalterno con il padre medico.
Nella provincia profonda, invece, abbiamo i rozzi abitanti, tutti tesi al
lavoro quotidiano che serve per portare avanti la loro non abbiente vita. Lo
scontro è acuito dal fatto che papà Van Elst muore mentre arriva la nostra, ed
il clan si trova ad affrontare una profonda crisi. Le redini dell’azienda
vengono prese dal figlio anziano, Fred, di soli 21 anni, mentre il
secondogenito, Jef (19 anni) è un orso selvatico che deve gestire le terre ed i
contadini. C’è la coetanea cugina Mia, aiutante principe di mamma Van Elst
nella gestione quotidiana della casa, e le tre piccole Van Elst che vanno a
scuola.
Lo scontro tra Edmée ed il clan è acuito dal
fatto che tutti i Van Elst parlano solo fiammingo, e solo i cugini grandi, chi
più chi meno, parlano un po’ di francese. Una solitudine della lingua anch’essa
ben descritta da Simenon, che riporta i brevi dialoghi in francese, mentre
lascia trapelare, ma non scrive direttamente, quanto si dice e si discute in
fiammingo.
In questa atmosfera in cui si sente reclusa,
vediamo l’evolversi del personaggio Edmée. Comincia appunto timida
nell’arrivare dai cugini, non li capisce, si isola. Mia cerca di avvicinarsi,
ma sono due mondi diversi. Forse Jef sembra capirla, o forse lei comincia, con
Jef, a crescere, a vedere le sue potenzialità. Non può integrarsi, ma può
ritagliarsi il suo spazio. Iniziando a manipolare Jef, a fargli fare quello che
lei vuole (uccidere scoiattoli, rubare delle pietre in chiesa).
Con il tempo, anche se poco, sboccia meglio
anche il suo corpo, e se ne accorge Fred, che, invece di andare nella grande
città in cerca di donne a pagamento, comincia a guardarla con altri occhi. E
lei non trova di meglio che aizzare la lotta, già da sempre latente, tra i due
fratelli. Fino a farli complici nella morte di un ragazzo, fino a costringere
Fred a dichiararsi, fino ad umiliare Jef per la sua testa un po’ idrocefala.
Qui si apre anche una piccola parentesi
antropologica di Simenon sul mondo rurale. Che lo zio morto era sifilitico, e
genera ragazzi con delle piccole tare. Una macchia sulla gamba di Mia,
foruncoli sul collo di Fred, una testa fuori misura per Jef. Loro sono di
campagna, e per loro, ci sottolinea Simenon, sembrano cose normali. Edmée è
cittadina, ha letto i libri medici del padre e sa che non sono cose normali. Ed
usa anche questa sua conoscenza per aumentare il suo potere, per diventare, pur
ancor giovane, quasi un prototipo di “femme fatale”.
Procede tutto così per undici capitoli in
cui vediamo svolgersi il ruolo di Edmée verso posizioni sempre più centrali e
di potere. Poi, con un salto narrativo di cui solo Simenon è capace,
nell’ultimo capitolo i nodi, che si erano attorcigliati, vengono gordianamente
sciolti. Edmée ha accettato di sposare Fred, Fred ha dovuto vendere la fattoria
per far fronte ai debiti, Jef ha aperto un forno in città non avendo più la
terra cui badare. Ed a questo punto… Certo non vi dirò cosa succede, ci sono
solo le parole del procuratore che ci fanno seguire la trama, e quelle di un
personaggio che chiosa chiedendogli: “Lei cosa avrebbe fatto?”.
Simenon ci mostra tutto il suo astio per la
vita di provincia, ed esalta il ruolo di Edmée come testimone e catalizzatrice
della decadenza della famiglia Van Elst.
Un ultimo accenno al nome. Ho scoperto che
Edmée è una modificazione fonetica al femminile del nome francese Edmond. Sarà,
per me rimane un anagramma di Médée. Non so se fosse nelle intenzioni di
Simenon, ma potrebbe avere un senso.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Neeroeteren,
villaggio belga del Limburgo |
Edmée
van Elst, belga di Bruxelles, orfana, 16 anni |
Fred
(21 anni) e Jef (19 anni) Van
Elst, suoi cugini agricoltori a Neeroeteren |
Alcuni
mesi |
Epoca
contemporanea alla scrittura |
Georges
Simenon “L’uomo di Londra” Repubblica Simenon II 12 euro 9,90
[A: 01/06/2023 –
I: 26/03/2024 – T: 28/03/2024] - &&&
[tit. or.: L’Homme de
Londres; ling. or.: francese; pagine: 140; anno 1934]
Il 1933 è un anno cruciale per il trentenne
Simenon. Ha deciso di interrompere la produzione dei romanzi-Maigret per
dedicarsi a quelli che chiama romanzi-duri, ed ha altresì deciso, proprio per
avere più lanci di mercato, di abbandonare l’editore Fayard, e di legarsi a
Gallimard, la potenza editoriale francese.
Sempre installato a “La Richardière” di
Marsilly, poco sopra La Rochelle, questo è anche un anno di viaggi e di
reportage. Per disintossicarsi dai romanzi e dalla scrittura lunga, pagato da
alcuni settimanali, parte per un giro in Europa che lo porta prima in Belgio,
poi a Berlino (dove incontra Hitler in un ascensore), in Polonia e nei Paesi
Baltici, scendendo poi verso l’Ungheria, la Romania ed imbarcandosi a Odessa in
Ucraina per girare su un battello italiano il Mar Nero. Tornato sulla
terraferma, visitando a lungo Istanbul ed Ankara, riceve un messaggio di
recarsi a Prinkipo, un’isola poco distante da Istanbul. Dove incontra Trotzkij,
che diverrà il centro di una lunga intervista poi pubblicata nel giugno del ’33
su “Paris Soir”.
Anche se vede molto, non percepisce i segni
delle minacce che avanzano, tanto che anche qui i suoi reportage non hanno la
risonanza che lui si aspettava. Eccolo allora tornare a Marsilly ed alla
scrittura, producendo di getto nella seconda parte dell’anno almeno cinque
romanzi senza Maigret. Tra cui questo, che risulterà, a posteriori, l’ultimo
romanzo pubblicato dall’editore Fayard, avendo in autunno perfezionato il
contratto con Gallimard. Un romanzo che dovrebbe aver scritto nell’autunno
dell’anno, anche se nei suoi archivi risulterebbe in dicembre. Tra l’altro,
Fayard che spera in un ripensamento di Simenon, lo pubblica a tamburo battente.
Tuttavia, il libro non ha la risonanza che
si aspetta l’autore, che conferma i suoi propositi e dal ’34 pubblicherà una
sessantina di titoli per Gallimard.
Altro dato tipico di Simenon, è collocare
l’azione in un luogo che conosce bene, per averne usufruito del porto quando,
solo pochi anni prima, girava per le acque ed i canali francesi con il suo
battello. Ed anche facilmente ipotizza una storia molto “psicologica”, seppur
dai contorni noir, visto che Dieppe, dove colloca la vicenda, è una città “di
confine”, dove, come tutte le città simili, è facile imbattersi in avvenimenti
intrecciati, in situazioni a rischio, in momenti problematici.
E quando Simenon decide un filone, ecco che
ci si butta a corpo morto. Quello che meglio gli riesce, al momento, è
costruire la trama intorno ad un personaggio, metterlo in una situazione
critica, e poi seguirne l’evoluzione. Compaiono anche altri elementi, durante
il percorso, ma è l’uomo quello a cui Simenon si interessa, ai suoi percorsi
mentali che lo portano ad azioni e a decisioni, fino alla fine del romanzo,
spesso come in questo caso affrettato, ma forse volutamente sfumato dall’autore
stesso, avendo egli esaurito a quel punto i suoi spunti d’interesse.
Seguiamo così le vicende di Louis Maloin,
uomo in età matura, ex-marinaio, ora controllore addetto agli scambi ed alle
segnalazioni presso la stazione marittima di Dieppe. Ha una moglie, con la
quale la vita procede ad alti e bassi, un ragazzo in età scolare, ed una figlia
adolescente, cui è molto legato. Come è legato, ma non vincolato, a Camille,
una “escort” del vicino locale con cui ogni si apparta per alcuni momenti di
relax.
Maloin ha il turno notturno agli scambi, e
dalla torretta da dove controlla il traffico, ha un’ampia visuale di quanto
avviene nel porto e nella stazione ferroviaria. Così che una notte vede un
tizio lanciare una valigia sulla banchina, valigia raccolta da un compare. Il
primo, quindi, può passare indenne la dogana, e raggiungere l’amico. Maloin
vede tutto, e vede anche che i due litigano e l’uomo della nave colpisce a
morte l’altro che con tutta la valigia cade nel porto e affoga. L’assassino,
l’uomo di Londra, fugge, e Maloin recupera la valigia scoprendo che contiene
una grossa fortuna in banconote.
Da qui comincia tutta la parte intermedia
del romanzo. Incentrata, sul senso di riscatto che gli dà il denaro, lui sempre
tartassato, sempre quasi un passo indietro. Vediamo l’insorgere ed il
manifestarsi in Maloin di tutti i sentimenti di rivincita covati per anni.
Risponde alla moglie, si compra un pipa costosa, fa licenziare la figlia
maltrattata dai datori di lavoro.
Dall’altra, Simenon ci informa, mai
direttamente, del contorno. Brown, l’uomo di Londra, è un ladro sfortunato cui
non riesce mai un colpo. Ha rubato i soldi al direttore di un teatro, anche se
quei soldi erano l’ultima speranza del signor Mitchell di ritirarsi a vita
privata un po’ più in agiatezza. Tutto dalla bocca di un ispettore di polizia
inglese che si reca sul posto, spaventando il povero Brown che fugge
rifugiandosi in un capanno di proprietà di Maloin.
Maloin è l’unico a conoscere tutta la
vicenda, e tenta la via della pietà portando del cibo a Brown. Che però lo
assale e nella colluttazione ha la peggio. Questo crimine segna internamente la
fine del sogno di Maloin. Riporta il denaro rubato e si accusa dell’omicidio. Nessuno
capisce la sua determinazione e la sua compostezza. Perché nessuno immagina che
ora non gli importi nulla. Per Maloin, è tutto finito e i soldi non lo hanno
reso un uomo diverso
Un completo dramma della mediocrità: Simenon
ci dice che non è l’esterno che ci modifica, ma il nostro interno. E Maloin non
riesce a tirarlo fuori. Per cui accetta il suo destino, quasi che la
confessione possa comunque riscattarlo dalla sua vita inutile.
Non capisco soltanto l’insistere nel titolo
a focalizzarsi sull’uomo di Londra, quando questi non è che il motore di un
processo di cui Maloin è il vero interprete, ed è su Maloin che si devono
incentrare le nostre attenzioni.
È un tipico romanzo duro di Simenon, con le
sue cupezze, con i piccoli accenni di mestiere che gli consentono di costruire
una dozzina di capitoli di uguale lunghezza, da cui, senza perdersi in troppe
parole, riesce a far uscire i suoi messaggi. Una buona ma non eccelsa prova.
Da rilevare, infine, che la prima edizione
italiana, uscita sempre nel ’34 per Mondadori, ha usufruito dell’eccellente
traduzione di Giorgio Monicelli, fratellastro di Mario, ma per me per sempre
legato alla parola che inventò per lanciare una serie di pubblicazioni che
tuttora continuano dopo più di settanta anni: “fantascienza”.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Dieppe, porto
normanno sulla Manica |
Louis
Maloin, ex-marinaio, controllore del traffico alla
stazione marittima di Dieppe. Sposato con due figli (una ragazza ed un
giovane) |
Pitt
Brown (soprannominato “Sfortuna”) ex clown e ladro
senza fortuna Harold
Mitchel direttore di un music-hall a Londra e sua
figlia Eva Molisson
ispettore della polizia inglese |
Alcuni
giorni |
Epoca
contemporanea alla scrittura |
Georges
Simenon “Cargo” Repubblica Simenon II 4 euro 9,90
[A: 09/04/2023 – I: 03/06/2024 – T:
05/06/2024] - &&&
[tit. or.: Long cours; ling. or.: francese; pagine: 348; anno 1936]
Ormai deciso a buttarsi a capo fitto nella “letteratura”,
dopo il precedente scrive 8 romanzi di cui un solo Maigret. Ma soprattutto
comincia a pubblicare da Gallimard. In effetti, e lo abbiamo già scritto in
altre note relative a questo periodo, in realtà due sono i tratti salienti
della vita del poco più che trentenne Simenon.
Il primo riguarda alcuni spostamenti di
abitazioni, girovagando prima intorno alla Bretagna, per poi tornare a Parigi,
o nelle sue vicinanze. Come detto, rompe con il suo editore precedente. Grazie
a Gide comincia ad avere un rapporto stabile con Gallimard. Ed infine, si
installa al numero 7 di boulevard Richard-Wallace a Neuilly-sur-Seine, che al
tempo era fuori della prima cinta parigina, al di là del Bois de Boulogne.
L’altro riguarda i viaggi, sempre cari al
nostro scrittore. Anche perché gli consentono di scrivere articoli subito
remunerativi, e gli danno spunti per i suoi libri, in genere spesso quelli
senza Maigret. In questi due anni, ne effettua due. Nella primavera-estate
affitta un veliero italiano a due alberi, l’Araldo, con il quale, insieme alla
moglie, fa un giro del Mediterraneo: Sanremo, Genova, l’isola d’Elba, Napoli,
Messina e Siracusa in Sicilia, poi Malta, Atene, Tunisi, per terminare a
Cagliari. L’anno seguente, invece, effettua il giro del mondo in 155 giorni
(quasi il doppio di Phileas Fogg).
Inizia con la traversata da Le Havre a New
York a bordo della La Fayette; poi prosegue attraversando il Canale di Panama, si
ferma a Buenaventura (Colombia) e a Guayaquil (Ecuador), dove indaga su un
misterioso dramma avvenuto alle Galapagos; quindi, grande traversata verso
Papeete a bordo di una nave mercantile mista francese; passa circa due mesi a
Tahiti per proseguire da Papeete a Sydney, via Isole Cook e Nuova Zelanda, a
bordo della nave statunitense Makura; dopo un breve soggiorno in Australia, si imbarca
per l'Europa a bordo del transatlantico britannico Mooltan, attraversa il Mar
di Timor, l'Oceano Indiano (con scali a Ceylon e Bombay), il Mar Rosso e il
Canale di Suez (ultimi scali ad Alessandria e Malta).
Questo tour mondiale di soli cinque mesi lo
ha ispirato a scrivere non meno di sei romanzi e otto racconti. Ovvio che, se
avete letto alcuni scali, questo libro è direttamente ispirato dal viaggio.
Inoltre, e sappiamo che da poco era entrato in sintonia con Gide, è il primo
tentativo di romanzo complesso senza Maigret, che, secondo Simenon avrebbero
dovuto portargli la fama che si meritava. Complesso e lungo, superato solo
l’anno successivo da “Il testamento Donadieu”. Ma la cifra di Simenon rimarrà
invece giustamente legata ai testi che si aggirano sulle 150 pagine, la sua
misura di scrittura.
Infatti, qui la lunghezza serve di certo a
rappresentare una situazione complessa, ma alla fine, è un po’ stanchevole e fa
perdere di vista l’assunto centrale cui l’autore si voleva legare. Quasi che
fossero tre romanzi legati insieme, percorsi da un filo che li congiunge e da
un’idea. Che poi è sempre la stessa riproposta in vari modi: analizzare il
comportamento umano quando si attraversa quella “linea d’ombra” che, dalle
letture di Conrad, sempre gli rimane in testa.
Ed a Conrad deve anche il testo, nella
riproposizione di alcune situazioni e modalità. I viaggi per mare, e quello che
rappresentano per chi li affronta. La giungla ed i suoi misteri, che tendono a
far vacillare la mente umana (e qui si sente molto “Cuore di tenebra”). Le
località che sembrano paradisiache, ma che non riescono a pacificare i tormenti
dell’uomo.
Proprio in questa tripartizione troviamo
spalmata la vicenda che vede al centro Joseph Mittel detto Jef, con i suoi
co-protagonisti principali, il capitano Mopps e la loro amante Charlotte.
Tutto comincia a Dieppe (che era il teatro
del precedente testo tramato) dove riparano gli anarchici Jef e Charlotte. Lui
(anche se lo scopriremo solo durante tutto il testo) è figlio di un anarchico,
membro della famosa “banda Bonnot” che si suicida in carcere. Per questo Jef è
da sempre negli ambienti anarchici, dove conosce la cameriera libertaria
Charlotte. Costei ha una relazione con il suo datore di lavoro, ma per
liberarsene (certo) e per finanziare l’anarchia (falso) lo uccide. Costringendo
così Jef a fuggire con lei.
A Dieppe si imbarcano, fortunosamente, sul
cargo “Croix-de-Vie”, comandante dal capitano Mopps. Per nasconderli, Mopps
assume Jef come fuochista e si prende Charlotte per amante. Il cargo è in
realtà una nave contrabbandiera, che porta fucili mitragliatori a dei ribelli
che tentano un colpo di stato in Ecuador. Tuttavia, giunti a Panama, vengono a
sapere che la rivoluzione è fallita. Mopps si trova quindi con un carico
inutile e senza soldi. L’ultimo tentativo, prima di riprendere il largo, è
coinvolgere Dominico, un malvivente colombiano residente a Buenaventura, di
prendersi carico della merce e dei nostri due fuggiaschi.
Comincia così la seconda parte, in cui
Dominico invia i due nella giungla colombiana, a gestire contabilmente una
miniera d’oro sulla riva del fiume Chocò (probabilmente si tratta del fiume
Atrato che attraversa il dipartimento di Chocò in Colombia; oppure il fiume
Cauca della Valle omonima, a distanza ragionevole da Buenaventura). Qui si
intrecciano due fatti: il rapporto con il geologo belga che dovrebbe gestire la
miniera e l’inizio della maternità di Charlotte. Il primo è un pazzo, come lo
sono tutti quelli che vivono nella giungla (sostiene Simenon) ed instilla germi
di follia in Jef. La seconda è turbata da un attacco di tifo, cui Charlotte
sopravvive solo grazie alle cure di Jef. Che alla fine, suicidatosi il belga,
convince la gang di Dominico a farli tornare in città, dove Charlotte
partorisce un bel bambino. Che da subito instilla in Jef il dubbio su chi sia
realmente il padre.
Dopo aver ricevuto una lettera da Mopps,
anche qui fortunosamente, i nostri eroi riescono a fuggire dalla Colombia e ad
arrivare a Papeete sull’isola di Tahiti, dove si riuniscono con Mopps. Ma il
loro rapporto non è sereno, per Jef tormentato dal dubbio che Mopps sia il vero
padre del bimbo. Anche se coinvolto nella vita idilliaca dell’isola, non riesce
a rasserenarsi. Charlotte riprende la sua vita libera (lei sostiene che essendo
anarchica, non deve avere legami) molto con Mopps ma anche con altri locali.
Mentre Jef, consolato dalle belle polinesiane, non riesce a sfuggire ai tarli,
ai dubbi, al malessere, che fin da Dieppe si porta appresso.
Arriviamo così, finalmente, al finale
“tragico”. Charlotte viene denunciata, deve quindi fuggire ancora, e si
appresta a farlo con Mopps ed il bambino. Che Jef, ripreso dalle febbri
tubercoloidi di cui da sempre soffriva, non è in grado di andarsene. Loro si
salvano, lui, probabilmente (anche se non detto esplicitamente) muore tra le
braccia di una bella donna locale.
Capita che è una trama a volte improbabile,
che sembra seguire le tappe del viaggio di Simenon, quasi a voler coniugare gli
articoli descrittivi pubblicati sulla rivista “Marianne” con le tematiche che
gli sono proprie. Non si capisce, intanto, perché Jef sia un anarchico, quasi a
voler dare un segno distintivo laddove non ce n’è bisogno. Né si comprende la
luna storia nella miniera d’oro con il suicidio del belga, se non per parlare
della cura di Jef nel salvare Charlotte. O come arrivi la lettera di Mopps in
Colombia. C’è poi il piccolo intervento del capo fuochista dello sloop che
porta i nostri a Tahiti, che compare, sembra avere un ruolo, e poi viene
abbandonato. Infine, viene poco sviluppato, quasi lasciato al folklore, la
gioiosa vitalità delle donne polinesiane.
Come detto, è un romanzo di formazione, di
linea d’ombra, che Jef oltrepassa molte volte, ma da cui esce sempre sconfitto.
Sconfitto dall’anarchia francese, sconfitto dalla giungla, sconfitto da
Charlotte che pensava di amare, ma a cui tiene solo per la presenza del figlio.
In fondo, Simenon ci dice che Jef si è sentito sé stesso solo a bordo del
cargo, lontano da Charlotte e da Mopps, condividendo la dura vita e l’amicizia
dei fuochisti. Di certo, siamo sempre in attesa di un cambiamento, di uno
scatto in Jef, che non avviene mai, e che non può che portarlo inevitabilmente
al fallimento: si scontra con tanti elementi avversi, e ne esce sempre
sconfitto.
L’altro elemento, cui forse Simenon non
aveva dato peso, ma che a distanza di tanti e tanti anni è uno degli elementi
positivi del testo, è la descrizione delle diverse atmosfere che Jef affronta
nel corso della sua breve esistenza (a Papeete dovrebbe arrivare intorno ai
suoi venticinque anni). La Francia del Nord, buia, fredda, piovosa, da dove
scappare, ma che ritorna nelle notti insonni con il ricordo della sempre amata
Parigi. La luce forte, quasi insostenibile, del Mar delle Antille. L’umidità ed
il caldo che stronca azioni e pensieri nella giungla colombiana. Le atmosfere
luminose di Tahiti, che dovrebbero portare tutti alla gioia, ma non sarà mai
così. Un piccolo messaggio, quindi, nascosto in più di trecento pagine: potete
andare ovunque, ma se affrontate la vostra linea d’ombra, dovete cambiare, o
sarete costretti a perire.
Tornerei infine al titolo. L’originale si
riferisce ai “lunghi percorsi”, quelli che ci pone la vita dinanzi e che noi si
deve affrontare (come da frase precedente). In Italia, si è deciso di optare
per il riferimento al bastimento che fa fuggire Jef e Charlotte, soprattutto
per l’analisi che ne fa ad un certo punto il capitano Mopps: due sono le navi
da trasporto, i tram ed i cargo. I tram fanno sempre lo stesso tragitto,
tornando da dove sono partite. I cargo partono e credono di tornare allo stesso
porto, ma trovando un nuovo carico, si imbarcano in una via che li porta
altrove. E così via, senza mai fermarsi. Ed i titolisti italiani ci
suggeriscono: Jef tu sei un cargo, non ti fermerai mai, fino a che non sarai
messo in disarmo.
Un altro Simenon da riflessione, anche se,
come ho detto sin dall’inizio, non mi ha convinto né coinvolto come altre prove
del maestro.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Dieppe;
il cargo “Croix-de-
Vie”; Colon (Panama); Buenaventura (Colombia); una
miniera d’oro sulla riva del fiume Choco (Colombia); Papeete (Tahiti) |
Joseph
Mittel, figlio del famoso Mittelhauser (della banda
Bonnot). Senza impiego fisso. Celibe. 22 anni |
Mopps,
capitano del “Croix-de-
Vie” e più tardi presidente del Circolo franco-inglese a Papeete Charlotte
Godebieu, ex-cameriera, amante di Mopps e di Mittel,
22 anni. |
Almeno
un paio di anni (forse tre) |
Epoca
contemporanea alla scrittura |
Georges
Simenon “Faubourg” Repubblica Simenon II 18 euro 9,90
[A: 19/05/2023 – I: 14/08/2024 – T:
15/08/2024] - &&& e ½
[tit. or.: Faubourg; ling. or.: francese; pagine: 134; anno 1937]
Come ormai sappiamo dalla lunga
frequentazione con il grande Simenon, spesso passa un congruo lasso di tempo
tra la redazione del testo e la sua pubblicazione. In particolare, in questo
periodo temporale della seconda metà degli anni ’30, dove il nostro stava
effettuando il cambio storico di edizioni.
Per cui ci rimangono poche le indicazioni
delle vicissitudini temporali. Dopo il lungo viaggio intorno al mondo, di cui
ho parlato, si installa a Parigi, anzi per l’esattezza a Boulevard
Richard-Wallace in quel di Neuilly, e si occupa più che altro di incontrare
gente e di spingere affinché i suoi romanzi senza Maigret siano accettati
dall’intellighenzia francese.
Ed è così che nel ’37, Gallimard pubblica
questo “Faubourg”, scritto due anni prima, nel ’35, durante i due mesi di sosta
a Papeete nel corso del giro del mondo. E come spesso accade a Simenon, in
questi casi è spesso preso dal bisogno del contrappasso, come anche vedremo nel
prossimo romanzo. Infatti, laggiù in riva ad un mare affascinante, con gli
occhi sulle spiagge bianche di Tahiti (ed anche sulle polinesiane, e non
andiamo oltre) scrive un romanzo tutto ambientato in città, anzi in un
sobborgo. Non solo, ma pieno di un aria gravida di piogge e di tempo cupo.
Proprio per far onore alle sue mire di
scrittore alto, la scrittura di questa periferia è molto rarefatta, così come
l’aria che respira Renè quando vi arriva, scendendo da un treno, in una notte
fredda, insieme a Léa, da lui incontrata in un bordello a Clermont-Ferrand, e
che Renè ha convinto a seguirlo con le sue millanterie verbali, quelle che gli
hanno permesso di barcamenarsi in questi quarant’anni di vita.
Sono frasi brevi, che dipingono situazioni
momenti sensazioni. Nelle frasi di Simenon, e con gli occhi di René, vediamo tram,
massaie, scolari, bancarelle, vetrine di negozi, cafè, marciapiedi, persone.
Non c’è una grossa attenzione temporale, si passa da fatti che avvengono quasi
in contemporanea, ad una frase successiva dopo sono passate settimane. Così che
l’autore ci rende partecipi della sospensione anche dell’anima del suo
protagonista senza qualità.
Infatti, è lui che riempie le pagine, René
de Ritter, tornato nella periferia natia dopo ventiquattro anni di assenza.
Tornato con un nome trasposto, che in olandese Ritter significa “cavaliere”, e
lui nasce lì, in quella periferia come René Chevalier. Riempie e svuota le
pagine, che le immagini che ci trasmette girando per il quartiere permettono
all’autore di fare scatti nel passato, ricollegando magistralmente le figure
del presente a quello che erano un dì.
È così con Albert, ora proprietario di un
albergo dove vanno a vivere lui e Léa. Che ricorda quando da bambini vestiva il
suo grembiule pulito, mangia in casa merende saporite, mentre lui e gli altri
ragazzini erano i teppistelli senza speranza dei loro genitori. Così con la zia
Mathilde, che lo riempiva di premure nell’infanzia, e che ora va a ritrovare
solo per aver del denaro a scrocco. Anche la madre è trasposta, tanto che ad
una prima occhiata non lo riconosce. Al fine la va a trovare, la riempie di regali
facendole credere di aver fatto fortuna, ma poi dovendo confessare di aver
fatto molte tappe a vuoto in tutti questi anni, rischiando anche di finire in
prigione a Panama.
Quello che gli rimane è sempre la parola.
Che usa bene, almeno nelle fasi iniziali di tutti gli incontri. Affascina
Albert, incanta i giocatori di belote al bar, si fa ingaggiare per scrivere
delle brevi note sul “Moniteur” il giornale locale. Dove parla dei suoi viaggi,
descrive luoghi e situazioni sconosciute ed altre, che non possono che
affascinare i piccoli borghesi di periferia.
Continuando i suoi piccoli intrallazzi,
spillando soldi ad Albert ricattandolo per aver questi preso Léa come amante.
Tra l’altro spingendo Léa stessa a riprendere la vita di un tempo, sfruttando
il suo corpo per aver soldi a disposizione. L’immagine che Simenon ci
restituisce di Renè è proprio esemplare in questa via di mezzo: non è
abbastanza furfante per essere un vero malvivente, ma è troppo furbetto per
essere realmente una persona perbene. In fondo, come gli dice Léa in un momento
di irosa sincerità, è solamente un dilettante.
E da dilettante si fa coinvolgere in una
storia con una sua vecchia conoscenza di giovinezza. La non proprio bellina
Marthe, da sempre innamorata di lui, ma ancora zitella, gestisce con il padre
un fiorente negozio. Così che Renè, pur restando sempre con Léa, la corteggia,
la sposa, si installa in questo nuovo momento di vita, quasi che, finalmente,
possa raggiungere quel sé stesso che ha cercato da sempre in giro per il mondo.
Léa lo accusa di essersi imborghesito, di
aver abbandonato tutti quei sogni per i quali lei lo aveva seguito lungo le
strade francesi, senza nessuna reale speranza. Accuse che si accumulano al
fatto che, come tutti i dilettanti, il suo gioco non resiste molto, alla lunga
gli altri cominciano a trovarvi buchi ed incongruenze. La matrice profonda
dell’atteggiamento di Simenon scatta quando scopre che Léa si accompagna
stabilmente con un giovanotto, e questo mette in ridicolo gli scritti e le
avventure che Renè descrive con tanta cura.
Uno scatto che farà cade tutto il suo
castello di carte, che Renè, per il suo dilettantismo, è l’emblema di tanti
personaggi di Simenon, votati alla cattiva sorte, ingenui ed allo stesso tempo
presuntosi e meschini, grandi compagnoni esternamente, ma internamente soli, di
una solitudine senza rimedio. Proprio nella prima parte del romanzo, quando
ancora non siamo entrati completamente in sintonia con lo scritto, che in
realtà parte un po’ sottotono, ci accorgiamo dell’elemento descrittivo che
riletto a fine romanzo ci dà la chiave del romanzo stesso.
Renè ricorda tutto, camminando per il
quartiere. Guarda le cose e le case e ricorda i rumori, gli odori, le facce
delle persone, i loro atteggiamenti. Nel contempo, ora, nel presente, nessuno
si ricorda di lui. Potrebbe (e lo fa) attraversare tutta la vita senza lasciare
traccia.
Non è un romanzo da “dieci e lode”, ma è una
punta verso l’alto della scrittura del nostro. Tanto che Simenon stesso teneva
molto al lancio del romanzo. Passò tempo e fatica per cercare di convincere il
vecchio Gallimard a farne un lancio pubblicitario, ad investire soldi e tempi
in messaggi radiofonici per promuoverlo. Cosa che l’editore si guardò bene di
fare. Ed è un peccato, che il romanzo stesso avrebbe meritato più successo fin
dalla sua uscita.
Ora, in pubblicazioni varie, da Adelphi a
Repubblica, ha un suo spazio, ma sono passati purtroppo quasi ottant’anni.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Il
sobborgo di una cittadina francese, senza maggiori dettagli |
René Chevalier, detto De Ritter. Nessun
lavoro fisso, dopo aver esercitato tanti lavori, 41 anni, celibe |
Léa,
ex-pensionata di una casa di piacere a Clermont-Ferrand,
compagna di De Ritter Marthe
Soubirot, commerciante, 38 anni, nubile, amica
d’infanzia di René |
Qualche
mese |
Epoca
contemporanea alla scrittura |
Da
un autore belga di lingua francese, questa volta passiamo a citare un autore
francese di chiare origini italiane. Tonino
Benacquista con la sua saga
dedicata ad una famiglia sotto protezione. Dalla prima, “Malavita”,
pensiamo allo scopo dello scrivere: “Il se foutait bien de savoir si les
mots qu’il frappait seraient lus un jour, si ses phrases lui survivraient.” [Non
gli importava molto di sapere se le parole che scriveva sarebbero state lette
un giorno, né se le sue frasi gli sarebbero sopravvissute.] (132)
Dalla seconda, “Malavita encore”, un’espressione
di puro disincanto : “Pour vous, un type est a priori bon jusqu’à
ce qu’il se révèle mauvais. Pour moi, il est mauvais par nature, jusqu’à ce
qu’il me surprenne par un geste envers son prochain.” [Per te, una
persona è a priori buona, sino a che non compie una malvagità. Per me, le
persone son cattive per loro indole, fino a che non vengo sorpreso da un loro
gesto verso il prossimo.] (170)
Ormai siamo alla fine del mese di agosto, avendo fatto gli auguri a tanti di anni compiuti e pensando a quelli che li compiranno. Comunque, un mese di riposo, anche se di piccoli acciacchi (ah, l’età). Ed un mese, come si vedrà in futuro, anche di lunghe letture. Perché a settembre tempo di leggere ne avremo poco. Vedremo di farlo fruttare con i consueti tanti abbracci.
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