Una collana acquistata per i 75 anni del 25 aprile e che leggo a spizzichi, ed ora ecco una nuova tornata ora che ci avviciniamo agli 80.
Un
misto di autori classici e di prove che non conoscevo. Con un grande balzo
verso l’alto dei classici di Renata Viganò e Cesare Pavese. C’è un romanzo di
buona fattura di Tilde Giano Gallino che mi ha riportato con la mente a tempi
aventiniani. C’è anche Cassola, che non mi ha entusiasmato, mentre ho trovato
poco leggibile la prova di Giacomo Verri.
Carlo
Cassola “Fausto e Anna” Repubblica Resistenza 12 euro 7,90
[A: 13/07/2020
– I: 04/07/2023 – T: 05/07/2023] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 313; anno: 1952]
È in dubbio che Cassola è stato uno dei numi
della letteratura italiana. Forse divisivo, di sicuro con una forte impronta
etica, che, probabilmente, poco si adattava ai climi bollenti degli anni ’50. È
però anche vero che di Cassola questo il primo libro che leggo, avendo sino ad
ora, assistito solo alla trasposizione cinematografiche delle sue opere,
ovviamente “La ragazza di Bube” in prima linea con la splendida interpretazione
di Claudia Cardinale.
Cassola ha una scrittura notevole, che non
conoscevo, che rappresenta in modo superbo quanto vuole descrivere, che fa
spuntare dalle descrizioni le sue idee, le sue tesi, sulle quali si aprì un
dibattito aspro, frutto degli anni della scrittura, e che ora, a decenni di
distanza, si possono riprendere e discutere magari con la calma degli anni
passati.
Quindi veniamo al testo, dove a posteriori,
studiandone, si riscontra molto di Carlo nella figura di Fausto. Carlo era
romano di genitori volterrani, e lì passava le sue estati e faceva le sue prime
conoscenze. Per questo trova molta facilità nella descrizione dello studente
Fausto, figlio di una buona borghesia, che si trova in vacanza nelle terre
toscane. Dove incontra Anna, appartenente ad un ceto medio di piccoli
funzionari.
Assistiamo quindi, da qui in poi, ai tre
momenti della storia: l’incontro, la guerra, il dopoguerra. L’incontro, che
costituisce l’ossatura “morale” del testo, ci presenta i due mondi che si
incontrano e la fatale scintilla che ne esce fuori. Ma dove Anna è schietta,
diretta, se non fossi tacciato di “politically uncorrect” direi contadina.
Fausto è un tipico cittadino, aduso a nascondere un po’ le sue sensazioni, ma
soprattutto incapace di rapportarsi in maniera costruttiva nella nascita del
rapporto.
Nell’incontro e nel fasi dell’innamoramento,
che ovviamente c’è, Cassola ci presenta l’indecisione di Fausto, ma soprattutto
la sua gelosia, certo dettata dalla lontananza, ma ingiustificata in un
rapporto che si vorrebbe basato sulla fiducia. E Fausto, geloso e indeciso,
volge anche alla violenza, seppur verbale, l’incapacità di capire i sentimenti
e le sensazioni di Anna. Che quindi in modo quasi naturale, si allontana da
lui, si avvicina a Miro, persona calma, posata, senza troppi grilli per la
testa.
Si passa quindi alla seconda fase, la
guerra. Intesa come guerra di resistenza. Anna sposa Miro e comincia la sua
vita provinciale, tranquilla, allietata dalla nascita della figlia. Fausto,
professore in Roma, si rifugia con la famiglia a Volterra. Qui, prende contatto
con la Resistenza, e non si tira indietro. Entra, come Carlo, nelle Brigate
Garibaldi. Partecipa a piccole scaramucce. Partecipa anche ad un grande momento
di battaglia, come Carlo. E vede gli orrori della guerra. Sia i compagni che
muoiono, sia la morte dei nemici. Vede le decisioni sommarie prese dalla
Brigata. Assistiamo al suo colloquio – scontro con un inglese paracadutato in
zona, a valle del quale, escono fuori quei dubbi sui vari comportamenti, quelli
che molti non hanno perdonato allo scrittore Cassola.
Infine, nel dopoguerra, Fausto, calmato
dalle ferite interne della guerra finita, si rincontra con Anna. L’amore era
solo sopito, la maturità permette ai due di vedere come il fuoco è sempre
accesso, seppur mutato negli atteggiamenti, nelle posizioni. Bisogna fare una
scelta, e sarà Fausto a farla.
Ma più che la storia, è la descrizione della
lotta, delle posizioni, delle decisioni, degli eccessi, quello che rimane del
libro. È in dubbio che ci furono eccessi da ogni parte, eccessi giustificati
dal momento storico che era tra i più dilanianti: si stava di qua o di là, non
c’era posto per i grigi alla Cassola. Il fascismo è stato brutale, gli eccidi
dei repubblichini riprovevoli e condannabili sempre. Di fronte ci furono anche
altri eccessi, magari giudizi sommari dettati dalla fretta, dall’urgenza del
momento. Non li giustifico, seppur posso capirne le motivazioni.
In questo mi sento più vicino a Cassola di
quanto possa supporre. Di certo, non sono d’accordo con le accuse di fascismo a
lui rivolte dalle Botteghe Oscure di quegli anni, pur mitigate dagli interventi
pacificatori di Togliatti. La guerra è sempre, e sottolineo sempre, una
soluzione sbagliata, ma la resistenza ai soprusi è vitale. Anche i teologi,
nelle loro analisi su varie situazioni mondiali, hanno messo un limite al
“porgere l’altra guancia”.
Ciò detto, tuttavia, il libro non mi ha
preso sino in fondo. Ne riconosco ed apprezzo le capacità formali, ma nessuno,
né Fausto, né Anna, né altri hanno suscitato la mia empatia. Tutti personaggi e
situazioni a me lontane. Questo è stato il mio limite nell’approccio al testo,
che comunque consiglio perché è una lettura della Resistenza che può avere la
sua ragione di esistere.
Giacomo Verri “Il partigiano inverno”
Repubblica Resistenza 17 euro 7,90
[A: 19/08/2020 – I: 07/10/2023 – T:
08/10/2023] &
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 217; anno:
2012]
La prima delusione di una collana che, fin
qui, aveva proposto libri di diversa riuscita, eppur tutti quanti con delle
buone doti di scrittura e di ritorno alla memoria di uno dei periodi fondanti
della storia italiana. Certo, momenti difficili e combattuti, non sempre
lineari. Di sicuro da essere trattati con rispetto e attenzione.
Giacomo Verri, quarantacinquenne professore
vercellese, pur attenendosi ad alcuni parametri che fanno dà riferimento del
periodo, fornisce al fine una prova che si colloca su due binari divergenti (si
badi bene, ho detto due binari, che il singolare avrebbe creato una
impossibilità fisica). Da un alto, c’è la dovuta attenzione al momento storico.
Si descrivono fatti, si inseriscono personaggi realmente esistiti. Insomma, c’è
una “doc-fiction” di buona attendibilità. Come traversine del romanzo, ci sono poi
tre personaggi, eponimi delle tre età dell’uomo, che servono a mostrare diversi
approcci al momento storico, anche in dipendenza dell’età.
L’altro binario è invece la lingua che serve
ad esprimere il pensiero di Verri. Una lingua che ho trovato astiosa,
artatamente costruita, assolutamente respingente. L’autore confessa di averla
usata appositamente per un suo scopo particolare che personalmente non sono
riuscito a comprendere. A me è rimasta una sonora difficoltà di lettura, di cui
cercherò più avanti, brevemente, di fornire esempi per coinvolgere i miei amati
lettori. Le traversine poi di questa lingua sono anche scelte su nomi ed altro della
parte “full-fiction”, su cui torneremo anche qui.
A parte le motivazioni che Verri esprime
nella sua postfazione, la storia è semplice e tipica di quel momento storico.
Siamo nel dicembre del 1943, in Valsesia. Mussolini è caduto, il fascismo
ancora no, i partigiani e gli alleati avanzano, ma dal Sud. Lì al Nord, è
guerra civile. Il racconto si sviluppa intorno a tre personaggi: il ragazzo
(dieci anni) Umberto Dedali, il giovane Jacopo Preti e l’anziano quasi
pensionato (zio di Umberto) Italo Trabucco.
La scrittura ondeggia dall’uno all’altro,
seguendoli nei ventiquattro giorni di dicembre che portano alla Vigilia di
Natale. Umberto sta uscendo dalla prima infanzia, ha le prime turbe amorose,
comincia a comprendere che c’è differenza tra le varie posizioni,
allontanandosi dalla blanda amicizia con Gabriele, figlio del gerarca fascista
locale. Di famiglia liberale, mitizza le brigate che sono sui monti, sognando
una veloce e chiara vittoria.
Jacopo, universitario, decide di unirsi alle
brigate, anzi alla brigata Garibaldi, comandata da Cino Moscatelli (uno dei
personaggi reali). Il suo distaccamento compie azioni isolate, con alcuni
successi. Ma noi seguiamo piuttosto i tormenti di Jacopo, scisso tra
l’innamorata che ha lasciato a casa e la voglia di combattere, quasi fosse un
gioco. Che si rivelerà doloroso.
Poi c’è Italo, anziano, disilluso, vicino ai
partigiani, ma non impegnato con loro. Quasi a ritirarsi nel proprio
isolamento, pensando solo al presepe che costruisce insieme a Umberto. Ma il
distacco si muterà in sgomento quando, a fronte di un’azione partigiana, la
Valsesia è assalita dai fascisti della Legione Tagliamento, guidata dal
famigerato Merico Zuccari (altro personaggio reale) che arrestano un gruppo di
locali, tra cui Giuseppe Osella (anche lui reale) e lo stesso Italo. Anche se
noi sappiamo, e ce lo dice Verri nelle prime pagine, che Italo non sarà
fucilato.
I tre, con un percorso diverso, cambieranno
in quel dicembre, come non si può non cambiare in quella situazione.
Ma veniamo alle critiche, o ai momenti che
non mi hanno convinto. Che Verri effettua tutto un gioco di specchi e di
rimandi, giocando con i personaggi inventati. Così è facile vedere in Umberto
Dedali un rimando ad Umberto Eco che si firmava in gioventù “Dedalus”. Anche
Jacopo Preti ha un rimando ad Eco, verso Jacopo Belbo (protagonista del
“Pendolo di Foucault”), ma anche, per i suoi tormenti, al foscoliano Jacopo
Ortis. Congiungendolo con il cognome Preti, un capo ribelle della Valsesia nel
1500 (Giacomo Preti, per l’esattezza). Il professore, oltre a farci venire in
mente Italo Calvino (per il primo romanzo sulla resistenza dello scrittore) ed
Italo Svevo (per l’indecisione alla Zeno Cosini), ma anche al critico
letterario nativo di Domodossola, Gianfranco Contini che si firmava Trabucco
nella sua corrispondenza con Montale.
Tanti altri sono i giochi di Verri con le
parole, ne riporto solo uno quando, in una fantomatica libreria, viene indicato
il libro “Don Chisciotte” di Pietro Menardo, che ci collega subito al finto
reale, cioè a quella novella superba di Borges “Pierre Menard autore del
Chisciotte”.
Già questo finto gioco mi faceva scendere il
livello di gradimento globale del testo. Che, venendo inanellato da frasi come
“mandava l’immaginazione fuori, a incielarsi … oltre la piazza con gli sprocchi
paolouccelleschi degli alberi”. Che non mi piace ma si potrebbe sopportare se
isolata. Se poi invece il testo è zeppo di quelli e di altre come “cunato dal
ramificare lento della voce avuncula” (cullato dalla voce dello zio) o “piedi
sorbettati” (piedi congelati), il libro stesso diventa altamente illeggibile.
Peccato.
Renata Viganò “L’Agnese va a morire”
Repubblica Resistenza 5 euro 7,90
[A: 25/05/2020 – I: 05/11/2023 – T:
06/11/2023] &&&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 236; anno:
1949]
Dopo un passaggio a vuoto, ecco che una
nuova lettura resistenziale ci riporta a buoni se non ottimi livelli. Renata Viganò
è stata una scrittrice che partecipò alla Resistenza nella sua Romagna e, da
quella esperienza, trovò il modo di comporre un’opera che, a caldo e con
partecipazione, descrive le vicissitudini delle Valli di Comacchio dopo
l’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943.
Una narrazione molto intrisa dei dettami
dell’epoca, di quel neorealismo che si esprimeva in quegli anni con gli scritti
di Mario Rigoni Stern, di Elio Vittorini, di Beppe Fenoglio, di Italo Calvino,
per citarne solo alcuni. E che ebbe risalto generale nel cinema con i film di
Visconti, di Rossellini e di De Sica. Un movimento generalizzato caratterizzata
da una "critica del costume e da istanze di rinnovamento sociale maturate
durante la Resistenza" (come cita l’Enciclopedia Treccani.
La scrittrice si immerge in questo clima,
scrive uno tra i primi testi del dopoguerra che parlano della lotta partigiana
(poco dopo “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino). Un testo ovviamente
tutto schierato da una parte, così come l’autrice. Che tuttavia, pur indulgendo
in qualche semplificazione eccessiva verso la bontà dei sentimenti popolari ed
alla divisione, forse anche qui leggermente esasperata, tra buoni e cattivi, lo
fa senza far uscire sterili proclami, ma descrivendo situazioni, momenti di vita,
che, per l’appunto, istanziano le sue idee con la forza delle immagini che ci
rimangono nella mente.
La storia, come è chiaro dal titolo, segue
la vicenda di Agnese, una popolano delle valli, che, quasi senza volerlo, solo
seguendo, momento dopo momento, quello che le sembra giusto, si trova sempre
più coinvolta in quei drammatici momenti.
Agnese vive lì, con il marito Palita,
invalido per una tubercolosi infantile, facendo mille lavori per arrivare a
fine mese. Quando, in seguito ad una retata, Palita viene deportato in
Germania, comincia a rendersi conto che c’è qualcosa che non funziona. Comincia
così a dare una mano agli amici di Palita, che da invalido era uno dei punti
delle organizzazioni territoriali nascenti. Porta messaggi, nasconde armi nella
biancheria. Piccoli aiuti che creano piccole reti di solidarietà.
Comincia ad approfondire il suo impegno
saputo della morte di Palita. Ospite partigiani che si spostano, aumenta il
lavoro di staffetta partigiana. Il salto di qualità avviene quando i tedeschi
occupano logisticamente le case di Agnese e dei suoi vicini e quando Kurt, un
soldato tedesco, per divertimento uccide il suo amato gatto. Agnese reagisce,
colpisce con un fucile il soldato, lasciandolo morto, e fugge, unendosi alle
formazioni in lotta.
Qui comincia la seconda parte dell’ultima
stagione di Agnese. Si rende utile esaltando il suo ruolo femminile, lavando,
cucinando, tenendo in ordine le capanne rifugio. Viganò ha ben presente che il
ruolo della donna, fin da allora, era ancora di subordinazione e supporto.
Insieme ad Agnese, così, conosciamo i vari partigiani. Il Comandante, rigido e
determinato, Clinto e Tom, i suoi aiutanti maggiori, e poi Cinquecento, il
Pugliese, Zero, “la Disperata”, Piron, e tanti altri. Vediamo le imboscate, le
sparatorie, le morti. I partigiani asserragliati in un casermone, e bloccati
dall’acqua alta invernale.
Nell’ultima parte, oltre la crescita del
ruolo di Agnese all’interno della formazione partigiana, vediamo il tentativo
di rompere l’accerchiamento tedesco, gli inglesi che si fermano di là del Po,
il massacro della formazione stessa, il ritorno di Agnese e le altre staffette
al paese, il rastrellamento tedesco con il fermo di Agnese. Riuscirà la nostra
eroina a salvarsi anche questa volta o la scrittrice terrà fede al titolo?
Viganò se da un lato ci riporta la crudezza
dei momenti di guerra, restituisce l’umanità della gente attraverso piccoli
gesti quotidiani: uno sguardo, un bacio, un ricordo, amore che nascono ed amori
che finiscono. Una storia che, dalla parte delle donne, ce ne riporta la presa
di coscienza, i tentativi di emancipazione, insomma una storia di formazione
intensa e partecipata.
Il libro poi fu portato sullo schermo nel
1976 da Giuliano Montaldo con un cast di eccezione. Ingrid Thulin nella parte
di Agnese, il compianto Stefano Satta Flores nel ruolo del comandante, Massimo
Girotti nella parte di Palita, il marito, Tom interpretato da Michele Placido,
e poi Ninetto Davoli (“La Disperata”), Gino Santercole (Piron), Flavio Bucci
(il Pugliese) e con un inedito Rosalino “Ron” Cellamare che interpreta Zero.
Con tutte le scene cittadine girate a Bagnacavallo, una paese da visitare.
Tilde Giani Gallino “Non avevo sei anni ed
ero già in guerra” Repubblica Resistenza 22 euro 7,90
[A: 18/09/2020 – I: 30/11/2023 – T:
02/12/2023] &&
--
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 252; anno:
2015]
Una nuova lettura della collana di
Repubblica dedicata alla Resistenza, dove, seppur la scrittrice è di buona
penna, la resa è stata inferiore alle mie aspettative.
Tilde Giani è stata una valente psicologa
(specializzata nei processi cognitivi dell’età evolutiva) e fotografa, ora in
meritato riposo, e sposata con il sociologo Luciano Gallino. Se della sua
produzione per così dire scientifica non c’è altro che studiarne per le
interessanti idee esposte, nonché leggere, come feci io da adolescente, la sua
traduzione, insieme al marito, de “L’uomo ad una dimensione” di Herbert
Marcuse, questo libro di memorie e ricordi non mi ha coinvolto in maniera
particolare.
Soprattutto quando, pur imponendosi una
scrittura del suo essere bambina ai tempi dei fatti, fa ricorso ad incisi e
note per presentare spunti e considerazioni del sé stesso adulto. Avrei
preferito una scrittura più distesa, dove, è ovvio, alcune considerazioni sono
della Tilde adulta, come alcune riflessioni sui comportamenti e su quanto, da
bambini, si vede ma non sempre si riesce a comprendere sino in fondo.
Inoltre, seppur l’ossatura generale riflette
quanto accadde alla nostra scrittrice tra il 1940 ed il 1945, non è realmente
un libro “sulla Resistenza”. È un libro di ricordi di quanto Tilde visse in
quegli anni, piena anche delle sensazioni altre. Della vita familiare, dei
rapporti con i suoi quattro genitori, come lei li chiama: la madre, il padre,
la madrina ed il padrino. Con la chiusa di un capitolo dedicato alla
letteratura russa, interessante per sé, ma non molto organico con il resto.
Certo, la guerra, più che la Resistenza, è
ben presente. Il libro si apre nel fatidico 10 giugno 1944, quando lei, bimba
di sei anni andata a prendere il latte, ascolta il discorso di Mussolini
sull’entrata in guerra. Ovvio il suo entusiasmo infantile, scontata la reazione
negativa dei genitori, il cui pensiero andava ben al di là delle parole, già
presentendo quanto stava per avvenire sul suolo italiano.
Siamo a Torino, siamo nei comprensori delle
grandi fabbriche del Nord, è palese che da subito i “nemici” comincino a
bombardare la città, con le conseguenti descrizioni dei crolli, delle corse ai
rifugi, delle paure. Per arrivare presto al momento che segna indelebilmente il
periodo della scuola elementare di Tilde. La madre non riesce a sopportare i
continui rischi, e la famiglia (escluso il padre) sfolla verso la campagna.
Qui viene ben reso lo spaesamento della
bimba che passa dalle passeggiate col padre che le racconta tutte le fiabe del
mondo (da “Le mille e una notte” al “Ragnarok” scandinavo) tra i viali del
Parco del Valentino, alla scuola, ora mista, in campagna, piena di maschietti
prepotenti e assolutamente poco propensi allo studio. Sarà una ferita che Tilde
si porterà appresso per tutta la vita. Inizia a sei anni la guerra, ed
undicenne torna a frequentare scuole “regolari” in quel di Torino, con una
crasi, negli anni formativi, che sarà profonda (e credo sia stata anche una
spinta ad indagare da adulta sui processi cognitivi e formativi).
La cosa che ben risalta, a parte alcuni
passaggi su cui tornerò, è la normalità della guerra, quasi come quella che
stiamo vivendo ai nostri tempi. Sì, lei è sfollata, ma nel ’41 e nel ’42 va un
mese in vacanza a Viareggio con la madrina. Sì, il cibo è poco, ma in campagna
si sopravvive con discreta facilità. Sì, ci saranno momenti della vita privata
che saranno di forte impatto, ma che non hanno nulla a che vedere con la guerra
in sé.
Sulla guerra, e sulla Resistenza, ci sono,
come detto, alcuni passaggi che invece danno un senso ai tempi descritti. Un
tentativo di rappresaglia dei tedeschi, dopo l’8 settembre, a valle di un
attentato che provoca un morto tra i nazisti. Vogliono fucilare anche il
padrino, ma un intervento con pianto di Tilde convince gli ex-alleati a
soprassedere.
Poi c’è l’occupazione, da parte di un
comando tedesco, della casa dei Giani in campagna. Dove Tilde ha modo di vedere
e di sottolineare, come il nemico, seppur resti sempre nemico, può anche essere
una persona normale. Con il generale nazista parlerà a lungo di libri tedeschi
che ha letto o di cui sa per averli narrati dal padre. Ed il colonnello, in
questa veste, è una persona come dire “normale”. Come dice la scrittrice: “c’era
un uomo che mi sapeva ascoltare, ma era mio nemico”. Poi, andato via, non si sa
cosa abbia fatto. Stragi? Morti? Altro? Intanto, il ricordo è che c’è (o meglio
c’era) una normalità dell’altro che non ci si aspetta e che un bambino, avendo
meno schermi mentali, riesce a cogliere più di un adulto.
Quindi, bene per quelle due o tre pagine di
reale immersione nel contesto sociale e bellico, meno il resto delle vicende
private di Tilde, interessanti, ma forse da leggere anche in altri contesti. Di
questi a me rimane il passo in cui la piccola, non sapendo ancora ben
pronunciare le parole, storpia il modo di chiamare gli adulti. Al padrino, che
un vicino chiama “Barba”, cioè zio in piemontese, lei, piccina, ne cambia il
suono in Baba, nome con cui il padrino sarà chiamato per tutta la vita.
Come non ripensare allora alla coorte dei
mei zii, che dalle bocche dei cugini anziani divennero zio Nino e zio Nano, zia
Nenne e zia Nanna, zia Toia e zia Teta, zio Occo e zia Paja. Forse un giorno ve
ne riparlerò, ma leggere di Baba (e di Gegiù e della signora Gegia) mi ha fatto
un bel balsamo al cuore.
Cesare Pavese “Il compagno” Repubblica
Resistenza 15 euro 7,90
[A: 30/07/2020 – I: 18/09/2024 – T:
20/09/2024] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno:
1948]
Il risultato è una buona lettura, anche se
non eccelsa, forse per quei momenti irrisolti che spezzettano l’andamento della
vicenda. Ma forse quella è quell’ansia di vita che lo stesso Pavese
sottolineava nei suoi commenti. Un’ansia ed un senso di incompiutezza, di
scelte non fatte ed a volte subite. Sottese ad una frenesia ed incarnate in un
personaggio che potrebbe essere l’emblema di un vorrei ma non so se lo voglio,
potrei ma forse ho paura. Anzi, estremizzando e capovolgendo il titolo, un
sentimento che porta l’autore a sottolineare che tutti siamo borghesi quando
abbiamo paura.
La storia è una sorta di educazione non solo
sentimentale (scusa Flaubert) ma politica e pubblica del protagonista, Pablo
(come viene chiamato, vista la sua passione per la chitarra). Uno sradicato che
sta in cerca delle sue radici. Ma è anche la storia della contrapposizione tra
le due città stelle polari anche dell’autore: la natia Torino della giovinezza
e la matura Roma del dopoguerra. Ed è proprio in due parti che anche il libro è
diviso.
Nella prima, appunto, siamo a Torino. Pablo
lavora nella tabaccheria familiare, ma preferirebbe suonare la chitarra e far
vita d’artista. Si accompagna con l’amico Amelio, che invece ha una visione
chiara della vita. Si oppone, anche se blandamente, al regime (siamo intorno al
’38 secondo i riferimenti che ci fornisce l’autore), ed ha un’intensa vita
sessuale. Finché Amelio non ha un incidente di moto che lo riduce paraplegico.
E Linda, quella che pareva essere la sua donna, lo molla per mettersi con Pablo.
Così il nostro comincia una vita
spensierata, ma senza mordente. Frequenta gli artisti, sta sempre con Linda,
non va più a trovare Amelio. Tuttavia, è una vita di corto respiro, che si
infrange con l’arrivo di un traffichino dai molti affari, Lubrano. Uno che può
aprirti e chiuderti le strade del successo. Un VIP in minore dal pettegolezzo
facile, si direbbe ora. Che ovviamente affascina e “ruba” Linda a Pablo. Il
nostro, intanto, aveva cominciato a fare lavoretti, per emanciparsi dalla
famiglia. La rottura con Linda lo porta ad accettare lavori da camionista. E da
camionista fa un lungo trasporto a Roma, dove decide di fermarsi.
Qui comincia la seconda parte, quella che
diventa politica, quella che segna appunto l’educazione sociale di Pablo, così
come in Torino si era consumata la sua educazione sessuale. Certo, anche qui
incontra gli artisti che lo affascinano. Ma decide di lavorare come meccanico,
e da meccanico incontra Gina, con cui alla fine va a vivere. In quegli
ambienti, tra proletariato ed intellettuali, legge, ragiona, e Pavese ci
dipinge, anche se sempre in controluce come fa lui, la crescita morale di
Pablo.
Fa volantinaggio nascosto, porta riviste
antiregime da un luogo all’altro della città, dove qualcuno provvederà a farli
circolare, in modo nascosto. Ad un certo punto viene anche arrestato,
sospettato di qualche possibile violazione dello status quo fascista. Ma è solo
un errore di persone, che tuttavia consente alla polizia di dargli il foglio di
via per Torino (dove credo lo raggiungerà Gina). Pablo è però cresciuto, è,
forse, diventato il compagno del titolo e si intuisce che a Torino proseguirà
quanto i semi romani hanno piantato nel suo animo.
Pavese, ella contrapposizione, ci fa capire
che il suo cuore è e sarà sempre a Torino, lontano dai veleni della politica
brutale romana. Torino piena di fabbriche dove vivono quei proletari di cui
voleva (forse) farsi cantore, ma che qui risultano ancora sfuocati. Sono in
gran parte sbandati alla ricerca di qualcosa. In fondo come Pavese per tutta la
sua vita.
Pur se etichettato di “compagno”, Pablo non
è “comunista”, perché in fondo a Pavese quello che realmente interessa è
rappresentare le angosce del quotidiano, le ossessioni private di ognuno, le
nevrosi, che ben scorgiamo nei discorsi interiori che si fa Pablo. Discorsi che
si maturano a Roma, dove vediamo scoppiare il dissidio insormontabile tra
impegno civico e interesse privato.
Forse per questo tentennare dello stesso
autore, il libro, pur esemplare, non prende fino in fondo, lascia un po’ di
dubbi sul fatto che a volte sarebbe bene parlare, spiegare, chiedere e
rispondere piuttosto che rimuginare. Ma, come dice Pavese, ed in questo sono
d’accordo anch’io, il mondo è pieno di Pablii, e parlarne e descriverne le
gesta è un compito che molti scrittori dovrebbero intraprendere.
Mi rimane solo un dubbio di fondo sulla
collocazione del testo. Che è di certo una fotografia di quanto si faceva nel
ventennio fascista. Ma di certo è ancora lontano dalla resistenza intesa come
attività militare vera e propria, attività da dopo il settembre ’43. Però è
anche un testo che, appunto nella rappresentazione della quotidianità, mi ha
fatto pensare a quella che quotidianità che i miei quindicenni genitori avevano
all’epoca, e con loro i miei tanti e militanti zii. Ora, nella lontananza del ricordo
(altrui purtroppo) si dimentica che c’era anche un quotidiano. Come quello che
viviamo noi, ora, nello stato di guerra reale presente al mondo. Anche se noi
non spariamo, anzi leggiamo e viaggiamo.
Chissà cosa si scriverà di questi anni, tra
quarant’anni…
“Per capire le cose bisogna studiare, non
le sciocchezze che insegnavano a scuola a noialtri, ma com’è che si legge un
giornale, com’è fatto un mestiere, chi comanda nel mondo. Si dovrebbe studiare
per saper fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro.”
(107)
Prima
lettura del mese, quindi riporto le copiose letture del mese di luglio, senza
nessun acuto particolare, ma con una buona platea di letture più che
sufficienti. Si stacca solo, ma verso il basso, il peruviano Mario Vargas
Llosa, che, dopo le prove giovanili, non mi ha mai convinto.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Natsuo
Kirino |
Le
quattro casalinghe di Tokyo |
Corriere |
8,90 |
3 |
2 |
Ben
Bova |
Orion |
Mondadori |
6,99 |
2,5 |
3 |
Roberto
Perrone |
La
seconda vita di Annibale Canessa |
Corriere
Profondo Nero |
7,90 |
3 |
4 |
John
Banville |
Il
cerchio si chiude |
Repubblica
Emozione Noir |
7,90 |
2 |
5 |
Alessandro
Perissinotto & Pietro d’Ettorre |
Il
figliol prodigo |
Repubblica
Profondo Noir |
8,90 |
2,5 |
6 |
Mario
Vargas Llosa |
Crocevia
|
Repubblica
Latinoamericana |
9,90 |
1 |
7 |
Augusto
De Angelis |
Il
candeliere a sette fiamme |
Mondadori |
6,50 |
2 |
8 |
Ilaria
Tuti |
Luce
della notte |
Repubblica
Anima Noir |
8,90 |
2 |
9 |
Élmer
Mendoza |
Il
cartello del Pacifico |
Corriere |
8,90 |
2 |
10 |
Francesco Casolo |
La
salita dei giganti |
Feltrinelli |
s.p. |
2,5 |
11 |
Christian
Frascella |
Fa
troppo freddo per morire |
Repubblica
Emozione Noir |
7,90 |
3 |
12 |
Alice Basso |
L’imprevedibile piano della scrittrice
senza nome |
Garzanti |
9,90 |
3 |
13 |
Paolo
Bernetti |
La
notte del fuoco |
Mondadori |
6,50 |
3 |
14 |
Haruki
Murakami |
I
salici ciechi e la donna addormentata |
Corriere |
8,90 |
2 |
15 |
Marco
Malvaldi & Samantha
Bruzzone |
La
regina dei sentieri |
Sellerio |
16 |
3 |
16 |
Yokomizo
Seishi |
Fragranze
di morte |
Sellerio |
14 |
3 |
17 |
Alex Michaelides |
La paziente silenziosa |
Repubblica Brivido Noir |
8,90 |
2 |
18 |
Francesca
Giannone |
Domani,
domani |
Nord |
19 |
3 |
Visto
che si parla di letteratura impegnata, vi propongo invece un florilegio di
citazioni disimpegnata di un autore leggero, che però, essendo di facile
lettura, a volte esprime momenti che non mi dispiace leggere. Parliamo allora
di Fabio Volo e del suo “È una vita che ti aspetto”, da dove riprendo alcune citazioni che solleticano qualche nostro neurone.
“Se
vuoi essere felice, se vuoi essere libero, impara ad amare. Ad amare, e a
lasciarti amare.” (27)
“Avevo
una struttura che mi impediva la meditazione. Fisicamente ero destinato alla
superficialità.” (32)
“Ho
deciso di lavare i piatti … Purtroppo tra i piatti c’era anche lo spremiagrumi.
E solamente chi ha avuto a che fare con uno spremiagrumi incrostato di arancia
può capire la fatica che si fa per ripulirlo. Ci vorrebbero i petardi. … Se
dovessi scrivere un elenco di consigli per la casalinga, questo sarebbe fra i
primi cinque. Dopo aver fatto la spremuta risciacquare subito.” (50)
“Insomma,
impari una cosa, ma vale solo per la persona con cui l’hai imparata. Le donne
sono tutte diverse.” (93)
“Non
è un caso che la voglia di cambiare il mondo mi sia venuta proprio quando ho
maturato la consapevolezza del mio futuro. … Volevo cambiare il mondo e alla
fine ero cambiato io. Ho cercato di capire solamente quando era avvenuto il
baratto. … Forse perché ci sono entrato un po’ alla volta. Forse perché ho avuto
la presunzione di pensare di poter entrare in acqua senza bagnarmi. E così,
lentamente, giorno dopo giorno, ho fallito e sono caduto nella rete anch’io.”
(115)
“Volevo
dare delle carezze, ma siccome non le davo alla giusta velocità diventavano
schiaffi. Volevo dividere con gli altri quello che avevo scoperto… Invece, nel
mio approccio diventavo presuntuoso. Sembrava volessi imporre le mie idee come
uniche e assolute.” (128)
“Avrei
voluto dirle un milione di cose e l’ho fatto. L’ho fatto stando zitto e
abbracciato a lei.” (173)
Siamo
così entrati nell’ultimo quarto dell’anno, che ci riporterà l’ora legale, una
gita sul Garda, l’esimio anniversario della nascita di mia madre, solo due
settimane dopo la nascita della radio, e tanti, tanti compleanni (ma quanti
siete? Come disse Troisi, voi siete tanti ed io sono uno).
Ma siamo anche entrati in momenti poco propizi ai viaggi, per mille ed una ragione. Fermiamoci a pensare, come spero facciano le persone di buona volontà in giro per il mondo, anche se il mio fondo gramsciano non mi dà speranze certe. Unica certezza, la mia posta settimanale e i miei abbracci.
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