domenica 6 ottobre 2024

Resistenza - 06 ottobre 2024

Una collana acquistata per i 75 anni del 25 aprile e che leggo a spizzichi, ed ora ecco una nuova tornata ora che ci avviciniamo agli 80.

Un misto di autori classici e di prove che non conoscevo. Con un grande balzo verso l’alto dei classici di Renata Viganò e Cesare Pavese. C’è un romanzo di buona fattura di Tilde Giano Gallino che mi ha riportato con la mente a tempi aventiniani. C’è anche Cassola, che non mi ha entusiasmato, mentre ho trovato poco leggibile la prova di Giacomo Verri.

Carlo Cassola “Fausto e Anna” Repubblica Resistenza 12 euro 7,90

[A: 13/07/2020 – I: 04/07/2023 – T: 05/07/2023] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 313; anno: 1952]

È in dubbio che Cassola è stato uno dei numi della letteratura italiana. Forse divisivo, di sicuro con una forte impronta etica, che, probabilmente, poco si adattava ai climi bollenti degli anni ’50. È però anche vero che di Cassola questo il primo libro che leggo, avendo sino ad ora, assistito solo alla trasposizione cinematografiche delle sue opere, ovviamente “La ragazza di Bube” in prima linea con la splendida interpretazione di Claudia Cardinale.

Cassola ha una scrittura notevole, che non conoscevo, che rappresenta in modo superbo quanto vuole descrivere, che fa spuntare dalle descrizioni le sue idee, le sue tesi, sulle quali si aprì un dibattito aspro, frutto degli anni della scrittura, e che ora, a decenni di distanza, si possono riprendere e discutere magari con la calma degli anni passati.

Quindi veniamo al testo, dove a posteriori, studiandone, si riscontra molto di Carlo nella figura di Fausto. Carlo era romano di genitori volterrani, e lì passava le sue estati e faceva le sue prime conoscenze. Per questo trova molta facilità nella descrizione dello studente Fausto, figlio di una buona borghesia, che si trova in vacanza nelle terre toscane. Dove incontra Anna, appartenente ad un ceto medio di piccoli funzionari.

Assistiamo quindi, da qui in poi, ai tre momenti della storia: l’incontro, la guerra, il dopoguerra. L’incontro, che costituisce l’ossatura “morale” del testo, ci presenta i due mondi che si incontrano e la fatale scintilla che ne esce fuori. Ma dove Anna è schietta, diretta, se non fossi tacciato di “politically uncorrect” direi contadina. Fausto è un tipico cittadino, aduso a nascondere un po’ le sue sensazioni, ma soprattutto incapace di rapportarsi in maniera costruttiva nella nascita del rapporto.

Nell’incontro e nel fasi dell’innamoramento, che ovviamente c’è, Cassola ci presenta l’indecisione di Fausto, ma soprattutto la sua gelosia, certo dettata dalla lontananza, ma ingiustificata in un rapporto che si vorrebbe basato sulla fiducia. E Fausto, geloso e indeciso, volge anche alla violenza, seppur verbale, l’incapacità di capire i sentimenti e le sensazioni di Anna. Che quindi in modo quasi naturale, si allontana da lui, si avvicina a Miro, persona calma, posata, senza troppi grilli per la testa.

Si passa quindi alla seconda fase, la guerra. Intesa come guerra di resistenza. Anna sposa Miro e comincia la sua vita provinciale, tranquilla, allietata dalla nascita della figlia. Fausto, professore in Roma, si rifugia con la famiglia a Volterra. Qui, prende contatto con la Resistenza, e non si tira indietro. Entra, come Carlo, nelle Brigate Garibaldi. Partecipa a piccole scaramucce. Partecipa anche ad un grande momento di battaglia, come Carlo. E vede gli orrori della guerra. Sia i compagni che muoiono, sia la morte dei nemici. Vede le decisioni sommarie prese dalla Brigata. Assistiamo al suo colloquio – scontro con un inglese paracadutato in zona, a valle del quale, escono fuori quei dubbi sui vari comportamenti, quelli che molti non hanno perdonato allo scrittore Cassola.

Infine, nel dopoguerra, Fausto, calmato dalle ferite interne della guerra finita, si rincontra con Anna. L’amore era solo sopito, la maturità permette ai due di vedere come il fuoco è sempre accesso, seppur mutato negli atteggiamenti, nelle posizioni. Bisogna fare una scelta, e sarà Fausto a farla.

Ma più che la storia, è la descrizione della lotta, delle posizioni, delle decisioni, degli eccessi, quello che rimane del libro. È in dubbio che ci furono eccessi da ogni parte, eccessi giustificati dal momento storico che era tra i più dilanianti: si stava di qua o di là, non c’era posto per i grigi alla Cassola. Il fascismo è stato brutale, gli eccidi dei repubblichini riprovevoli e condannabili sempre. Di fronte ci furono anche altri eccessi, magari giudizi sommari dettati dalla fretta, dall’urgenza del momento. Non li giustifico, seppur posso capirne le motivazioni.

In questo mi sento più vicino a Cassola di quanto possa supporre. Di certo, non sono d’accordo con le accuse di fascismo a lui rivolte dalle Botteghe Oscure di quegli anni, pur mitigate dagli interventi pacificatori di Togliatti. La guerra è sempre, e sottolineo sempre, una soluzione sbagliata, ma la resistenza ai soprusi è vitale. Anche i teologi, nelle loro analisi su varie situazioni mondiali, hanno messo un limite al “porgere l’altra guancia”.

Ciò detto, tuttavia, il libro non mi ha preso sino in fondo. Ne riconosco ed apprezzo le capacità formali, ma nessuno, né Fausto, né Anna, né altri hanno suscitato la mia empatia. Tutti personaggi e situazioni a me lontane. Questo è stato il mio limite nell’approccio al testo, che comunque consiglio perché è una lettura della Resistenza che può avere la sua ragione di esistere.

Giacomo Verri “Il partigiano inverno” Repubblica Resistenza 17 euro 7,90

[A: 19/08/2020 – I: 07/10/2023 – T: 08/10/2023] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 217; anno: 2012]

La prima delusione di una collana che, fin qui, aveva proposto libri di diversa riuscita, eppur tutti quanti con delle buone doti di scrittura e di ritorno alla memoria di uno dei periodi fondanti della storia italiana. Certo, momenti difficili e combattuti, non sempre lineari. Di sicuro da essere trattati con rispetto e attenzione.

Giacomo Verri, quarantacinquenne professore vercellese, pur attenendosi ad alcuni parametri che fanno dà riferimento del periodo, fornisce al fine una prova che si colloca su due binari divergenti (si badi bene, ho detto due binari, che il singolare avrebbe creato una impossibilità fisica). Da un alto, c’è la dovuta attenzione al momento storico. Si descrivono fatti, si inseriscono personaggi realmente esistiti. Insomma, c’è una “doc-fiction” di buona attendibilità. Come traversine del romanzo, ci sono poi tre personaggi, eponimi delle tre età dell’uomo, che servono a mostrare diversi approcci al momento storico, anche in dipendenza dell’età.

L’altro binario è invece la lingua che serve ad esprimere il pensiero di Verri. Una lingua che ho trovato astiosa, artatamente costruita, assolutamente respingente. L’autore confessa di averla usata appositamente per un suo scopo particolare che personalmente non sono riuscito a comprendere. A me è rimasta una sonora difficoltà di lettura, di cui cercherò più avanti, brevemente, di fornire esempi per coinvolgere i miei amati lettori. Le traversine poi di questa lingua sono anche scelte su nomi ed altro della parte “full-fiction”, su cui torneremo anche qui.

A parte le motivazioni che Verri esprime nella sua postfazione, la storia è semplice e tipica di quel momento storico. Siamo nel dicembre del 1943, in Valsesia. Mussolini è caduto, il fascismo ancora no, i partigiani e gli alleati avanzano, ma dal Sud. Lì al Nord, è guerra civile. Il racconto si sviluppa intorno a tre personaggi: il ragazzo (dieci anni) Umberto Dedali, il giovane Jacopo Preti e l’anziano quasi pensionato (zio di Umberto) Italo Trabucco.

La scrittura ondeggia dall’uno all’altro, seguendoli nei ventiquattro giorni di dicembre che portano alla Vigilia di Natale. Umberto sta uscendo dalla prima infanzia, ha le prime turbe amorose, comincia a comprendere che c’è differenza tra le varie posizioni, allontanandosi dalla blanda amicizia con Gabriele, figlio del gerarca fascista locale. Di famiglia liberale, mitizza le brigate che sono sui monti, sognando una veloce e chiara vittoria.

Jacopo, universitario, decide di unirsi alle brigate, anzi alla brigata Garibaldi, comandata da Cino Moscatelli (uno dei personaggi reali). Il suo distaccamento compie azioni isolate, con alcuni successi. Ma noi seguiamo piuttosto i tormenti di Jacopo, scisso tra l’innamorata che ha lasciato a casa e la voglia di combattere, quasi fosse un gioco. Che si rivelerà doloroso.

Poi c’è Italo, anziano, disilluso, vicino ai partigiani, ma non impegnato con loro. Quasi a ritirarsi nel proprio isolamento, pensando solo al presepe che costruisce insieme a Umberto. Ma il distacco si muterà in sgomento quando, a fronte di un’azione partigiana, la Valsesia è assalita dai fascisti della Legione Tagliamento, guidata dal famigerato Merico Zuccari (altro personaggio reale) che arrestano un gruppo di locali, tra cui Giuseppe Osella (anche lui reale) e lo stesso Italo. Anche se noi sappiamo, e ce lo dice Verri nelle prime pagine, che Italo non sarà fucilato.

I tre, con un percorso diverso, cambieranno in quel dicembre, come non si può non cambiare in quella situazione.

Ma veniamo alle critiche, o ai momenti che non mi hanno convinto. Che Verri effettua tutto un gioco di specchi e di rimandi, giocando con i personaggi inventati. Così è facile vedere in Umberto Dedali un rimando ad Umberto Eco che si firmava in gioventù “Dedalus”. Anche Jacopo Preti ha un rimando ad Eco, verso Jacopo Belbo (protagonista del “Pendolo di Foucault”), ma anche, per i suoi tormenti, al foscoliano Jacopo Ortis. Congiungendolo con il cognome Preti, un capo ribelle della Valsesia nel 1500 (Giacomo Preti, per l’esattezza). Il professore, oltre a farci venire in mente Italo Calvino (per il primo romanzo sulla resistenza dello scrittore) ed Italo Svevo (per l’indecisione alla Zeno Cosini), ma anche al critico letterario nativo di Domodossola, Gianfranco Contini che si firmava Trabucco nella sua corrispondenza con Montale.

Tanti altri sono i giochi di Verri con le parole, ne riporto solo uno quando, in una fantomatica libreria, viene indicato il libro “Don Chisciotte” di Pietro Menardo, che ci collega subito al finto reale, cioè a quella novella superba di Borges “Pierre Menard autore del Chisciotte”.

Già questo finto gioco mi faceva scendere il livello di gradimento globale del testo. Che, venendo inanellato da frasi come “mandava l’immaginazione fuori, a incielarsi … oltre la piazza con gli sprocchi paolouccelleschi degli alberi”. Che non mi piace ma si potrebbe sopportare se isolata. Se poi invece il testo è zeppo di quelli e di altre come “cunato dal ramificare lento della voce avuncula” (cullato dalla voce dello zio) o “piedi sorbettati” (piedi congelati), il libro stesso diventa altamente illeggibile.

Peccato.

Renata Viganò “L’Agnese va a morire” Repubblica Resistenza 5 euro 7,90

[A: 25/05/2020 – I: 05/11/2023 – T: 06/11/2023] &&& e ½    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 236; anno: 1949]

Dopo un passaggio a vuoto, ecco che una nuova lettura resistenziale ci riporta a buoni se non ottimi livelli. Renata Viganò è stata una scrittrice che partecipò alla Resistenza nella sua Romagna e, da quella esperienza, trovò il modo di comporre un’opera che, a caldo e con partecipazione, descrive le vicissitudini delle Valli di Comacchio dopo l’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943.

Una narrazione molto intrisa dei dettami dell’epoca, di quel neorealismo che si esprimeva in quegli anni con gli scritti di Mario Rigoni Stern, di Elio Vittorini, di Beppe Fenoglio, di Italo Calvino, per citarne solo alcuni. E che ebbe risalto generale nel cinema con i film di Visconti, di Rossellini e di De Sica. Un movimento generalizzato caratterizzata da una "critica del costume e da istanze di rinnovamento sociale maturate durante la Resistenza" (come cita l’Enciclopedia Treccani.

La scrittrice si immerge in questo clima, scrive uno tra i primi testi del dopoguerra che parlano della lotta partigiana (poco dopo “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino). Un testo ovviamente tutto schierato da una parte, così come l’autrice. Che tuttavia, pur indulgendo in qualche semplificazione eccessiva verso la bontà dei sentimenti popolari ed alla divisione, forse anche qui leggermente esasperata, tra buoni e cattivi, lo fa senza far uscire sterili proclami, ma descrivendo situazioni, momenti di vita, che, per l’appunto, istanziano le sue idee con la forza delle immagini che ci rimangono nella mente.

La storia, come è chiaro dal titolo, segue la vicenda di Agnese, una popolano delle valli, che, quasi senza volerlo, solo seguendo, momento dopo momento, quello che le sembra giusto, si trova sempre più coinvolta in quei drammatici momenti.

Agnese vive lì, con il marito Palita, invalido per una tubercolosi infantile, facendo mille lavori per arrivare a fine mese. Quando, in seguito ad una retata, Palita viene deportato in Germania, comincia a rendersi conto che c’è qualcosa che non funziona. Comincia così a dare una mano agli amici di Palita, che da invalido era uno dei punti delle organizzazioni territoriali nascenti. Porta messaggi, nasconde armi nella biancheria. Piccoli aiuti che creano piccole reti di solidarietà.

Comincia ad approfondire il suo impegno saputo della morte di Palita. Ospite partigiani che si spostano, aumenta il lavoro di staffetta partigiana. Il salto di qualità avviene quando i tedeschi occupano logisticamente le case di Agnese e dei suoi vicini e quando Kurt, un soldato tedesco, per divertimento uccide il suo amato gatto. Agnese reagisce, colpisce con un fucile il soldato, lasciandolo morto, e fugge, unendosi alle formazioni in lotta.

Qui comincia la seconda parte dell’ultima stagione di Agnese. Si rende utile esaltando il suo ruolo femminile, lavando, cucinando, tenendo in ordine le capanne rifugio. Viganò ha ben presente che il ruolo della donna, fin da allora, era ancora di subordinazione e supporto. Insieme ad Agnese, così, conosciamo i vari partigiani. Il Comandante, rigido e determinato, Clinto e Tom, i suoi aiutanti maggiori, e poi Cinquecento, il Pugliese, Zero, “la Disperata”, Piron, e tanti altri. Vediamo le imboscate, le sparatorie, le morti. I partigiani asserragliati in un casermone, e bloccati dall’acqua alta invernale.

Nell’ultima parte, oltre la crescita del ruolo di Agnese all’interno della formazione partigiana, vediamo il tentativo di rompere l’accerchiamento tedesco, gli inglesi che si fermano di là del Po, il massacro della formazione stessa, il ritorno di Agnese e le altre staffette al paese, il rastrellamento tedesco con il fermo di Agnese. Riuscirà la nostra eroina a salvarsi anche questa volta o la scrittrice terrà fede al titolo?

Viganò se da un lato ci riporta la crudezza dei momenti di guerra, restituisce l’umanità della gente attraverso piccoli gesti quotidiani: uno sguardo, un bacio, un ricordo, amore che nascono ed amori che finiscono. Una storia che, dalla parte delle donne, ce ne riporta la presa di coscienza, i tentativi di emancipazione, insomma una storia di formazione intensa e partecipata.

Il libro poi fu portato sullo schermo nel 1976 da Giuliano Montaldo con un cast di eccezione. Ingrid Thulin nella parte di Agnese, il compianto Stefano Satta Flores nel ruolo del comandante, Massimo Girotti nella parte di Palita, il marito, Tom interpretato da Michele Placido, e poi Ninetto Davoli (“La Disperata”), Gino Santercole (Piron), Flavio Bucci (il Pugliese) e con un inedito Rosalino “Ron” Cellamare che interpreta Zero. Con tutte le scene cittadine girate a Bagnacavallo, una paese da visitare.

Tilde Giani Gallino “Non avevo sei anni ed ero già in guerra” Repubblica Resistenza 22 euro 7,90

[A: 18/09/2020 – I: 30/11/2023 – T: 02/12/2023] && --    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 252; anno: 2015]

Una nuova lettura della collana di Repubblica dedicata alla Resistenza, dove, seppur la scrittrice è di buona penna, la resa è stata inferiore alle mie aspettative.

Tilde Giani è stata una valente psicologa (specializzata nei processi cognitivi dell’età evolutiva) e fotografa, ora in meritato riposo, e sposata con il sociologo Luciano Gallino. Se della sua produzione per così dire scientifica non c’è altro che studiarne per le interessanti idee esposte, nonché leggere, come feci io da adolescente, la sua traduzione, insieme al marito, de “L’uomo ad una dimensione” di Herbert Marcuse, questo libro di memorie e ricordi non mi ha coinvolto in maniera particolare.

Soprattutto quando, pur imponendosi una scrittura del suo essere bambina ai tempi dei fatti, fa ricorso ad incisi e note per presentare spunti e considerazioni del sé stesso adulto. Avrei preferito una scrittura più distesa, dove, è ovvio, alcune considerazioni sono della Tilde adulta, come alcune riflessioni sui comportamenti e su quanto, da bambini, si vede ma non sempre si riesce a comprendere sino in fondo.

Inoltre, seppur l’ossatura generale riflette quanto accadde alla nostra scrittrice tra il 1940 ed il 1945, non è realmente un libro “sulla Resistenza”. È un libro di ricordi di quanto Tilde visse in quegli anni, piena anche delle sensazioni altre. Della vita familiare, dei rapporti con i suoi quattro genitori, come lei li chiama: la madre, il padre, la madrina ed il padrino. Con la chiusa di un capitolo dedicato alla letteratura russa, interessante per sé, ma non molto organico con il resto.

Certo, la guerra, più che la Resistenza, è ben presente. Il libro si apre nel fatidico 10 giugno 1944, quando lei, bimba di sei anni andata a prendere il latte, ascolta il discorso di Mussolini sull’entrata in guerra. Ovvio il suo entusiasmo infantile, scontata la reazione negativa dei genitori, il cui pensiero andava ben al di là delle parole, già presentendo quanto stava per avvenire sul suolo italiano.

Siamo a Torino, siamo nei comprensori delle grandi fabbriche del Nord, è palese che da subito i “nemici” comincino a bombardare la città, con le conseguenti descrizioni dei crolli, delle corse ai rifugi, delle paure. Per arrivare presto al momento che segna indelebilmente il periodo della scuola elementare di Tilde. La madre non riesce a sopportare i continui rischi, e la famiglia (escluso il padre) sfolla verso la campagna.

Qui viene ben reso lo spaesamento della bimba che passa dalle passeggiate col padre che le racconta tutte le fiabe del mondo (da “Le mille e una notte” al “Ragnarok” scandinavo) tra i viali del Parco del Valentino, alla scuola, ora mista, in campagna, piena di maschietti prepotenti e assolutamente poco propensi allo studio. Sarà una ferita che Tilde si porterà appresso per tutta la vita. Inizia a sei anni la guerra, ed undicenne torna a frequentare scuole “regolari” in quel di Torino, con una crasi, negli anni formativi, che sarà profonda (e credo sia stata anche una spinta ad indagare da adulta sui processi cognitivi e formativi).

La cosa che ben risalta, a parte alcuni passaggi su cui tornerò, è la normalità della guerra, quasi come quella che stiamo vivendo ai nostri tempi. Sì, lei è sfollata, ma nel ’41 e nel ’42 va un mese in vacanza a Viareggio con la madrina. Sì, il cibo è poco, ma in campagna si sopravvive con discreta facilità. Sì, ci saranno momenti della vita privata che saranno di forte impatto, ma che non hanno nulla a che vedere con la guerra in sé.

Sulla guerra, e sulla Resistenza, ci sono, come detto, alcuni passaggi che invece danno un senso ai tempi descritti. Un tentativo di rappresaglia dei tedeschi, dopo l’8 settembre, a valle di un attentato che provoca un morto tra i nazisti. Vogliono fucilare anche il padrino, ma un intervento con pianto di Tilde convince gli ex-alleati a soprassedere.

Poi c’è l’occupazione, da parte di un comando tedesco, della casa dei Giani in campagna. Dove Tilde ha modo di vedere e di sottolineare, come il nemico, seppur resti sempre nemico, può anche essere una persona normale. Con il generale nazista parlerà a lungo di libri tedeschi che ha letto o di cui sa per averli narrati dal padre. Ed il colonnello, in questa veste, è una persona come dire “normale”. Come dice la scrittrice: “c’era un uomo che mi sapeva ascoltare, ma era mio nemico”. Poi, andato via, non si sa cosa abbia fatto. Stragi? Morti? Altro? Intanto, il ricordo è che c’è (o meglio c’era) una normalità dell’altro che non ci si aspetta e che un bambino, avendo meno schermi mentali, riesce a cogliere più di un adulto.

Quindi, bene per quelle due o tre pagine di reale immersione nel contesto sociale e bellico, meno il resto delle vicende private di Tilde, interessanti, ma forse da leggere anche in altri contesti. Di questi a me rimane il passo in cui la piccola, non sapendo ancora ben pronunciare le parole, storpia il modo di chiamare gli adulti. Al padrino, che un vicino chiama “Barba”, cioè zio in piemontese, lei, piccina, ne cambia il suono in Baba, nome con cui il padrino sarà chiamato per tutta la vita.

Come non ripensare allora alla coorte dei mei zii, che dalle bocche dei cugini anziani divennero zio Nino e zio Nano, zia Nenne e zia Nanna, zia Toia e zia Teta, zio Occo e zia Paja. Forse un giorno ve ne riparlerò, ma leggere di Baba (e di Gegiù e della signora Gegia) mi ha fatto un bel balsamo al cuore.

Cesare Pavese “Il compagno” Repubblica Resistenza 15 euro 7,90

[A: 30/07/2020 – I: 18/09/2024 – T: 20/09/2024] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 1948]

Non sono un grande lettore degli scritti di Cesare Pavese, di cui ricordo solo aver letto e riletto le poesie (a lungo mi accompagnarono le notti liceali i versi di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”). Poi lessi, una trentina di anni fa “La luna e i falò”, trovandolo in effetti di mio alto gradimento. Per cui con interesse mi sono dedicato a questa lettura, sia per un tributo sempre molto personale agli anni della resistenza, sia per tornare, con occhio maturo e sorretto da molte e colte letture.

Il risultato è una buona lettura, anche se non eccelsa, forse per quei momenti irrisolti che spezzettano l’andamento della vicenda. Ma forse quella è quell’ansia di vita che lo stesso Pavese sottolineava nei suoi commenti. Un’ansia ed un senso di incompiutezza, di scelte non fatte ed a volte subite. Sottese ad una frenesia ed incarnate in un personaggio che potrebbe essere l’emblema di un vorrei ma non so se lo voglio, potrei ma forse ho paura. Anzi, estremizzando e capovolgendo il titolo, un sentimento che porta l’autore a sottolineare che tutti siamo borghesi quando abbiamo paura.

La storia è una sorta di educazione non solo sentimentale (scusa Flaubert) ma politica e pubblica del protagonista, Pablo (come viene chiamato, vista la sua passione per la chitarra). Uno sradicato che sta in cerca delle sue radici. Ma è anche la storia della contrapposizione tra le due città stelle polari anche dell’autore: la natia Torino della giovinezza e la matura Roma del dopoguerra. Ed è proprio in due parti che anche il libro è diviso.

Nella prima, appunto, siamo a Torino. Pablo lavora nella tabaccheria familiare, ma preferirebbe suonare la chitarra e far vita d’artista. Si accompagna con l’amico Amelio, che invece ha una visione chiara della vita. Si oppone, anche se blandamente, al regime (siamo intorno al ’38 secondo i riferimenti che ci fornisce l’autore), ed ha un’intensa vita sessuale. Finché Amelio non ha un incidente di moto che lo riduce paraplegico. E Linda, quella che pareva essere la sua donna, lo molla per mettersi con Pablo.

Così il nostro comincia una vita spensierata, ma senza mordente. Frequenta gli artisti, sta sempre con Linda, non va più a trovare Amelio. Tuttavia, è una vita di corto respiro, che si infrange con l’arrivo di un traffichino dai molti affari, Lubrano. Uno che può aprirti e chiuderti le strade del successo. Un VIP in minore dal pettegolezzo facile, si direbbe ora. Che ovviamente affascina e “ruba” Linda a Pablo. Il nostro, intanto, aveva cominciato a fare lavoretti, per emanciparsi dalla famiglia. La rottura con Linda lo porta ad accettare lavori da camionista. E da camionista fa un lungo trasporto a Roma, dove decide di fermarsi.

Qui comincia la seconda parte, quella che diventa politica, quella che segna appunto l’educazione sociale di Pablo, così come in Torino si era consumata la sua educazione sessuale. Certo, anche qui incontra gli artisti che lo affascinano. Ma decide di lavorare come meccanico, e da meccanico incontra Gina, con cui alla fine va a vivere. In quegli ambienti, tra proletariato ed intellettuali, legge, ragiona, e Pavese ci dipinge, anche se sempre in controluce come fa lui, la crescita morale di Pablo.

Fa volantinaggio nascosto, porta riviste antiregime da un luogo all’altro della città, dove qualcuno provvederà a farli circolare, in modo nascosto. Ad un certo punto viene anche arrestato, sospettato di qualche possibile violazione dello status quo fascista. Ma è solo un errore di persone, che tuttavia consente alla polizia di dargli il foglio di via per Torino (dove credo lo raggiungerà Gina). Pablo è però cresciuto, è, forse, diventato il compagno del titolo e si intuisce che a Torino proseguirà quanto i semi romani hanno piantato nel suo animo.

Pavese, ella contrapposizione, ci fa capire che il suo cuore è e sarà sempre a Torino, lontano dai veleni della politica brutale romana. Torino piena di fabbriche dove vivono quei proletari di cui voleva (forse) farsi cantore, ma che qui risultano ancora sfuocati. Sono in gran parte sbandati alla ricerca di qualcosa. In fondo come Pavese per tutta la sua vita.

Pur se etichettato di “compagno”, Pablo non è “comunista”, perché in fondo a Pavese quello che realmente interessa è rappresentare le angosce del quotidiano, le ossessioni private di ognuno, le nevrosi, che ben scorgiamo nei discorsi interiori che si fa Pablo. Discorsi che si maturano a Roma, dove vediamo scoppiare il dissidio insormontabile tra impegno civico e interesse privato.

Forse per questo tentennare dello stesso autore, il libro, pur esemplare, non prende fino in fondo, lascia un po’ di dubbi sul fatto che a volte sarebbe bene parlare, spiegare, chiedere e rispondere piuttosto che rimuginare. Ma, come dice Pavese, ed in questo sono d’accordo anch’io, il mondo è pieno di Pablii, e parlarne e descriverne le gesta è un compito che molti scrittori dovrebbero intraprendere.

Mi rimane solo un dubbio di fondo sulla collocazione del testo. Che è di certo una fotografia di quanto si faceva nel ventennio fascista. Ma di certo è ancora lontano dalla resistenza intesa come attività militare vera e propria, attività da dopo il settembre ’43. Però è anche un testo che, appunto nella rappresentazione della quotidianità, mi ha fatto pensare a quella che quotidianità che i miei quindicenni genitori avevano all’epoca, e con loro i miei tanti e militanti zii. Ora, nella lontananza del ricordo (altrui purtroppo) si dimentica che c’era anche un quotidiano. Come quello che viviamo noi, ora, nello stato di guerra reale presente al mondo. Anche se noi non spariamo, anzi leggiamo e viaggiamo.

Chissà cosa si scriverà di questi anni, tra quarant’anni…

“Per capire le cose bisogna studiare, non le sciocchezze che insegnavano a scuola a noialtri, ma com’è che si legge un giornale, com’è fatto un mestiere, chi comanda nel mondo. Si dovrebbe studiare per saper fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro.” (107)

Prima lettura del mese, quindi riporto le copiose letture del mese di luglio, senza nessun acuto particolare, ma con una buona platea di letture più che sufficienti. Si stacca solo, ma verso il basso, il peruviano Mario Vargas Llosa, che, dopo le prove giovanili, non mi ha mai convinto.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Natsuo Kirino

Le quattro casalinghe di Tokyo

Corriere

8,90

3

2

Ben Bova

Orion

Mondadori

6,99

2,5

3

Roberto Perrone

La seconda vita di Annibale Canessa

Corriere Profondo Nero

7,90

3

4

John Banville

Il cerchio si chiude

Repubblica Emozione Noir

7,90

2

5

Alessandro Perissinotto & Pietro d’Ettorre

Il figliol prodigo

Repubblica Profondo Noir

8,90

2,5

6

Mario Vargas Llosa

Crocevia

Repubblica Latinoamericana

9,90

1

7

Augusto De Angelis

Il candeliere a sette fiamme

Mondadori

  6,50

2

8

Ilaria Tuti

Luce della notte

Repubblica Anima Noir

8,90

2

9

Élmer Mendoza

Il cartello del Pacifico

Corriere

8,90

2

10

Francesco Casolo

La salita dei giganti

Feltrinelli

s.p.

2,5

11

Christian Frascella

Fa troppo freddo per morire

Repubblica Emozione Noir

7,90

3

12

Alice Basso

L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome

Garzanti

9,90

3

13

Paolo Bernetti

La notte del fuoco

Mondadori

  6,50

3

14

Haruki Murakami

I salici ciechi e la donna addormentata

Corriere

8,90

2

15

Marco Malvaldi & Samantha Bruzzone

La regina dei sentieri

Sellerio

16

3

16

Yokomizo Seishi

Fragranze di morte

Sellerio

14

3

17

Alex Michaelides

La paziente silenziosa

Repubblica Brivido Noir

8,90

2

18

Francesca Giannone

Domani, domani

Nord

19

3

 

Visto che si parla di letteratura impegnata, vi propongo invece un florilegio di citazioni disimpegnata di un autore leggero, che però, essendo di facile lettura, a volte esprime momenti che non mi dispiace leggere. Parliamo allora di Fabio Volo e del suo “È una vita che ti aspetto”, da dove riprendo alcune citazioni che solleticano qualche nostro neurone.

“Se vuoi essere felice, se vuoi essere libero, impara ad amare. Ad amare, e a lasciarti amare.” (27)

“Avevo una struttura che mi impediva la meditazione. Fisicamente ero destinato alla superficialità.” (32)

“Ho deciso di lavare i piatti … Purtroppo tra i piatti c’era anche lo spremiagrumi. E solamente chi ha avuto a che fare con uno spremiagrumi incrostato di arancia può capire la fatica che si fa per ripulirlo. Ci vorrebbero i petardi. … Se dovessi scrivere un elenco di consigli per la casalinga, questo sarebbe fra i primi cinque. Dopo aver fatto la spremuta risciacquare subito.” (50)

“Insomma, impari una cosa, ma vale solo per la persona con cui l’hai imparata. Le donne sono tutte diverse.” (93)

“Non è un caso che la voglia di cambiare il mondo mi sia venuta proprio quando ho maturato la consapevolezza del mio futuro. … Volevo cambiare il mondo e alla fine ero cambiato io. Ho cercato di capire solamente quando era avvenuto il baratto. … Forse perché ci sono entrato un po’ alla volta. Forse perché ho avuto la presunzione di pensare di poter entrare in acqua senza bagnarmi. E così, lentamente, giorno dopo giorno, ho fallito e sono caduto nella rete anch’io.” (115)

“Volevo dare delle carezze, ma siccome non le davo alla giusta velocità diventavano schiaffi. Volevo dividere con gli altri quello che avevo scoperto… Invece, nel mio approccio diventavo presuntuoso. Sembrava volessi imporre le mie idee come uniche e assolute.” (128)

“Avrei voluto dirle un milione di cose e l’ho fatto. L’ho fatto stando zitto e abbracciato a lei.” (173)

Siamo così entrati nell’ultimo quarto dell’anno, che ci riporterà l’ora legale, una gita sul Garda, l’esimio anniversario della nascita di mia madre, solo due settimane dopo la nascita della radio, e tanti, tanti compleanni (ma quanti siete? Come disse Troisi, voi siete tanti ed io sono uno).

Ma siamo anche entrati in momenti poco propizi ai viaggi, per mille ed una ragione. Fermiamoci a pensare, come spero facciano le persone di buona volontà in giro per il mondo, anche se il mio fondo gramsciano non mi dà speranze certe. Unica certezza, la mia posta settimanale e i miei abbracci.

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