domenica 27 ottobre 2024

Giappone ed altri scritti - 27 ottobre 2024

Una settimana dove gli scrittori italiani fanno una buona figura, ma gli stranieri di più. Una buona storia familiare di Francesco Casolo sulla birra ed una migliore sul rapporto padre-figlio di Gianrico Carofiglio (anche se il nome non è un programma). Tuttavia surclassati dal sempre leggibile, pur se non facile, cileno Roberto Bolaño, ma soprattutto dai due giapponesi Sosuke Natsukawa e Durian Sukegawa. Di cui vi ricordo in particolare il secondo ed il bel film che ne fu tratto.

Gianrico Carofiglio “Le tre del mattino” Repubblica euro 8,90

[A: 06/05/2022 – I: 19/05/2024 – T: 21/05/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 165; anno: 2017]

Eccoci ad un nuovo ed interessante libro di Gianrico Carofiglio, uno dei tanti che lo scrittore ha scritto fuori del suo classico ed acclamato filone di giallista. Ce ne sono e ne ho letto altri (su tutti ricordo la bellissima descrizione di Bari in “Né qui né altrove”), ma questo, pur con delle indubbie punte di interesse, non è tra i più riusciti.

Lascia un paio di punti sospesi, tra il prologo esplicativo ma non esaustivo, la scomparsa di alcuni personaggi durante la vicenda, un finale breve, forse troppo affrettato, anche se capisco che, a volte, “una parola è poco e due son troppe” (proverbio citato ma ripensando a Flaubert).

La bellezza del testo sta nell’assunto, cioè nel plot generale, dove in poco più di centocinquanta pagine si riesce a descrivere l’eterno conflitto tra padre e figlio, un tema sempre attuale, anche quando qualche elemento della battaglia non c’è più. L’altro bel punto è il titolo, che da un lato deriva da una bellissima citazione di Francis Scott Fitzgerald (“Nella vera notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino” tratta da “Tenera è la notte”), ma che Carofiglio usa per esemplificare un momento di passaggio, un orario ambiguo, in cui è troppo tardi per essere notte ma è ancora troppo presto per essere l’alba.

La storia ci viene narrata da Antonio come un lungo ricordo di quando aveva un età di passaggio, iniziata sui quindici e finita sui diciotto. E noi ci accompagniamo subito con il giovane Antonio. Colpito dalla separazione dei genitori, che subisce senza averne capito il motivo, si trova per molta parte della sua infanzia e giovinezza afflitto da una malattia poco individuabile.

Intanto, e di sicuro, la separazione tra la madre insegnante di lettere ed il padre, matematico illustre, ha scatenato insicurezze nel giovane Antonio, portandolo a crisi di panico ed a momenti di mancanza di coscienza della realtà che nessuno sa spiegare. Dopo anni di inutili cure, i genitori trovano uno spiraglio di maggior attenzione rivolgendosi all’unico personaggio reale del libro il professor Henri Gastaut, specialista in neurologia ed esercitante a Marsiglia. Il quale diagnostica un epilessia idiopatica, trovando un corto circuito di medicine che dovrebbe stabilizzare Antonio, soprattutto nel passaggio verso l’età adulta. Terminologia medica su cui tornerò più avanti.

Dopo tre anni di cure, Antonio è pronto per la verifica della regressione della malattia, ed il dottore lo sottopone ad una “prova da scatenamento”: due giorni senza dormire, alla fine dei quali, se non insorge una crisi, Antonio è guarito. E sono questi due giorni a Marsiglia, dove Antonio ed il padre sono costretti a vagare per trovare spunti e modi per non dormire che scatenano un non scontato ravvicinamento. Quando si sta a contatto, è inevitabile che escano fuori tante cose, così come nel loro rapporto, andando a toccare tanti (tutti? molti?) temi dei loro rapporti rimasti per sempre sopiti.

Qui, nella parte migliore del libro, abbiamo una duplice chiave di lettura. Da un lato c’è l’amore per i luoghi. Avevo già imparato, leggendo di Carofiglio quando parla di Bari, l’amore dello scrittore per alcuni punti geograficamente per lui importanti. Così qui, ci porta a spasso per Marsiglia, tra una visita alla basilica di Notre-Dame-de-la-Garde, situata  sul punto più alto della città e da cui se ne ha una vista impagabile, ed una discesa a mare alla Calanque di Morgiou (una spiaggia in una insenatura di notevole bellezza), passando per locali, ristoranti, ritrovi ed altre passeggiate cittadine, laddove, se non conoscete Marsiglia, vi viene subito voglia di andarla a visitare.

Non solo passeggiano, ma ovvio parlano. Anzi è soprattutto il padre che si apre, parla del rapporto tra lui e la madre di Antonio, ma anche tra lui ed il lavoro, e l’età che cresce, là dove erano le speranze e le illusioni della giovinezza. Ma anche, ovvio, le paure di sbagliare, la sempre presente crisi interna tra voler fare e non saperlo. Alla fine, si ritrovano in un locale jazz, musica che il padre adora ed Antonio non conosce (ancora). Lì, spinto da Antonio, in un momento buco del complesso, il padre viene convinto a sedersi al pianoforte, improvvisando uno standard jazzistico di buona fattura (e di bella descrizione da parte di Carofiglio).

Non solo, prima alla Calanque, i nostri avevano incontrato Adèle e Lucie due ragazze lesbiche che li invitano ad una festa notturna, dove Antonio (che ricordo ora ha diciotto anni) conosce Marianne, una trentasettenne piena di vita. In una notte da favola, Marianne prima spiega ad Antonio che si trova in un “balikwas” (ora ci torniamo anche su questo) e poi i due passano insieme la prima notte d’amore per Antonio. E non dico altro.

Il giorno dopo, il dottore annuncia la guarigione di Antonio, i due tornano in Italia ed alla loro vita normale, con Antonio pieno della consapevolezza di aver aperto un canale di comunicazione che non conosceva. Peccato che pochi giorni dopo il padre ha un infarto e muore. Antonio si tiene per sé i giorni marsigliesi, ma alla fine ne capisce i risvolti, ne interpreta le conseguenze, ed alla fine lo troviamo ora, cinquantenne, nel suo studio guardare riflettendo una frase di John von Neumann appesa alle sue pareti: “Se la gente crede che la matematica non sia semplice, è perché non si rende conto di quanto complicata sia la vita”.

Prima di entrare in altri meriti, veniamo ad alcuni punti salienti che ho lasciato in sospeso. La frase di von Neumann in originale riporta: “If people do not believe that mathematics is simple, it is only because they do not realize how complicated life is”, espressa in un convegno di computeristi nel 1947, dove notate l’inversione della negazione che rende per me l’originale più immediato (“Se la gente non crede che la matematica sia semplice” trovo sia più efficace di “Se la gente crede che la matematica non sia semplice”). Anche perché ne sono assolutamente convinto.

Il secondo punto è il termine del linguaggio “tagalog” delle Filippine. In realtà “balikwas” significa letterariamente “alzarsi improvvisamente da una posizione sdraiata”, ed è quindi usato nella colloquialità filippina (ed in questa accezione lo usa Carofiglio) con l’indicazione di una persona che si trova all’improvviso in una situazione diversa da quella che si aspettava, cosa che ci induce a vedere le cose conosciute in modo diverso. Una situazione che auguro a molti.

Infine, tornerei sull’idiopatia, un termine jolly della medicina che odio dal profondo, e che serve ad indicare una malattia di cui non si conosce la causa. È un anno che soffro di prurito idiopatico (tenuto ben a bada, ovviamente), e trovo snervante questa “patia”.

Tuttavia, per tornare la testo, a parte i limiti espressi all’inizio, l’idea di fondo è bella e foriera di riflessioni acute. Qual è il nostro rapporto con nostro padre? Soprattutto quando il padre non c’è più. Non nego che avrei volentieri cercato di parlare di più con il grande Frankie, ma il tempo della consapevolezza è venuto dopo il tempo della scomparsa. E questo è quanto di più posso dire sull’argomento, ora. Se non un grazie a Carofiglio che pur nelle sue imperfezioni (quanto mai poco provvisorie) mi ha dato agio di tornare su riflessioni private che suggerisco anche a voi di portare avanti: il rapporto con le malattie, la visione differente che si può avere verso l’altro sesso, il possibile incontro tra due generazioni diverse. Tanti pensieri.

Sosuke Natsukawa “Il gatto che voleva salvare i libri” Corriere Giappone 3 euro 8,90

[A: 22/05/2021 – I: 17/06/2024 – T: 19/06/2024] - &&&      

[tit. or.: 本を守ろうとする猫の話 Hon o mamoroutosuru neko no hanashi; ling. or.: giapponese; pagine: 177; anno 2017]

Un libro favola scritto da uno scrittore non-scrittore, che comunque prende per le implicazioni dei ragionamenti sui libri e sui lettori.

Cominciamo dall’autore che, come altri nel mondo spesso accade, nasce medico, ed al solito medico di base in quel di Nagano. Nel tempo libero comincia a scrivere, e dopo alcuni racconti più o meno lunghi in ambiente medico (dal titolo complessivo accattivante “La cartella clinica di Dio”), si esercita in altro ed assume questo pseudonimo. Ma in maniera così discreta che non ho trovato il suo vero nome, neanche nella wiki giapponese.

Questo pseudonimo invece, come ci dice lui stesso in un’intervista, è una specie di patchwork composto da diversi rimandi. Natsukawa è composto da “Natsu” parte del cognome dello scrittore Soseki Natsume (che riveste un’importanza traslata avendo scritto un testo fondamentale: “Io sono un gatto”, tutta descritto da un’ottica felina) e da “kawa” parte del cognome di un altro scrittore giapponese Yasunari Kawabata. Mentre più complessa è la prima parte composta da che si legge “so”, e che vuol dire “erba” come nel titolo di un altro libro di Soseki (“Guanciale d’erba”), mentre “Suke” è la parte finale del nome di Ryūnosuke Akutagawa, altro importante autore giapponese, che forse ricorderete solo per aver scritto la novella “Rashomon”, da cui Kurasawa trasse uno dei più bei film, e non solo giapponesi.

Secondo elemento pretestuale è il fatto che, in questa favola un po’ di crescita adolescenziale, un po’ di critica libraria, elemento trainante, per tutta una fase, è un gatto parlante. Ora, è una favola e possiamo accettare un gatto che parla, anche se personalmente ho trovato l’idea forzata. Ma d’altra parte, come anche avete capito dalla genesi del nome, il gatto ha un sua importanza nella simbologia nipponica, dove da sempre viene associato alla fortuna ed al benessere economico, tanto da diventare quel simbolo (che a me sembra odioso) del gatto con la manina che attira fortuna, chiamato in giapponese “maneki neko” (dove si potrebbe aprire una parentesi sulla genesi del simbolo, ma forse non è materia di questa trama).

Qui torniamo al testo, dove abbiamo il giovane Rintaro cui muore il nonno con cui viveva, e che gestiva una libreria, in cui si possono trovare libri nuovi ma soprattutto usati e poco rintracciabili (Jane Austen, Hemingway, Conrad, Garcia Marquez, ma anche Samuel Johnson e Montaigne). La morte del nonno crea nel nostro una crisi: che fare? Dovrebbe andare a scuola, ma si sente perso. Dovrebbe andare a vivere con una zia, ma in questo caso dovrebbe anche lasciare la libreria. Tra l’altro, secondo l’etimologia giapponese, lui si sente un “hikikomori”, cioè uno dei tanti giovani che si ritirano dal mondo, per lo più rintanandosi nel mondo virtuale dei cellulari, o, come Rintano, nei libri.

Fortunatamente, viene in suo soccorso il gatto parlante, che gli pone davanti tre problemi, che lui chiama tre labirinti: nel primo c’è un lettore compulsivo (di fronte al quale le mie letture impallidiscono) che leggendo tiene segregati un numero impressionante di libri; nel secondo c’è un lettore invece sintetico, che cerca di ridurre i libri a poche essenziali parole, di modo che siano fruibili alla gente che va di corsa; nel terzo, c’è invece la grande industria che stampa a tamburo battente dei libri improbabili, solo perché così possono vendere, andando incontro ai “gusti” della gente (anche se sarebbe bene dire “guasti”, visto che la maggior parte è come fare soldi in fretta, come diventare belli, come sposarsi bene, ed altri “come…”).

Rintaro, prima timidamente, poi sempre più sicuro di sé, in questo rafforzato dalla presenza della sua compagna di classe Sayo, ripensando ogni volta ai consigli del nonno morto, debella i tre “oscurantisti” di libri con un ragionamento che, all’osso, potrebbe essere: bisogna leggere (e magari rileggere) che ogni frase può celare un mondo, non è importante tanto e solo leggere molto, ma, capendo che ogni libro parla di te, entrare in sintonia con la parola scritta, senza mai guardare al denaro in modo immediato, che la fortuna c’è anche se non si vede (critica sempre presente nella mia testa all’idiozia berlusconiana: “con la cultura non si guadagna”).

Sembra aver vinto su tutto, ma alla fine si presenta il problema dei problemi: i tre che sono stati sconfitti dalle parole di Rintaro, da eroi ed acclamati personaggi diventano paria abbandonati da tutti. Una strega cattiva (un libro incarnato, nata milleottocento anni fa, che, se risalgo alla storia giapponese, si potrebbe riferire al “Libro degli Wei”, dove si descrive l’immigrazione verso le isole giapponese di popoli asiatici, e la nascita del primo potentato feudale nipponico) rapisce Sayo per costringere Rintaro a rinnegare tutte le sue avventure precedenti. Ma il nostro giovane trova la parola magica, quella che riporto in finale: empatia. Questo è quanto ci insegnano i libri, se sappiamo leggerli. Questo è il senso di chi si sente attratto o respinto da determinati libri (per essere “rompente”, io sono empatico con Borges e non lo sono con gli ultimi libri di Amado).

Alla fine, cosa succede a Rintaro, a Sayo, al gatto, alla zia, ed alla libreria ve lo lascio leggere con calma (in fondo il libro è abbastanza agile). Anche se, ma questo sono io, ho sempre difficoltà nelle favole troppo “favolistiche”, legato forse troppo alla realtà del qui ed ora. Ma i messaggi sui libri, sulla lettura, sull’editoria mi trovano sostanzialmente in accordo. Certo, il libro, è anche un epigono dei tanti “easy reading” giapponesi dell’ultimo periodo (il caffè finché è caldo, la libreria Morisaki, il riordino alla Maria Kondo ed altri simili epigoni della leggerezza di Banana) ma parlando di libri ha mosso alcune corde di buona risonanza.

Anzi, vorrei fare anche un salto all’indietro nella battaglia contro la sintesi parossistica del testo, dove Rintaro trova un esempio fulminante: mettete la “Nona sinfonia” di Beethoven a velocità doppia, e ditemi se la melodia è la stessa.

Con Sosuke concludo quindi che bisogna leggere tanto, ma leggere bene. Bisogna seguire il testo e farsene accogliere. Bisogna entrare nella magia del mondo descritto. Bisogna leggere quel che c’è ora, ma anche quel che ci fu (va bene Manzini, ma anche Manzoni, ahi che battutaccia).

“Della solita quota di cento libri non ne ho ancora letti che sessantacinque. Tornatevene a casa! – Cento libri? … Lei legge cento libri all’anno? Non all’anno, al mese!” (33)

“Se ti limiti a leggere libri in modo così frenetico, non si amplierà per questo il mondo a te visibile. Per quante conoscenze tu riesca a inculcarti, se non pensi con la tua testa e non cammini con le tue gambe tutto rimarrà solo qualcosa di preso inutilmente a prestito. … Non saranno i libri a percorrere la vita al posto tuo. Un avido lettore che si dimentica di camminare con le proprie gambe diventerà solo il voluminoso dizionario di un sapere obsoleto.” (41)

“Con la musica abbiamo un contatto quotidiano … ma per i libri non è la stessa cosa. Possiamo fare jogging ascoltando musica, ma non leggendo.” (72) [apriamo un discorso sugli audiolibri?]

“La capacità di empatia verso gli altri non è l’atteggiamento di chi mette in fila parole superficiali di conforto con una voce sdolcinata. È quello di chi soffre e si addolora insieme agli altri… Molte persone, continuando a riempire la loro vita di giornate frenetiche, dense di impegni, finiscono per perderla … Nella stressante routine quotidiana tutti non riescono a badare che alle proprie esigenze, e perdono qualsiasi slancio altruistico. E chi ne è privo finisce per non percepire più le sofferenze degli altri. Così non prova più nulla nemmeno a mentire, a ferire le persone, a calpestare i deboli. E a questo mondo sono sempre di più quelli che si comportano così.” (131)

“I libri ci insegnano ad avere empatia con gli altri.” (156)

Francesco Casolo “La salita dei giganti” Feltrinelli s.p. (regalo di compleanno con Feltrinelli Platino)

[A: 09/05/2024 – I: 14/07/2024 – T: 16/07/2024] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 412; anno: 2022]

Avendo un grosso credito aperto con Feltrinelli, mi ritrovo fortunatamente ogni anno, nel giorno del mio compleanno, a ricevere un libro omaggio dalla mia libreria di riferimento. Ecco così che è entrato nel novero dei miei libri questa interessante saga familiare. Interessante non tanto per la scrittura in sé, buona ma solo di livello medio, quanto per l’argomento che mi ha incuriosito: la storia della famiglia Menabrea e della sua birra artigianale.

Non è che sia un fanatico della birra, solo un normale bevitore, ma la Menabrea mi aveva incuriosito, anni ed anni fa, quando, per le prime prove della pizzeria Bonci a Trastevere, veniva inserita nel menù. Provata, la trovai dignitosa, e di certo non industriale, anche se nel mio ricordo permangono sempre in prima posizione alcune delle birre che bevevo ai tempi dei miei lavori in Belgio (in particolare la Blanche con limone).

Venendo al libro, sicuramente Casolo ha fatto un buon lavoro di ricerca, che d’altra parte è consono alle sue scritture (ricordo che ha scritto i primi libri a quattro mani con Alì Ehsani su storie di migrazioni dall’Afghanistan) fatta di ricerche e riproposizioni. Così, vivendo in quel di Gressoney, mi sembra un percorso obbligato interessarsi ad una famiglia che della cittadina è figlia, e che, a seguito di un grande sogno, non dico che ha costruito un impero, ma di certo un piccolo regno.

Seguiamo così, sul filo della scrittura di Casolo e delle parole di Eugenia “Genia” Menabrea, il percorso che ha portato alla nascita ed al consolidarsi della fabbrica di birra. I Menabrea nascevano all’inizio dell’Ottocento come venditori di stoffe, cosa che è alla base dell’economia biellese, e con negozi nella vicina Svizzera. È il nonno di Genia che, inseguendo un sogno ed una intuizione, decide di vendere tutto e di impiantare una fabbrica per la produzione della birra. Una bevanda che da sempre era localmente prodotta, ma solo per fini privati.

Sarà con Carlo il padre di Genia che si avrà, intorno al 1870 la prima spinta verso riconoscimenti nazionali e non, aiutati dalle buone parole di un grande figlio del territorio, anche se del lato tessuto, Quintino Sella (che è ben noto, altresì, per la sua presenza politica). Ma Carlo, stroncato da tisi e fatica, muore prima del trent’anni, lasciando la produzione nelle mani di un eccellente mastro birraio e del cognato. Ma solo per nove anni, allo scadere dei quali, le mani della produzione torneranno ai Menabrea. In particolare a Genia ed al suo tanto amato marito, Enrico Thedy.

Sarà proprio lo sforzo di Thedy che consolida la Menabrea su tutti i mercati, anche se, pure lui, muore prima dei quarant’anni, lasciando una vedova con cinque figli. Genia, si suppone, prenderà in mano le redini, per poi passarli al ramo Thedy, che tuttora guida la “Menabrea & figli”. Anche se, dal 1991, la maggior parte delle quote è stata acquistata dalla casa di birra meranese “Forst” (su cui si potrebbe scrivere altre saghe familiari).

Casolo ci narra tutto ciò dall’ottica di Genia, una delle tre figlie di Carlo Menabrea, immergendoci nell’atmosfera dell’epoca, e facendoci vivere anche i passaggi epocali della seconda metà dell’Ottocento. Prima si andava a piedi per le valli, si usa il ghiaccio di montagna, ed il carbone per scaldare le case e l’orzo. A mano a mano, si passa ai calessi, fino alle prime automobili. Si passa dal carbone all’energia elettrica. Si produce ghiaccio direttamente dalle acque dei ruscelli con grandi frigoriferi. Arriverà il cinema e poi il telefono. Quello che non cambia, in Menabrea, è la filiera di produzione della birra, di cui l’autore ci illustra tutti i passaggi produttivi. Una mini-lezione, che ho trovato tra le parti migliori del libro.

Come altrettanto interessante è la storia stessa della birra, che non solo affonda in epoche lontane, tra egizi e sumeri, ma è anche legata alla figura femminile, tanto che è Ninkasi, una divinità sumera femminile, la patrona della birra. Motivo per cui sembra anche logico seguire la storia della famiglia Menabrea nell’ottica della femmina forte della famiglia, Genia. Anche se, volendo parlare invece solo di birra, si dovrebbe approfondire la figura di Emilio Thedy, il marito di Genia. Peccato anche che un’altra figura fondamentale nel processo di produzione di birra di qualità, Gregor il maestro birraio, ad un certo punto, e senza preavviso, scompare dalla narrazione.

È di certo un libro che si legge abbastanza agevolmente, tuttavia, come detto, il modo di porre l’argomento ed il salto di alcuni passaggi non riesce a coinvolgere il lettore. Così che si arriva alla fine con una buona idea della famiglia Menabrea, ma con idee ancora un po’ oscure sulla buona accoglienza della birra stessa, e su suo perdurare sul mercato ancora adesso, a circa 175 anni dalla nascita.

Comunque, mi ha stimolato nella ricerca di maggiori informazioni sulla birra e sulle differenti birre esistenti. Questo è di sicuro un punto a favore.

Durian Sukegawa “Le ricette della signora Tokue” Corriere Giappone 12 euro 8,90

[A: 27/07/2021 – I: 12/09/2024 – T: 14/09/2024] - &&&      

[tit. or.: あん An; ling. or.: giapponese; pagine: 180; anno 2013]

Durian Sukegawa, come la maggior parte degli scrittori giapponesi, è solo il nome d’arte dello scrittore. E tuttavia, non credo ci interessi quale sia il suo vero nome, ma chi sia questo sessantenne che a dieci anni fa ci ha deliziato con questo libro. Laureato in filosofia e diplomato alla scuola centrale giapponese di pasticceria. Scrive poesie, è un personaggio molto presente alla televisione nipponica, forma diverse rock-band e nei ritagli del suo tempo comincia a scrivere. Mantenendo costante il suo occhi vigile sul mondo ed una critica verso tutto ciò che va storto nelle pieghe del nostro pur storto mondo.

Questo è in realtà l’unico vero libro che lo ha fatto conoscere anche fuori dal Giappone, anche grazie ad una suntuosa trasposizione cinematografica. Che ho visto al cinema molto prima di aver letto il libro. La ricordavo una storia delicata e con interessanti risvolti umani. Ora, nella immediatezza del libro, non solo ne ribadisco il giudizio, ma trovo nella scrittura anche qualcosa in più. Fors’anche perché, leggendo, si ha tempo per seguire rimandi e suggerimenti che possono sfuggire nelle trasposizioni cinematografiche.

Pur avendo al fine meritato un giudizio discretamente alto, due elementi me ne hanno mitigato il giudizio. Uno tutto italiano, colpevoli gli editori di utilizzare titoli diversi dagli originali. Ora, se pur vero che la signora Tokue è una raffinata cuoca, in realtà non si dedica a ricette a tutto campo, ma alla pasticceria (come l’autore) ed in particolare ad una confettura che in giapponese si chiama “An” che è una tipica marmellata preparata con gli azuki, una sorta di fagioli dolci. Questa marmellata è utilizzata in molte confezioni dolciarie, ma in particolare nei dolci chiamati “dorayaki”, una sorta di doppio pancake farcito appunto con l’An. Ed è precisamente “An” che si intitola il testo originale.

Non è un caso che Durian ha così chiamato il suo libro, che è tutto incentrato su un negozio di dorayaki in periferia di Tokyo, affacciato su un parco pieno di ciliegi, e gestito da Sentaro. Lui è un ex-detenuto, che vorrebbe diventare scrittore, ma che, contratto un forte debito, per ripagarlo si improvvisa pasticcere, cercando di affogare nell’alcool la sua tristezza. È una bottega che ha un suo piccolo seguito, in particolare tra le alunne di una vicina scuola. Tra queste, molto affezionata è la piccola Wakana.

La svolta del libro comincia con l’arrivo della signora Tokue, che, pian piano ed attraverso diverse prove culinarie, riesce a convincere Sentaro della bontà dell’An da lei preparato. Comincia così un rapporto di scambio tra i tre. Tokue lavora nell’ombra alla preparazione dei dolci, diventando confidente dei problemi familiari di Wakana, ma anche spingendo Sentaro a guardare dentro di sé, a riflettere.

Tuttavia, tutti si accorgono che Tokue ha dei problemi, e quando si scopre che ha avuto il morbo di Hansen, la gente abbandona il locale di Sentaro. Tanto che lui sarà costretto a licenziarla, ma il rapporto che hanno costruito sopravvive. Sentaro e Wakana continueranno a frequentarla, nel breve tempo che le rimane. Riuscendo a comunicarci, nel breve volgere di pochi incontri, tutta una serie di sensazioni, di spinte verso una vita diversa, più sentita, che sarà il messaggio finale che Durian cercherà, in parte riuscendoci, a comunicarci.

L’altro elemento mitigante è dovuto invece alla scarsa presa che la delicatezza giapponese comunica nel modo di stare al mondo, di rapportarsi agli altri. Una delicatezza buona, ma spesso troppo leggera per affrontare tutto.

Comunque il libro, in questo modo delicato, ci presenta una storia di solitudini, che attraverso l’amicizia si incontrano per superare gli isolamenti, voluti o forzati. Sotto la spinta delle parole di Tokue, i protagonisti vanno alla ricerca del proprio sé, nell’intento di scoprire cosa possa renderli felici e soddisfatti della loro vita. Un inno alla lotta contro l’indifferenza e il pregiudizio.

E rimanendo all’interno del mondo giapponese, ci si domanda quale sia il ruolo degli anziani nella società moderna, il peso della memoria. Non ultima, poi, la discriminazione. Qui resa palese dalla segregazione verso i lebbrosi, pur se guariti, ma che è presente in molti aspetti della vita giapponese, come quella terribile degli “hibakusha”, i sopravvissuti alla bomba che sono stati per decenni emarginati per paura di una diffusione delle radiazioni nei loro codici genetici.

Un libro bello e delicato, filosoficamente corretto, solo troppo poco “cattivo”. Anche se il perdono è uno dei più grandi doni che si possano avere.

“Sono sicura che tutti, … prima o poi si chiedano se la loro vita abbia un senso. E la risposta è che… la vita ha un senso, oggi lo so per certo.” (164)

Roberto Bolaño “Puttane assassine” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 11,40 euro)

[A: 28/08/2024 – I: 28/09/2024 – T: 30/09/2024] - &&&     

[tit. or.: Putas asesinas; ling. or.: spagnolo; pagine: 230; anno 2001]

C’è sempre un po’ di ambiguità nel mio personale rapporto con l’autore. Che nasce circa una settimana prima di me, e muore di cancro a 50 anni. Ho amato molti dei suoi libri, ma altrettanto spesso non ne ho digerito alcuni (in tutto o in parte). Come in questa raccolta di racconti, alcuni mirabili, altri forse inutili, pur se tutti sorretti dalla sua splendida capacità di scrivere e con la sua penna capace di portarci altrove.

In generale, in un mondo di uomini (o donne) solitari, a volte in viaggio, spesso esuli, ma sempre senza un reale rapporto con gli altri, con il mondo. O forse con un rapporto conflittuale, come se loro, e l’autore, sapessero che di altro è fatta la vita.

Sono sempre spezzoni, brandelli di vita, fotografie di momenti. A volte anche di momenti personali, laddove vediamo che il centro del racconto coincide, pur in maniera eccentrica, con lo scrittore (eccentrica nel senso proprio del termine, cioè fuori dal centro).

Dicevo della solitudine, come in Gomez Palaciodove uno stralunato professore si trova inspiegabilmente ad insegnare letteratura creativa nella sperduta cittadina del titolo, posta nel nulla a 1000 chilometri a nord di Città del Messico. Ed anche nel “Dentista”, storia di un rapporto di solitudine tra un dentista ed un indio. Od a maggior ragione, seguendo i numeri di uno scritto che elenca momenti di pensiero come in una danza in “Carnet di ballo”.

Una solitudine che si accentua quando vi si aggiunge la condizione di esule, come l’autore fu per tutta la vita (emigra dal Cile a quindici anni e non vi torna più). Bolaño, come alcuni suoi personaggi, si stabilisce per molto tempo in Messico. Ma anche, e lungamente, in Europa, tra Spagna e Francia. Esule che non vuole tornare i patria, e che, in realtà, non ama gli esuli che incontra.

Così vediamo il protagonista compulsare una rivista e gli autori che incontra nello scritto in Vagabondo in Francia e in Belgioma soprattutto nei Giorni del 1978, dove narra il suo  forte dissidio con un esule supponente (e forse anche un po’ fuori di testa). In parte, c’è il sentimento di esilio e solitudine anche ne “L’Ojo Silva”, sentimento che si mescola alla descrizione di una strana avventura orientale del protagonista. Un episodio surreale che fa da sfondo anche a molti dei testi.

L’incontro, da vivo, con un morto in “Incontro con Enrique Lihn” o il suo contrario, la narrazione vista dalla parte del morto che incontra uno stilista necroforo in “Il ritorno”. Fino ai riti voodoo che innervano il racconto “Buba”, ma solo per fare una critica purtroppo non tanto efficace al mondo calcistico ed alle sue depravazioni.

Solitudine, esilio, ma anche elementi che attengono al suo privato, quasi un’autobiografia immaginaria ed immaginata. Come nel bellissimo “Ultimi crepuscoli sulla terra”, con il delicato racconto del rapporto con il padre (oltre ai giorni ed al vagabondo che ho già citato). Un momento personale che serve anche da aggancio alle sue opere, con l’uso trasversale dei personaggi.

Vediamo così il suo alter ego Arturo Belano, protagonista de “I detective selvaggi”, narrare in “Fotografie” di un’antologia poetica mentre percorre strade africane desolate e devastate da guerre. O il Lalo Cura, presente nell’ultima parte del suo ultimo testo (“2666”) e qui voce narrante in “Prefigurazione di Lalo Cura”, piccolo delirio di un figlio di una diva del porno e descrizione in soggettiva delle sue personali vendette. Non dimentichiamoci che il nome, letto in spagnolo e diversamente periodato, ci porta a “la locura”, cioè la pazzia.

Non resta allora che citare il racconto del titolo, tutto in forma di dialogo, dove una donna si vendica con un uomo scelto a caso tra i tifosi allo studio, torturandolo ed uccidendolo (probabilmente). L’unica colpa della vittima è di essere un maschio, epitome del dolore subito dalla donna, che vuole vendicarsi su di un uomo qualsiasi per tutti i soprusi subiti.

Facendone una summa, così, vediamo spalmati nei tredici testi i temi sempre ricorrenti nell’autore: il male, la violenza, il sesso, l’esilio e sempre e comunque la letteratura. Con la sua capacità magistrale di raccontare senza spiegare, facendoci comunque vedere la padronanza che ha del mezzo. Ci sono molti modi di raccontare storie, e Bolaño li usa, li manipola, li avvolge nel suo personale filo rosso della sua breve ed intensa vita. Che questo è l’ultimo testo pubblicato prima di morire, dato che il romanzo che stava finendo, “2666”, uscirà postumo.

Sarebbe bello e stimolante percorrere con lui queste fughe letterarie del Vagabondo e di Fotografie, piene di nomi quasi sempre reali, ma spesso inventati. O reali con una biografia inventata. Come Claude de Burine, poetessa francese, di cui inventa un fermo letterario alla fine degli anni Sessanta (finzione), mentre lei continuò a scrivere sino alla morte, nel 2005 all’età di 74 anni. O quella dell’artista e danzatore Dominique Tron, che ancora opera più che settantenne nelle isole australi dove si rifugiato.

Questo, oltre ai temi sopra elencati, per me è Bolaño: un affabulatore che ci ha portato nei suoi mondi, dove non importa cosa sia vero o cosa sia falso, ma solo cosa stiamo vedendo (e vivendo). Perché non è un caso l’epigrafe che lui mette al testo: “L'accusa si scioglierà in risate e tu te ne andrai libero da ogni peso”. È tratta dal secondo libro delle Satire di Orazio, dove volutamente, credo, l’autore ci porta alla conclusione, che suppone noi si sappia, che Orazio parla di chi, scrivendo bene, attacca gente spregevole. Sarà accusato, ma vincerà.

Ed io so che anche la sua scrittura vincerà.

In una settimana di giapponesi, cileni ed italiani, pur con racconti ambientati ai limiti dei confini nazionali, mi piace citare un grande accademico francese, Erik Orsenna, di cui ho letto molti libri divulgativi sull’uso della lingua francese. Qui, invece, prendo un testo più letterario, “Deux étés”, dove mirabilmente ci fa vedere sia il ruolo del traduttore (su cui concordo) sia i possibili lacci matrimoniali (su cui aprirei una discussione). Per evitare a voi ed a me altre fatiche, vi propongo i testi come da me tradotti.

- I traduttori sono pirati ... [-??] - Qual è il lavoro del pirata? Quando una nave straniera gli piace, la assalta. Getta l'equipaggio in mare e lo sostituisce con i suoi amici. Poi innalza i suoi personali colori al vertice del più alto pennone. Così il traduttore. Cattura un libro, cambia tutto il linguaggio e lo battezza francese. Hai mai pensato che i libri siano battelli e le parole i loro equipaggio?” (26)

“Anche i matrimoni sono delle isole. C’è bisogno di una nave per allontanarsene” (87)

Quindi, da buon pirata, mi avvio ad una settimana in trasferta, dove non sappiamo ancora se riuscirò per tempo a darvi la mia trama settimanale. Ma avrete mie notizie, comunque, dalle rive del Lago di Garda, dove penso di mancare da almeno cinquant’anni. Vi farò sapere come l’ho trovato. Per ora vi lascio con tanti abbracci.

domenica 20 ottobre 2024

Tove e le altre - 20 ottobre 2024

Benché ci sia un ottimo scritto di Chiara Valerio, un romanzo che a me è piaciuto pur con qualche riserva, ed il buon secondo romanzo di Francesc Giannone, questa è una settimana dedicata ad una scrittrice sconosciuta ai più (tra cui io prima di leggerne). Tove Ditlevsen, danese, dalla vita complicata assai, che, forte di un suggerimento derivato dalle pagine culturali del New York Times, ho trovato inaspettatamente negli scaffali italiani. Così, con una cinquantina d’anni di ritardo sugli avvenimenti, mi sono immerso nell’ottima lettura della sua “Trilogia di Copenaghen”. Da leggere.

Chiara Valerio “Chi dice e chi tace” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

[A: 19/03/2024 – I: 19/03/2024 – T: 21/03/2024] &&&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 276; anno: 2024]

Conoscevo fino ad ora solo la matematica Valerio, la divulgatrice Valerio, la polemista Valerio. Ora ho fatto un altro salto e conosco la scrittrice Valerio, e devo dire che Chiara in questa prova mi ha convinto assai. Una scrittura scorrevole, che ti coinvolge nell’atmosfera del romanzo, e soprattutto, ti tiene lì, nella cittadina di Scauri, tra le case, il (poco) verde ed i lidi spiaggiosi del Tirreno.

Di certo, non è un viaggio facile quello che facciamo con lei, per la materia del testo, ma anche, personalmente, per lo stacco temporale, visto che la storia è tutta negli anni ’80 (anzi, nel 1989 ad essere precisi) e molte cose narrate non solo sono legate a quei tempi, ma interpretano il modo di essere e di vivere di quel tempo, dove non a caso, ora, trentacinque anni dopo, alcune vicende sembrano “irreali”. Bisogna fare un piccolo salto all’indietro, oppure far finta che il tempo non esista, ed immaginare tutto nel qui ed ora.

Un altro punto di sicuro favore al testo è invece la visione al femminile della vita, che donne sono le attrici del romanzo, e donna è la voce narrante. Già lo scrissi in trame non sospette, quando si entra nell’intimo, nel personale, la voce diretta è l’unica che ha un senso. Troppe volte ho letto di romanzi femmino-centriche scritti da personaggi maschili che non riescono, mai, a farci partecipi del diverso modo di affrontare la vita. Non dico certo di aver compreso tutto, ma la scrittura di Chiara è “chiara”, la puoi condividere e/o capire, ma mostra quello che sente. E con quello dobbiamo fare i conti.

La storia è narrata da Lea, avvocato di provincia, con due giovani figlie, Silvia e Giulia, nonché un marito, cui vuole bene da sempre. Dai tempi universitari, dai tempi delle lotte (in fondo nel presente del racconto, sono passati solo vent’anni dal ’68), lei e Luigi sempre a sinistra. Anche se, chiuse le storie del Partito Comunista, rimangono poche lotte locali e sociali da portare avanti. Luigi, laureato in fisica, ora professore di liceo, presenza nel passato, nel presente e nel futuro di Lea, ma non da maschio opprimente e possessivo. Si sono anche sposati in chiesa, quando a Scauri è arrivato un bel prete d’assalto, don Michele, anche lui sempre a portare avanti progetti per i giovani, per il bene sociale.

Vivono la vita di Scauri, con tutte le piccole e grandi cose di una vita di provincia. Con le amicizie, i piccoli dissapori, il bar (dove Lea ha il suo tavolo personale), le spiagge, anzi, i lidi. Tutta una rete di esistenza, che comprende anche due belle persone. La più che sessantenne Vittoria e Mara, la sua giovane (almeno vent’anni di meno) amante/convivente/nipote/altro, con una catena di questi interrogativi presenti nel retro della mente, ma senza crearvi solchi insormontabili.

Il via alla vicenda viene dato dalla morte per annegamento nella vasca da bagno di casa di Vittoria. Lei che era una provetta nuotatrice, lei che lavorava in farmacia, ma che non si tirava indietro nello studiare e nel proporre medicherie vegetali, lei che aveva tanti animali in casa (cani, gatti, uccellini, un pavone, ed anche altro). Lei che giocava a carte nel bar degli scauresi duri e puri, una campionessa di briscola e tresette, che non disdegnava a volte né il poker (dove una partita segnò un punto forte della sua esistenza), né il bridge.

Vittoria si era installata a Scauri vent’anni prima, con Mara, in una casa rifugio. Lea ne era stata sempre colpita, per il modo diretto di porsi, per la schiettezza delle affermazioni, per i coinvolgimenti, su tutti i piani, espliciti ed impliciti, che riserva un amicizia, ed una frequentazione, seppur lasca. E Lea si pone domande. Perché è morta? Come è morta? È tutto chiaro o ci sono ombre? E Lea comincia ad indagare. Certo non è un noir, ma è un’indagine psicologica che ci porta (quasi) in un versante femminile dei romanzi duri di Simenon.

Così Lea “scopre” che Vittoria era (ancora) sposata con l’avvocato Pontecorvo, che Mara, prima, faceva la vita, che Vittoria aveva in giardino un busto di Canova. Molto ne scopre attraverso il testamento, a lei indirizzato, che, al fine, la conduce a Roma, nel cosiddetto “quartiere dei fiumi” (lei che viene dal mare), tra Piazza Fiume, via Po, via Tagliamento, per incontrare tale Rebecca, l’unica che, alla fine, squarcerà qualche velo della vita di Vittoria.

Che era affascinante, generosa, anticonformista, seducente, intelligente, omosessuale, ma che, tra l’altro, a Lea era a pelle piaciuta, e forse anche in modo reciproco, a Vittoria piaceva qualcosa di Lea. Affondando nel mondo dell’amica anche Lea capisce quanto di Vittoria le fosse entrato nella testa e non solo.

Chiara ha riempito il libro di tante cose, fiori, piante, animali, l’agenzia funebre Paradiso, il caffè “Lo Scoglio”, la spiaggia dei Sassolini, le spese del sabato, Silvia e Giulia che giocano con Barbie, tanta vita e tanto Scauri (che non conosco come Formia o Gaeta, ma immagino). E tanto spirito femminile, sia nell’occhio con cui si guarda il mondo, sia con tutta la sessualità, espressa ed inespressa, nei rapporti personali. Come ovviamente dice il titolo.

Tutto con un grande rispetto dell’altro, tutto con un’etica sottesa che forse abbiamo perso. Tutto alla ricerca della propria identità. Dove, purtroppo, non riusciremo mai a capire l’altro se non nella misura in cui l’altro si palesa a noi.

Una bella lettura.

“Era un uomo distratto. Non riavvicinava mai le sedie al tavolo, non chiudeva i cassetti.” (116)

Francesca Giannone “Domani, domani” Nord euro 19 (in realtà scontato a 17,85 euro)

[A: 03/07/2024 – I: 29/07/2024 – T: 30/07/2024] &&& ---   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 380; anno: 2024]

Sull’onda del buon primo libro di Francesca Giannone, ho deciso di seguire l’onda di mercato e di leggere il suo secondo libro, dopo poco la sua uscita. Non ha la forza del primo, ci sono delle cadute di tensione, ma nel complesso è ancora un buon libro, che ci fa intravedere una storia familiare, come ce ne sono tante in Italia, immersa anch’essa nella storia del nostro paese.

Questa volta siamo in Puglia, in un paese indicato con il nome di Araglie, ma che, scavando nella storia e nelle connessioni del testo, potrebbe ben essere Gallipoli. Lì, unendo la coltivazione delle olive con il suo sottoprodotto (la sansa) si cominciano a produrre saponi artigianali. Ed è un imprenditore locale, Renato Rizzo, che apre un saponificio ed ha un discreto successo. Come in molte situazioni familiari, però, l’unico figlio di Renato, Giuseppe, ha poca testa per il sapone, anche se, alla morte del padre, deve prendere in mano la produzione.

Più attaccati, sia al nonno che al sapone, sono i due figli di Giuseppe, Lorenzo e Agnese. E sono loro che seguiamo nel lungo percorso centrale del testo. Lorenzo, impulsivo e creativo, sarebbe ora un addetto al marketing dell’azienda, mentre Agnese, dotata di un olfatto superbo, è quella che si dedica alla produzione ed alla ricerca di nuove strade per il cosiddetto “sapone duro”. Agnese è tutta dedita al sapone, mentre Lorenzo ha anche una storia forte con Angela, la bella del paese.

La crisi arriva quando Giuseppe, non resistendo più in un lavoro che ha minato la sua salute anche mentale, decide di vendere l’azienda, per dedicarsi al suo sogno: progettare barche. Una decisione che mette in crisi tutto l’impianto familiare. Lorenzo non accetta e non accetterà mai la decisione paterna, andando via sia dall’azienda che da Araglie. Si rifugia a Lecce, da uno zio mercante d’arte, dove troverà spazio per il suo estro creativo. Ma dove, venendo a contatto con il mondo dei soldi, intravede una possibilità di riscatto: lasciare Angela, sposare la figlia di un nobile leccese, e con quei soldi, ricomprare l’azienda di famiglia.

Agnese, invece, rimane ai saponi, che quella è e sarà sempre la sua vita. E lì ad Araglie incontrerà un bravo marinaio ligure, Giorgio, che viene da Savona, e che sta cercando di mettere da parte soldi per aprire una piccola azienda marinara in quel di Savona, per sostenere la madre vedova ed i fratelli piccoli. Un amore che vediamo nascere e crescere a poco a poco, e che porterà Agnese ad un bivio: seguire il suo cuore o il suo cervello?

I due fratelli, pur incontrandosi nuovamente, non riusciranno a conciliare le loro esigenze. E nel finale, che si colloca vent’anni dopo l’ultimo capitolo vedremo dove le loro scelte li avranno portati.

Ci sono due elementi che reggono bene l’ossatura del romanzo. Da un lato le figure femminili. Agnese in prima linea, con la caparbietà di chi, avendo un dono ed un sogno, cercherà i modi di realizzarlo, e di tenere in piedi il cuore e la testa. Ma anche Salvatora, la madre, che sosterrà sempre, nel bene e nel male, l’amato Giuseppe, anche quando le scelte del marito sembrano rovinare la pace familiare. Poi c’è Teresa, l’amica del cuore di Agnese, che con caparbietà decide di laurearsi in legge, nonostante lo scarso aiuto economico, e diverrà un avvocato a sostegno delle cause del poveri. Ma anche, al fine, Angela, la bella che Lorenzo abbandona, e che troverà un suo spazio, piccolo se vogliamo, ma caparbio, nel mondo della moda.

L’altro elemento è lo spaccato italiano di un dopoguerra avanzato, alle soglie e poi dentro il boom economico degli anni Sessanta. Quello della televisione, delle autostrade, delle automobili, degli elettrodomestici, ma anche del cinema, della carta stampata e delle arti. Di quell’iniziale benessere che sembrava poter portare tutti ad un livello di vita decente e lontana dalle rovine post-belliche. Ma era anche un epoca di conflitti, con il potere democristiano che incominciava ad incrinarsi ed a puntellarsi verso una destra mai sopita. Un epoca di conflitti sindacali (vedi “Morti di Reggio Emilia” del 7 luglio ’60). Perché le piccole storie artigianali e familiari non possono mai essere scisse dal contesto generale, che le influenza e le determina.

Il messaggio forte che mi viene dalle pagine riguarda poi il detto ed il non detto. Molte incomprensioni, tra i personaggi ma anche nella nostra vita, derivano proprio dalle omissioni nei discorsi, dal non dire, dal non chiedere. Una delle mie maestre cui devo tanto mi ha insegnato una piccola realtà che sempre porto con me: se vuoi qualcosa, chiedi. Qualunque sia la risposta, è sempre meglio affrontarla che rimanere nel limbo del dubbio.

Infine, un piccolo accenno ad una situazione di intreccio interessante. Giorgio, l’amore di Agnese, viene da Savona. Agnese è sempre e sempre sarà legata al sapone. Ebbene, Savona ha il nome che la collega all’oggetto. Non a caso è nell’area savoiarda, dopo si parla di “savon”. Inoltre, secondo una leggenda locale, è proprio a Savona che nel II secolo d.C., la moglie di un pescatore, facendo bollire fortuitamente olio d’oliva e lisciva di soda, ottiene per la prima volta il sapone.

Un collegamento che, un domani forse, farà capire la circolarità del romanzo stesso.

Tove Ditlevsen “Infanzia” Fazi editore euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

[A: 24/07/2024 – I: 10/08/2024 – T: 11/08/2024] - &&&&

[tit. or.: Barndom; ling. or.: danese; pagine: 123; anno 1967]

Nella ricerca di nuovi stimoli verso pubblicazioni recenti, ho trovato, al posto 71 della lista dei 100 libri interessanti negli anni 2000, pubblicata dal NYT, l’indicazione di una a me sconosciuta “Trilogia di Copenaghen”, scritta da un’autrice altrettanto ignota, Tove Ditlevsen. Casualmente, aggirandomi per librerie, l’ho invece subito trovata, acquistata, ed ora ne leggo il primo capitolo, intitolato “Infanzia”.

Tove Ditlevsen ha una scrittura facile da seguire, anche se questo primo capitolo, pubblicato in patria nel 1967, solo molti anni dopo viene tradotto in inglese, e solo due anni fa ne abbiamo la prima versione italiana, dovuta alla benemerita “Fazi editore” ed alla penna di Alessandro Storti. Dispiace questo iato temporale, ma la lettura è stata molto interessante e proficua.

Un libro bello e pieno di dolore, che rimanda crudamente al Paul Nizan di “Aden Arabia” e a quell’incipit immortale: "Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita". Solo che qui dobbiamo arretrare di molti anni, che Tove ci narra della sua infanzia, dai primi ricordi familiari (intorno ai quattro-cinque anni) fino alla fine della scolarità consentita ad una figlia del popolo (direi verso i quattordici).

Seguiamo così la tormentata vita di Tove, figlia di un operaio che perde il lavoro a causa delle sue simpatia socialdemocratiche e di una madre con cui, per tutto questo primo libro, instaura un rapporto conflittuale descritto con una crudezza e bellezza estrema.

Intanto, Tove si domanda e ci domanda, ma l’infanzia è un bel periodo? È un periodo felice? E subito ci fa capire che il suo non lo è mai stato. Molto devota al padre, che fin da piccola le ha instillato il piacere dei libri e delle parole, aprendola alla lettura di testi che normalmente non vengono porti ai fanciulli, avrà verso di lui una crisi profonda di rigetto, quando, seguendo la mentalità dell’epoca, il padre le dice che “solamente gli uomini possono scrivere”. Le donne sono destinate a leggere ed a fare le faccende di casa.

Facciamo un piccolo passo indietro, per cercare un contesto del narrato. Tove nasce a Vesterbro, uno dei quartieri operai di Copenaghen, nel 1917. Per cui questa sua infanzia trascorre tutta negli anni Venti della Danimarca, dove si alternano venti di crescita e partecipazione, con momenti di piccola repressione. Solo per tutti gli anni Trenta, grazie al governo illuminato di Thorvald Stauning, il paese raggiungerà un discreto grado di benessere, che sarà interrotto brutalmente nel ’40 dall’occupazione nazista.

Ma torniamo alla famiglia Ditlevsen. Detto del padre, che per tutta quest’infanzia passerà da un lavoro all’altro senza più riuscire ad avere un impiego fisso, c’è il fratello Edvin, di quattro anni più grande. Un punto di riferimento, all’inizio, per Tove, ma Edvin ha le sue idee, vuole allontanarsi dalle ristrettezze familiari, e compiuti i 18 anni, va a vivere da solo, lasciando sola anche la nostra Tove.

Poi, ovviamente, c’è la madre. Una persona enigmatica, molto ciclotimica, che Tove ama e che cerca di compiacere in tutti i modi, ma da cui non avrà mai un ritorno d’affetto. È straziante il modo in cui descrive i piccoli sotterfugi attraverso cui cerca di essere amata, e le grandi cadute, che la madre mai affatto dimostra. Tove fa la fila per comprare il pane, cerca di risparmiare sulle spese familiari, si comporta bene a scuola (anche se questo non le costa fatica), ma la madre ha un unico momento di affetto quando Tove, causa difterite, sarà ricoverata per tre mesi in ospedale.

Viviamo con Tove questi dieci anni dolenti, che lei ci descrive e ci fa vivere dalla sua ottica infantile, ma piena della consapevolezza di una cinquantenne che scrive le sue memorie. Vediamo gli eventi, i luoghi, le persone di questa realtà operaia, piena di ubriaconi, prostitute, molestatori vari. Ma anche di piccole amicizie, come quella della spensierata Ruth. E Tove si domanda se forse è meglio vivere non facendosi domande, ma lasciandosi trasportare dal tempo.

Cosa che lei non riesce a fare, cosa che deve imparare a mascherare. Per non essere emarginata da questo ambiente di piccole realtà, prova anche a fingersi scema, a far battute cretine con le amiche, a sotto esprimersi, cioè a frenare le sue riflessioni, a nasconderle.

Così che l’unico modo che ha di sfogo è provare a volgere in poesia (cosa che troviamo in qualche esempio durante le pur scarse pagine). Ma non avrà nessuno che la sostiene. Del padre abbiamo detto, il fratello le troverà ridicole, a Ruth è meglio non farle leggere. Meglio tenersi tutto dentro. Per anni ed anni.

Ora invece Tove ne scrive, e riesce a scriverne realmente con gli occhi della bambina che era, dei sogni che aveva, della mancanza di amicizie reali, di una madre che le faceva pensare (e molti bambini lo hanno fatto) di essere stata adottata. Escono parole dure, in Tove, in questi primi anni di coscienza, non c’è speranza presente, forse solo nelle piccole cose che si porterà appresso. E che intanto cadono nel fondo della memoria, descritta con una poetica immagine (la biblioteca della mente).

La scrittura di Tove è scarna ma si sente che ogni frase non solo è pensata, ma meditata, rigirata e che riesce poi ad uscire sulla carta solo quando la sua musica si fa armonia. Seppur in così breve spazio, comunque, lei riesce a darci un quadro completo e complesso della realtà di vita di una bambina che cresce in un ambiente di estrema povertà, con una sensibilità che la fanno da subito sentire aliena in casa.

Ho quindi in programma di dedicarmi quanto prima anche alla lettura degli altri volumi della sua trilogia.

“Quasi tutti gli adulti sostengono di avere avuto un’infanzia felice, e magari ne sono davvero convinti, ma io non credo. Secondo me, sono semplicemente riusciti a dimenticarla” (58)

“Il tempo passava, e l’infanzia diventava piatta, sottile, cartacea.” (79)

È normale che gli adulti abbiano ricordi di noi completamente diversi da quelli che abbiamo noi stessi.” (104)

Tove Ditlevsen “Gioventù” Fazi editore euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

[A: 24/07/2024 – I: 17/08/2024 – T: 18/08/2024] - &&&&

[tit. or.: Ungdom; ling. or.: danese; pagine: 166; anno 1967]

Ed eccoci, come promesso, già al secondo libro della trilogia. Che mantiene una scrittura di una linearità entusiasmante. Scivola nel mondo, facendoci partecipe di quel che accade, senza pause, senza giudizi, solo sensazioni. Un libro che esce a ruota del precedente, come se Tove volesse festeggiare i suoi cinquant’anni con una narrazione che le riportasse momenti salienti della sua vita. Mi domando inoltre, perché non farne un testo unico, ma ci sarà un motivo.

Avevamo lasciato la nostra scrittrice al compiere dei quattordici anni, per lei elemento di confine dell’infanzia. Doveva lasciare la scuola, che da famiglia povera poco poteva essere speso di “superfluo”. Ed ecco che comincia la sua gioventù con il primo giorno di lavoro. Una narrazione di fine ironia dove narra come quel primo lavoro durò esattamente un giorno. Ma questo è solo il prologo che di lavoro e ricerca di autonomia è permeato tutto il libro.

C’è uno dei fili rossi che percorre il testo, ed è quello delle fallimentari esperienze lavorative che Tove colleziona lungo l’arco della sua giovinezza; donna delle pulizie, impiegata di second’ordine senza particolari mansioni, segretaria presso l’ufficio statale del grano (dove c’è un altro momento ironico nella descrizione del suo licenziamento) e assistente in uno studio legale. Ma sono tutti piccoli momenti tesi ad uno scopo primario ed uno secondario ma necessario.

La meta che spinge tutte le azioni di Tove è la voglia forte, il moto interiore irrinunciabile. Diventare scrittrice. Certo, il suo orizzonte sono le poesie, anche se poi nella vita scriverà anche altro. Il moto secondario è la ricerca di un appartamento in solitaria, lontano, finalmente dalla madre, fredda, respingente, che sembra sempre non vederla, anzi vede in lei solo quello che vorrebbe essere stata lei. E lontano da un padre inutile, che è servito solo a darle la spinta verso la lettura, ma che è un disoccupato cronico, senza altra occupazione che riposare sul divano e pontificare contro tutto e tutti.

Anche qui, il testo è costellato dalla ghirlanda di case che, una volta compiuti i diciotto anni, Tove riesce a vivere. La prima fredda come casa e come padrona di casa, una fervente nazista da cui Tove non vede l’ora di allontanarsi. E poi altre piccole stanze, magari con l’unica consolazione di una macchina da scrivere dove riversare la sua angoscia poetica.

Non va certo meglio con le amicizie. Lasciate quelle infantili (quelle che pensavano solo a farsi mettere incinta e sposarsi), si ritrova un’amica che la fa uscire dal guscio. Una Nina solare, che la porta in giro per locali e per balli, e che le fa conoscere gente. Dove vediamo anche i suoi ben strani rapporti con l’altro sesso. Senza nessun trasporto, con l’unico scopo, al momento, di perdere la verginità (cosa che avviene con pochi traumi e poche conseguenze). Ma non trova nei coetanei momenti di reali comunione.

Intenti ideali che, invece, trova nelle persone più mature. Nel vecchio redattore che muore prima di leggere le sue nuove poesie, nell’anziano signore che la incoraggia ma che anche lui sparisce. Attraverso fortuite circostanze innescate da Nina, riesce qui ad arrivare a Viggo, cinquantenne redattore di una rivista letteraria. Che pubblica la sua prima poesia.

Non solo, la incoraggia, la spinge, quasi ne diventa un pigmalione letterario, portandola, alfine, a convincere un editore nella pubblicazione di una raccolta di poesia. Un libro che si intitola “Anima di fanciulla” (“Pigesind” in danese), un libro che uscirà nel momento in cui Hitler invade la Polonia. Un momento forte, dove Tove ci fa vedere il cocktail di angoscia e di speranza che le fa venire il vedere nel settembre 1939 il suo nome sulla copertina di un libro.

Un libro bello e duro, che a me è piaciuto più del primo (ricordo che ebbi la stessa reazione con la Ferrante, dove apprezzai i libri in cui le amiche crescevano). Una scrittura in cui Tove si presenta nuda e cruda, in cui non si maschera, non vuole essere diversa, ed allo stesso tempo si espone al giudizio degli altri, senza averne paura. Un libro costellato da dolore, per le umiliazioni patite, per tutte le ingiustizie cui non riesce a porre rimedio, per tutta quella fatica che comporta vivere. Ma un libro in cui si sente quell’enorme determinazione di voler diventare una scrittrice, ed essere riconosciuta come tale.

Quella è la sua passione, il suo scopo vitale: non ama i lavori che è costretta a fare, non ama il fidanzato che usa solo per perdere la verginità, non si applica nel curare sé stessa, nel mangiare, nel bere. Tutto ridotto al minimo, che non ci sono soldi da sprecare. Tove vuole uscire da quel momento soffocante in cui ha mosso i primi passi, vuole la libertà. Ma non ha una guida, deve costruirsi da sola, e da sola non può che essere confusa, smarrita, incerta, insicura.

Tutto sommato, però, questi due primi libri sono pieni di una speranza, di quella scintilla che la fa andare avanti. E questo elemento mette in una luce non dico positiva, ma pragmaticamente ottimista tutti quei passaggi che possono sembrare tristi e cupi.

Per questo tra le frasi che mi sono rimaste in testa, vi consiglio di leggere attentamente la seconda. Tove è appena stata lasciata dal fidanzato che si allontana da lei, e che, comunque, lei non ha mai amato, ma solo usato. Tre righe che sono il compendio di un mondo.

“La giovinezza è provvisoria, fragile e incostante. È fatta per lasciarsela alle spalle, non ha altro scopo che questo.” (134)

“Ho sempre l’impressione di dover dire addio a tutti gli uomini e di dover stare lì a fissare la loro schiena che si allontana e sentire i loro passi che si perdono nel buio. Ed è raro che si girino a farmi un cenno di saluto.” (141)

Tove Ditlevsen “Dipendenza” Fazi editore euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

[A: 24/07/2024 – I: 26/08/2024 – T: 27/08/2024] - &&&&

[tit. or.: Gift; ling. or.: danese; pagine: 177; anno 1971]

Con questo terzo volume si chiude la “Trilogia di Copenaghen” di Tove Ditlevsen. L’abbiamo seguita nei sogni dell’infanzia e poi nei tormenti e nelle speranze della giovinezza. Tutti momenti problematici, ma con tanti possibili spiragli di luce futura. Ora caliamo nella maturità dove si condenseranno tutti i punti negativi della scrittrice. Riuscirà a superarli?

Intanto, Tove gioca con il titolo, che in danese è bifronte. Infatti, “Gift” si può tradurre sia con veleno sia con sposat*. Forse il danese stabilisce un’improbabile equazione tra i due termini? Non sono certo un linguista che possa entrare in una così fine disputa, tuttavia il dubbio permane, ed a ragione.

Intanto questa cavalcata finale, scritta alcuni anni dopo le prime due, ci porta con Tove nelle sue scelte mature, e nella discesa verso il suo inferno. La seguiamo nei suoi matrimoni, che alla fine saranno quattro, nei suoi amori, nelle sue maternità, vere o rinunciate. Quello che notiamo sempre è la sua scrittura pulita. Con l’aiuto della sua mirabile traduzione, Alessandro Storti ci restituisce il mondo di Tove con l’immediatezza di chi sente parlare la scrittrice della sua vita, come se non ci fossero intermediazioni.

Proprio con il matrimoni con Viggo Frederik Møller, il suo mentore, comincia il nuovo libro. Viggo che ha trent’anni più di lei, e dove il matrimonio era quasi un debito di riconoscenza per chi aveva creduto in lei. Lei che però trova il suo mondo solo nella scrittura, dove, immergendosi nella pagina scritta, dimentica tutto quanto le sta intorno.

Ma nel ritorno alla vita non può che accorgersi della poca consistenza del suo rapporto con Viggo, cercando altrove quell’affetto che fin da piccola cercava nella madre, e non riusciva mai a trovare. Deve per forza tagliare questo rapporto pseudomaterno con Viggo, e lo fa con rapporti casuali, poi con l’illusione che Piet la possa aiutare.

Piet Hein è stato un eminente personaggi danese, che ne ha percorso quasi tutto il secolo, di fondo matematico ed inventore di giochi ludici. Ma anche un gran farfallone, che illude anche Tove, per poi lasciarla in balia di sé stessa. Fortuna, per un po’ che trova consolazione in Ebbe Munk, suo secondo marito. Per un po’ che fanno una figlia, ma poco che Ebbe si rivela un alcolista senza remissione, e che preferirà la bottiglia alla vita con Tove.

Lei che continua a scrivere, anche a pubblicare con discreta successo. Ma che si trova ad un bivio: una nuova maternità, indesiderata, cui vuol porre fine. Ritrovandosi così nella rete di un dottore psicopatico e abortista, Carl. Carl Ryberg è un medico, di un anno più giovane di Tove, ma con dei grossi problemi comportamentali. Per indurre l’aborto a Tove, dove ancora non erano in confidenza, le somministra una forte dose di petidina, un oppioide che determina velocemente un forte senso di dipendenza fisica e psichica.

Tove, nella sua autoanalisi spietata, ci porta nel turbine della sua discesa nella dipendenza da petidina, e poi, ovviamente, da altre sostanza. Carl è “spietato” in questo, tanto che per lui, lei divorzia da Ebbe. E per avere sempre le sue dosi, sposa Carl. È una disamina dolorosa, quella che lei ci fa dei suoi modi per trovare sempre nuove dosi del farmaco. Riducendosi ad una larva umana, pesando sino a trentacinque chili, ai limiti dell’anoressia.

Da questa discesa viene salvata da una lunga degenza ospedaliera che la disintossica, e dalle cure di un altro esponente della carta stampata, Victor Andreasen, che la aiuta a pubblicare libri, a divorziare definitivamente da Carl, a riprendere una vita (quasi) normale. Tanto che Tove finirà per sposare anche lui. Il libro termina con la speranza di un futuro più sereno, con Victor, anche se, come dice Tove stessa, ogni volta che passa davanti ad una farmacia sente dentro crollare qualcosa. Qualcosa, un demone, che cerca di esorcizzare.

Il libro finisce, ma noi sappiamo che la vita con Victor non sarà facile, anche se rimarranno sposati per quasi vent’anni. Tove continuerà ad entrare ed uscire da droghe e depressioni. Neanche l’ultimo doloroso divorzio da Victor sarà risolutivo, come Tove riuscirà a scrivere nel suo ultimo romanzo (“Vilhelms rome” uscito nel 1975, mai pubblicato in Italia). L’anno seguente, il 4 marzo, si toglie la vita con un’overdose di sonniferi.

Ma noi torniamo alla sua scrittura, al modo diretto, senza autocommiserazione, di descrivere la sua vita, ed in particolare, i mille sotterfugi per ottenere la petidina, e la mancanza di voglia di vivere aspettando di avere un’altra dose. Era una donna di (discreto) successo, ma anche lei, come Virginia Woolf, come Sylvia Plath, guarda il dolore in faccia e cerca il modo di annegarlo.

Non so se sia corretta descriverla come capostipite dell’autofiction (definita come l’incrocio tra una storia reale della vita dell'autore e una storia di fantasia che esplora un'esperienza vissuta dall'autore), visto che il termine verrà codificato solo nel ’77. E visto che esisteva forse da sempre. Certo, la sua è una scrittura che nel tempo darà vita ad Annie Ernaux o a Elena Ferrante. Ma Tove c’era già.

Alla fine la trilogia va letta senza interruzione, perché è un percorso logico continuo. Ed un percorso letterariamente elevato ed umanamente vissuto con tutto il dolore del mondo.

Assolutamente da leggere.

“Scrivo e basta, e magari sarà un testo valido, o magari no. Quel che conta è che quando scrivo mi sento felice, come sempre. Mi sento felice e dimentico ogni cosa intorno a me.” (12)

Il solito contrappasso che mi accompagna nelle ultime trame, mi porta, a valle di una trama al femminile, di dedicarvi un florilegio di citazioni di Francesco Piccolo, scrittore e sceneggiatore che non mi ha (quasi) mai deluso, tratte dal suo primo libro sulla felicità, “Momenti di trascurabile felicità”. Devo dire che le ultime tre citazioni sono riuscite a fotografarmi momenti personali molto meglio di quanto sarei riuscito a scriverne io.

“Ed è questo il punto cruciale della questione: perché mento? Che ragione c’è? Non c’è una ragione: mi piace” (26)

“Dal Don Chisciotte: si sprofondò tanto in quelle letture, che passava le notti dalla sera alla mattina e i giorni dalla mattina alla sera, sempre a leggere; e così, a forza di dormire poco e di leggere molto, gli si prosciugò il cervello …e si ficcò … nella testa che tutto quell’arsenale di sogni e di invenzioni lette nei libri fosse la verità pura” (46)

“E devo dirlo – con tutto il rispetto, devo dirlo: non mi ha mai entusiasmato Conrad” (49)

“Le cose belle sono quelle che finiscono” (67)

“Sono profondamente grato a tutti quelli che mi hanno tenuto e mi terranno la testa quando mi viene da vomitare” (71)

“La malinconia che rimane ai padroni di casa alla fine di una grande festa, quando restano ancora cinque minuti sul divano prima di andare a dormire” (82)

“Ogni volta che esco di casa, tiro la porta d’ingresso soprappensiero, andando via, e nell’ultimo millesimo di secondo, appena ho staccato la mano dalla maniglia e la porta sta per concludere la sua corsa verso la chiusura, mi viene in mente: ma le chiavi le ho prese? Allora mi volto di scatto e provo a fare in tempo a fermarla prima che sia troppo tardi, e … clack. È troppo tardi” (85)

“Quando prenoto al ristorante, lascio il nome di uno di quelli che verranno a cena con me … perché ho sempre la sensazione che i ristoratori possano perseguitare i clienti che non si sono presentati dopo aver prenotato” (93)

“Tutte le cose che bisogna fare, mi piace rimandarle, oppure averle già fatte” (108)

Abbiamo svoltato la metà di ottobre, e la settimana prossima ci aspetta di nuovo l’ora legale. Ma io mi fermo un attimo, al pensiero che ieri, mia madre avrebbe compiuto 100 anni. Un piccolo momento di tristezza, come quella di tutti coloro che non hanno più genitori, ma che rallegro con un abbraccio a tutti voi.