domenica 13 ottobre 2024

Racconti di montagna - 13 ottobre 2024

Questa settimana affrontiamo un’altra delle collane che storicamente riempiono parte della mia biblioteca. Parliamo di testi che ruotano intorno l tema della montagna. Anche se non sempre i testi possono collocarsi su arditi colli. Come nel caso di Giuseppe Catozzella (che non mi è piaciuto) o in quello di Franco Faggiani (che mi è piaciuto). Nel mezzo, i lavori interessanti, ma non sempre coinvolgenti, di Matteo Righetto e Silvia Petroni. In fondo, l’unico che mi ha avvicinato ai monti è il racconto della vita di Louis Oreiller raccontato attraverso le parole di Irene Borgna.

Giuseppe Catozzella “E tu splendi” Repubblica Montagna 11 euro 9,90

[A: 07/06/2021 – I: 05/06/2023 – T: 06/06/2023] && -

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 249; anno: 2018]

Non ho letto il pluripremiato libro di Catozzella (“Non dirmi che hai paura”), quindi mi posso basare solo su questa prova di scrittura, che, secondo l’autore, conclude la sua “Trilogia dell’altro”, dove oltre al sopra citato ed a questo viene incluso la sua seconda prova (“Il grande futuro”). Una trilogia che avrebbe l’intento di raccontare l’Altro (il Prossimo nella bella accezione di Adriano Sofri) attraverso tre momenti fondanti: il Viaggio, la Guerra, l’Approdo.

Avendo solo questo davanti non mi pronuncio se non per quanto leggo. Ed è una lettura che non mi ha granché soddisfatto.

Intanto, mi domando, e questa sarebbe una storia di montagna? Certo, Arigliana dovrebbe trovarsi inerpicata nell’appennino lucano. Ma qui il monte è a mala pena uno sfondo, una quinta dormiente, e poco entra nella storia, che si sviluppa per altre vie e per altri percorsi. Io l’avrei più onestamente inserita in una collana per ragazzi in formazione, anche se la crescita del protagonista avviene più a parole che con momenti di reale avanzamento cognitivo.

La seconda difficoltà è ascoltare la voce del narratore che si vorrebbe undicenne, ma che si esprime ad ampio raggio. Talvolta sgrammaticato (“a me mi hanno bocciato”), a volta con pensieri profondi sulla morte e sull’assenza (l’assenza-morte della madre, la fine serena di zi’ Salvatore). Insomma, tutto ben ordinato ma Pietro è un narratore senza età, e forse una terza persona sarebbe stata più adatta.

Come spesso nei romanzi che vedono protagonisti i bambini è un “romanzo di formazione”, anche se di formazione dall’infanzia all’adolescenza. Infatti, il protagonista, Pietro, ha undici anni, ed in quell’estate battezzata dal bel verso di Pasolini, farà un salto in avanti (dirà lui stesso che quell’estate sarà memorabile, e lo cambierà per il resto della vita).

Pietro è un lucano immigrato a Milano, dove viene trattato da “invasore” dai lombardi duri e puri. Un lucano con una sorella piccola, un padre un po’ assente, ma soprattutto, un bimbo che ha appena perso la madre. Motivo per cui, va male a scuola e quell’estate non può che tornare al paese natio, Arigliana, accudito dai nonni.

Lì comincia la sua estate speranzosa. Ritrova gli amici di sempre, cresciuti, ed ognuno verso una sua strada, talvolta diversa da quella che da bimbi vedevano insieme. Basta un piccolo sgarbo che nascono solchi di incomprensione. Pietro è anche alla ricerca di un segno da parte della madre, che se n’è andata (non scopriremo mai le cause della morte) senza dirgli addio, senza che lui riesca ad elaborare il suo lutto.

Il paese è povero, vessato dalle angherie del possidente, zi’ Rocco. Ma l’arrivo (non vi dico come e quando) di una decina di immigrati porta scompiglio. Gli uomini li prende zi’ Rocco come braccianti a bassissimo costo (così che presto, abbasserà la paga a tutti gli altri). Le donne vanno a servizio. Rimane il ragazzo, Josh, poco più grande di Pietro, che (ma da dove vengono questi qua?) legge l’inglese e sa suonare il piano.

Nonostante la diffidenza di molti, i nuovi sembrano poter portare linfa allo stanco paese. Josh è accettato come amico, gli uomini organizzano una possibile cooperativa agricola, tutto sembra poter cambiare. Se non che, ci si mette di mezzo zi’ Rocco, e tutto andrà in malora. Ma riusciranno, Pietro ed i suoi amici, a far accettare la diversa verità che hanno visto di persona? Riusciranno a rompere il muro di omertà paesana? È una domanda lecita, soprattutto per tutto il buonismo che Catozzella spande a piene mani dalla prima riga. Ma io ve lo lascio leggere.

Comunque, Pietro, alla fine, farà un parallelo fra lui al Nord e Josh ad Arigliana (anche non espresso). E troverà, non vi dico come, il modo di pacificarsi con la morte della madre.

Devo dire che ho trovato la scrittura da un lato troppo elementare, dall’altro troppo “avanti”, come dico sopra, se messa sulla bocca di un bimbo di undici anni. C’è tutto il buonismo del mondo in queste pagine, ma non c’è mai uno scatto di agnizione, di comprensione delle cose della vita. Ovvio, che è presto per un ragazzino, ma le sconfitte, compresa la morte, serena, di zi’ Salvatore, avrebbero potuto dar modo di far fare a Pietro un piccol scatto.

Comunque, ho ben appressato il passo, più volte ripetuto delle “Lettere luterane” di Pasolini, che vi riporto a commento finale: “I destinati a essere morti non hanno certo gioventù splendenti: ed ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece, Gennariello”.

Matteo Righetto “La pelle dell’orso” Repubblica Montagna 10 euro 9,90

[A: 22/05/2021 – I: 15/07/2023 – T: 17/07/2023] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 142; anno: 2013]

Cominciamo con parlare di una data: a pagina 113, viene posta una croce a segno di ricordo del morto ivi seppellito, recante la data 10/10/1963. Ovvio il rimando personale a quanto avvenne il giorno dopo, ma che io ne ho conosciuto qualcosa solo dopo sessant’anni. Ovvio il rimando collettivo al giorno prima, giorno dell’immenso disastro del Vajont, che avrà un riscontro anche nel libro di Matteo Righetto.

L’autore è qui alla sua terza uscita, dove i suoi precedenti libri sono da me pienamente ignorati, ed alla mia prima lettura. Dove l’autore, se da una parte potrebbe avere avuto in testa riferimenti illustri del rapporto tra l’umano e l’animale (pensiamo a “Moby Dick”, pensiamo a “Il vecchio e il mare”) dall’altro sviluppa tematiche personali sui rapporti con la natura, sui rapporti tra genitori e figli e tra adulti e ragazzi, in un mix non esaltante seppur di interesse.

La storia segue le vicende del piccolo Domenico, dodici anni, che vive tra i boschi delle Alpi venete, che va studiare in città, dove ha una maestra cui vuole molto bene e che continua a leggergli le bellissime storie di Tom Sawyer e degli altri amici di Mark Twain. Domenico ama i suoi boschi, ama la sua natura, e Matteo ce ne illustra attraverso gli occhi del ragazzo le bellezze ed i misteri: vaga per i boschi intorno al paese, passa ore al torrente a pescare e a sognare, mescolando con irridente facilità fantasia e realtà.

Ma il punto dolente di Domenico, e del testo, è il rapporto tra lui ed il padre Pietro, che non ha mai una parola buona per lui, che è spesso violento e cattivo. Pietro è un falegname con poco lavoro, che si era spostato in quelle Alpi al seguito dell’amata moglie, ma, per i paesani, rimane un forestiero, in particolare quando muore la moglie e rimangono solo lui e Domenico. L’unica cosa che continua a fare, ma anche ad aumentare, è l’abuso di superalcolici.

La svolta del romanzo avviene quando nella valle viene avvistato un orso. Non solo avvistato, ma anche un orso che assale, un orso cattivo, un “diavolo” agli occhi dei paesani. Pietro, con un colpo di coda di orgoglio, si butta nella mischia e scommette un milione che sarà lui ad uccidere l’orso cattivo. E per sovrappiù di angoscia, per il figlio, costringe proprio Domenico a venire con lui, ad aiutarlo nell’improba caccia all’animale.

Tuttavia, è proprio durante le camminate nei boschi, durante la ricerca delle tracce dell’orso, che viene fuori il “vero” Pietro, viene fuori l’amore per il figlio, viene fuori la sua anima non incattivita dai paesani maligni. Lo sentiamo in particolare quando cura le ferite del figlio, quando, in dialetto, gli dice: “Ti voglio bene, Menego”.

Epico sarà l’incontro con l’orso, in un paesaggio che si sta stravolgendo per la pioggia che non cessa di cadere. Con parole forti Matteo ci mette di fronte ad una realtà che non sembrava ci si dovesse aspettare. Muore l’orso, ma muore anche Pietro. Domenico, allora, capisce che ha una sola cosa da fare: essere lui, con un carretto, a portare l’orso a valle e rivendicare la scommessa del padre.

E qui il privato si incontra con il pubblico: c’è la frana, ci sono i morti, c’è il fango. Non c’è tempo per pensare all’orso, a Pietro, alla scommessa. Anche Domenico si rimbocca le maniche, aiuta tutti per quel che si può, e cerca nel suo intimo di paragonare i due mali: la cattiveria dell’orso e quella della natura. Con la seconda che non può nascondere l’insipienza dell’uomo che la sfrutta senza pietà, impoverendola e non riuscendo più, ora come sessant’anni fa, a gestirne le bizze estreme. E quindi, qual è il male maggiore?

Domenico, però, non rinuncia a rivendicare il suo, ed avrà un duro scambio con lo scommettitore che non si tira indietro di un millimetro nel carcare di far valere la sua “adultità”. Vedremo chi avrà la meglio, la forza o la correttezza.

Righetto ci mostra, attraverso Domenico, come la caccia non sia fine a sé stessa (ora saltiamo anche a Hemingway), ma un’occasione per crescere, per imparare a contare sulle proprie forze, e sulla forza dell’onestà

Benché al fine inserito in una collana di montagna, e benché ci si aggiri tra i monti, Righetto non indulge più del dovuto sulle descrizioni naturalistiche, che a lui interessa, conradianamente, la linea d’ombra che deve affrontare Domenico. Una buona prova, che dire, ma non eccelsa.

Silvia Petroni “Il vuoto tra gli atomi” Repubblica Montagna 25 euro 9,90

[A: 05/09/2021 – I: 04/09/2023 – T: 06/09/2023] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 159; anno: 2019]

Altra scrittura dedicata alla montagna, in una collana a lei dedicata, ma che, fino ad ora, non mi ha suscitato particolari entusiasmi. Qualche discreta lettura e qualche rimando mentale, ma poco altro. Qui abbiamo un risultato sfaccettato.

Non esaltante, ma con due elementi che fanno intavolare delle pensate. Intanto la scrittrice è pisana, elemento a favore, ed in più si è laureata in fisica alla Normale (punto controverso, ottimo per le materie scientifiche, meno per la fisica che tra tutte è la meno a me congeniale). Infine, si parla di alpinismo, che tra tutti i discorsi in quota è quello che meno mi appassiona. Gradisco camminare per monti e per valli, ma lo sport di mettere rampini ed altre amenità, attaccarsi a delle corde e tutto il resto, è quanto di più alieno alla mia indole.

Il libro si articola in sette capitoli, quasi fossero sette racconti, che ci fanno fare sette passeggiate nella vita di Silvia, per cercare di capire, con lei, come nasce, cosa rappresenta, questo amore per l’alpinismo. In cui si affrontano anche pericoli estremi, ci si mette in gioco, e si torna, prima o poi, alla vita. Finché la vita non diventa la montagna stessa.

Incominciamo da quando lei, bambina pisana, passa le vacanze estive nelle dolomiti feltrine, dove conosce il primo colle che rimarrà sempre nella sua mente e nel suo cuore, il Col Falcon. Da lì si parte in mille salite ed alcune forti avventure. In Svizzera, tra i giganti di ghiaccio del Vallese affronta il monte Bishorn (che tra l’altro fu scalato in prima assoluta, nel 1888, da una donna). Lì, affrontato con un po’ di incoscienza, cade due volte nei crepacci del ghiaccio, d dove, benché in sicurezza con Francesco, non è facile uscirne. Non avevano gli usuali strumenti tecnici, in un crepaccio si trova quasi a testa in giù, cosa che di certo non favorisce un’uscita agevole. Ma lei ci fa sentire, sia lì con lei, sia che è un accidente, può capitare, ed anche se con difficoltà, se ne può uscire.

Per poi proseguire in tante altre piccole avventure: un bivacco non previsto nelle Alpi svizzere, una scarica di sassi affrontando la via del cuore, l’estrema difficoltà nell’affrontare il classico, seppure difficile itinerario che conduce in vetta alla Terza Torre di Sella. Una via aperta da Gianbattista Vinatzer e Vinzenz Peristi nel 1935, seguendo una linea di sottili fessure al centro della parete ovest.

Ovvio che in tutte queste salite, con tutti questi incidenti, ci si possa far male. Ed ecco allora la descrizione di altrettanto dolorosi passaggi, non tra le rocce, ma tra visite ortopediche in mano a volte a dottori autoreferenti e non attenti al paziente, e ospedali dove ci si cura e dove si devono affrontare decisioni difficili, del tipo di subire un intervento con possibili conseguenze di lunga durata. O rallentare il ritmo, per dar modo a tendini e simili di ritrovare il loro posto nell’universo corpo.

Una parte toccante e fondante è il rapporto con lo zio Gabriele Franceschini, alpinista, guida, amico di Dino Buzzati e del re del Belgio Leopoldo, nonché autore di ben cinque guide dedicate alle Pale di San Martino. Impagabile la prima domanda che lo zio le fa quando si incontrano: “Hai letto il Deserto dei Tartari?”. Capite certo il perché.

La facilità nello scrivere, il modo colloquiale con cui Silvia ci parla delle sue cose non riesce tuttavia a celare la difficile costruzione della propria identità, che la scrittrice trova proprio tra le montagne, tanto che per loro abbandonerà gran parte delle altre sue attività. Spingendo la sua penna a fondo tra i crepacci, per arrivare a spiegarci come l’alpinismo abbia avuto successo nel fare superare tutte le incertezze e le inquietudini sofferte sin dall’infanzia.

Si legge facile, a volo d’uccello, ma piccole fotografie rimangono nel fondo della retina, le stanze degli ospedali, l’odore nauseante delle camerate in alta quota piena di afrori umani e pasti consumati al volo, la neve sottile, il ghiaccio, i crepacci a volte mortali. Una galleria di luoghi, ma anche di persone, laddove si parla di alpinismo, con le montagne dal volto umano.

Tuttavia, mi rimane sempre un corpo estraneo. Forse perché non è il mio elemento, non è la mia natura, io che passeggio sempre volentieri nel caos di tutte le città del mondo che ho conosciuto e visitato, cercando lì, tra bar, ristoranti (spesso anche bettole), dormitori, il contatto con l’altro. Alla fine, quindi, un giudizio a forza un po’ frenato dalla nostra diversità.

Franco Faggiani “La manutenzione dei sensi” Repubblica Montagna 8 euro 9,90

[A: 07/05/2021 – I: 30/08/2024 – T: 01/09/2024] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 235; anno: 2018]

All’interno di questa collana, presa più che altro per curiosità, ho trovato molte espressioni letterarie differenti e non sempre concordanti. Certo, la montagna è un elemento basico quanto meno dell’ambientazione dei testi, ma non sempre, alla fine, risulta l’elemento centrale. O più precisamente, ci sono testi in cui la montagna ha la sua parte, ma che sono validi anche per altro.

Non fa eccezione questa bella lettura di Franco Faggiani, dove appunto la montagna è uno sfondo per narrarci la vita di due persone solitarie, Leonardo Guerrieri e Martino Rochard. I due vivono a Milano, dove due anni prima è morta l’amata moglie di Leo, e lui scrittore (o comunque utilizzatore della parola per costruire il suo mondo) si trova senza prospettive, piombato in una depressione di difficile uscita.

Certo, c’è la vulcanica figlia Nina, che però a breve deve andare lontano per motivi di studio. Ma prima di partire fa uno strano regalo al padre. Dall’orfanotrofio in cui lavorava la moglie di Leo, prende il piccolo Martino, e convince il padre a chiederne l’affido. Inizia così una stramba convivenza tra un adulto che non ha voglia di vivere ed un bambino che ha difficoltà ad avere relazioni con gli altri.

Quando a Martino viene diagnosticata la sindrome di Asperger, Leonardo decide di dare una svolta alla loro vita, trasferendosi da Milano in un casale in Val di Susa, un casale grande, in legno, ben costruito e progettato con spazi divisi per ognuno, con la vista sulle montagne. Da qui comincia appunto, la presenza, utile e salutare, della montagna. Dove i due riescono a combinare i loro silenzi con le piccole o grandi attività necessarie alla loro vita solitaria (ma non isolata). Non è comunque un inno a “scappo dalla città” né tanto meno una inutile esaltazione della semplice vita campagnola. Piuttosto è un canto verso la semplicità, o verso quella che da tempi non sospetti mi colpì quindici anni fa nelle parole di Francesco Gesualdi, cioè “sobrietà”.

Lì, nei silenzi reciproci pur pieni di parole dette e non dette, Leo e Martino trovano i loro spazi, riprendono in mano ognuno la propria vita, per rimettersi in gioco, per costruirsi. C’è ogni tanto una breva salvifica incursione di Nina. Ma soprattutto c’è la presenza di un altro solitario, il montanaro Augusto, che coinvolge Martino in attività manuali che permettono al ragazzo di maturare, e di capire come convivere con sé stesso e con Asperger. Mungere le mucche, camminare per i sentieri, coltivare l’orto, vendere i formaggi, intagliare il legno. Tutti piccoli cambiamenti che servono ognuno ad effettuare un passo verso la ricerca della propria identità.

Si toccano molti temi importanti: l’elaborazione del lutto da parte di Leo che trova il modo di esistere e resistere anche senza l’amata moglie; la riflessione sul concetto di famiglia e di paternità, laddove, e tutti ne siamo convinti, non è mai una questione soltanto biologica. Tutto serve ai nostri due protagonista per trovare il giusto modo di connettersi alla vita, di trovare, insieme, il loro posto nel mondo.

La bellezza della descrizione di Faggiani ci restituisce il modo in cui Leo si cura di Martino (e di riflesso cura sé stesso). Una cura riempita dal silenzio, dal rispetto delle distanze reciproche, dal dono di libertà e di fiducia, espresso nelle minute quotidianità, e regalato senza pretendere nulla in cambio. Arrivando alla conclusione, valida sempre ed ovunque, di lasciare che i propri figli possano crescere diversi da noi. Una lezione fondamentale.

Non sempre lo scritto riesce a trasmettere tutto quello che promette di comunicarci, a volte Faggiano si perde un po’, a volte vorremmo che Leo iniziasse prima a capire quel che capisce poi. Per non dimenticare che, personalmente, non saprei dire quanto e se il comportamento di Martino sia ben riportato. In fondo, poco ci interesse. Nell’economia generale, risulta un libro, che pur affrontando temi dolorosi, ci infonde un sano ottimismo.

“La lingua non ha l’osso ma può fare male grosso” (61) [proverbio montanaro]

“da Jim Morrison: Sono nato senza chiederlo e morirò senza volerlo; almeno lasciatemi vivere come voglio.” (72)

Louis Oreiller & Irene Borgna “Il pastore di stambecchi” Repubblica Montagna 5 euro 9,90

[A: 18/04/2021 – I: 09/09/2024 – T: 12/09/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 170; anno: 2018]

Ed eccoci ad un altro libro dedicato alla montagna. Un elemento di paesaggio che non sempre riesco ad interpretare. Non mi dispiace, sono certo di aver passato dei bei momenti in quota, ma rimane sempre un po’ fuori da me, che sono tendenzialmente un animale cittadino.

Comunque, ho affrontato e letto questo libro con spirito aperto, e devo dire che, senza dubbio non mi ha riservato brutte sorprese. È un po’ lento, certo, ma la scrittura di Irene Borgna, più che le parole di Louis Oreiller, ci fa rivivere i monti della vita nelle valli valdostane. Buon ritratto, ma non mi prende fino in fondo.

Louis nasce novanta anni fa a Rhêmes-Notre-Dame, un paese inserito nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. E tutta la vita l passa sui monti. Ragazzo, povero in una comunità povera, fa mille mestieri, regolari o meno. È cacciatore, manovale, boscaiolo e poi anche bracconier e contrabbandiere. Fino a che la sua vita subisce una svolta decisiva. Gli viene proposto, ed accetta, di fare il guardiaparco. Mestiere che affronta con tutte le capacità accumulate nel corso degli anni. Mestiere duro, che si trova a scontrarsi con chi fino a poco prima aveva aiutato.

Ma è un mestiere che affronta con la consapevolezza che la montagna, la natura, gli animali che ci vivono, sono tutte cose ben più importanti. Cose che vanno preservate e accudite. Agisce bene, senza nessuna animosità verso gli ex-amici. Tanto che la famiglia Rossi di Montelera gli propone di passare al loro servizio, divenendo guardiacaccia della bella tenuta.

Irene, convinta da amici comuni e da persone cui si affida per esperienza (è un’antropologa alpina, laureatasi con il grande Marco Aime), comincia ad incontrare il vecchio montanaro. Ne nasce una forte amicizia, che include Nathalie, la moglie di Louis, nonché un numero sterminato di caffè. Fatti nella buona maniera di un tempo (e che io ritengo la migliore per gustare la nera bevanda). Centinaia di Moka messi sul fuoco, e tanti bicchieri di vetro scolati nella capanna, magari davanti ad un camino acceso.

Louis parla, Irene un po’ registra, un po’ scrive, e molto ascolta. Riuscendo a tradurre le slegate memorie del montanaro in una narrazione forse non sempre organica, ma che, in ogni capitolo, ci svela punti anche nascosti della vita in quota. Certo non arrivo a sottoscrivere il giudizio entusiastico di Paolo Cognetti, che lo ritiene il più bel libro scritto sui monti. Di certo, pur non sempre vicino alla mia sensibilità, è, come ho già detto, ben scritto.

Non è, come detto, un romanzo, ma neanche un insieme di racconti. Indicherei la cifra della mia lettura come un insieme di episodi, che ribadiscono alcuni punti fermi della filosofia di vita di Oreiller, una filosofia che sarebbe bene applicare anche in altri campi e situazioni. È presente, e dovremmo sempre tenerlo a mente, un legame forte ed indissolubile con la Natura, laddove sappiamo e capiamo che il nostro essere è olistico, un destino che ci collega a tutti gli altri essere viventi, ricordando sempre le parole di “Nessun uomo è un’isola” di John Donne.

Ma oltre ad una filosofia generale, si sente, presente, anche un forte ammonimento sulla vita di montagna e sulle cose, animate o inanimate, che ne fanno parte. Sono in completa sintonia con gli autori, quando ci ammoniscono che, sempre, bisogna avere un po’ di paura, quando si è in montagna. Come quando si è in qualsiasi ambiente che non è nostro. Montagna, mare, deserto, anche se lo conosciamo a fondo, non va mai sottovalutato. E quando lo dice una persona che per tutta la sua lunga vita è in contatto con la montagna stessa, non possiamo che essere in completa sintonia.

Per passare in velocità sul titolo, uno dei momenti che più mi ha emozionato, è proprio il rapporto tra Oreiller e gli stambecchi. Quando, quasi con commozione, ci descrive i fieri animali impavidi davanti ai pericoli. Quando ce li dipinge raccogliersi in circolo perché sentono, ancor prima che noi la vediamo, l’arrivo della neve. Immagine stupenda.

Anche se poi passa in rassegna tutta la sua vita, nelle parole del vecchio non c’è mai la nostalgia del passato. C’è il dispiacere di un presente che potrebbe essere migliore, ma dove quello che troviamo lunga la nostra via (la nostra vita) dipendo solo da quello che stiamo cercando.

In fondo, Irene e Louis, ci lasciano con un solo grande insegnamento: bisogna avere sempre la capacità di ascoltare. Tutti sentono, pochi ascoltano.

“La solitudine è fatta per chi sa di non essere mai solo per davvero.” (66)

“Per questa vita è andata così, ma se torno, poi, la prossima volta rifaccio tutto, però lo faccio meglio.” (152)

Per questa settimana che ha visto l’assegnazione del Nobel della Letteratura (purtroppo non al mi favorito, che è e resta Haruki Murakami), invece delle solite citazioni, vi allego la trama che ho dedicato alla vincitrice del premio, Han Kung.

Per il resto, non ho grosse novità, e quando c’è poco da dire, come diceva un saggio, meglio tacere. Restando solo il tempo di mandarvi tanti abbracci.

Han Kang “La vegetariana” Repubblica Mondo 5 euro 9,90

[A: 22/12/2018 – I: 16/05/2021 – T: 18/05/2021] - &&&&  --

[tit. or.: The Vegetarian; ling. or.: coreano; ling. usata: inglese; pagine: 168; anno 2007]

In realtà il titolo originale è “채식주의자” scritto in coreano classico o tuttalpiù “Chaesikjuuija” se si usa la latinizzazione riveduta della lingua coreana, utilizzata in Corea del Sud dal 2000. Le piccole note negative del gradimento derivano dal fatto che qui è stata utilizzata la traduzione inglese, e non il testo originale.

Detto questo, era un libro che da tempo stava nel retro del mio cervello, da quando il mio amico Raoul mi disse: “Lo devi leggere”. Ma i miei tempi di lettura sono diversi dai vostri, e sono passati due anni prima che mi decidessi a seguire quel consiglio. Che comunque è un buon consiglio. Un libro forte, che non può lasciare indifferenti, anche se poi è diverso da come uno si aspetta essere un libro, o almeno un libro con questo titolo.

Intanto, due passi di lato. Han Kang, ora sui cinquanta, è scrittrice figlia di scrittore (il padre Han Seung-won pare sia molto noto in patria, anche se non di certo in Italia), con una sua carriera articolata, tra poesia, racconti, romanzi, financo insegnamento di scrittura creativa. Secondo passo: il libro nasce dopo che Han scrive e pubblica tre racconti, che hanno un filo conduttore comune, che poi riaggiusta un po’ per darne una visione più univoca. Ed è questo che alla fine, con i racconti che diventano un romanzo, quello che viene pubblicato in lingua inglese, e che gli farà vincere l’International Booker Prize, un premio dedicato ogni anno (dal 2016) ad un libro ed alla sua traduzione in inglese.

Torniamo allora alla strada principale, al testo, ed al suo (incomprensibile?) significato. Intanto, togliamo subito un dubbio: non è un libro sulla scelta di vita di diventare vegetariani o vegani, anche se questa scelta è una componente fondamentale della struttura del romanzo. Come dice un bravo critico americano, più cerchi il significato in un’opera criptica, meno sarai soddisfatto dalle spiegazioni che arrivano (e che talvolta non è neanche corretto inseguire). Forse sarebbe quindi corretto pensare che sia un libro sul rifiuto, una specie di onnipresente “I prefer not” di Bartleby, trasportato a tutte le attività umane. Con le tre parti che potrebbero essere viste con i seguenti titoli: “Preferisco non mangiare carne”, poi “Preferisco non seguire le convenzioni comuni”, ed infine “Preferisco non essere un animale”. Dove preferisco potrebbe essere sostituito dal più potente “Rifiuto di…”.

La storia del “rifiuto” di Yeong-hye è seguita sempre dall’esterno, da altre persone.

La prima parte è seguita con gli occhi del marito. Che la sposa in quanto la trova insignificante, e che difficilmente può dargli intralcio. Tutto vero, fino a che Yeong-hye fa un sogno, e da quel momento, rifiuta prima la carne, poi qualsiasi cibo animale. Qui cominciano una serie di peripezie, descritte dal punto di vista di Cheong, che vanno precipitando verso l’abisso la situazione. Tanto che viene anche coinvolta la famiglia, che si cerca di forzare Yeong-hye a mangiare carne. Tanto che lei, piuttosto cerca di tagliarsi le vene. Il racconto finisce che lei esce dall’ospedale e si ritrova, denudata, all’aperto, ripetendo “Ho fatto qualcosa di sbagliato?”

La seconda parte viene seguita dalla parte del cognato (di cui non sapremo mai il nome). Video artista concettuale, vive alle spalle della moglie (la sorella di Yeong-hye), senza particolari scosse. Quando sa che la cognata ha una “macchia mongolica” (cioè una voglia congenita con un tipico colorito bluastro, tipica delle popolazioni mongole) ha un sogno folgorante, e si appresta a realizzarlo. Convince la cognata a farsi riprendere con il corpo dipinto di fiori. Cerca anche di farle fare sesso con un altro artista “infiorato”. Ma sarà solo quando lui si farà dipingere il corpo, che avranno momenti di sesso feroce ed assoluto, contro tutte le convenzioni sociali. Scoperti da In-hye, la moglie, sembrano voler fare passi estremi, ma sono bloccati ed internati in ospedali psichiatrici.

L’ultima parte è seguita dalla visuale di In-hye che, lasciato il marito, è l’unica a tentare di aver un rapporto con la sorella. Che man mano, rifiuta tutto, anche il cibo. Seguiamo i percorsi mentali di In-hye, e gli ultimi tentativi di trovare un legame con Yeong-hye. Ma quando i medici tentano l’alimentazione forzata, anche In-hye non resiste, sbrocca. Mentre, nelle diverse ambulanze che le portano in diversi ospedali, Yeong-hye vedendo gli alberi dice di non essere più un animale, In-hye si augura, forse, che sia stato tutto un sogno.

Ripeto quanto detto sopra, forse non è neanche significativo cercare di spiegar tutto. Forse è solo un dipinto che va visto, aspettando le sensazioni che ci rimanda. Di certo, non è una prosa occidentale, che, anche laddove compaiono rabbia ed orrore, il tutto avviene attraverso una scrittura che rimane calma. Che rimane un passo indietro, con l’efficacia e la descrittività di uno scritto di Murakami, che i due si avvicinano molto nel modo di porgerci le loro parole.

Critici più forniti di me di conoscenze e di rimandi ne hanno visto proteste, rivolte sull’uso (e lo sfruttamento) della donna nel mondo moderno. Una pulsione sociale e ambientale che forse c’è o forse sarebbe bello ci fosse.

Io, banalmente, mi sono lasciato afferrare dalle parole, dal ritmo, dall’insensatezza del mondo moderno e delle sue convenzioni, dall’anelito di libertà, dal rispetto delle scelte. E dalla fondamentale incomunicabilità del proprio essere ad altri da sé.

Di sicuro un libro che andrà condiviso e commentato ancora.

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