Questa settimana affrontiamo un’altra delle collane che storicamente riempiono parte della mia biblioteca. Parliamo di testi che ruotano intorno l tema della montagna. Anche se non sempre i testi possono collocarsi su arditi colli. Come nel caso di Giuseppe Catozzella (che non mi è piaciuto) o in quello di Franco Faggiani (che mi è piaciuto). Nel mezzo, i lavori interessanti, ma non sempre coinvolgenti, di Matteo Righetto e Silvia Petroni. In fondo, l’unico che mi ha avvicinato ai monti è il racconto della vita di Louis Oreiller raccontato attraverso le parole di Irene Borgna.
Giuseppe Catozzella “E tu splendi” Repubblica Montagna 11 euro 9,90
[A: 07/06/2021 – I: 05/06/2023 – T:
06/06/2023] &&
-
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 249; anno:
2018]
Non
ho letto il pluripremiato libro di Catozzella (“Non dirmi che hai
paura”), quindi mi posso basare solo su questa prova di scrittura, che,
secondo l’autore, conclude la sua “Trilogia dell’altro”, dove oltre al sopra
citato ed a questo viene incluso la sua seconda prova (“Il grande futuro”). Una
trilogia che avrebbe l’intento di raccontare l’Altro (il Prossimo nella bella
accezione di Adriano Sofri) attraverso tre momenti fondanti: il Viaggio, la
Guerra, l’Approdo.
Avendo solo questo
davanti non mi pronuncio se non per quanto leggo. Ed è una lettura che non mi
ha granché soddisfatto.
Intanto, mi
domando, e questa sarebbe una storia di montagna? Certo, Arigliana
dovrebbe trovarsi inerpicata nell’appennino lucano. Ma qui il monte è a mala
pena uno sfondo, una quinta dormiente, e poco entra nella storia, che si
sviluppa per altre vie e per altri percorsi. Io l’avrei più onestamente
inserita in una collana per ragazzi in formazione, anche se la crescita del
protagonista avviene più a parole che con momenti di reale avanzamento
cognitivo.
La seconda difficoltà è ascoltare la voce
del narratore che si vorrebbe undicenne, ma che si esprime ad ampio raggio.
Talvolta sgrammaticato (“a me mi hanno bocciato”), a volta con pensieri
profondi sulla morte e sull’assenza (l’assenza-morte della madre, la fine
serena di zi’ Salvatore). Insomma, tutto ben ordinato ma Pietro è un narratore
senza età, e forse una terza persona sarebbe stata più adatta.
Come spesso nei romanzi che vedono
protagonisti i bambini è un “romanzo di formazione”, anche se di formazione
dall’infanzia all’adolescenza. Infatti, il protagonista, Pietro, ha undici
anni, ed in quell’estate battezzata dal bel verso di Pasolini, farà un salto in
avanti (dirà lui stesso che quell’estate sarà memorabile, e lo cambierà per il
resto della vita).
Pietro è un lucano immigrato a Milano, dove
viene trattato da “invasore” dai lombardi duri e puri. Un lucano con una
sorella piccola, un padre un po’ assente, ma soprattutto, un bimbo che ha
appena perso la madre. Motivo per cui, va male a scuola e quell’estate non può
che tornare al paese natio, Arigliana, accudito dai nonni.
Lì comincia la sua estate speranzosa.
Ritrova gli amici di sempre, cresciuti, ed ognuno verso una sua strada,
talvolta diversa da quella che da bimbi vedevano insieme. Basta un piccolo
sgarbo che nascono solchi di incomprensione. Pietro è anche alla ricerca di un
segno da parte della madre, che se n’è andata (non scopriremo mai le cause
della morte) senza dirgli addio, senza che lui riesca ad elaborare il suo
lutto.
Il paese è povero, vessato dalle angherie
del possidente, zi’ Rocco. Ma l’arrivo (non vi dico come e quando) di una
decina di immigrati porta scompiglio. Gli uomini li prende zi’ Rocco come
braccianti a bassissimo costo (così che presto, abbasserà la paga a tutti gli
altri). Le donne vanno a servizio. Rimane il ragazzo, Josh, poco più grande di
Pietro, che (ma da dove vengono questi qua?) legge l’inglese e sa suonare il
piano.
Nonostante la diffidenza di molti, i nuovi
sembrano poter portare linfa allo stanco paese. Josh è accettato come amico,
gli uomini organizzano una possibile cooperativa agricola, tutto sembra poter
cambiare. Se non che, ci si mette di mezzo zi’ Rocco, e tutto andrà in malora.
Ma riusciranno, Pietro ed i suoi amici, a far accettare la diversa verità che
hanno visto di persona? Riusciranno a rompere il muro di omertà paesana? È una
domanda lecita, soprattutto per tutto il buonismo che Catozzella spande a piene
mani dalla prima riga. Ma io ve lo lascio leggere.
Comunque, Pietro, alla fine, farà un
parallelo fra lui al Nord e Josh ad Arigliana (anche non espresso). E troverà,
non vi dico come, il modo di pacificarsi con la morte della madre.
Devo dire che ho trovato la scrittura da un
lato troppo elementare, dall’altro troppo “avanti”, come dico sopra, se messa
sulla bocca di un bimbo di undici anni. C’è tutto il buonismo del mondo in
queste pagine, ma non c’è mai uno scatto di agnizione, di comprensione delle
cose della vita. Ovvio, che è presto per un ragazzino, ma le sconfitte,
compresa la morte, serena, di zi’ Salvatore, avrebbero potuto dar modo di far
fare a Pietro un piccol scatto.
Comunque, ho ben appressato il passo, più
volte ripetuto delle “Lettere luterane” di Pasolini, che vi riporto a commento
finale: “I destinati a essere morti non hanno certo gioventù splendenti: ed
ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece, Gennariello”.
Matteo Righetto “La pelle dell’orso”
Repubblica Montagna 10 euro 9,90
[A: 22/05/2021 – I: 15/07/2023 – T:
17/07/2023] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 142; anno:
2013]
Cominciamo con parlare di una data: a pagina
113, viene posta una croce a segno di ricordo del morto ivi seppellito, recante
la data 10/10/1963. Ovvio il rimando personale a quanto avvenne il giorno dopo,
ma che io ne ho conosciuto qualcosa solo dopo sessant’anni. Ovvio il rimando
collettivo al giorno prima, giorno dell’immenso disastro del Vajont, che avrà
un riscontro anche nel libro di Matteo Righetto.
L’autore è qui alla sua terza uscita, dove i
suoi precedenti libri sono da me pienamente ignorati, ed
alla mia prima lettura. Dove l’autore, se da una parte potrebbe avere avuto in
testa riferimenti illustri del rapporto tra l’umano e l’animale (pensiamo a
“Moby Dick”, pensiamo a “Il vecchio e il mare”) dall’altro sviluppa tematiche
personali sui rapporti con la natura, sui rapporti tra genitori e figli e tra
adulti e ragazzi, in un mix non esaltante seppur di interesse.
La
storia segue le vicende del piccolo Domenico, dodici anni, che vive tra i
boschi delle Alpi venete, che va studiare in città, dove ha una maestra cui
vuole molto bene e che continua a leggergli le bellissime storie di Tom Sawyer
e degli altri amici di Mark Twain. Domenico ama i suoi boschi, ama la sua
natura, e Matteo ce ne illustra attraverso gli occhi del ragazzo le bellezze ed
i misteri: vaga per i boschi intorno al paese, passa ore al torrente a pescare
e a sognare, mescolando con irridente facilità fantasia e realtà.
Ma
il punto dolente di Domenico, e del testo, è il rapporto tra lui ed il padre
Pietro, che non ha mai una parola buona per lui, che è spesso violento e
cattivo. Pietro è un falegname con poco lavoro, che si era spostato in quelle
Alpi al seguito dell’amata moglie, ma, per i paesani, rimane un forestiero, in
particolare quando muore la moglie e rimangono solo lui e Domenico. L’unica
cosa che continua a fare, ma anche ad aumentare, è l’abuso di superalcolici.
La
svolta del romanzo avviene quando nella valle viene avvistato un orso. Non solo
avvistato, ma anche un orso che assale, un orso cattivo, un “diavolo” agli
occhi dei paesani. Pietro, con un colpo di coda di orgoglio, si butta nella
mischia e scommette un milione che sarà lui ad uccidere l’orso cattivo. E per
sovrappiù di angoscia, per il figlio, costringe proprio Domenico a venire con
lui, ad aiutarlo nell’improba caccia all’animale.
Tuttavia,
è proprio durante le camminate nei boschi, durante la ricerca delle tracce
dell’orso, che viene fuori il “vero” Pietro, viene fuori l’amore per il figlio,
viene fuori la sua anima non incattivita dai paesani maligni. Lo sentiamo in
particolare quando cura le ferite del figlio, quando, in dialetto, gli dice:
“Ti voglio bene, Menego”.
Epico
sarà l’incontro con l’orso, in un paesaggio che si sta stravolgendo per la
pioggia che non cessa di cadere. Con parole forti Matteo ci mette di fronte ad
una realtà che non sembrava ci si dovesse aspettare. Muore l’orso, ma muore
anche Pietro. Domenico, allora, capisce che ha una sola cosa da fare: essere
lui, con un carretto, a portare l’orso a valle e rivendicare la scommessa del
padre.
E
qui il privato si incontra con il pubblico: c’è la frana, ci sono i morti, c’è
il fango. Non c’è tempo per pensare all’orso, a Pietro, alla scommessa. Anche
Domenico si rimbocca le maniche, aiuta tutti per quel che si può, e cerca nel
suo intimo di paragonare i due mali: la cattiveria dell’orso e quella della
natura. Con la seconda che non può nascondere l’insipienza dell’uomo che la
sfrutta senza pietà, impoverendola e non riuscendo più, ora come sessant’anni
fa, a gestirne le bizze estreme. E quindi, qual è il male maggiore?
Domenico,
però, non rinuncia a rivendicare il suo, ed avrà un duro scambio con lo
scommettitore che non si tira indietro di un millimetro nel carcare di far
valere la sua “adultità”. Vedremo chi avrà la meglio, la forza o la
correttezza.
Righetto
ci mostra, attraverso Domenico, come la caccia non sia fine a sé stessa (ora
saltiamo anche a Hemingway), ma un’occasione per crescere, per imparare a
contare sulle proprie forze, e sulla forza dell’onestà
Benché
al fine inserito in una collana di montagna, e benché ci si aggiri tra i monti,
Righetto non indulge più del dovuto sulle descrizioni naturalistiche, che a lui
interessa, conradianamente, la linea d’ombra che deve affrontare Domenico. Una
buona prova, che dire, ma non eccelsa.
Silvia Petroni “Il vuoto tra gli atomi”
Repubblica Montagna 25 euro 9,90
[A: 05/09/2021 – I: 04/09/2023 – T:
06/09/2023] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 159; anno:
2019]
Altra
scrittura dedicata alla montagna, in una collana a lei dedicata, ma che, fino
ad ora, non mi ha suscitato particolari entusiasmi. Qualche discreta lettura e
qualche rimando mentale, ma poco altro. Qui abbiamo un risultato sfaccettato.
Non
esaltante, ma con due elementi che fanno intavolare delle pensate. Intanto la
scrittrice è pisana, elemento a favore, ed in più si è laureata in fisica alla
Normale (punto controverso, ottimo per le materie scientifiche, meno per la
fisica che tra tutte è la meno a me congeniale). Infine, si parla di alpinismo,
che tra tutti i discorsi in quota è quello che meno mi appassiona. Gradisco
camminare per monti e per valli, ma lo sport di mettere rampini ed altre
amenità, attaccarsi a delle corde e tutto il resto, è quanto di più alieno alla
mia indole.
Il
libro si articola in sette capitoli, quasi fossero sette racconti, che ci fanno
fare sette passeggiate nella vita di Silvia, per cercare di capire, con lei,
come nasce, cosa rappresenta, questo amore per l’alpinismo. In cui si
affrontano anche pericoli estremi, ci si mette in gioco, e si torna, prima o
poi, alla vita. Finché la vita non diventa la montagna stessa.
Incominciamo
da quando lei, bambina pisana, passa le vacanze estive nelle dolomiti feltrine,
dove conosce il primo colle che rimarrà sempre nella sua mente e nel suo cuore,
il Col Falcon. Da lì si parte in mille salite ed alcune forti avventure. In
Svizzera, tra i giganti di ghiaccio del Vallese affronta il monte Bishorn (che
tra l’altro fu scalato in prima assoluta, nel 1888, da una donna). Lì,
affrontato con un po’ di incoscienza, cade due volte nei crepacci del ghiaccio,
d dove, benché in sicurezza con Francesco, non è facile uscirne. Non avevano
gli usuali strumenti tecnici, in un crepaccio si trova quasi a testa in giù,
cosa che di certo non favorisce un’uscita agevole. Ma lei ci fa sentire, sia lì
con lei, sia che è un accidente, può capitare, ed anche se con difficoltà, se
ne può uscire.
Per
poi proseguire in tante altre piccole avventure: un bivacco non previsto nelle
Alpi svizzere, una scarica di sassi affrontando la via del cuore, l’estrema
difficoltà nell’affrontare il classico, seppure difficile itinerario che
conduce in vetta alla Terza Torre di Sella. Una via aperta da Gianbattista
Vinatzer e Vinzenz Peristi nel 1935, seguendo una linea di sottili fessure al
centro della parete ovest.
Ovvio che in tutte queste salite, con tutti
questi incidenti, ci si possa far male. Ed ecco allora la descrizione di
altrettanto dolorosi passaggi, non tra le rocce, ma tra visite ortopediche in
mano a volte a dottori autoreferenti e non attenti al paziente, e ospedali dove
ci si cura e dove si devono affrontare decisioni difficili, del tipo di subire
un intervento con possibili conseguenze di lunga durata. O rallentare il ritmo,
per dar modo a tendini e simili di ritrovare il loro posto nell’universo corpo.
Una parte toccante e fondante è il rapporto
con lo zio Gabriele Franceschini, alpinista, guida, amico di Dino Buzzati e del
re del Belgio Leopoldo, nonché autore di ben cinque guide dedicate alle Pale di
San Martino. Impagabile la prima domanda che lo zio le fa quando si incontrano:
“Hai letto il Deserto dei Tartari?”. Capite certo il perché.
La facilità nello scrivere, il modo
colloquiale con cui Silvia ci parla delle sue cose non riesce tuttavia a celare
la difficile costruzione della propria identità, che la scrittrice trova
proprio tra le montagne, tanto che per loro abbandonerà gran parte delle altre
sue attività. Spingendo la sua penna a fondo tra i crepacci, per arrivare a
spiegarci come l’alpinismo abbia avuto successo nel fare superare tutte le
incertezze e le inquietudini sofferte sin dall’infanzia.
Si legge facile, a volo d’uccello, ma
piccole fotografie rimangono nel fondo della retina, le stanze degli ospedali,
l’odore nauseante delle camerate in alta quota piena di afrori umani e pasti
consumati al volo, la neve sottile, il ghiaccio, i crepacci a volte mortali.
Una galleria di luoghi, ma anche di persone, laddove si parla di alpinismo, con
le montagne dal volto umano.
Tuttavia, mi rimane sempre un corpo
estraneo. Forse perché non è il mio elemento, non è la mia natura, io che
passeggio sempre volentieri nel caos di tutte le città del mondo che ho
conosciuto e visitato, cercando lì, tra bar, ristoranti (spesso anche bettole),
dormitori, il contatto con l’altro. Alla fine, quindi, un giudizio a forza un
po’ frenato dalla nostra diversità.
Franco Faggiani “La manutenzione dei sensi”
Repubblica Montagna 8 euro 9,90
[A: 07/05/2021 – I: 30/08/2024 – T:
01/09/2024] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 235; anno:
2018]
All’interno
di questa collana, presa più che altro per curiosità, ho trovato molte
espressioni letterarie differenti e non sempre concordanti. Certo, la montagna
è un elemento basico quanto meno dell’ambientazione dei testi, ma non sempre,
alla fine, risulta l’elemento centrale. O più precisamente, ci sono testi in
cui la montagna ha la sua parte, ma che sono validi anche per altro.
Non
fa eccezione questa bella lettura di Franco Faggiani, dove appunto la montagna
è uno sfondo per narrarci la vita di due persone solitarie, Leonardo Guerrieri
e Martino Rochard. I due vivono a Milano, dove due anni prima è morta l’amata
moglie di Leo, e lui scrittore (o comunque utilizzatore della parola per
costruire il suo mondo) si trova senza prospettive, piombato in una depressione
di difficile uscita.
Certo,
c’è la vulcanica figlia Nina, che però a breve deve andare lontano per motivi
di studio. Ma prima di partire fa uno strano regalo al padre. Dall’orfanotrofio
in cui lavorava la moglie di Leo, prende il piccolo Martino, e convince il
padre a chiederne l’affido. Inizia così una stramba convivenza tra un adulto
che non ha voglia di vivere ed un bambino che ha difficoltà ad avere relazioni
con gli altri.
Quando
a Martino viene diagnosticata la sindrome di Asperger, Leonardo decide di dare
una svolta alla loro vita, trasferendosi da Milano in un casale in Val di Susa,
un casale grande, in legno, ben costruito e progettato con spazi divisi per
ognuno, con la vista sulle montagne. Da qui comincia appunto, la presenza,
utile e salutare, della montagna. Dove i due riescono a combinare i loro
silenzi con le piccole o grandi attività necessarie alla loro vita solitaria
(ma non isolata). Non è comunque un inno a “scappo dalla città” né tanto meno
una inutile esaltazione della semplice vita campagnola. Piuttosto è un canto
verso la semplicità, o verso quella che da tempi non sospetti mi colpì quindici
anni fa nelle parole di Francesco Gesualdi, cioè “sobrietà”.
Lì,
nei silenzi reciproci pur pieni di parole dette e non dette, Leo e Martino
trovano i loro spazi, riprendono in mano ognuno la propria vita, per rimettersi
in gioco, per costruirsi. C’è ogni tanto una breva salvifica incursione di
Nina. Ma soprattutto c’è la presenza di un altro solitario, il montanaro
Augusto, che coinvolge Martino in attività manuali che permettono al ragazzo di
maturare, e di capire come convivere con sé stesso e con Asperger. Mungere le
mucche, camminare per i sentieri, coltivare l’orto, vendere i formaggi,
intagliare il legno. Tutti piccoli cambiamenti che servono ognuno ad effettuare
un passo verso la ricerca della propria identità.
Si
toccano molti temi importanti: l’elaborazione del lutto da parte di Leo che
trova il modo di esistere e resistere anche senza l’amata moglie; la
riflessione sul concetto di famiglia e di paternità, laddove, e tutti ne siamo
convinti, non è mai una questione soltanto biologica. Tutto serve ai nostri due
protagonista per trovare il giusto modo di connettersi alla vita, di trovare,
insieme, il loro posto nel mondo.
La
bellezza della descrizione di Faggiani ci restituisce il modo in cui Leo si
cura di Martino (e di riflesso cura sé stesso). Una cura riempita dal silenzio,
dal rispetto delle distanze reciproche, dal dono di libertà e di fiducia,
espresso nelle minute quotidianità, e regalato senza pretendere nulla in
cambio. Arrivando alla conclusione, valida sempre ed ovunque, di lasciare che i
propri figli possano crescere diversi da noi. Una lezione fondamentale.
Non
sempre lo scritto riesce a trasmettere tutto quello che promette di
comunicarci, a volte Faggiano si perde un po’, a volte vorremmo che Leo
iniziasse prima a capire quel che capisce poi. Per non dimenticare che,
personalmente, non saprei dire quanto e se il comportamento di Martino sia ben
riportato. In fondo, poco ci interesse. Nell’economia generale, risulta un
libro, che pur affrontando temi dolorosi, ci infonde un sano ottimismo.
“La
lingua non ha l’osso ma può fare male grosso” (61) [proverbio montanaro]
“da
Jim Morrison: Sono nato senza chiederlo e morirò senza volerlo; almeno
lasciatemi vivere come voglio.” (72)
Louis Oreiller & Irene Borgna “Il
pastore di stambecchi” Repubblica Montagna 5 euro 9,90
[A: 18/04/2021 – I: 09/09/2024 – T:
12/09/2024] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 170; anno:
2018]
Ed eccoci ad un altro libro dedicato alla
montagna. Un elemento di paesaggio che non sempre riesco ad interpretare. Non
mi dispiace, sono certo di aver passato dei bei momenti in quota, ma rimane
sempre un po’ fuori da me, che sono tendenzialmente un animale cittadino.
Comunque, ho affrontato e letto questo libro
con spirito aperto, e devo dire che, senza dubbio non mi ha riservato brutte
sorprese. È un po’ lento, certo, ma la scrittura di Irene Borgna, più che le
parole di Louis Oreiller, ci fa rivivere i monti della vita nelle valli
valdostane. Buon ritratto, ma non mi prende fino in fondo.
Louis nasce novanta anni fa a Rhêmes-Notre-Dame,
un paese inserito nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. E tutta la vita l
passa sui monti. Ragazzo, povero in una comunità povera, fa mille mestieri,
regolari o meno. È cacciatore, manovale, boscaiolo e poi anche bracconier e
contrabbandiere. Fino a che la sua vita subisce una svolta decisiva. Gli viene
proposto, ed accetta, di fare il guardiaparco. Mestiere che affronta con tutte
le capacità accumulate nel corso degli anni. Mestiere duro, che si trova a scontrarsi
con chi fino a poco prima aveva aiutato.
Ma è un mestiere che affronta con la
consapevolezza che la montagna, la natura, gli animali che ci vivono, sono
tutte cose ben più importanti. Cose che vanno preservate e accudite. Agisce
bene, senza nessuna animosità verso gli ex-amici. Tanto che la famiglia Rossi
di Montelera gli propone di passare al loro servizio, divenendo guardiacaccia
della bella tenuta.
Irene, convinta da amici comuni e da persone
cui si affida per esperienza (è un’antropologa alpina, laureatasi con il grande
Marco Aime), comincia ad incontrare il vecchio montanaro. Ne nasce una forte
amicizia, che include Nathalie, la moglie di Louis, nonché un numero sterminato
di caffè. Fatti nella buona maniera di un tempo (e che io ritengo la migliore
per gustare la nera bevanda). Centinaia di Moka messi sul fuoco, e tanti
bicchieri di vetro scolati nella capanna, magari davanti ad un camino acceso.
Louis parla, Irene un po’ registra, un po’
scrive, e molto ascolta. Riuscendo a tradurre le slegate memorie del montanaro
in una narrazione forse non sempre organica, ma che, in ogni capitolo, ci svela
punti anche nascosti della vita in quota. Certo non arrivo a sottoscrivere il
giudizio entusiastico di Paolo Cognetti, che lo ritiene il più bel libro
scritto sui monti. Di certo, pur non sempre vicino alla mia sensibilità, è,
come ho già detto, ben scritto.
Non è, come detto, un romanzo, ma neanche un
insieme di racconti. Indicherei la cifra della mia lettura come un insieme di
episodi, che ribadiscono alcuni punti fermi della filosofia di vita di
Oreiller, una filosofia che sarebbe bene applicare anche in altri campi e
situazioni. È presente, e dovremmo sempre tenerlo a mente, un legame forte ed
indissolubile con la Natura, laddove sappiamo e capiamo che il nostro essere è
olistico, un destino che ci collega a tutti gli altri essere viventi,
ricordando sempre le parole di “Nessun uomo è un’isola” di John Donne.
Ma oltre ad una filosofia generale, si
sente, presente, anche un forte ammonimento sulla vita di montagna e sulle
cose, animate o inanimate, che ne fanno parte. Sono in completa sintonia con
gli autori, quando ci ammoniscono che, sempre, bisogna avere un po’ di paura,
quando si è in montagna. Come quando si è in qualsiasi ambiente che non è
nostro. Montagna, mare, deserto, anche se lo conosciamo a fondo, non va mai
sottovalutato. E quando lo dice una persona che per tutta la sua lunga vita è
in contatto con la montagna stessa, non possiamo che essere in completa
sintonia.
Per passare in velocità sul titolo, uno dei
momenti che più mi ha emozionato, è proprio il rapporto tra Oreiller e gli
stambecchi. Quando, quasi con commozione, ci descrive i fieri animali impavidi
davanti ai pericoli. Quando ce li dipinge raccogliersi in circolo perché
sentono, ancor prima che noi la vediamo, l’arrivo della neve. Immagine
stupenda.
Anche se poi passa in rassegna tutta la sua
vita, nelle parole del vecchio non c’è mai la nostalgia del passato. C’è il
dispiacere di un presente che potrebbe essere migliore, ma dove quello che
troviamo lunga la nostra via (la nostra vita) dipendo solo da quello che stiamo
cercando.
In fondo, Irene e Louis, ci lasciano con un
solo grande insegnamento: bisogna avere sempre la capacità di ascoltare. Tutti
sentono, pochi ascoltano.
“La solitudine è fatta per chi sa di non
essere mai solo per davvero.” (66)
“Per questa vita è andata così, ma se
torno, poi, la prossima volta rifaccio tutto, però lo faccio meglio.” (152)
Per questa settimana che ha visto l’assegnazione
del Nobel della Letteratura (purtroppo non al mi favorito, che è e resta Haruki
Murakami), invece delle solite citazioni, vi allego la trama che ho dedicato
alla vincitrice del premio, Han Kung.
Per il resto, non ho grosse novità, e quando c’è poco da dire, come diceva un saggio, meglio tacere. Restando solo il tempo di mandarvi tanti abbracci.
Han Kang “La vegetariana” Repubblica Mondo 5 euro 9,90
[A: 22/12/2018 – I: 16/05/2021 – T: 18/05/2021] - &&&&
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[tit. or.: The Vegetarian; ling. or.: coreano; ling. usata: inglese; pagine: 168; anno 2007]
In realtà il titolo originale è “채식주의자” scritto in coreano classico o tuttalpiù “Chaesikjuuija” se si usa la latinizzazione riveduta della lingua coreana, utilizzata in Corea del Sud dal 2000. Le piccole note negative del gradimento derivano dal fatto che qui è stata utilizzata la traduzione inglese, e non il testo originale.
Detto
questo, era un libro che da tempo stava nel retro del mio cervello, da quando
il mio amico Raoul mi disse: “Lo devi leggere”. Ma i miei tempi di lettura sono
diversi dai vostri, e sono passati due anni prima che mi decidessi a seguire
quel consiglio. Che comunque è un buon consiglio. Un libro forte, che non può
lasciare indifferenti, anche se poi è diverso da come uno si aspetta essere un
libro, o almeno un libro con questo titolo.
Intanto,
due passi di lato. Han Kang, ora sui cinquanta, è scrittrice figlia di
scrittore (il padre Han Seung-won pare sia molto noto in patria, anche se non
di certo in Italia), con una sua carriera articolata, tra poesia, racconti,
romanzi, financo insegnamento di scrittura creativa. Secondo passo: il libro
nasce dopo che Han scrive e pubblica tre racconti, che hanno un filo conduttore
comune, che poi riaggiusta un po’ per darne una visione più univoca. Ed è
questo che alla fine, con i racconti che diventano un romanzo, quello che viene
pubblicato in lingua inglese, e che gli farà vincere l’International Booker
Prize, un premio dedicato ogni anno (dal 2016) ad un libro ed alla sua
traduzione in inglese.
Torniamo
allora alla strada principale, al testo, ed al suo (incomprensibile?)
significato. Intanto, togliamo subito un dubbio: non è un libro sulla scelta di
vita di diventare vegetariani o vegani, anche se questa scelta è una componente
fondamentale della struttura del romanzo. Come dice un bravo critico americano,
più cerchi il significato in un’opera criptica, meno sarai soddisfatto dalle
spiegazioni che arrivano (e che talvolta non è neanche corretto inseguire).
Forse sarebbe quindi corretto pensare che sia un libro sul rifiuto, una specie
di onnipresente “I prefer not” di Bartleby, trasportato a tutte le attività
umane. Con le tre parti che potrebbero essere viste con i seguenti titoli:
“Preferisco non mangiare carne”, poi “Preferisco non seguire le convenzioni
comuni”, ed infine “Preferisco non essere un animale”. Dove preferisco potrebbe
essere sostituito dal più potente “Rifiuto di…”.
La
storia del “rifiuto” di Yeong-hye è seguita sempre dall’esterno, da altre
persone.
La
prima parte è seguita con gli occhi del marito. Che la sposa in quanto la trova
insignificante, e che difficilmente può dargli intralcio. Tutto vero, fino a
che Yeong-hye fa un sogno, e da quel momento, rifiuta prima la carne, poi
qualsiasi cibo animale. Qui cominciano una serie di peripezie, descritte dal
punto di vista di Cheong, che vanno precipitando verso l’abisso la situazione.
Tanto che viene anche coinvolta la famiglia, che si cerca di forzare Yeong-hye
a mangiare carne. Tanto che lei, piuttosto cerca di tagliarsi le vene. Il
racconto finisce che lei esce dall’ospedale e si ritrova, denudata, all’aperto,
ripetendo “Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
La
seconda parte viene seguita dalla parte del cognato (di cui non sapremo mai il
nome). Video artista concettuale, vive alle spalle della moglie (la sorella di
Yeong-hye), senza particolari scosse. Quando sa che la cognata ha una “macchia
mongolica” (cioè una voglia congenita con un tipico colorito bluastro, tipica
delle popolazioni mongole) ha un sogno folgorante, e si appresta a realizzarlo.
Convince la cognata a farsi riprendere con il corpo dipinto di fiori. Cerca
anche di farle fare sesso con un altro artista “infiorato”. Ma sarà solo quando
lui si farà dipingere il corpo, che avranno momenti di sesso feroce ed
assoluto, contro tutte le convenzioni sociali. Scoperti da In-hye, la moglie,
sembrano voler fare passi estremi, ma sono bloccati ed internati in ospedali
psichiatrici.
L’ultima
parte è seguita dalla visuale di In-hye che, lasciato il marito, è l’unica a
tentare di aver un rapporto con la sorella. Che man mano, rifiuta tutto, anche
il cibo. Seguiamo i percorsi mentali di In-hye, e gli ultimi tentativi di
trovare un legame con Yeong-hye. Ma quando i medici tentano l’alimentazione
forzata, anche In-hye non resiste, sbrocca. Mentre, nelle diverse ambulanze che
le portano in diversi ospedali, Yeong-hye vedendo gli alberi dice di non essere
più un animale, In-hye si augura, forse, che sia stato tutto un sogno.
Ripeto
quanto detto sopra, forse non è neanche significativo cercare di spiegar tutto.
Forse è solo un dipinto che va visto, aspettando le sensazioni che ci rimanda.
Di certo, non è una prosa occidentale, che, anche laddove compaiono rabbia ed
orrore, il tutto avviene attraverso una scrittura che rimane calma. Che rimane
un passo indietro, con l’efficacia e la descrittività di uno scritto di
Murakami, che i due si avvicinano molto nel modo di porgerci le loro parole.
Critici
più forniti di me di conoscenze e di rimandi ne hanno visto proteste, rivolte
sull’uso (e lo sfruttamento) della donna nel mondo moderno. Una pulsione
sociale e ambientale che forse c’è o forse sarebbe bello ci fosse.
Io,
banalmente, mi sono lasciato afferrare dalle parole, dal ritmo,
dall’insensatezza del mondo moderno e delle sue convenzioni, dall’anelito di
libertà, dal rispetto delle scelte. E dalla fondamentale incomunicabilità del
proprio essere ad altri da sé.
Di
sicuro un libro che andrà condiviso e commentato ancora.
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