Benché ci sia un ottimo scritto di Chiara Valerio, un romanzo che a me è piaciuto pur con qualche riserva, ed il buon secondo romanzo di Francesc Giannone, questa è una settimana dedicata ad una scrittrice sconosciuta ai più (tra cui io prima di leggerne). Tove Ditlevsen, danese, dalla vita complicata assai, che, forte di un suggerimento derivato dalle pagine culturali del New York Times, ho trovato inaspettatamente negli scaffali italiani. Così, con una cinquantina d’anni di ritardo sugli avvenimenti, mi sono immerso nell’ottima lettura della sua “Trilogia di Copenaghen”. Da leggere.
Chiara Valerio “Chi dice e chi tace” Sellerio euro 15 (in realtà,
scontato a 14,25 euro)
[A: 19/03/2024 – I: 19/03/2024 – T: 21/03/2024]
&&&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 276; anno:
2024]
Conoscevo fino ad ora solo la
matematica Valerio, la divulgatrice Valerio, la polemista Valerio. Ora ho fatto
un altro salto e conosco la scrittrice Valerio, e devo dire che Chiara in
questa prova mi ha convinto assai. Una scrittura scorrevole, che ti coinvolge
nell’atmosfera del romanzo, e soprattutto, ti tiene lì, nella cittadina di
Scauri, tra le case, il (poco) verde ed i lidi spiaggiosi del Tirreno.
Di certo, non è un viaggio facile
quello che facciamo con lei, per la materia del testo, ma anche, personalmente,
per lo stacco temporale, visto che la storia è tutta negli anni ’80 (anzi, nel
1989 ad essere precisi) e molte cose narrate non solo sono legate a quei tempi,
ma interpretano il modo di essere e di vivere di quel tempo, dove non a caso,
ora, trentacinque anni dopo, alcune vicende sembrano “irreali”. Bisogna fare un
piccolo salto all’indietro, oppure far finta che il tempo non esista, ed immaginare
tutto nel qui ed ora.
Un altro punto di sicuro favore al
testo è invece la visione al femminile della vita, che donne sono le attrici
del romanzo, e donna è la voce narrante. Già lo scrissi in trame non sospette,
quando si entra nell’intimo, nel personale, la voce diretta è l’unica che ha un
senso. Troppe volte ho letto di romanzi femmino-centriche scritti da personaggi
maschili che non riescono, mai, a farci partecipi del diverso modo di
affrontare la vita. Non dico certo di aver compreso tutto, ma la scrittura di
Chiara è “chiara”, la puoi condividere e/o capire, ma mostra quello che sente.
E con quello dobbiamo fare i conti.
La storia è narrata da Lea, avvocato
di provincia, con due giovani figlie, Silvia e Giulia, nonché un marito, cui
vuole bene da sempre. Dai tempi universitari, dai tempi delle lotte (in fondo
nel presente del racconto, sono passati solo vent’anni dal ’68), lei e Luigi
sempre a sinistra. Anche se, chiuse le storie del Partito Comunista, rimangono
poche lotte locali e sociali da portare avanti. Luigi, laureato in fisica, ora
professore di liceo, presenza nel passato, nel presente e nel futuro di Lea, ma
non da maschio opprimente e possessivo. Si sono anche sposati in chiesa, quando
a Scauri è arrivato un bel prete d’assalto, don Michele, anche lui sempre a
portare avanti progetti per i giovani, per il bene sociale.
Vivono la vita di Scauri, con tutte
le piccole e grandi cose di una vita di provincia. Con le amicizie, i piccoli
dissapori, il bar (dove Lea ha il suo tavolo personale), le spiagge, anzi, i
lidi. Tutta una rete di esistenza, che comprende anche due belle persone. La
più che sessantenne Vittoria e Mara, la sua giovane (almeno vent’anni di meno)
amante/convivente/nipote/altro, con una catena di questi interrogativi presenti
nel retro della mente, ma senza crearvi solchi insormontabili.
Il via alla vicenda viene dato dalla
morte per annegamento nella vasca da bagno di casa di Vittoria. Lei che era una
provetta nuotatrice, lei che lavorava in farmacia, ma che non si tirava
indietro nello studiare e nel proporre medicherie vegetali, lei che aveva tanti
animali in casa (cani, gatti, uccellini, un pavone, ed anche altro). Lei che
giocava a carte nel bar degli scauresi duri e puri, una campionessa di briscola
e tresette, che non disdegnava a volte né il poker (dove una partita segnò un
punto forte della sua esistenza), né il bridge.
Vittoria si era installata a Scauri
vent’anni prima, con Mara, in una casa rifugio. Lea ne era stata sempre
colpita, per il modo diretto di porsi, per la schiettezza delle affermazioni,
per i coinvolgimenti, su tutti i piani, espliciti ed impliciti, che riserva un
amicizia, ed una frequentazione, seppur lasca. E Lea si pone domande. Perché è
morta? Come è morta? È tutto chiaro o ci sono ombre? E Lea comincia ad
indagare. Certo non è un noir, ma è un’indagine psicologica che ci porta
(quasi) in un versante femminile dei romanzi duri di Simenon.
Così Lea “scopre” che Vittoria era
(ancora) sposata con l’avvocato Pontecorvo, che Mara, prima, faceva la vita,
che Vittoria aveva in giardino un busto di Canova. Molto ne scopre attraverso
il testamento, a lei indirizzato, che, al fine, la conduce a Roma, nel
cosiddetto “quartiere dei fiumi” (lei che viene dal mare), tra Piazza Fiume,
via Po, via Tagliamento, per incontrare tale Rebecca, l’unica che, alla fine,
squarcerà qualche velo della vita di Vittoria.
Che era affascinante, generosa,
anticonformista, seducente, intelligente, omosessuale, ma che, tra l’altro, a
Lea era a pelle piaciuta, e forse anche in modo reciproco, a Vittoria piaceva
qualcosa di Lea. Affondando nel mondo dell’amica anche Lea capisce quanto di
Vittoria le fosse entrato nella testa e non solo.
Chiara ha riempito il libro di tante
cose, fiori, piante, animali, l’agenzia funebre Paradiso, il caffè “Lo
Scoglio”, la spiaggia dei Sassolini, le spese del sabato, Silvia e Giulia che
giocano con Barbie, tanta vita e tanto Scauri (che non conosco come Formia o
Gaeta, ma immagino). E tanto spirito femminile, sia nell’occhio con cui si
guarda il mondo, sia con tutta la sessualità, espressa ed inespressa, nei
rapporti personali. Come ovviamente dice il titolo.
Tutto con un grande rispetto
dell’altro, tutto con un’etica sottesa che forse abbiamo perso. Tutto alla
ricerca della propria identità. Dove, purtroppo, non riusciremo mai a capire
l’altro se non nella misura in cui l’altro si palesa a noi.
Una bella lettura.
“Era un uomo distratto. Non
riavvicinava mai le sedie al tavolo, non chiudeva i cassetti.” (116)
Francesca Giannone “Domani, domani” Nord
euro 19 (in realtà scontato a 17,85 euro)
[A: 03/07/2024 – I: 29/07/2024 – T:
30/07/2024] &&&
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 380; anno:
2024]
Sull’onda
del buon primo libro di Francesca Giannone, ho deciso di seguire l’onda di
mercato e di leggere il suo secondo libro, dopo poco la sua uscita. Non ha la
forza del primo, ci sono delle cadute di tensione, ma nel complesso è ancora un
buon libro, che ci fa intravedere una storia familiare, come ce ne sono tante
in Italia, immersa anch’essa nella storia del nostro paese.
Questa
volta siamo in Puglia, in un paese indicato con il nome di Araglie, ma che,
scavando nella storia e nelle connessioni del testo, potrebbe ben essere
Gallipoli. Lì, unendo la coltivazione delle olive con il suo sottoprodotto (la
sansa) si cominciano a produrre saponi artigianali. Ed è un imprenditore
locale, Renato Rizzo, che apre un saponificio ed ha un discreto successo. Come
in molte situazioni familiari, però, l’unico figlio di Renato, Giuseppe, ha
poca testa per il sapone, anche se, alla morte del padre, deve prendere in mano
la produzione.
Più
attaccati, sia al nonno che al sapone, sono i due figli di Giuseppe, Lorenzo e
Agnese. E sono loro che seguiamo nel lungo percorso centrale del testo.
Lorenzo, impulsivo e creativo, sarebbe ora un addetto al marketing
dell’azienda, mentre Agnese, dotata di un olfatto superbo, è quella che si
dedica alla produzione ed alla ricerca di nuove strade per il cosiddetto
“sapone duro”. Agnese è tutta dedita al sapone, mentre Lorenzo ha anche una
storia forte con Angela, la bella del paese.
La
crisi arriva quando Giuseppe, non resistendo più in un lavoro che ha minato la
sua salute anche mentale, decide di vendere l’azienda, per dedicarsi al suo
sogno: progettare barche. Una decisione che mette in crisi tutto l’impianto
familiare. Lorenzo non accetta e non accetterà mai la decisione paterna,
andando via sia dall’azienda che da Araglie. Si rifugia a Lecce, da uno zio
mercante d’arte, dove troverà spazio per il suo estro creativo. Ma dove,
venendo a contatto con il mondo dei soldi, intravede una possibilità di
riscatto: lasciare Angela, sposare la figlia di un nobile leccese, e con quei
soldi, ricomprare l’azienda di famiglia.
Agnese,
invece, rimane ai saponi, che quella è e sarà sempre la sua vita. E lì ad
Araglie incontrerà un bravo marinaio ligure, Giorgio, che viene da Savona, e
che sta cercando di mettere da parte soldi per aprire una piccola azienda
marinara in quel di Savona, per sostenere la madre vedova ed i fratelli
piccoli. Un amore che vediamo nascere e crescere a poco a poco, e che porterà
Agnese ad un bivio: seguire il suo cuore o il suo cervello?
I
due fratelli, pur incontrandosi nuovamente, non riusciranno a conciliare le
loro esigenze. E nel finale, che si colloca vent’anni dopo l’ultimo capitolo
vedremo dove le loro scelte li avranno portati.
Ci
sono due elementi che reggono bene l’ossatura del romanzo. Da un lato le figure
femminili. Agnese in prima linea, con la caparbietà di chi, avendo un dono ed
un sogno, cercherà i modi di realizzarlo, e di tenere in piedi il cuore e la
testa. Ma anche Salvatora, la madre, che sosterrà sempre, nel bene e nel male,
l’amato Giuseppe, anche quando le scelte del marito sembrano rovinare la pace
familiare. Poi c’è Teresa, l’amica del cuore di Agnese, che con caparbietà
decide di laurearsi in legge, nonostante lo scarso aiuto economico, e diverrà
un avvocato a sostegno delle cause del poveri. Ma anche, al fine, Angela, la
bella che Lorenzo abbandona, e che troverà un suo spazio, piccolo se vogliamo,
ma caparbio, nel mondo della moda.
L’altro
elemento è lo spaccato italiano di un dopoguerra avanzato, alle soglie e poi
dentro il boom economico degli anni Sessanta. Quello della televisione, delle
autostrade, delle automobili, degli elettrodomestici, ma anche del cinema,
della carta stampata e delle arti. Di quell’iniziale benessere che sembrava
poter portare tutti ad un livello di vita decente e lontana dalle rovine
post-belliche. Ma era anche un epoca di conflitti, con il potere democristiano
che incominciava ad incrinarsi ed a puntellarsi verso una destra mai sopita. Un
epoca di conflitti sindacali (vedi “Morti di Reggio Emilia” del 7 luglio ’60).
Perché le piccole storie artigianali e familiari non possono mai essere scisse
dal contesto generale, che le influenza e le determina.
Il
messaggio forte che mi viene dalle pagine riguarda poi il detto ed il non
detto. Molte incomprensioni, tra i personaggi ma anche nella nostra vita,
derivano proprio dalle omissioni nei discorsi, dal non dire, dal non chiedere.
Una delle mie maestre cui devo tanto mi ha insegnato una piccola realtà che
sempre porto con me: se vuoi qualcosa, chiedi. Qualunque sia la risposta, è
sempre meglio affrontarla che rimanere nel limbo del dubbio.
Infine,
un piccolo accenno ad una situazione di intreccio interessante. Giorgio,
l’amore di Agnese, viene da Savona. Agnese è sempre e sempre sarà legata al
sapone. Ebbene, Savona ha il nome che la collega all’oggetto. Non a caso è
nell’area savoiarda, dopo si parla di “savon”. Inoltre, secondo una leggenda
locale, è proprio a Savona che nel II secolo d.C., la moglie di un pescatore,
facendo bollire fortuitamente olio d’oliva e lisciva di soda, ottiene per la
prima volta il sapone.
Un
collegamento che, un domani forse, farà capire la circolarità del romanzo
stesso.
Tove Ditlevsen “Infanzia” Fazi editore euro
15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)
[A: 24/07/2024 – I: 10/08/2024 – T: 11/08/2024] - &&&&
[tit. or.: Barndom; ling. or.: danese; pagine: 123; anno 1967]
Nella
ricerca di nuovi stimoli verso pubblicazioni recenti, ho trovato, al posto 71
della lista dei 100 libri interessanti negli anni 2000, pubblicata dal NYT,
l’indicazione di una a me sconosciuta “Trilogia di Copenaghen”, scritta da
un’autrice altrettanto ignota, Tove Ditlevsen.
Casualmente, aggirandomi per librerie, l’ho invece subito trovata, acquistata,
ed ora ne leggo il primo capitolo, intitolato “Infanzia”.
Tove
Ditlevsen ha una scrittura facile da seguire, anche se questo primo capitolo,
pubblicato in patria nel 1967, solo molti anni dopo viene tradotto in inglese,
e solo due anni fa ne abbiamo la prima versione italiana, dovuta alla
benemerita “Fazi editore” ed alla penna di Alessandro Storti. Dispiace questo
iato temporale, ma la lettura è stata molto interessante e proficua.
Un
libro bello e pieno di dolore, che rimanda crudamente al Paul Nizan di “Aden
Arabia” e a quell’incipit immortale: "Avevo vent'anni. Non permetterò a
nessuno di dire che questa è la più bella età della vita". Solo che qui
dobbiamo arretrare di molti anni, che Tove ci narra della sua infanzia, dai
primi ricordi familiari (intorno ai quattro-cinque anni) fino alla fine della
scolarità consentita ad una figlia del popolo (direi verso i quattordici).
Seguiamo
così la tormentata vita di Tove, figlia di un operaio che perde il lavoro a
causa delle sue simpatia socialdemocratiche e di una madre con cui, per tutto
questo primo libro, instaura un rapporto conflittuale descritto con una
crudezza e bellezza estrema.
Intanto,
Tove si domanda e ci domanda, ma l’infanzia è un bel periodo? È un periodo
felice? E subito ci fa capire che il suo non lo è mai stato. Molto devota al
padre, che fin da piccola le ha instillato il piacere dei libri e delle parole,
aprendola alla lettura di testi che normalmente non vengono porti ai fanciulli,
avrà verso di lui una crisi profonda di rigetto, quando, seguendo la mentalità
dell’epoca, il padre le dice che “solamente gli uomini possono scrivere”. Le
donne sono destinate a leggere ed a fare le faccende di casa.
Facciamo
un piccolo passo indietro, per cercare un contesto del narrato. Tove nasce a
Vesterbro, uno dei quartieri operai di Copenaghen, nel 1917. Per cui questa sua
infanzia trascorre tutta negli anni Venti della Danimarca, dove si alternano
venti di crescita e partecipazione, con momenti di piccola repressione. Solo
per tutti gli anni Trenta, grazie al governo illuminato di Thorvald Stauning,
il paese raggiungerà un discreto grado di benessere, che sarà interrotto
brutalmente nel ’40 dall’occupazione nazista.
Ma
torniamo alla famiglia Ditlevsen. Detto del padre, che per tutta quest’infanzia
passerà da un lavoro all’altro senza più riuscire ad avere un impiego fisso,
c’è il fratello Edvin, di quattro anni più grande. Un punto di riferimento,
all’inizio, per Tove, ma Edvin ha le sue idee, vuole allontanarsi dalle
ristrettezze familiari, e compiuti i 18 anni, va a vivere da solo, lasciando
sola anche la nostra Tove.
Poi,
ovviamente, c’è la madre. Una persona enigmatica, molto ciclotimica, che Tove
ama e che cerca di compiacere in tutti i modi, ma da cui non avrà mai un
ritorno d’affetto. È straziante il modo in cui descrive i piccoli sotterfugi
attraverso cui cerca di essere amata, e le grandi cadute, che la madre mai
affatto dimostra. Tove fa la fila per comprare il pane, cerca di risparmiare
sulle spese familiari, si comporta bene a scuola (anche se questo non le costa
fatica), ma la madre ha un unico momento di affetto quando Tove, causa
difterite, sarà ricoverata per tre mesi in ospedale.
Viviamo
con Tove questi dieci anni dolenti, che lei ci descrive e ci fa vivere dalla
sua ottica infantile, ma piena della consapevolezza di una cinquantenne che
scrive le sue memorie. Vediamo gli eventi, i luoghi, le persone di questa
realtà operaia, piena di ubriaconi, prostitute, molestatori vari. Ma anche di
piccole amicizie, come quella della spensierata Ruth. E Tove si domanda se
forse è meglio vivere non facendosi domande, ma lasciandosi trasportare dal
tempo.
Cosa
che lei non riesce a fare, cosa che deve imparare a mascherare. Per non essere
emarginata da questo ambiente di piccole realtà, prova anche a fingersi scema,
a far battute cretine con le amiche, a sotto esprimersi, cioè a frenare le sue
riflessioni, a nasconderle.
Così
che l’unico modo che ha di sfogo è provare a volgere in poesia (cosa che
troviamo in qualche esempio durante le pur scarse pagine). Ma non avrà nessuno
che la sostiene. Del padre abbiamo detto, il fratello le troverà ridicole, a
Ruth è meglio non farle leggere. Meglio tenersi tutto dentro. Per anni ed anni.
Ora
invece Tove ne scrive, e riesce a scriverne realmente con gli occhi della
bambina che era, dei sogni che aveva, della mancanza di amicizie reali, di una
madre che le faceva pensare (e molti bambini lo hanno fatto) di essere stata
adottata. Escono parole dure, in Tove, in questi primi anni di coscienza, non
c’è speranza presente, forse solo nelle piccole cose che si porterà appresso. E
che intanto cadono nel fondo della memoria, descritta con una poetica immagine
(la biblioteca della mente).
La
scrittura di Tove è scarna ma si sente che ogni frase non solo è pensata, ma
meditata, rigirata e che riesce poi ad uscire sulla carta solo quando la sua
musica si fa armonia. Seppur in così breve spazio, comunque, lei riesce a darci
un quadro completo e complesso della realtà di vita di una bambina che cresce
in un ambiente di estrema povertà, con una sensibilità che la fanno da subito
sentire aliena in casa.
Ho
quindi in programma di dedicarmi quanto prima anche alla lettura degli altri
volumi della sua trilogia.
“Quasi
tutti gli adulti sostengono di avere avuto un’infanzia felice, e magari ne sono
davvero convinti, ma io non credo. Secondo me, sono semplicemente riusciti a
dimenticarla” (58)
“Il
tempo passava, e l’infanzia diventava piatta, sottile, cartacea.” (79)
È
normale che gli adulti abbiano ricordi di noi completamente diversi da quelli
che abbiamo noi stessi.” (104)
Tove Ditlevsen “Gioventù” Fazi editore euro
15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)
[A: 24/07/2024 – I: 17/08/2024 – T: 18/08/2024] - &&&&
[tit. or.: Ungdom; ling. or.: danese; pagine: 166; anno 1967]
Ed
eccoci, come promesso, già al secondo libro della trilogia. Che mantiene una
scrittura di una linearità entusiasmante. Scivola nel mondo, facendoci
partecipe di quel che accade, senza pause, senza giudizi, solo sensazioni. Un
libro che esce a ruota del precedente, come se Tove volesse festeggiare i suoi
cinquant’anni con una narrazione che le riportasse momenti salienti della sua
vita. Mi domando inoltre, perché non farne un testo unico, ma ci sarà un
motivo.
Avevamo
lasciato la nostra scrittrice al compiere dei quattordici anni, per lei
elemento di confine dell’infanzia. Doveva lasciare la scuola, che da famiglia
povera poco poteva essere speso di “superfluo”. Ed ecco che comincia la sua
gioventù con il primo giorno di lavoro. Una narrazione di fine ironia dove
narra come quel primo lavoro durò esattamente un giorno. Ma questo è solo il
prologo che di lavoro e ricerca di autonomia è permeato tutto il libro.
C’è
uno dei fili rossi che percorre il testo, ed è quello delle fallimentari
esperienze lavorative che Tove colleziona lungo l’arco della sua giovinezza;
donna delle pulizie, impiegata di second’ordine senza particolari mansioni,
segretaria presso l’ufficio statale del grano (dove c’è un altro momento
ironico nella descrizione del suo licenziamento) e assistente in uno studio
legale. Ma sono tutti piccoli momenti tesi ad uno scopo primario ed uno
secondario ma necessario.
La
meta che spinge tutte le azioni di Tove è la voglia forte, il moto interiore
irrinunciabile. Diventare scrittrice. Certo, il suo orizzonte sono le poesie,
anche se poi nella vita scriverà anche altro. Il moto secondario è la ricerca
di un appartamento in solitaria, lontano, finalmente dalla madre, fredda,
respingente, che sembra sempre non vederla, anzi vede in lei solo quello che
vorrebbe essere stata lei. E lontano da un padre inutile, che è servito solo a
darle la spinta verso la lettura, ma che è un disoccupato cronico, senza altra
occupazione che riposare sul divano e pontificare contro tutto e tutti.
Anche
qui, il testo è costellato dalla ghirlanda di case che, una volta compiuti i
diciotto anni, Tove riesce a vivere. La prima fredda come casa e come padrona
di casa, una fervente nazista da cui Tove non vede l’ora di allontanarsi. E poi
altre piccole stanze, magari con l’unica consolazione di una macchina da
scrivere dove riversare la sua angoscia poetica.
Non
va certo meglio con le amicizie. Lasciate quelle infantili (quelle che
pensavano solo a farsi mettere incinta e sposarsi), si ritrova un’amica che la
fa uscire dal guscio. Una Nina solare, che la porta in giro per locali e per
balli, e che le fa conoscere gente. Dove vediamo anche i suoi ben strani
rapporti con l’altro sesso. Senza nessun trasporto, con l’unico scopo, al
momento, di perdere la verginità (cosa che avviene con pochi traumi e poche
conseguenze). Ma non trova nei coetanei momenti di reali comunione.
Intenti
ideali che, invece, trova nelle persone più mature. Nel vecchio redattore che
muore prima di leggere le sue nuove poesie, nell’anziano signore che la
incoraggia ma che anche lui sparisce. Attraverso fortuite circostanze innescate
da Nina, riesce qui ad arrivare a Viggo, cinquantenne redattore di una rivista
letteraria. Che pubblica la sua prima poesia.
Non
solo, la incoraggia, la spinge, quasi ne diventa un pigmalione letterario,
portandola, alfine, a convincere un editore nella pubblicazione di una raccolta
di poesia. Un libro che si intitola “Anima di fanciulla” (“Pigesind” in
danese), un libro che uscirà nel momento in cui Hitler invade la Polonia. Un
momento forte, dove Tove ci fa vedere il cocktail di angoscia e di speranza che
le fa venire il vedere nel settembre 1939 il suo nome sulla copertina di un
libro.
Un
libro bello e duro, che a me è piaciuto più del primo (ricordo che ebbi la
stessa reazione con la Ferrante, dove apprezzai i libri in cui le amiche
crescevano). Una scrittura in cui Tove si presenta nuda e cruda, in cui non si
maschera, non vuole essere diversa, ed allo stesso tempo si espone al giudizio
degli altri, senza averne paura. Un libro costellato da dolore, per le
umiliazioni patite, per tutte le ingiustizie cui non riesce a porre rimedio,
per tutta quella fatica che comporta vivere. Ma un libro in cui si sente
quell’enorme determinazione di voler diventare una scrittrice, ed essere
riconosciuta come tale.
Quella
è la sua passione, il suo scopo vitale: non ama i lavori che è costretta a
fare, non ama il fidanzato che usa solo per perdere la verginità, non si
applica nel curare sé stessa, nel mangiare, nel bere. Tutto ridotto al minimo,
che non ci sono soldi da sprecare. Tove vuole uscire da quel momento soffocante
in cui ha mosso i primi passi, vuole la libertà. Ma non ha una guida, deve
costruirsi da sola, e da sola non può che essere confusa, smarrita, incerta,
insicura.
Tutto
sommato, però, questi due primi libri sono pieni di una speranza, di quella
scintilla che la fa andare avanti. E questo elemento mette in una luce non dico
positiva, ma pragmaticamente ottimista tutti quei passaggi che possono sembrare
tristi e cupi.
Per
questo tra le frasi che mi sono rimaste in testa, vi consiglio di leggere
attentamente la seconda. Tove è appena stata lasciata dal fidanzato che si
allontana da lei, e che, comunque, lei non ha mai amato, ma solo usato. Tre
righe che sono il compendio di un mondo.
“La
giovinezza è provvisoria, fragile e incostante. È fatta per lasciarsela alle
spalle, non ha altro scopo che questo.” (134)
“Ho
sempre l’impressione di dover dire addio a tutti gli uomini e di dover stare lì
a fissare la loro schiena che si allontana e sentire i loro passi che si
perdono nel buio. Ed è raro che si girino a farmi un cenno di saluto.” (141)
Tove Ditlevsen “Dipendenza” Fazi editore
euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)
[A: 24/07/2024 – I: 26/08/2024 – T: 27/08/2024] - &&&&
[tit. or.: Gift; ling. or.: danese; pagine: 177; anno 1971]
Con
questo terzo volume si chiude la “Trilogia di Copenaghen” di Tove Ditlevsen.
L’abbiamo seguita nei sogni dell’infanzia e poi nei tormenti e nelle speranze
della giovinezza. Tutti momenti problematici, ma con tanti possibili spiragli
di luce futura. Ora caliamo nella maturità dove si condenseranno tutti i punti
negativi della scrittrice. Riuscirà a superarli?
Intanto,
Tove gioca con il titolo, che in danese è bifronte. Infatti, “Gift” si può
tradurre sia con veleno sia con sposat*. Forse il danese stabilisce
un’improbabile equazione tra i due termini? Non sono certo un linguista che
possa entrare in una così fine disputa, tuttavia il dubbio permane, ed a
ragione.
Intanto
questa cavalcata finale, scritta alcuni anni dopo le prime due, ci porta con
Tove nelle sue scelte mature, e nella discesa verso il suo inferno. La seguiamo
nei suoi matrimoni, che alla fine saranno quattro, nei suoi amori, nelle sue
maternità, vere o rinunciate. Quello che notiamo sempre è la sua scrittura
pulita. Con l’aiuto della sua mirabile traduzione, Alessandro Storti ci
restituisce il mondo di Tove con l’immediatezza di chi sente parlare la
scrittrice della sua vita, come se non ci fossero intermediazioni.
Proprio
con il matrimoni con Viggo Frederik Møller, il suo mentore, comincia il nuovo
libro. Viggo che ha trent’anni più di lei, e dove il matrimonio era quasi un
debito di riconoscenza per chi aveva creduto in lei. Lei che però trova il suo
mondo solo nella scrittura, dove, immergendosi nella pagina scritta, dimentica
tutto quanto le sta intorno.
Ma
nel ritorno alla vita non può che accorgersi della poca consistenza del suo
rapporto con Viggo, cercando altrove quell’affetto che fin da piccola cercava
nella madre, e non riusciva mai a trovare. Deve per forza tagliare questo
rapporto pseudomaterno con Viggo, e lo fa con rapporti casuali, poi con
l’illusione che Piet la possa aiutare.
Piet
Hein è stato un eminente personaggi danese, che ne ha percorso quasi tutto il
secolo, di fondo matematico ed inventore di giochi ludici. Ma anche un gran
farfallone, che illude anche Tove, per poi lasciarla in balia di sé stessa.
Fortuna, per un po’ che trova consolazione in Ebbe Munk, suo secondo marito.
Per un po’ che fanno una figlia, ma poco che Ebbe si rivela un alcolista senza
remissione, e che preferirà la bottiglia alla vita con Tove.
Lei
che continua a scrivere, anche a pubblicare con discreta successo. Ma che si
trova ad un bivio: una nuova maternità, indesiderata, cui vuol porre fine.
Ritrovandosi così nella rete di un dottore psicopatico e abortista, Carl. Carl
Ryberg è un medico, di un anno più giovane di Tove, ma con dei grossi problemi
comportamentali. Per indurre l’aborto a Tove, dove ancora non erano in
confidenza, le somministra una forte dose di petidina, un oppioide che
determina velocemente un forte senso di dipendenza fisica e psichica.
Tove,
nella sua autoanalisi spietata, ci porta nel turbine della sua discesa nella
dipendenza da petidina, e poi, ovviamente, da altre sostanza. Carl è “spietato”
in questo, tanto che per lui, lei divorzia da Ebbe. E per avere sempre le sue
dosi, sposa Carl. È una disamina dolorosa, quella che lei ci fa dei suoi modi
per trovare sempre nuove dosi del farmaco. Riducendosi ad una larva umana,
pesando sino a trentacinque chili, ai limiti dell’anoressia.
Da
questa discesa viene salvata da una lunga degenza ospedaliera che la
disintossica, e dalle cure di un altro esponente della carta stampata, Victor
Andreasen, che la aiuta a pubblicare libri, a divorziare definitivamente da
Carl, a riprendere una vita (quasi) normale. Tanto che Tove finirà per sposare
anche lui. Il libro termina con la speranza di un futuro più sereno, con
Victor, anche se, come dice Tove stessa, ogni volta che passa davanti ad una
farmacia sente dentro crollare qualcosa. Qualcosa, un demone, che cerca di
esorcizzare.
Il
libro finisce, ma noi sappiamo che la vita con Victor non sarà facile, anche se
rimarranno sposati per quasi vent’anni. Tove continuerà ad entrare ed uscire da
droghe e depressioni. Neanche l’ultimo doloroso divorzio da Victor sarà
risolutivo, come Tove riuscirà a scrivere nel suo ultimo romanzo (“Vilhelms
rome” uscito nel 1975, mai pubblicato in Italia). L’anno seguente, il 4 marzo,
si toglie la vita con un’overdose di sonniferi.
Ma
noi torniamo alla sua scrittura, al modo diretto, senza autocommiserazione, di
descrivere la sua vita, ed in particolare, i mille sotterfugi per ottenere la
petidina, e la mancanza di voglia di vivere aspettando di avere un’altra dose.
Era una donna di (discreto) successo, ma anche lei, come Virginia Woolf, come
Sylvia Plath, guarda il dolore in faccia e cerca il modo di annegarlo.
Non
so se sia corretta descriverla come capostipite dell’autofiction (definita come
l’incrocio tra una storia reale della vita dell'autore e una storia di fantasia
che esplora un'esperienza vissuta dall'autore), visto che il termine verrà
codificato solo nel ’77. E visto che esisteva forse da sempre. Certo, la sua è
una scrittura che nel tempo darà vita ad Annie Ernaux o a Elena Ferrante. Ma
Tove c’era già.
Alla
fine la trilogia va letta senza interruzione, perché è un percorso logico
continuo. Ed un percorso letterariamente elevato ed umanamente vissuto con
tutto il dolore del mondo.
Assolutamente
da leggere.
“Scrivo
e basta, e magari sarà un testo valido, o magari no. Quel che conta è che
quando scrivo mi sento felice, come sempre. Mi sento felice e dimentico ogni
cosa intorno a me.” (12)
Il solito
contrappasso che mi accompagna nelle ultime trame, mi porta, a valle di una
trama al femminile, di dedicarvi un florilegio di citazioni di Francesco
Piccolo, scrittore e sceneggiatore che non mi ha (quasi) mai deluso, tratte dal
suo primo libro sulla felicità, “Momenti
di trascurabile felicità”. Devo dire
che le ultime tre citazioni sono riuscite a fotografarmi momenti personali
molto meglio di quanto sarei riuscito a scriverne io.
“Ed è questo il punto cruciale della
questione: perché mento? Che ragione c’è? Non c’è una ragione: mi piace” (26)
“Dal Don Chisciotte: si sprofondò tanto in
quelle letture, che passava le notti dalla sera alla mattina e i giorni dalla
mattina alla sera, sempre a leggere; e così, a forza di dormire poco e di
leggere molto, gli si prosciugò il cervello …e si ficcò … nella testa che tutto
quell’arsenale di sogni e di invenzioni lette nei libri fosse la verità pura”
(46)
“E devo dirlo – con tutto il rispetto, devo
dirlo: non mi ha mai entusiasmato Conrad” (49)
“Le cose belle sono quelle che finiscono”
(67)
“Sono profondamente grato a tutti quelli che
mi hanno tenuto e mi terranno la testa quando mi viene da vomitare” (71)
“La malinconia che rimane ai padroni di casa
alla fine di una grande festa, quando restano ancora cinque minuti sul divano
prima di andare a dormire” (82)
“Ogni volta che esco di casa, tiro la porta
d’ingresso soprappensiero, andando via, e nell’ultimo millesimo di secondo,
appena ho staccato la mano dalla maniglia e la porta sta per concludere la sua
corsa verso la chiusura, mi viene in mente: ma le chiavi le ho prese? Allora mi
volto di scatto e provo a fare in tempo a fermarla prima che sia troppo tardi,
e … clack. È troppo tardi” (85)
“Quando prenoto al ristorante, lascio il
nome di uno di quelli che verranno a cena con me … perché ho sempre la
sensazione che i ristoratori possano perseguitare i clienti che non si sono
presentati dopo aver prenotato” (93)
“Tutte le cose che bisogna fare, mi piace
rimandarle, oppure averle già fatte” (108)
Abbiamo svoltato la metà di ottobre, e la settimana prossima ci aspetta di nuovo l’ora legale. Ma io mi fermo un attimo, al pensiero che ieri, mia madre avrebbe compiuto 100 anni. Un piccolo momento di tristezza, come quella di tutti coloro che non hanno più genitori, ma che rallegro con un abbraccio a tutti voi.
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