Una settimana dove gli scrittori italiani fanno una buona figura, ma gli stranieri di più. Una buona storia familiare di Francesco Casolo sulla birra ed una migliore sul rapporto padre-figlio di Gianrico Carofiglio (anche se il nome non è un programma). Tuttavia surclassati dal sempre leggibile, pur se non facile, cileno Roberto Bolaño, ma soprattutto dai due giapponesi Sosuke Natsukawa e Durian Sukegawa. Di cui vi ricordo in particolare il secondo ed il bel film che ne fu tratto.
Gianrico Carofiglio “Le tre del mattino” Repubblica euro 8,90
[A: 06/05/2022 – I: 19/05/2024 – T:
21/05/2024] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 165; anno:
2017]
Eccoci ad un nuovo ed interessante libro di
Gianrico Carofiglio, uno dei tanti che lo scrittore ha scritto fuori del suo
classico ed acclamato filone di giallista. Ce ne sono e ne ho letto altri (su
tutti ricordo la bellissima descrizione di Bari in “Né qui né altrove”), ma
questo, pur con delle indubbie punte di interesse, non è tra i più riusciti.
Lascia un paio di punti sospesi, tra il
prologo esplicativo ma non esaustivo, la scomparsa di alcuni personaggi durante
la vicenda, un finale breve, forse troppo affrettato, anche se capisco che, a
volte, “una parola è poco e due son troppe” (proverbio citato ma ripensando a
Flaubert).
La bellezza del testo sta nell’assunto, cioè
nel plot generale, dove in poco più di centocinquanta pagine si riesce a
descrivere l’eterno conflitto tra padre e figlio, un tema sempre attuale, anche
quando qualche elemento della battaglia non c’è più. L’altro bel punto è il
titolo, che da un lato deriva da una bellissima citazione di Francis Scott
Fitzgerald (“Nella vera notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino”
tratta da “Tenera è la notte”), ma che Carofiglio usa per esemplificare un
momento di passaggio, un orario ambiguo, in cui è troppo tardi per essere notte
ma è ancora troppo presto per essere l’alba.
La storia ci viene narrata da Antonio come
un lungo ricordo di quando aveva un età di passaggio, iniziata sui quindici e
finita sui diciotto. E noi ci accompagniamo subito con il giovane Antonio.
Colpito dalla separazione dei genitori, che subisce senza averne capito il
motivo, si trova per molta parte della sua infanzia e giovinezza afflitto da
una malattia poco individuabile.
Intanto, e di sicuro, la separazione tra la
madre insegnante di lettere ed il padre, matematico illustre, ha scatenato
insicurezze nel giovane Antonio, portandolo a crisi di panico ed a momenti di
mancanza di coscienza della realtà che nessuno sa spiegare. Dopo anni di
inutili cure, i genitori trovano uno spiraglio di maggior attenzione
rivolgendosi all’unico personaggio reale del libro il professor Henri Gastaut,
specialista in neurologia ed esercitante a Marsiglia. Il quale diagnostica un
epilessia idiopatica, trovando un corto circuito di medicine che dovrebbe
stabilizzare Antonio, soprattutto nel passaggio verso l’età adulta.
Terminologia medica su cui tornerò più avanti.
Dopo tre anni di cure, Antonio è pronto per
la verifica della regressione della malattia, ed il dottore lo sottopone ad una
“prova da scatenamento”: due giorni senza dormire, alla fine dei quali, se non
insorge una crisi, Antonio è guarito. E sono questi due giorni a Marsiglia,
dove Antonio ed il padre sono costretti a vagare per trovare spunti e modi per
non dormire che scatenano un non scontato ravvicinamento. Quando si sta a
contatto, è inevitabile che escano fuori tante cose, così come nel loro rapporto,
andando a toccare tanti (tutti? molti?) temi dei loro rapporti rimasti per
sempre sopiti.
Qui, nella parte migliore del libro, abbiamo
una duplice chiave di lettura. Da un lato c’è l’amore per i luoghi. Avevo già
imparato, leggendo di Carofiglio quando parla di Bari, l’amore dello scrittore
per alcuni punti geograficamente per lui importanti. Così qui, ci porta a
spasso per Marsiglia, tra una visita alla basilica di Notre-Dame-de-la-Garde,
situata sul punto più alto della città e
da cui se ne ha una vista impagabile, ed una discesa a mare alla Calanque di
Morgiou (una spiaggia in una insenatura di notevole bellezza), passando per
locali, ristoranti, ritrovi ed altre passeggiate cittadine, laddove, se non
conoscete Marsiglia, vi viene subito voglia di andarla a visitare.
Non solo passeggiano, ma ovvio parlano. Anzi
è soprattutto il padre che si apre, parla del rapporto tra lui e la madre di
Antonio, ma anche tra lui ed il lavoro, e l’età che cresce, là dove erano le
speranze e le illusioni della giovinezza. Ma anche, ovvio, le paure di
sbagliare, la sempre presente crisi interna tra voler fare e non saperlo. Alla
fine, si ritrovano in un locale jazz, musica che il padre adora ed Antonio non
conosce (ancora). Lì, spinto da Antonio, in un momento buco del complesso, il
padre viene convinto a sedersi al pianoforte, improvvisando uno standard
jazzistico di buona fattura (e di bella descrizione da parte di Carofiglio).
Non solo, prima alla Calanque, i nostri
avevano incontrato Adèle e Lucie due ragazze lesbiche che li invitano ad una
festa notturna, dove Antonio (che ricordo ora ha diciotto anni) conosce
Marianne, una trentasettenne piena di vita. In una notte da favola, Marianne
prima spiega ad Antonio che si trova in un “balikwas” (ora ci torniamo anche su
questo) e poi i due passano insieme la prima notte d’amore per Antonio. E non
dico altro.
Il giorno dopo, il dottore annuncia la
guarigione di Antonio, i due tornano in Italia ed alla loro vita normale, con
Antonio pieno della consapevolezza di aver aperto un canale di comunicazione
che non conosceva. Peccato che pochi giorni dopo il padre ha un infarto e
muore. Antonio si tiene per sé i giorni marsigliesi, ma alla fine ne capisce i
risvolti, ne interpreta le conseguenze, ed alla fine lo troviamo ora,
cinquantenne, nel suo studio guardare riflettendo una frase di John von Neumann
appesa alle sue pareti: “Se la gente crede che la matematica non sia semplice,
è perché non si rende conto di quanto complicata sia la vita”.
Prima di entrare in altri meriti, veniamo ad
alcuni punti salienti che ho lasciato in sospeso. La frase di von Neumann in
originale riporta: “If people do not believe that mathematics is simple, it is
only because they do not realize how complicated life is”, espressa in un
convegno di computeristi nel 1947, dove notate l’inversione della negazione che
rende per me l’originale più immediato (“Se la gente non crede che la
matematica sia semplice” trovo sia più efficace di “Se la gente crede che la
matematica non sia semplice”). Anche perché ne sono assolutamente convinto.
Il secondo punto è il termine del linguaggio
“tagalog” delle Filippine. In realtà “balikwas” significa letterariamente
“alzarsi improvvisamente da una posizione sdraiata”, ed è quindi usato nella
colloquialità filippina (ed in questa accezione lo usa Carofiglio) con
l’indicazione di una persona che si trova all’improvviso in una situazione
diversa da quella che si aspettava, cosa che ci induce a vedere le cose
conosciute in modo diverso. Una situazione che auguro a molti.
Infine, tornerei sull’idiopatia, un termine
jolly della medicina che odio dal profondo, e che serve ad indicare una
malattia di cui non si conosce la causa. È un anno che soffro di prurito
idiopatico (tenuto ben a bada, ovviamente), e trovo snervante questa “patia”.
Tuttavia, per tornare la testo, a parte i
limiti espressi all’inizio, l’idea di fondo è bella e foriera di riflessioni
acute. Qual è il nostro rapporto con nostro padre? Soprattutto quando il padre
non c’è più. Non nego che avrei volentieri cercato di parlare di più con il
grande Frankie, ma il tempo della consapevolezza è venuto dopo il tempo della
scomparsa. E questo è quanto di più posso dire sull’argomento, ora. Se non un
grazie a Carofiglio che pur nelle sue imperfezioni (quanto mai poco provvisorie)
mi ha dato agio di tornare su riflessioni private che suggerisco anche a voi di
portare avanti: il rapporto con le malattie, la visione differente che si può
avere verso l’altro sesso, il possibile incontro tra due generazioni diverse.
Tanti pensieri.
Sosuke Natsukawa “Il gatto che voleva
salvare i libri” Corriere Giappone 3 euro 8,90
[A:
22/05/2021 – I: 17/06/2024 – T: 19/06/2024] - &&&
[tit.
or.: 本を守ろうとする猫の話 Hon o mamoroutosuru neko no
hanashi; ling. or.: giapponese;
pagine: 177; anno 2017]
Un libro favola scritto da uno scrittore
non-scrittore, che comunque prende per le implicazioni dei ragionamenti sui
libri e sui lettori.
Cominciamo dall’autore che, come altri nel
mondo spesso accade, nasce medico, ed al solito medico di base in quel di
Nagano. Nel tempo libero comincia a scrivere, e dopo alcuni racconti più o meno
lunghi in ambiente medico (dal titolo complessivo accattivante “La cartella
clinica di Dio”), si esercita in altro ed assume questo pseudonimo. Ma in
maniera così discreta che non ho trovato il suo vero nome, neanche nella wiki
giapponese.
Questo pseudonimo invece, come ci dice lui
stesso in un’intervista, è una specie di patchwork composto da diversi rimandi.
Natsukawa è composto da “Natsu” parte del cognome dello scrittore Soseki
Natsume (che riveste un’importanza traslata avendo scritto un testo
fondamentale: “Io sono un gatto”, tutta descritto da un’ottica felina) e da
“kawa” parte del cognome di un altro scrittore giapponese Yasunari Kawabata.
Mentre più complessa è la prima parte composta da 草 che si legge “so”,
e che vuol dire “erba” come nel titolo di un altro libro di Soseki (“Guanciale
d’erba”), mentre “Suke” è la parte finale del nome di Ryūnosuke Akutagawa,
altro importante autore giapponese, che forse ricorderete solo per aver scritto
la novella “Rashomon”, da cui Kurasawa trasse uno dei più bei film, e non solo
giapponesi.
Secondo elemento pretestuale è il fatto che, in
questa favola un po’ di crescita adolescenziale, un po’ di critica libraria,
elemento trainante, per tutta una fase, è un gatto parlante. Ora, è una favola
e possiamo accettare un gatto che parla, anche se personalmente ho trovato
l’idea forzata. Ma d’altra parte, come anche avete capito dalla genesi del
nome, il gatto ha un sua importanza nella simbologia nipponica, dove da sempre
viene associato alla fortuna ed al benessere economico, tanto da diventare quel
simbolo (che a me sembra odioso) del gatto con la manina che attira fortuna,
chiamato in giapponese “maneki neko” (dove si potrebbe aprire una parentesi
sulla genesi del simbolo, ma forse non è materia di questa trama).
Qui torniamo al testo, dove abbiamo il giovane
Rintaro cui muore il nonno con cui viveva, e che gestiva una libreria, in cui
si possono trovare libri nuovi ma soprattutto usati e poco rintracciabili (Jane
Austen, Hemingway, Conrad, Garcia Marquez, ma anche Samuel Johnson e
Montaigne). La morte del nonno crea nel nostro una crisi: che fare? Dovrebbe
andare a scuola, ma si sente perso. Dovrebbe andare a vivere con una zia, ma in
questo caso dovrebbe anche lasciare la libreria. Tra l’altro, secondo l’etimologia
giapponese, lui si sente un “hikikomori”, cioè uno dei tanti giovani che si
ritirano dal mondo, per lo più rintanandosi nel mondo virtuale dei cellulari,
o, come Rintano, nei libri.
Fortunatamente, viene in suo soccorso il gatto
parlante, che gli pone davanti tre problemi, che lui chiama tre labirinti: nel
primo c’è un lettore compulsivo (di fronte al quale le mie letture
impallidiscono) che leggendo tiene segregati un numero impressionante di libri;
nel secondo c’è un lettore invece sintetico, che cerca di ridurre i libri a
poche essenziali parole, di modo che siano fruibili alla gente che va di corsa;
nel terzo, c’è invece la grande industria che stampa a tamburo battente dei
libri improbabili, solo perché così possono vendere, andando incontro ai
“gusti” della gente (anche se sarebbe bene dire “guasti”, visto che la maggior
parte è come fare soldi in fretta, come diventare belli, come sposarsi bene, ed
altri “come…”).
Rintaro, prima timidamente, poi sempre più sicuro di
sé, in questo rafforzato dalla presenza della sua compagna di classe Sayo,
ripensando ogni volta ai consigli del nonno morto, debella i tre “oscurantisti”
di libri con un ragionamento che, all’osso, potrebbe essere: bisogna leggere (e
magari rileggere) che ogni frase può celare un mondo, non è importante tanto e
solo leggere molto, ma, capendo che ogni libro parla di te, entrare in sintonia
con la parola scritta, senza mai guardare al denaro in modo immediato, che la
fortuna c’è anche se non si vede (critica sempre presente nella mia testa all’idiozia
berlusconiana: “con la cultura non si guadagna”).
Sembra aver vinto su tutto, ma alla fine si presenta
il problema dei problemi: i tre che sono stati sconfitti dalle parole di
Rintaro, da eroi ed acclamati personaggi diventano paria abbandonati da tutti.
Una strega cattiva (un libro incarnato, nata milleottocento anni fa, che, se
risalgo alla storia giapponese, si potrebbe riferire al “Libro degli Wei”, dove
si descrive l’immigrazione verso le isole giapponese di popoli asiatici, e la
nascita del primo potentato feudale nipponico) rapisce Sayo per costringere
Rintaro a rinnegare tutte le sue avventure precedenti. Ma il nostro giovane
trova la parola magica, quella che riporto in finale: empatia. Questo è quanto
ci insegnano i libri, se sappiamo leggerli. Questo è il senso di chi si sente
attratto o respinto da determinati libri (per essere “rompente”, io sono
empatico con Borges e non lo sono con gli ultimi libri di Amado).
Alla fine, cosa succede a Rintaro, a Sayo, al gatto,
alla zia, ed alla libreria ve lo lascio leggere con calma (in fondo il libro è
abbastanza agile). Anche se, ma questo sono io, ho sempre difficoltà nelle
favole troppo “favolistiche”, legato forse troppo alla realtà del qui ed ora.
Ma i messaggi sui libri, sulla lettura, sull’editoria mi trovano
sostanzialmente in accordo. Certo, il libro, è anche un epigono dei tanti “easy
reading” giapponesi dell’ultimo periodo (il caffè finché è caldo, la libreria Morisaki,
il riordino alla Maria Kondo ed altri simili epigoni della leggerezza di
Banana) ma parlando di libri ha mosso alcune corde di buona risonanza.
Anzi, vorrei fare anche un salto all’indietro nella
battaglia contro la sintesi parossistica del testo, dove Rintaro trova un
esempio fulminante: mettete la “Nona sinfonia” di Beethoven a velocità doppia,
e ditemi se la melodia è la stessa.
Con Sosuke concludo quindi che bisogna leggere
tanto, ma leggere bene. Bisogna seguire il testo e farsene accogliere. Bisogna
entrare nella magia del mondo descritto. Bisogna leggere quel che c’è ora, ma
anche quel che ci fu (va bene Manzini, ma anche Manzoni, ahi che battutaccia).
“Della solita quota di cento libri non ne ho
ancora letti che sessantacinque. Tornatevene a casa! – Cento libri? … Lei legge
cento libri all’anno? Non all’anno, al mese!” (33)
“Se ti limiti a leggere libri in modo così
frenetico, non si amplierà per questo il mondo a te visibile. Per quante
conoscenze tu riesca a inculcarti, se non pensi con la tua testa e non cammini
con le tue gambe tutto rimarrà solo qualcosa di preso inutilmente a prestito. …
Non saranno i libri a percorrere la vita al posto tuo. Un avido lettore che si
dimentica di camminare con le proprie gambe diventerà solo il voluminoso
dizionario di un sapere obsoleto.” (41)
“Con la musica abbiamo un contatto quotidiano
… ma per i libri non è la stessa cosa. Possiamo fare jogging ascoltando musica,
ma non leggendo.” (72) [apriamo un discorso sugli audiolibri?]
“La capacità di empatia verso gli altri non è
l’atteggiamento di chi mette in fila parole superficiali di conforto con una
voce sdolcinata. È quello di chi soffre e si addolora insieme agli altri… Molte
persone, continuando a riempire la loro vita di giornate frenetiche, dense di
impegni, finiscono per perderla … Nella stressante routine quotidiana tutti non
riescono a badare che alle proprie esigenze, e perdono qualsiasi slancio
altruistico. E chi ne è privo finisce per non percepire più le sofferenze degli
altri. Così non prova più nulla nemmeno a mentire, a ferire le persone, a
calpestare i deboli. E a questo mondo sono sempre di più quelli che si
comportano così.” (131)
“I libri ci insegnano ad avere empatia con
gli altri.” (156)
Francesco Casolo “La salita dei giganti”
Feltrinelli s.p. (regalo di compleanno con Feltrinelli Platino)
[A: 09/05/2024 – I: 14/07/2024 – T:
16/07/2024] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 412; anno:
2022]
Avendo
un grosso credito aperto con Feltrinelli, mi ritrovo fortunatamente ogni anno,
nel giorno del mio compleanno, a ricevere un libro omaggio dalla mia libreria
di riferimento. Ecco così che è entrato nel novero dei miei libri questa
interessante saga familiare. Interessante non tanto per la scrittura in sé,
buona ma solo di livello medio, quanto per l’argomento che mi ha incuriosito:
la storia della famiglia Menabrea e della sua birra artigianale.
Non
è che sia un fanatico della birra, solo un normale bevitore, ma la Menabrea mi
aveva incuriosito, anni ed anni fa, quando, per le prime prove della pizzeria
Bonci a Trastevere, veniva inserita nel menù. Provata, la trovai dignitosa, e
di certo non industriale, anche se nel mio ricordo permangono sempre in prima
posizione alcune delle birre che bevevo ai tempi dei miei lavori in Belgio (in
particolare la Blanche con limone).
Venendo
al libro, sicuramente Casolo ha fatto un buon lavoro di ricerca, che d’altra
parte è consono alle sue scritture (ricordo che ha scritto i primi libri a
quattro mani con Alì Ehsani su storie di migrazioni dall’Afghanistan) fatta di
ricerche e riproposizioni. Così, vivendo in quel di Gressoney, mi sembra un
percorso obbligato interessarsi ad una famiglia che della cittadina è figlia, e
che, a seguito di un grande sogno, non dico che ha costruito un impero, ma di
certo un piccolo regno.
Seguiamo
così, sul filo della scrittura di Casolo e delle parole di Eugenia “Genia”
Menabrea, il percorso che ha portato alla nascita ed al consolidarsi della
fabbrica di birra. I Menabrea nascevano all’inizio dell’Ottocento come
venditori di stoffe, cosa che è alla base dell’economia biellese, e con negozi
nella vicina Svizzera. È il nonno di Genia che, inseguendo un sogno ed una
intuizione, decide di vendere tutto e di impiantare una fabbrica per la
produzione della birra. Una bevanda che da sempre era localmente prodotta, ma
solo per fini privati.
Sarà
con Carlo il padre di Genia che si avrà, intorno al 1870 la prima spinta verso
riconoscimenti nazionali e non, aiutati dalle buone parole di un grande figlio
del territorio, anche se del lato tessuto, Quintino Sella (che è ben noto,
altresì, per la sua presenza politica). Ma Carlo, stroncato da tisi e fatica,
muore prima del trent’anni, lasciando la produzione nelle mani di un eccellente
mastro birraio e del cognato. Ma solo per nove anni, allo scadere dei quali, le
mani della produzione torneranno ai Menabrea. In particolare a Genia ed al suo
tanto amato marito, Enrico Thedy.
Sarà
proprio lo sforzo di Thedy che consolida la Menabrea su tutti i mercati, anche
se, pure lui, muore prima dei quarant’anni, lasciando una vedova con cinque
figli. Genia, si suppone, prenderà in mano le redini, per poi passarli al ramo
Thedy, che tuttora guida la “Menabrea & figli”. Anche se, dal 1991, la
maggior parte delle quote è stata acquistata dalla casa di birra meranese
“Forst” (su cui si potrebbe scrivere altre saghe familiari).
Casolo
ci narra tutto ciò dall’ottica di Genia, una delle tre figlie di Carlo
Menabrea, immergendoci nell’atmosfera dell’epoca, e facendoci vivere anche i
passaggi epocali della seconda metà dell’Ottocento. Prima si andava a piedi per
le valli, si usa il ghiaccio di montagna, ed il carbone per scaldare le case e
l’orzo. A mano a mano, si passa ai calessi, fino alle prime automobili. Si
passa dal carbone all’energia elettrica. Si produce ghiaccio direttamente dalle
acque dei ruscelli con grandi frigoriferi. Arriverà il cinema e poi il
telefono. Quello che non cambia, in Menabrea, è la filiera di produzione della
birra, di cui l’autore ci illustra tutti i passaggi produttivi. Una
mini-lezione, che ho trovato tra le parti migliori del libro.
Come
altrettanto interessante è la storia stessa della birra, che non solo affonda
in epoche lontane, tra egizi e sumeri, ma è anche legata alla figura femminile,
tanto che è Ninkasi, una divinità sumera femminile, la patrona della birra.
Motivo per cui sembra anche logico seguire la storia della famiglia Menabrea
nell’ottica della femmina forte della famiglia, Genia. Anche se, volendo
parlare invece solo di birra, si dovrebbe approfondire la figura di Emilio
Thedy, il marito di Genia. Peccato anche che un’altra figura fondamentale nel
processo di produzione di birra di qualità, Gregor il maestro birraio, ad un
certo punto, e senza preavviso, scompare dalla narrazione.
È
di certo un libro che si legge abbastanza agevolmente, tuttavia, come detto, il
modo di porre l’argomento ed il salto di alcuni passaggi non riesce a
coinvolgere il lettore. Così che si arriva alla fine con una buona idea della
famiglia Menabrea, ma con idee ancora un po’ oscure sulla buona accoglienza
della birra stessa, e su suo perdurare sul mercato ancora adesso, a circa 175
anni dalla nascita.
Comunque,
mi ha stimolato nella ricerca di maggiori informazioni sulla birra e sulle
differenti birre esistenti. Questo è di sicuro un punto a favore.
Durian
Sukegawa “Le ricette della signora Tokue” Corriere Giappone 12 euro 8,90
[A:
27/07/2021 – I: 12/09/2024 – T: 14/09/2024] - &&&
[tit.
or.: あん An; ling. or.: giapponese; pagine: 180; anno 2013]
Questo è in realtà l’unico vero libro che lo
ha fatto conoscere anche fuori dal Giappone, anche grazie ad una suntuosa
trasposizione cinematografica. Che ho visto al cinema molto prima di aver letto
il libro. La ricordavo una storia delicata e con interessanti risvolti umani.
Ora, nella immediatezza del libro, non solo ne ribadisco il giudizio, ma trovo
nella scrittura anche qualcosa in più. Fors’anche perché, leggendo, si ha tempo
per seguire rimandi e suggerimenti che possono sfuggire nelle trasposizioni cinematografiche.
Pur avendo al fine meritato un giudizio
discretamente alto, due elementi me ne hanno mitigato il giudizio. Uno tutto
italiano, colpevoli gli editori di utilizzare titoli diversi dagli originali.
Ora, se pur vero che la signora Tokue è una raffinata cuoca, in realtà non si
dedica a ricette a tutto campo, ma alla pasticceria (come l’autore) ed in
particolare ad una confettura che in giapponese si chiama “An” che è una tipica
marmellata preparata con gli azuki, una sorta di fagioli dolci. Questa
marmellata è utilizzata in molte confezioni dolciarie, ma in particolare nei
dolci chiamati “dorayaki”, una sorta di doppio pancake farcito appunto con l’An.
Ed è precisamente “An” che si intitola il testo originale.
Non è un caso che Durian ha così chiamato il
suo libro, che è tutto incentrato su un negozio di dorayaki in periferia di
Tokyo, affacciato su un parco pieno di ciliegi, e gestito da Sentaro. Lui è un
ex-detenuto, che vorrebbe diventare scrittore, ma che, contratto un forte
debito, per ripagarlo si improvvisa pasticcere, cercando di affogare
nell’alcool la sua tristezza. È una bottega che ha un suo piccolo seguito, in
particolare tra le alunne di una vicina scuola. Tra queste, molto affezionata è
la piccola Wakana.
La svolta del libro comincia con l’arrivo
della signora Tokue, che, pian piano ed attraverso diverse prove culinarie,
riesce a convincere Sentaro della bontà dell’An da lei preparato. Comincia così
un rapporto di scambio tra i tre. Tokue lavora nell’ombra alla preparazione dei
dolci, diventando confidente dei problemi familiari di Wakana, ma anche
spingendo Sentaro a guardare dentro di sé, a riflettere.
Tuttavia, tutti si accorgono che Tokue ha dei
problemi, e quando si scopre che ha avuto il morbo di Hansen, la gente
abbandona il locale di Sentaro. Tanto che lui sarà costretto a licenziarla, ma
il rapporto che hanno costruito sopravvive. Sentaro e Wakana continueranno a
frequentarla, nel breve tempo che le rimane. Riuscendo a comunicarci, nel breve
volgere di pochi incontri, tutta una serie di sensazioni, di spinte verso una
vita diversa, più sentita, che sarà il messaggio finale che Durian cercherà, in
parte riuscendoci, a comunicarci.
L’altro elemento mitigante è dovuto invece
alla scarsa presa che la delicatezza giapponese comunica nel modo di stare al
mondo, di rapportarsi agli altri. Una delicatezza buona, ma spesso troppo
leggera per affrontare tutto.
Comunque il libro, in questo modo delicato,
ci presenta una storia di solitudini, che attraverso l’amicizia si incontrano
per superare gli isolamenti, voluti o forzati. Sotto la spinta delle parole di
Tokue, i protagonisti vanno alla ricerca del proprio sé, nell’intento di
scoprire cosa possa renderli felici e soddisfatti della loro vita. Un inno alla
lotta contro l’indifferenza e il pregiudizio.
E rimanendo all’interno del mondo giapponese,
ci si domanda quale sia il ruolo degli anziani nella società moderna, il peso
della memoria. Non ultima, poi, la discriminazione. Qui resa palese dalla
segregazione verso i lebbrosi, pur se guariti, ma che è presente in molti
aspetti della vita giapponese, come quella terribile degli “hibakusha”, i
sopravvissuti alla bomba che sono stati per decenni emarginati per paura di una
diffusione delle radiazioni nei loro codici genetici.
Un libro bello e delicato, filosoficamente
corretto, solo troppo poco “cattivo”. Anche se il perdono è uno dei più grandi
doni che si possano avere.
“Sono sicura che tutti, … prima o poi si
chiedano se la loro vita abbia un senso. E la risposta è che… la vita ha un
senso, oggi lo so per certo.” (164)
Roberto Bolaño “Puttane assassine” Adelphi
euro 12 (in realtà, scontato a 11,40 euro)
[A: 28/08/2024 – I: 28/09/2024 – T: 30/09/2024]
- &&&
[tit. or.: Putas asesinas; ling. or.: spagnolo; pagine: 230; anno 2001]
C’è sempre un po’ di ambiguità nel mio
personale rapporto con l’autore. Che nasce circa una settimana prima di me, e
muore di cancro a 50 anni. Ho amato molti dei suoi libri, ma altrettanto spesso
non ne ho digerito alcuni (in tutto o in parte). Come in questa raccolta di
racconti, alcuni mirabili, altri forse inutili, pur se tutti sorretti dalla sua
splendida capacità di scrivere e con la sua penna capace di portarci altrove.
In generale, in un mondo di uomini (o donne)
solitari, a volte in viaggio, spesso esuli, ma sempre senza un reale rapporto
con gli altri, con il mondo. O forse con un rapporto conflittuale, come se
loro, e l’autore, sapessero che di altro è fatta la vita.
Sono sempre spezzoni, brandelli di vita,
fotografie di momenti. A volte anche di momenti personali, laddove vediamo che
il centro del racconto coincide, pur in maniera eccentrica, con lo scrittore
(eccentrica nel senso proprio del termine, cioè fuori dal centro).
Dicevo della solitudine, come in “Gomez Palacio” dove uno stralunato
professore si trova inspiegabilmente ad insegnare letteratura creativa nella
sperduta cittadina del titolo, posta nel nulla a 1000 chilometri a nord di
Città del Messico. Ed anche nel “Dentista”, storia di un rapporto di solitudine tra un
dentista ed un indio. Od a maggior ragione, seguendo i numeri di uno scritto
che elenca momenti di pensiero come in una danza in “Carnet di ballo”.
Una solitudine che si accentua quando vi si
aggiunge la condizione di esule, come l’autore fu per tutta la vita (emigra dal
Cile a quindici anni e non vi torna più). Bolaño, come alcuni suoi personaggi,
si stabilisce per molto tempo in Messico. Ma anche, e lungamente, in Europa,
tra Spagna e Francia. Esule che non vuole tornare i patria, e che, in realtà,
non ama gli esuli che incontra.
Così vediamo il protagonista compulsare una
rivista e gli autori che incontra nello scritto in “Vagabondo in Francia e in Belgio” ma soprattutto nei “Giorni
del 1978”, dove narra il suo forte dissidio con un esule supponente (e
forse anche un po’ fuori di testa). In parte, c’è il sentimento di esilio e
solitudine anche ne “L’Ojo Silva”, sentimento che si mescola alla descrizione
di una strana avventura orientale del protagonista. Un episodio surreale che fa
da sfondo anche a molti dei testi.
L’incontro, da vivo, con un morto in “Incontro con Enrique Lihn” o il suo contrario, la narrazione vista
dalla parte del morto che incontra uno stilista necroforo in “Il ritorno”. Fino ai riti voodoo che
innervano il racconto “Buba”, ma solo per fare una critica purtroppo non
tanto efficace al mondo calcistico ed alle sue depravazioni.
Solitudine, esilio, ma anche elementi che
attengono al suo privato, quasi un’autobiografia immaginaria ed immaginata.
Come nel bellissimo “Ultimi
crepuscoli sulla terra”, con il
delicato racconto del rapporto con il padre (oltre ai giorni ed al vagabondo
che ho già citato). Un momento personale che serve anche da aggancio alle sue
opere, con l’uso trasversale dei personaggi.
Vediamo così il suo alter ego Arturo Belano,
protagonista de “I detective selvaggi”, narrare in “Fotografie” di un’antologia
poetica mentre percorre strade africane desolate e devastate da guerre. O il
Lalo Cura, presente nell’ultima parte del suo ultimo testo (“2666”) e qui voce
narrante in “Prefigurazione di
Lalo Cura”, piccolo delirio di un
figlio di una diva del porno e descrizione in soggettiva delle sue personali
vendette. Non dimentichiamoci che il nome, letto in spagnolo e diversamente
periodato, ci porta a “la locura”, cioè la pazzia.
Non resta allora che citare il racconto del
titolo, tutto in forma di dialogo, dove una donna si vendica con un uomo scelto
a caso tra i tifosi allo studio, torturandolo ed uccidendolo (probabilmente).
L’unica colpa della vittima è di essere un maschio, epitome del dolore subito
dalla donna, che vuole vendicarsi su di un uomo qualsiasi per tutti i soprusi
subiti.
Facendone una summa, così, vediamo spalmati
nei tredici testi i temi sempre ricorrenti nell’autore: il male, la violenza,
il sesso, l’esilio e sempre e comunque la letteratura. Con la sua capacità
magistrale di raccontare senza spiegare, facendoci comunque vedere la
padronanza che ha del mezzo. Ci sono molti modi di raccontare storie, e Bolaño
li usa, li manipola, li avvolge nel suo personale filo rosso della sua breve ed
intensa vita. Che questo è l’ultimo testo pubblicato prima di morire, dato che
il romanzo che stava finendo, “2666”, uscirà postumo.
Sarebbe bello e stimolante percorrere con lui
queste fughe letterarie del Vagabondo e di Fotografie, piene di nomi quasi
sempre reali, ma spesso inventati. O reali con una biografia inventata. Come
Claude de Burine, poetessa francese, di cui inventa un fermo letterario alla
fine degli anni Sessanta (finzione), mentre lei continuò a scrivere sino alla
morte, nel 2005 all’età di 74 anni. O quella dell’artista e danzatore Dominique
Tron, che ancora opera più che settantenne nelle isole australi dove si rifugiato.
Questo, oltre ai temi sopra elencati, per me
è Bolaño: un affabulatore che ci ha portato nei suoi mondi, dove non importa
cosa sia vero o cosa sia falso, ma solo cosa stiamo vedendo (e vivendo). Perché
non è un caso l’epigrafe che lui mette al testo: “L'accusa si scioglierà in
risate e tu te ne andrai libero da ogni peso”. È tratta dal secondo libro delle
Satire di Orazio, dove volutamente, credo, l’autore ci porta alla conclusione,
che suppone noi si sappia, che Orazio parla di chi, scrivendo bene, attacca
gente spregevole. Sarà accusato, ma vincerà.
Ed io so che anche la sua scrittura vincerà.
In una settimana di giapponesi, cileni ed
italiani, pur con racconti ambientati ai limiti dei confini nazionali, mi piace
citare un grande accademico francese, Erik Orsenna, di cui ho
letto molti libri divulgativi sull’uso della lingua francese. Qui, invece,
prendo un testo più letterario, “Deux
étés”, dove mirabilmente ci fa
vedere sia il ruolo del traduttore (su cui concordo) sia i possibili lacci
matrimoniali (su cui aprirei una discussione). Per evitare a voi ed a me altre
fatiche, vi propongo i testi come da me tradotti.
“-
I traduttori sono pirati ... [-??] - Qual è il lavoro del pirata? Quando una
nave straniera gli piace, la assalta. Getta l'equipaggio in mare e lo
sostituisce con i suoi amici. Poi innalza i suoi personali colori al vertice
del più alto pennone. Così il traduttore. Cattura un libro, cambia tutto il
linguaggio e lo battezza francese. Hai mai pensato che i libri siano battelli e
le parole i loro equipaggio?” (26)
“Anche i matrimoni sono delle isole. C’è
bisogno di una nave per allontanarsene” (87)
Quindi, da buon pirata, mi avvio ad una settimana in trasferta, dove non sappiamo ancora se riuscirò per tempo a darvi la mia trama settimanale. Ma avrete mie notizie, comunque, dalle rive del Lago di Garda, dove penso di mancare da almeno cinquant’anni. Vi farò sapere come l’ho trovato. Per ora vi lascio con tanti abbracci.
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