domenica 27 ottobre 2024

Giappone ed altri scritti - 27 ottobre 2024

Una settimana dove gli scrittori italiani fanno una buona figura, ma gli stranieri di più. Una buona storia familiare di Francesco Casolo sulla birra ed una migliore sul rapporto padre-figlio di Gianrico Carofiglio (anche se il nome non è un programma). Tuttavia surclassati dal sempre leggibile, pur se non facile, cileno Roberto Bolaño, ma soprattutto dai due giapponesi Sosuke Natsukawa e Durian Sukegawa. Di cui vi ricordo in particolare il secondo ed il bel film che ne fu tratto.

Gianrico Carofiglio “Le tre del mattino” Repubblica euro 8,90

[A: 06/05/2022 – I: 19/05/2024 – T: 21/05/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 165; anno: 2017]

Eccoci ad un nuovo ed interessante libro di Gianrico Carofiglio, uno dei tanti che lo scrittore ha scritto fuori del suo classico ed acclamato filone di giallista. Ce ne sono e ne ho letto altri (su tutti ricordo la bellissima descrizione di Bari in “Né qui né altrove”), ma questo, pur con delle indubbie punte di interesse, non è tra i più riusciti.

Lascia un paio di punti sospesi, tra il prologo esplicativo ma non esaustivo, la scomparsa di alcuni personaggi durante la vicenda, un finale breve, forse troppo affrettato, anche se capisco che, a volte, “una parola è poco e due son troppe” (proverbio citato ma ripensando a Flaubert).

La bellezza del testo sta nell’assunto, cioè nel plot generale, dove in poco più di centocinquanta pagine si riesce a descrivere l’eterno conflitto tra padre e figlio, un tema sempre attuale, anche quando qualche elemento della battaglia non c’è più. L’altro bel punto è il titolo, che da un lato deriva da una bellissima citazione di Francis Scott Fitzgerald (“Nella vera notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino” tratta da “Tenera è la notte”), ma che Carofiglio usa per esemplificare un momento di passaggio, un orario ambiguo, in cui è troppo tardi per essere notte ma è ancora troppo presto per essere l’alba.

La storia ci viene narrata da Antonio come un lungo ricordo di quando aveva un età di passaggio, iniziata sui quindici e finita sui diciotto. E noi ci accompagniamo subito con il giovane Antonio. Colpito dalla separazione dei genitori, che subisce senza averne capito il motivo, si trova per molta parte della sua infanzia e giovinezza afflitto da una malattia poco individuabile.

Intanto, e di sicuro, la separazione tra la madre insegnante di lettere ed il padre, matematico illustre, ha scatenato insicurezze nel giovane Antonio, portandolo a crisi di panico ed a momenti di mancanza di coscienza della realtà che nessuno sa spiegare. Dopo anni di inutili cure, i genitori trovano uno spiraglio di maggior attenzione rivolgendosi all’unico personaggio reale del libro il professor Henri Gastaut, specialista in neurologia ed esercitante a Marsiglia. Il quale diagnostica un epilessia idiopatica, trovando un corto circuito di medicine che dovrebbe stabilizzare Antonio, soprattutto nel passaggio verso l’età adulta. Terminologia medica su cui tornerò più avanti.

Dopo tre anni di cure, Antonio è pronto per la verifica della regressione della malattia, ed il dottore lo sottopone ad una “prova da scatenamento”: due giorni senza dormire, alla fine dei quali, se non insorge una crisi, Antonio è guarito. E sono questi due giorni a Marsiglia, dove Antonio ed il padre sono costretti a vagare per trovare spunti e modi per non dormire che scatenano un non scontato ravvicinamento. Quando si sta a contatto, è inevitabile che escano fuori tante cose, così come nel loro rapporto, andando a toccare tanti (tutti? molti?) temi dei loro rapporti rimasti per sempre sopiti.

Qui, nella parte migliore del libro, abbiamo una duplice chiave di lettura. Da un lato c’è l’amore per i luoghi. Avevo già imparato, leggendo di Carofiglio quando parla di Bari, l’amore dello scrittore per alcuni punti geograficamente per lui importanti. Così qui, ci porta a spasso per Marsiglia, tra una visita alla basilica di Notre-Dame-de-la-Garde, situata  sul punto più alto della città e da cui se ne ha una vista impagabile, ed una discesa a mare alla Calanque di Morgiou (una spiaggia in una insenatura di notevole bellezza), passando per locali, ristoranti, ritrovi ed altre passeggiate cittadine, laddove, se non conoscete Marsiglia, vi viene subito voglia di andarla a visitare.

Non solo passeggiano, ma ovvio parlano. Anzi è soprattutto il padre che si apre, parla del rapporto tra lui e la madre di Antonio, ma anche tra lui ed il lavoro, e l’età che cresce, là dove erano le speranze e le illusioni della giovinezza. Ma anche, ovvio, le paure di sbagliare, la sempre presente crisi interna tra voler fare e non saperlo. Alla fine, si ritrovano in un locale jazz, musica che il padre adora ed Antonio non conosce (ancora). Lì, spinto da Antonio, in un momento buco del complesso, il padre viene convinto a sedersi al pianoforte, improvvisando uno standard jazzistico di buona fattura (e di bella descrizione da parte di Carofiglio).

Non solo, prima alla Calanque, i nostri avevano incontrato Adèle e Lucie due ragazze lesbiche che li invitano ad una festa notturna, dove Antonio (che ricordo ora ha diciotto anni) conosce Marianne, una trentasettenne piena di vita. In una notte da favola, Marianne prima spiega ad Antonio che si trova in un “balikwas” (ora ci torniamo anche su questo) e poi i due passano insieme la prima notte d’amore per Antonio. E non dico altro.

Il giorno dopo, il dottore annuncia la guarigione di Antonio, i due tornano in Italia ed alla loro vita normale, con Antonio pieno della consapevolezza di aver aperto un canale di comunicazione che non conosceva. Peccato che pochi giorni dopo il padre ha un infarto e muore. Antonio si tiene per sé i giorni marsigliesi, ma alla fine ne capisce i risvolti, ne interpreta le conseguenze, ed alla fine lo troviamo ora, cinquantenne, nel suo studio guardare riflettendo una frase di John von Neumann appesa alle sue pareti: “Se la gente crede che la matematica non sia semplice, è perché non si rende conto di quanto complicata sia la vita”.

Prima di entrare in altri meriti, veniamo ad alcuni punti salienti che ho lasciato in sospeso. La frase di von Neumann in originale riporta: “If people do not believe that mathematics is simple, it is only because they do not realize how complicated life is”, espressa in un convegno di computeristi nel 1947, dove notate l’inversione della negazione che rende per me l’originale più immediato (“Se la gente non crede che la matematica sia semplice” trovo sia più efficace di “Se la gente crede che la matematica non sia semplice”). Anche perché ne sono assolutamente convinto.

Il secondo punto è il termine del linguaggio “tagalog” delle Filippine. In realtà “balikwas” significa letterariamente “alzarsi improvvisamente da una posizione sdraiata”, ed è quindi usato nella colloquialità filippina (ed in questa accezione lo usa Carofiglio) con l’indicazione di una persona che si trova all’improvviso in una situazione diversa da quella che si aspettava, cosa che ci induce a vedere le cose conosciute in modo diverso. Una situazione che auguro a molti.

Infine, tornerei sull’idiopatia, un termine jolly della medicina che odio dal profondo, e che serve ad indicare una malattia di cui non si conosce la causa. È un anno che soffro di prurito idiopatico (tenuto ben a bada, ovviamente), e trovo snervante questa “patia”.

Tuttavia, per tornare la testo, a parte i limiti espressi all’inizio, l’idea di fondo è bella e foriera di riflessioni acute. Qual è il nostro rapporto con nostro padre? Soprattutto quando il padre non c’è più. Non nego che avrei volentieri cercato di parlare di più con il grande Frankie, ma il tempo della consapevolezza è venuto dopo il tempo della scomparsa. E questo è quanto di più posso dire sull’argomento, ora. Se non un grazie a Carofiglio che pur nelle sue imperfezioni (quanto mai poco provvisorie) mi ha dato agio di tornare su riflessioni private che suggerisco anche a voi di portare avanti: il rapporto con le malattie, la visione differente che si può avere verso l’altro sesso, il possibile incontro tra due generazioni diverse. Tanti pensieri.

Sosuke Natsukawa “Il gatto che voleva salvare i libri” Corriere Giappone 3 euro 8,90

[A: 22/05/2021 – I: 17/06/2024 – T: 19/06/2024] - &&&      

[tit. or.: 本を守ろうとする猫の話 Hon o mamoroutosuru neko no hanashi; ling. or.: giapponese; pagine: 177; anno 2017]

Un libro favola scritto da uno scrittore non-scrittore, che comunque prende per le implicazioni dei ragionamenti sui libri e sui lettori.

Cominciamo dall’autore che, come altri nel mondo spesso accade, nasce medico, ed al solito medico di base in quel di Nagano. Nel tempo libero comincia a scrivere, e dopo alcuni racconti più o meno lunghi in ambiente medico (dal titolo complessivo accattivante “La cartella clinica di Dio”), si esercita in altro ed assume questo pseudonimo. Ma in maniera così discreta che non ho trovato il suo vero nome, neanche nella wiki giapponese.

Questo pseudonimo invece, come ci dice lui stesso in un’intervista, è una specie di patchwork composto da diversi rimandi. Natsukawa è composto da “Natsu” parte del cognome dello scrittore Soseki Natsume (che riveste un’importanza traslata avendo scritto un testo fondamentale: “Io sono un gatto”, tutta descritto da un’ottica felina) e da “kawa” parte del cognome di un altro scrittore giapponese Yasunari Kawabata. Mentre più complessa è la prima parte composta da che si legge “so”, e che vuol dire “erba” come nel titolo di un altro libro di Soseki (“Guanciale d’erba”), mentre “Suke” è la parte finale del nome di Ryūnosuke Akutagawa, altro importante autore giapponese, che forse ricorderete solo per aver scritto la novella “Rashomon”, da cui Kurasawa trasse uno dei più bei film, e non solo giapponesi.

Secondo elemento pretestuale è il fatto che, in questa favola un po’ di crescita adolescenziale, un po’ di critica libraria, elemento trainante, per tutta una fase, è un gatto parlante. Ora, è una favola e possiamo accettare un gatto che parla, anche se personalmente ho trovato l’idea forzata. Ma d’altra parte, come anche avete capito dalla genesi del nome, il gatto ha un sua importanza nella simbologia nipponica, dove da sempre viene associato alla fortuna ed al benessere economico, tanto da diventare quel simbolo (che a me sembra odioso) del gatto con la manina che attira fortuna, chiamato in giapponese “maneki neko” (dove si potrebbe aprire una parentesi sulla genesi del simbolo, ma forse non è materia di questa trama).

Qui torniamo al testo, dove abbiamo il giovane Rintaro cui muore il nonno con cui viveva, e che gestiva una libreria, in cui si possono trovare libri nuovi ma soprattutto usati e poco rintracciabili (Jane Austen, Hemingway, Conrad, Garcia Marquez, ma anche Samuel Johnson e Montaigne). La morte del nonno crea nel nostro una crisi: che fare? Dovrebbe andare a scuola, ma si sente perso. Dovrebbe andare a vivere con una zia, ma in questo caso dovrebbe anche lasciare la libreria. Tra l’altro, secondo l’etimologia giapponese, lui si sente un “hikikomori”, cioè uno dei tanti giovani che si ritirano dal mondo, per lo più rintanandosi nel mondo virtuale dei cellulari, o, come Rintano, nei libri.

Fortunatamente, viene in suo soccorso il gatto parlante, che gli pone davanti tre problemi, che lui chiama tre labirinti: nel primo c’è un lettore compulsivo (di fronte al quale le mie letture impallidiscono) che leggendo tiene segregati un numero impressionante di libri; nel secondo c’è un lettore invece sintetico, che cerca di ridurre i libri a poche essenziali parole, di modo che siano fruibili alla gente che va di corsa; nel terzo, c’è invece la grande industria che stampa a tamburo battente dei libri improbabili, solo perché così possono vendere, andando incontro ai “gusti” della gente (anche se sarebbe bene dire “guasti”, visto che la maggior parte è come fare soldi in fretta, come diventare belli, come sposarsi bene, ed altri “come…”).

Rintaro, prima timidamente, poi sempre più sicuro di sé, in questo rafforzato dalla presenza della sua compagna di classe Sayo, ripensando ogni volta ai consigli del nonno morto, debella i tre “oscurantisti” di libri con un ragionamento che, all’osso, potrebbe essere: bisogna leggere (e magari rileggere) che ogni frase può celare un mondo, non è importante tanto e solo leggere molto, ma, capendo che ogni libro parla di te, entrare in sintonia con la parola scritta, senza mai guardare al denaro in modo immediato, che la fortuna c’è anche se non si vede (critica sempre presente nella mia testa all’idiozia berlusconiana: “con la cultura non si guadagna”).

Sembra aver vinto su tutto, ma alla fine si presenta il problema dei problemi: i tre che sono stati sconfitti dalle parole di Rintaro, da eroi ed acclamati personaggi diventano paria abbandonati da tutti. Una strega cattiva (un libro incarnato, nata milleottocento anni fa, che, se risalgo alla storia giapponese, si potrebbe riferire al “Libro degli Wei”, dove si descrive l’immigrazione verso le isole giapponese di popoli asiatici, e la nascita del primo potentato feudale nipponico) rapisce Sayo per costringere Rintaro a rinnegare tutte le sue avventure precedenti. Ma il nostro giovane trova la parola magica, quella che riporto in finale: empatia. Questo è quanto ci insegnano i libri, se sappiamo leggerli. Questo è il senso di chi si sente attratto o respinto da determinati libri (per essere “rompente”, io sono empatico con Borges e non lo sono con gli ultimi libri di Amado).

Alla fine, cosa succede a Rintaro, a Sayo, al gatto, alla zia, ed alla libreria ve lo lascio leggere con calma (in fondo il libro è abbastanza agile). Anche se, ma questo sono io, ho sempre difficoltà nelle favole troppo “favolistiche”, legato forse troppo alla realtà del qui ed ora. Ma i messaggi sui libri, sulla lettura, sull’editoria mi trovano sostanzialmente in accordo. Certo, il libro, è anche un epigono dei tanti “easy reading” giapponesi dell’ultimo periodo (il caffè finché è caldo, la libreria Morisaki, il riordino alla Maria Kondo ed altri simili epigoni della leggerezza di Banana) ma parlando di libri ha mosso alcune corde di buona risonanza.

Anzi, vorrei fare anche un salto all’indietro nella battaglia contro la sintesi parossistica del testo, dove Rintaro trova un esempio fulminante: mettete la “Nona sinfonia” di Beethoven a velocità doppia, e ditemi se la melodia è la stessa.

Con Sosuke concludo quindi che bisogna leggere tanto, ma leggere bene. Bisogna seguire il testo e farsene accogliere. Bisogna entrare nella magia del mondo descritto. Bisogna leggere quel che c’è ora, ma anche quel che ci fu (va bene Manzini, ma anche Manzoni, ahi che battutaccia).

“Della solita quota di cento libri non ne ho ancora letti che sessantacinque. Tornatevene a casa! – Cento libri? … Lei legge cento libri all’anno? Non all’anno, al mese!” (33)

“Se ti limiti a leggere libri in modo così frenetico, non si amplierà per questo il mondo a te visibile. Per quante conoscenze tu riesca a inculcarti, se non pensi con la tua testa e non cammini con le tue gambe tutto rimarrà solo qualcosa di preso inutilmente a prestito. … Non saranno i libri a percorrere la vita al posto tuo. Un avido lettore che si dimentica di camminare con le proprie gambe diventerà solo il voluminoso dizionario di un sapere obsoleto.” (41)

“Con la musica abbiamo un contatto quotidiano … ma per i libri non è la stessa cosa. Possiamo fare jogging ascoltando musica, ma non leggendo.” (72) [apriamo un discorso sugli audiolibri?]

“La capacità di empatia verso gli altri non è l’atteggiamento di chi mette in fila parole superficiali di conforto con una voce sdolcinata. È quello di chi soffre e si addolora insieme agli altri… Molte persone, continuando a riempire la loro vita di giornate frenetiche, dense di impegni, finiscono per perderla … Nella stressante routine quotidiana tutti non riescono a badare che alle proprie esigenze, e perdono qualsiasi slancio altruistico. E chi ne è privo finisce per non percepire più le sofferenze degli altri. Così non prova più nulla nemmeno a mentire, a ferire le persone, a calpestare i deboli. E a questo mondo sono sempre di più quelli che si comportano così.” (131)

“I libri ci insegnano ad avere empatia con gli altri.” (156)

Francesco Casolo “La salita dei giganti” Feltrinelli s.p. (regalo di compleanno con Feltrinelli Platino)

[A: 09/05/2024 – I: 14/07/2024 – T: 16/07/2024] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 412; anno: 2022]

Avendo un grosso credito aperto con Feltrinelli, mi ritrovo fortunatamente ogni anno, nel giorno del mio compleanno, a ricevere un libro omaggio dalla mia libreria di riferimento. Ecco così che è entrato nel novero dei miei libri questa interessante saga familiare. Interessante non tanto per la scrittura in sé, buona ma solo di livello medio, quanto per l’argomento che mi ha incuriosito: la storia della famiglia Menabrea e della sua birra artigianale.

Non è che sia un fanatico della birra, solo un normale bevitore, ma la Menabrea mi aveva incuriosito, anni ed anni fa, quando, per le prime prove della pizzeria Bonci a Trastevere, veniva inserita nel menù. Provata, la trovai dignitosa, e di certo non industriale, anche se nel mio ricordo permangono sempre in prima posizione alcune delle birre che bevevo ai tempi dei miei lavori in Belgio (in particolare la Blanche con limone).

Venendo al libro, sicuramente Casolo ha fatto un buon lavoro di ricerca, che d’altra parte è consono alle sue scritture (ricordo che ha scritto i primi libri a quattro mani con Alì Ehsani su storie di migrazioni dall’Afghanistan) fatta di ricerche e riproposizioni. Così, vivendo in quel di Gressoney, mi sembra un percorso obbligato interessarsi ad una famiglia che della cittadina è figlia, e che, a seguito di un grande sogno, non dico che ha costruito un impero, ma di certo un piccolo regno.

Seguiamo così, sul filo della scrittura di Casolo e delle parole di Eugenia “Genia” Menabrea, il percorso che ha portato alla nascita ed al consolidarsi della fabbrica di birra. I Menabrea nascevano all’inizio dell’Ottocento come venditori di stoffe, cosa che è alla base dell’economia biellese, e con negozi nella vicina Svizzera. È il nonno di Genia che, inseguendo un sogno ed una intuizione, decide di vendere tutto e di impiantare una fabbrica per la produzione della birra. Una bevanda che da sempre era localmente prodotta, ma solo per fini privati.

Sarà con Carlo il padre di Genia che si avrà, intorno al 1870 la prima spinta verso riconoscimenti nazionali e non, aiutati dalle buone parole di un grande figlio del territorio, anche se del lato tessuto, Quintino Sella (che è ben noto, altresì, per la sua presenza politica). Ma Carlo, stroncato da tisi e fatica, muore prima del trent’anni, lasciando la produzione nelle mani di un eccellente mastro birraio e del cognato. Ma solo per nove anni, allo scadere dei quali, le mani della produzione torneranno ai Menabrea. In particolare a Genia ed al suo tanto amato marito, Enrico Thedy.

Sarà proprio lo sforzo di Thedy che consolida la Menabrea su tutti i mercati, anche se, pure lui, muore prima dei quarant’anni, lasciando una vedova con cinque figli. Genia, si suppone, prenderà in mano le redini, per poi passarli al ramo Thedy, che tuttora guida la “Menabrea & figli”. Anche se, dal 1991, la maggior parte delle quote è stata acquistata dalla casa di birra meranese “Forst” (su cui si potrebbe scrivere altre saghe familiari).

Casolo ci narra tutto ciò dall’ottica di Genia, una delle tre figlie di Carlo Menabrea, immergendoci nell’atmosfera dell’epoca, e facendoci vivere anche i passaggi epocali della seconda metà dell’Ottocento. Prima si andava a piedi per le valli, si usa il ghiaccio di montagna, ed il carbone per scaldare le case e l’orzo. A mano a mano, si passa ai calessi, fino alle prime automobili. Si passa dal carbone all’energia elettrica. Si produce ghiaccio direttamente dalle acque dei ruscelli con grandi frigoriferi. Arriverà il cinema e poi il telefono. Quello che non cambia, in Menabrea, è la filiera di produzione della birra, di cui l’autore ci illustra tutti i passaggi produttivi. Una mini-lezione, che ho trovato tra le parti migliori del libro.

Come altrettanto interessante è la storia stessa della birra, che non solo affonda in epoche lontane, tra egizi e sumeri, ma è anche legata alla figura femminile, tanto che è Ninkasi, una divinità sumera femminile, la patrona della birra. Motivo per cui sembra anche logico seguire la storia della famiglia Menabrea nell’ottica della femmina forte della famiglia, Genia. Anche se, volendo parlare invece solo di birra, si dovrebbe approfondire la figura di Emilio Thedy, il marito di Genia. Peccato anche che un’altra figura fondamentale nel processo di produzione di birra di qualità, Gregor il maestro birraio, ad un certo punto, e senza preavviso, scompare dalla narrazione.

È di certo un libro che si legge abbastanza agevolmente, tuttavia, come detto, il modo di porre l’argomento ed il salto di alcuni passaggi non riesce a coinvolgere il lettore. Così che si arriva alla fine con una buona idea della famiglia Menabrea, ma con idee ancora un po’ oscure sulla buona accoglienza della birra stessa, e su suo perdurare sul mercato ancora adesso, a circa 175 anni dalla nascita.

Comunque, mi ha stimolato nella ricerca di maggiori informazioni sulla birra e sulle differenti birre esistenti. Questo è di sicuro un punto a favore.

Durian Sukegawa “Le ricette della signora Tokue” Corriere Giappone 12 euro 8,90

[A: 27/07/2021 – I: 12/09/2024 – T: 14/09/2024] - &&&      

[tit. or.: あん An; ling. or.: giapponese; pagine: 180; anno 2013]

Durian Sukegawa, come la maggior parte degli scrittori giapponesi, è solo il nome d’arte dello scrittore. E tuttavia, non credo ci interessi quale sia il suo vero nome, ma chi sia questo sessantenne che a dieci anni fa ci ha deliziato con questo libro. Laureato in filosofia e diplomato alla scuola centrale giapponese di pasticceria. Scrive poesie, è un personaggio molto presente alla televisione nipponica, forma diverse rock-band e nei ritagli del suo tempo comincia a scrivere. Mantenendo costante il suo occhi vigile sul mondo ed una critica verso tutto ciò che va storto nelle pieghe del nostro pur storto mondo.

Questo è in realtà l’unico vero libro che lo ha fatto conoscere anche fuori dal Giappone, anche grazie ad una suntuosa trasposizione cinematografica. Che ho visto al cinema molto prima di aver letto il libro. La ricordavo una storia delicata e con interessanti risvolti umani. Ora, nella immediatezza del libro, non solo ne ribadisco il giudizio, ma trovo nella scrittura anche qualcosa in più. Fors’anche perché, leggendo, si ha tempo per seguire rimandi e suggerimenti che possono sfuggire nelle trasposizioni cinematografiche.

Pur avendo al fine meritato un giudizio discretamente alto, due elementi me ne hanno mitigato il giudizio. Uno tutto italiano, colpevoli gli editori di utilizzare titoli diversi dagli originali. Ora, se pur vero che la signora Tokue è una raffinata cuoca, in realtà non si dedica a ricette a tutto campo, ma alla pasticceria (come l’autore) ed in particolare ad una confettura che in giapponese si chiama “An” che è una tipica marmellata preparata con gli azuki, una sorta di fagioli dolci. Questa marmellata è utilizzata in molte confezioni dolciarie, ma in particolare nei dolci chiamati “dorayaki”, una sorta di doppio pancake farcito appunto con l’An. Ed è precisamente “An” che si intitola il testo originale.

Non è un caso che Durian ha così chiamato il suo libro, che è tutto incentrato su un negozio di dorayaki in periferia di Tokyo, affacciato su un parco pieno di ciliegi, e gestito da Sentaro. Lui è un ex-detenuto, che vorrebbe diventare scrittore, ma che, contratto un forte debito, per ripagarlo si improvvisa pasticcere, cercando di affogare nell’alcool la sua tristezza. È una bottega che ha un suo piccolo seguito, in particolare tra le alunne di una vicina scuola. Tra queste, molto affezionata è la piccola Wakana.

La svolta del libro comincia con l’arrivo della signora Tokue, che, pian piano ed attraverso diverse prove culinarie, riesce a convincere Sentaro della bontà dell’An da lei preparato. Comincia così un rapporto di scambio tra i tre. Tokue lavora nell’ombra alla preparazione dei dolci, diventando confidente dei problemi familiari di Wakana, ma anche spingendo Sentaro a guardare dentro di sé, a riflettere.

Tuttavia, tutti si accorgono che Tokue ha dei problemi, e quando si scopre che ha avuto il morbo di Hansen, la gente abbandona il locale di Sentaro. Tanto che lui sarà costretto a licenziarla, ma il rapporto che hanno costruito sopravvive. Sentaro e Wakana continueranno a frequentarla, nel breve tempo che le rimane. Riuscendo a comunicarci, nel breve volgere di pochi incontri, tutta una serie di sensazioni, di spinte verso una vita diversa, più sentita, che sarà il messaggio finale che Durian cercherà, in parte riuscendoci, a comunicarci.

L’altro elemento mitigante è dovuto invece alla scarsa presa che la delicatezza giapponese comunica nel modo di stare al mondo, di rapportarsi agli altri. Una delicatezza buona, ma spesso troppo leggera per affrontare tutto.

Comunque il libro, in questo modo delicato, ci presenta una storia di solitudini, che attraverso l’amicizia si incontrano per superare gli isolamenti, voluti o forzati. Sotto la spinta delle parole di Tokue, i protagonisti vanno alla ricerca del proprio sé, nell’intento di scoprire cosa possa renderli felici e soddisfatti della loro vita. Un inno alla lotta contro l’indifferenza e il pregiudizio.

E rimanendo all’interno del mondo giapponese, ci si domanda quale sia il ruolo degli anziani nella società moderna, il peso della memoria. Non ultima, poi, la discriminazione. Qui resa palese dalla segregazione verso i lebbrosi, pur se guariti, ma che è presente in molti aspetti della vita giapponese, come quella terribile degli “hibakusha”, i sopravvissuti alla bomba che sono stati per decenni emarginati per paura di una diffusione delle radiazioni nei loro codici genetici.

Un libro bello e delicato, filosoficamente corretto, solo troppo poco “cattivo”. Anche se il perdono è uno dei più grandi doni che si possano avere.

“Sono sicura che tutti, … prima o poi si chiedano se la loro vita abbia un senso. E la risposta è che… la vita ha un senso, oggi lo so per certo.” (164)

Roberto Bolaño “Puttane assassine” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 11,40 euro)

[A: 28/08/2024 – I: 28/09/2024 – T: 30/09/2024] - &&&     

[tit. or.: Putas asesinas; ling. or.: spagnolo; pagine: 230; anno 2001]

C’è sempre un po’ di ambiguità nel mio personale rapporto con l’autore. Che nasce circa una settimana prima di me, e muore di cancro a 50 anni. Ho amato molti dei suoi libri, ma altrettanto spesso non ne ho digerito alcuni (in tutto o in parte). Come in questa raccolta di racconti, alcuni mirabili, altri forse inutili, pur se tutti sorretti dalla sua splendida capacità di scrivere e con la sua penna capace di portarci altrove.

In generale, in un mondo di uomini (o donne) solitari, a volte in viaggio, spesso esuli, ma sempre senza un reale rapporto con gli altri, con il mondo. O forse con un rapporto conflittuale, come se loro, e l’autore, sapessero che di altro è fatta la vita.

Sono sempre spezzoni, brandelli di vita, fotografie di momenti. A volte anche di momenti personali, laddove vediamo che il centro del racconto coincide, pur in maniera eccentrica, con lo scrittore (eccentrica nel senso proprio del termine, cioè fuori dal centro).

Dicevo della solitudine, come in Gomez Palaciodove uno stralunato professore si trova inspiegabilmente ad insegnare letteratura creativa nella sperduta cittadina del titolo, posta nel nulla a 1000 chilometri a nord di Città del Messico. Ed anche nel “Dentista”, storia di un rapporto di solitudine tra un dentista ed un indio. Od a maggior ragione, seguendo i numeri di uno scritto che elenca momenti di pensiero come in una danza in “Carnet di ballo”.

Una solitudine che si accentua quando vi si aggiunge la condizione di esule, come l’autore fu per tutta la vita (emigra dal Cile a quindici anni e non vi torna più). Bolaño, come alcuni suoi personaggi, si stabilisce per molto tempo in Messico. Ma anche, e lungamente, in Europa, tra Spagna e Francia. Esule che non vuole tornare i patria, e che, in realtà, non ama gli esuli che incontra.

Così vediamo il protagonista compulsare una rivista e gli autori che incontra nello scritto in Vagabondo in Francia e in Belgioma soprattutto nei Giorni del 1978, dove narra il suo  forte dissidio con un esule supponente (e forse anche un po’ fuori di testa). In parte, c’è il sentimento di esilio e solitudine anche ne “L’Ojo Silva”, sentimento che si mescola alla descrizione di una strana avventura orientale del protagonista. Un episodio surreale che fa da sfondo anche a molti dei testi.

L’incontro, da vivo, con un morto in “Incontro con Enrique Lihn” o il suo contrario, la narrazione vista dalla parte del morto che incontra uno stilista necroforo in “Il ritorno”. Fino ai riti voodoo che innervano il racconto “Buba”, ma solo per fare una critica purtroppo non tanto efficace al mondo calcistico ed alle sue depravazioni.

Solitudine, esilio, ma anche elementi che attengono al suo privato, quasi un’autobiografia immaginaria ed immaginata. Come nel bellissimo “Ultimi crepuscoli sulla terra”, con il delicato racconto del rapporto con il padre (oltre ai giorni ed al vagabondo che ho già citato). Un momento personale che serve anche da aggancio alle sue opere, con l’uso trasversale dei personaggi.

Vediamo così il suo alter ego Arturo Belano, protagonista de “I detective selvaggi”, narrare in “Fotografie” di un’antologia poetica mentre percorre strade africane desolate e devastate da guerre. O il Lalo Cura, presente nell’ultima parte del suo ultimo testo (“2666”) e qui voce narrante in “Prefigurazione di Lalo Cura”, piccolo delirio di un figlio di una diva del porno e descrizione in soggettiva delle sue personali vendette. Non dimentichiamoci che il nome, letto in spagnolo e diversamente periodato, ci porta a “la locura”, cioè la pazzia.

Non resta allora che citare il racconto del titolo, tutto in forma di dialogo, dove una donna si vendica con un uomo scelto a caso tra i tifosi allo studio, torturandolo ed uccidendolo (probabilmente). L’unica colpa della vittima è di essere un maschio, epitome del dolore subito dalla donna, che vuole vendicarsi su di un uomo qualsiasi per tutti i soprusi subiti.

Facendone una summa, così, vediamo spalmati nei tredici testi i temi sempre ricorrenti nell’autore: il male, la violenza, il sesso, l’esilio e sempre e comunque la letteratura. Con la sua capacità magistrale di raccontare senza spiegare, facendoci comunque vedere la padronanza che ha del mezzo. Ci sono molti modi di raccontare storie, e Bolaño li usa, li manipola, li avvolge nel suo personale filo rosso della sua breve ed intensa vita. Che questo è l’ultimo testo pubblicato prima di morire, dato che il romanzo che stava finendo, “2666”, uscirà postumo.

Sarebbe bello e stimolante percorrere con lui queste fughe letterarie del Vagabondo e di Fotografie, piene di nomi quasi sempre reali, ma spesso inventati. O reali con una biografia inventata. Come Claude de Burine, poetessa francese, di cui inventa un fermo letterario alla fine degli anni Sessanta (finzione), mentre lei continuò a scrivere sino alla morte, nel 2005 all’età di 74 anni. O quella dell’artista e danzatore Dominique Tron, che ancora opera più che settantenne nelle isole australi dove si rifugiato.

Questo, oltre ai temi sopra elencati, per me è Bolaño: un affabulatore che ci ha portato nei suoi mondi, dove non importa cosa sia vero o cosa sia falso, ma solo cosa stiamo vedendo (e vivendo). Perché non è un caso l’epigrafe che lui mette al testo: “L'accusa si scioglierà in risate e tu te ne andrai libero da ogni peso”. È tratta dal secondo libro delle Satire di Orazio, dove volutamente, credo, l’autore ci porta alla conclusione, che suppone noi si sappia, che Orazio parla di chi, scrivendo bene, attacca gente spregevole. Sarà accusato, ma vincerà.

Ed io so che anche la sua scrittura vincerà.

In una settimana di giapponesi, cileni ed italiani, pur con racconti ambientati ai limiti dei confini nazionali, mi piace citare un grande accademico francese, Erik Orsenna, di cui ho letto molti libri divulgativi sull’uso della lingua francese. Qui, invece, prendo un testo più letterario, “Deux étés”, dove mirabilmente ci fa vedere sia il ruolo del traduttore (su cui concordo) sia i possibili lacci matrimoniali (su cui aprirei una discussione). Per evitare a voi ed a me altre fatiche, vi propongo i testi come da me tradotti.

- I traduttori sono pirati ... [-??] - Qual è il lavoro del pirata? Quando una nave straniera gli piace, la assalta. Getta l'equipaggio in mare e lo sostituisce con i suoi amici. Poi innalza i suoi personali colori al vertice del più alto pennone. Così il traduttore. Cattura un libro, cambia tutto il linguaggio e lo battezza francese. Hai mai pensato che i libri siano battelli e le parole i loro equipaggio?” (26)

“Anche i matrimoni sono delle isole. C’è bisogno di una nave per allontanarsene” (87)

Quindi, da buon pirata, mi avvio ad una settimana in trasferta, dove non sappiamo ancora se riuscirò per tempo a darvi la mia trama settimanale. Ma avrete mie notizie, comunque, dalle rive del Lago di Garda, dove penso di mancare da almeno cinquant’anni. Vi farò sapere come l’ho trovato. Per ora vi lascio con tanti abbracci.

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