Alicia Gimenez-Bartlett “La donna che
fugge” Sellerio s.p. (regalo di Benedetta e Giulio)
[A:
07/05/2024 – I: 26/05/2024 – T: 28/05/2024] - &&&
e ½
[tit.
or.: La mujer fugitiva; ling. or.: spagnolo; pagine: 430;
anno 2024]
Intanto l’impianto è quello classico: un
morto, un’indagine ed un alternarsi tra pubblico e privato di Petra e del fido
Firmin. Anche se il secondo ha meno margini, sia pubblici che privati. Il morto
ci introduce in un mondo alternativo che si vede affascina la nostra
scrittrice. Siamo nel mondo dello street food, ed in particolare di quei camion
attrezzati che vanno in giro per fiere e paesi, cucinando e proponendo cibi di
interesse.
In particolare il morto è il cuoco di uno di
questi camion, specializzato in cucina francese, che gestiva insieme all’amico
Bob. Cuoco francese, anche, affascinante e “tombeur de femme”, ucciso nel
camion con pugnalate al cuore. Sembra un delitto inspiegabile, per Bob, per il
camion vegetariano che girava insieme a loro, gestito da Javier ed Elisenda,
per Pepa, la maga dei formaggi, e per tutti i “saltimbanchi del cibo”, come
malamente li apostrofa Firmin.
Ma, seppur con una lentezza infinta, a poco a
poco escono fuori problemi inaspettati. Compare e scompare una misteriosa
donna, anche lei francese, vista spesso, anche se con lunghi intervalli,
insieme al cuoco. Ma soprattutto si scopre che sia il cuoco che la donna non
sono quello che dicono, hanno passaporti falsi, hanno storie da scoprire alle
spalle, e non sono certo storie edificanti. Fatto sta che, una volta capito il
movimento generale, il lettore smaliziato indirizza i propri sospetti verso il
giusto bersaglio, aspettando solo che Alicia porti i nostri investigatori alle
stesse conclusioni. Anche perché loro hanno bisogno di prove, noi ci figuriamo
la scena e basta.
Tuttavia non la trama gialla il meglio del
libro, che invece ci si rivela nei due aspetti descrittivi e programmatici che
innervano il testo. Da un lato, la vita dei “saltimbanchi” come citati sopra,
dall’altro le vicende familiari e personali di Firmin, di Petra e di Alicia
stessa.
Per i primi, osservati con occhio amorevole
da Alicia, c’è il perdente fisso, Bob, quello a cui non va mai bene niente. Si
innamora, ma mai è ricambiato. Rubacchia, ed è l’unico ad andare in carcere.
Finalmente riesce a trovare un binario per la sua vita, con il cibo da strada
insieme al cuoco francese, per poi scoprire che il cuoco è un piccolo
trafficante di droga, che acchiappa tutte le donne che incontra, che per uno
dei due motivi suddetti viene ucciso, e che, infine, qualcuno, per motivi
chiari solo alla fine, gli ruba e brucia il camion, unico sostentamento
rimastogli. Povero Bob!
Poi c’è Javier, chimico fallito per mancanza
di posti di lavoro, che si illude di essere felice con il suo cibo vegetariano,
ma sogna sempre una rivincita. Che invece la sua compagna Elisenda sa non
poterci essere e lei sì, si accontenta di quello che ha, con un potente bagno
di realtà.
Sono questi personaggi che vivono una vita un
po’ fuori dagli schemi quelli che piacciono ad Alicia, e che lei descrive con
il trasporto di chi ne conosce fortune e sfortune.
Poi, abbiamo i problemi di vita dei nostri
eroi, sempre in bilico fra presenze casalinghe ed assenze di lavoro. Quanto è
giusto condividere una vita così sbilanciata? Se lo chiede Firmin, che risolve
tutto con un po’ di greve ironia, e con qualche birra (anche se Beatriz
incalza). Non lo risolve Petra, che sente il suo mondo in pericolo dalla sua
non presenza quando affronta un caso di forte coinvolgimento (e questo lo è). I
figli di Marcos sono in grado di aiutarla? E Marcos stesso (innamorato da quando
è entrato in scena) vive serenamente una vita che la stessa Petra non riesce a
vivere? Nel capitolo finale, c’è una bella disamina che Petra fa della
situazione, ed è forse il miglior capitolo di tutto il libro.
E per finire c’è Alicia stessa, che, quindici
giorni fa (rispetto al tempo di lettura) in un’intervista a Torino, apre uno
spiraglio sulla sua vita privata, confessando che la scrittura di questo libro
le è servita anche per elaborare il lutto per la perdita dell’amato compagno,
morto in sei mesi di cancro. Un’elaborazione che, a posteriori, spiega cose che
sembravano strane.
Non riuscirò a staccarmi da Alicia e da
Petra, che spero altri capitoli escano. Anche se le premesse non sono per nulla
positive.
“A
me quello che fa saltare i nervi è la gente stupida, che non mette un po’ di
testa nelle cose, quella che non sa nemmeno in che mondo vive.” (401)
Guillaume Musso “Qualcun altro” La Nave di
Teseo euro 20 (in realtà, scontato a 18 euro)
[A:
12/06/2024 – I: 13/06/2024 – T: 16/06/2024] - &&&&
[tit.
or.: Quelqu’un d’autre; ling. or.: francese; pagine: 309;
anno 2024]
Pur non tornando ai livelli delle sue opere
migliori, è sempre piacevole e distensivo leggere un romanzo di Guillaume Musso, non a caso lo scrittore francese con il
più alto numero di copie vendute nell’ultimo decennio.
Anche
questo ultimo romanzo non si smentisce, ben fatto, senza troppe sbavature,
anche se, per i miei tassi di gradimento di Musso, con qualcosa che manca per
raggiungere l’Olimpo della mia bibliografia personale. Forse manca realmente un
personaggio cui affezionarsi sino in fondo, che i due principali elementi della
storia, almeno i due che tengono la pagina per più tempo, in un modo o
nell’altro, hanno delle piccole carenze.
Sia
Adrien che Justine sono ben costruiti, hanno un loro giusto spazio lungo tutto
il corso delle trecento pagine, ma non fanno mai scattare quel momento positivo
in più che altri eroi o eroine di Musso facevano nascere in altri suoi libri.
Il
secondo elemento che rende meno agevole la lettura globale, pur se ovviamente
voluto, è il su e giù temporale che ormai è una costante degli autori moderni.
Non si riesce a leggere un libro degli ultimi anni in cui i flashback non siano
un elemento costruttivo forte. In più, qui abbiamo la difficoltà che questi
salti avvengono nel corso di soli due anni, dal 2022 al 2024 (e si, il romanzo
è di ambiente super attuale), per cui ci si perde un po’. Come si perde il
fatto che, benché ambientato nell’oggi, si sia già stata abbandonata ogni
traccia della pandemia.
C’è
un terzo personaggio, almeno, e forse un quarto che riempiono le pagine. Oriana
la ricca ereditiera che viene uccisa nelle prime pagine del libro e Adèle, la
donna misteriosa che appare e scompare lungo tutto il corso del romanzo stesso.
Ma anche di loro non ci si innamora. La prima perché oltre che morta sembra
anche un po’ troppo supponente. La seconda perché sembra sfuggire in ogni
pagina in cui si presenta. Ed a chi fugge se fosse un nemico, ponti d’oro, se
tenta di essere un amico, ci regala solo una dimenticanza dell’esserci vicino.
Ridotto
all’osso abbiamo Oriana cui il suo dottore svizzero annuncia un tumore
irreversibile. Lei pensa al suicidio, poi ad un omicidio autocomandato, poi,
dovendo anche pensare al marito ed ai figli, pensa ad una donna che possa
prendere il suo posto. Alla fine, cioè all’inizio, muore, e noi giriamo per
tutte le più di trecento pagine alla ricerca dell’assassino.
Per
la maggior parte del tempo, in compagnia di Justine, una poliziotta molto acuta
ed affidabile, che qui ha invece i suoi momenti di défaillance: da poco
lasciata dal marito, che va a vivere con una donna più giovane con cui fa un
figlio (un po’ di modernità nei passi di Justine che stalkerizza il marito via
Instagram). Ciò nonostante, ha un fiuto, che la pone sulle calcagna del marito
di Oriana, il bel pianista Adrien.
Seguiamo
così anche Adrien, ne intuiamo le capacità jazzistiche, ne leggiamo della
riuscita di dischi e concerti, nonché della musica dedicata ad Oriana, ma anche
in generale al mondo (e ai due figli). Vediamo poi come, un anno dopo
l’omicidio, venga tutto accelerato dal ritrovamento di un rampino con tracce di
sangue di Oriana nella cantina di Adrien.
Uno
dei momenti alti del romanzo è l’interrogatorio di Adrien gestito da Justine.
Che non porta direttamente a nulla, ma nei cui rivoli nascono gli elementi che
portano luci sulle ombre della vicenda. La musica, gli spostamenti, la
Svizzera, Adèle, Oriana, Adrien, insomma tutti gli attori del dramma, con a
valle una Justine che alla fine capisce come vadano disposti i pezzi del
puzzle. Con la solita capacità di Musso, non solo di mescolare le carte, ma
anche di dirci la sua verità, instillandoci nello stesso tempo l’ombra del
dubbio.
In
fondo, Musso torna sempre lì, all’idea di fondo, alla domanda di base. Chi
siamo noi? Sia per noi stessi che per gli altri. Come ci rapportiamo al mondo.
Cosa sappiamo delle nostre azioni. Tutto bello e ben congeniato, con l’unico
dubbio espresso all’inizio: nessun personaggio si empatizza con il lettore.
Come
al solito, poi, lo stuzzicamento intellettuale di Musso è massimo, laddove, ad
ogni capitolo ci propone una citazione, di scrittori, di saggisti, di registi.
Non solo: nelle note finali, ci dice anche da dove ha tratto le sue frasi. Così
ci scorrono davanti agli occhi: Paul Valery, Jean-Paul Sartre (con una frase
stupenda: “Nel calcio tutto è complicato dalla presenza della squadra
avversaria”), Patricia Highsmith, Proust, Tanizaki, Eluard, Updike, Paul
Auster, Camus, Cioran, Murakami, Kurosawa, Godard, Lacan , Watzlawick,
Alberoni. Con il grande Kundera che ci ammonisce “Poter vivere una vita sola è
come non vivere affatto”.
Élmer Mendoza “Il
cartello del Pacifico” Corriere Noir 13 euro 8,90
[A: 29/11/2022 – I: 13/07/2024 – T: 14/07/2024]
- &&
[tit. or.: La prueba del ácido; ling. or.: spagnolo; pagine: 311;
anno 2010]
Ed è una scrittura molto ristretta
all’ambiente messicano, anche se la droga gira in molte altre parti del
continente (vedi Colombia in prima battuta). D’altra parte, non poteva non
avere come un esponente di spicco il professor Élmer Mendoza, nato e cresciuto
nelle zone del narcotraffico, nonché insegnante di letteratura all’università
di Sinaloa. E noi sappiamo che Sinaloa è la patria di uno dei cartelli della
droga più potenti al mondo, il cartello di Sinaloa, che nell’ambito della
malavita è anche noto come “il cartello del Pacifico”. Motivo che induce gli
italiani ad un titolo anodino, ben lontano da “la prova dell’acido”, come
riportava il titolo originale e su cui tornerò nel finale.
Purtroppo (anche per miei demeriti) forse il
testo non mi ha dato tutte le buone sensazioni che poteva fornire, anche e
soprattutto usufruendo di una traduzione tra le migliori che conosca, ad opera
di un profondo conoscitore della realtà messicana come Pino Cacucci. E questo
perché il romanzo è il secondo episodio di una serie dedicata ad Edgard “el
Zurdo” Mendieta, poliziotto un tempo corrotto, di sicuro dipendente da
ansiolitici, che frequenta uno piscoanalista perché la sua donna lo ha
lasciato, e che tenta di combattere la violenza e la droga da dentro il sistema
di potere dei trafficanti. Inciso, per i non spagnoli, Zurdo significa mancino.
Ma tornando al filo della trama,
nell’episodio precedente (che non ho letto, ma di cui ho trovato tracce tra il
testo ed altre ricerche), tra le tante avventure, conosce la ballerina
brasiliana Mayra Cabral de Melo, passando con lei almeno una notte di passione.
Certo, è un grosso colpo quando, chiamato ad un indagine relativa ad un
omicidio, scopre che la morta è proprio Mayra. Cui si aggiunge, nel giro di una
notte, anche Yolanda, coinquilina di Mayra. Coincidenza o conseguenza?
Mendieta non può che indagare nell’ambito
del malaffare e dei locali frequentati da Mayra e Jolanda, restringendo, forse,
l’ambito dei sospettati ai più assidui frequentatori di Mayra: il narco in
ascesa ma poco gestibile Richie Bernal, un politico in carriera Luis Ángel
Meraz, uno strano spagnolo che si cela dietro il molto palese pseudonimo di Miguel
de Cervantes e Adan Carrasco, un faccendiere dai molti contatti.
Dato questo contesto, bisogna dire che
Mendoza si muove bene tra le pagine. Innanzi tutto perché, essendo del luogo,
riesce a farci entrare nei modi della vita locale, descrivendoci i vari teatri
delle vicende con mano ferma quasi da fotografo. Ed in secondo luogo, per lo
stesso motivo, rende reali e partecipati i dialoghi, che sono poi il nervo del
romanzo. Sempre ben organizzati, precisi nel dire e nel far vedere. Così come
precisi nell’agire sono i personaggi, laddove la precisione porta ad un numero
impressionante di morti, diverse e per diversi motivi.
El Zurdo, guidato da Mendoza, si muove
benissimo in questo mondo corrotto, dove, per non farci mancare nulla, irrompe
l’antidroga americana, la DEA, si fanno largo contrabbandieri che riforniscono
d'armi i narcos e l'esercito messicano, nonché cartelli della droga che, dopo
la morte del loro capo indiscusso, si contendono il Paese. Alla fine ne esce
fuori una trama che non ha nulla da invidiare alle tanto celebrate trame dei
serial di Netflix.
L’idea forte di Mendoza, anche se non sempre
riuscita alla perfezione, è di prendere spunto dalle cronache di droga e
traffici vari, per denunciare il modo in cui il Messico si è trasformato nel
tempo. Ricordo solo che, dal 2006 ad oggi, circa 60mila persone sono state
assassinate nella guerra tra Cartelli del narcotraffico.
Dicevo sopra della prova dell’acido del
titolo originario, che è un modo di riconoscere la purezza dell’oro, facendo
interagire l’oggetto di cui vogliamo conoscere la purezza con l’acido nitrico,
un potente acido corrosivo. Qui, immagino l’idea di Mendoza sia quella di far
interagire tutta una serie di cattive componenti (polizia corrotta, trafficanti
di droga, sfruttatori di donne) in modo da vedere se, all’interno di questo
mondo corrotto, ci sia spazio per un poco di oro, per un poco di purezza. El Zurdo
non sarà puro, ma ben reagisce all’acido nitrico. Non so se sia stata l’idea
dell’autore, ma è la mia interpretazione del titolo, e, per me, calza
abbastanza bene alla costruzione del romanzo.
“C’è qualcosa di meglio di un fratello? Non
diciamo cazzate, è ovvio che no.” (270)
Samir Machado de Machado “Il crimine del
buon nazista” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 13,30 euro)
[A: 01/08/2024
– I: 06/08/2024 – T: 07/08/2024] - &&&&
[tit.
or.: O crime do bom nazista; ling. or.: portoghese; pagine: 187;
anno 2023]
Non sono un grande conoscitore della
letteratura di lingua portoghese in generale, ed ancor meno di quella
brasiliana (a parte i caposaldi con Jorge Amado in testa). Per cui solo
seguendo qualche buon consiglio librario mi sono avvicinato a questo inusuale
giallo brasiliano, ambientato negli anni ’30 con personaggi tedeschi che
capitano, per sbaglio o per scelta, in territorio brasiliano.
Seppur con l’aria di un pastiche
semistorico, Samir imbastisce una storia intrigante, quasi da giallo classico,
avendo ben presente le scritture alla Agatha Christie. Ma la fa con la sua
sensibilità moderna, enfatizzando un lato che (nelle critiche dotte) è sempre
presente nelle scritture del brasiliano. Una forte attenzione alla critica
sociale, valida ai tempi del romanzo, ma valida, e forse ancor di più, ai tempi
nostri.
La parte intrigante del giallo è il suo
svolgimento tutto su di un mezzo in movimento. Così come era per il
capostipite, “Assassinio sull’Oriente Express”, tutto su di un treno, o per uno
dei suoi maggiori epigoni, “Notte sull’acqua” di Ken Follett, tutto su di un
idrovolante. Qui l’azione si svolge tutta su un dirigibile, esistito realmente,
l’LZ 127 Graf Zeppelin. Un dirigibile che visse dieci anni, dal ’28 al ’37, e
che, dopo alcune performance significative, come il giro del mondo, nei primi
anni Trenta fu impiegato come mezzo di linea per i collegamenti tra la Germania
ed il Brasile. Una traversata che durava in media sui quattro giorni.
Il secondo elemento storico è la presenza
del comandante del dirigibile il capitano Hugo Eckener, successore di von
Zeppelin alla guida della società. Da cui fu rimosso dalle leve del comando per
le sue manifeste simpatie antinaziste. Qui, sebbene con un cammeo, entra nella
storia, ribadendo, in poche battute, le sue ferme posizioni.
Altro elemento da giallo classico è lo
sviluppo stesso della storia. Omicidio in un mezzo in movimento, quindi con una
platea di possibili assassini delimitata e senza possibilità di fuga. Inoltre,
c’è un uso intensivo degli interrogatori, una sessione (quasi) da finale con
tutti gli attori del dramma presenti e con una descrizione plausibile e
credibile della successione delle azioni di ognuno. Per poi finire con “il”
finale che spariglia le carte e le riaccomoda in una nuova e convincente
successioni. Un finale che, oltre ad alcuni meriti sparsi qua e là, è uno dei
punti migliori della scrittura di Samir.
Ma a parte le corrette e complete
descrizioni del dirigibile, del suo funzionamento e della tipologia di vita a
bordo (molto simile ad una crociera di lusso, però in quota) abbiamo i vari
personaggi che compongono l’amalgama del crimine.
A bordo troviamo un medico eugenista,
nazista convinto e propugnatori delle più bieche tesi ariane, una baronessa
alcolizzata nemica dei “negri” ma che ascolta jazz, un misterioso commerciante
tedesco, un rampollo inglese di buona e ricchissima famiglia, ed un commissario
della Kriminalpolizei di Berlino. Tutti con buone ma a volte celate ragioni di
allontanarsi dalla Germania. Per congressi, per dimenticare un nipote forse
gay, per allontanarsi dalla famiglia, per fare affari in un mercato in
espansione, per un periodo misterioso di ferie.
Quando il commerciante viene trovato morto
avvelenato dal cianuro, il capitano non può che chiedere al commissario di
venire a capo del mistero, nei quasi due giorni che separano il dirigibile
dall’arrivo a Rio de Janeiro. Ed il commissario si impegna, interroga, scopre
altarini nascosti, coinvolge i sospettati in una ridda di possibili soluzioni.
Arrivando a spiegare tutto e coinvolgendo tutti nella sua soluzione.
Arrivati a Rio, Samir ci spiegherà
finalmente come sono andati i fatti e chi ha fatto cosa. Un capitolo finale
costruito con cura e bello da leggere.
Samir, attraverso i suoi personaggi, affonda
il coltello nelle aberrazioni del nazismo non solo verso gli ebrei, ma anche
verso gli omosessuali. E ben sappiamo che nei campi di sterminio furono
trucidati molti gay (i numeri parlano di circa 50.000 perseguitati
“ufficialmente”). Unendo quindi, come detto sopra e come riconosciuto allo
scrittore, la critica sociale ad un racconto discretamente avvincente. Sarebbe
già stato di buon livello, ma l’idea del racconto ed il modo di portarlo avanti
nel romanzo meritano senz’altro una buona dose di riconoscimento. Da leggere.
“[aveva]
reso finalmente … un buon nazista nell’unico modo in cui un nazista può essere
buono: da morto.” (185)
Gwen
Florio “Le ragazze del Dakota” Corriere Oggi 34 euro 8,90
[A: 28/08/2023–
I: 28/08/2024 – T: 30/08/2024] - &&
[tit.
or.: Dakota; ling. or.: inglese; pagine: 303; anno 1988 o 2014]
Per
chi cerca notizie e precisioni su libri ed autori, soprattutto a fine lettura
quando si tratta di farsi un quadro più generale e distante di quanto letto,
questo libro rimane un mistero. Che la manchette del libro edito da RCS come
allegato per la rivista “Oggi”, riporta il copyright al 1988 ed il libro come
il primo della scrittrice. Invece, andando sul sito della scrittrice questo
risulta il secondo della serie dedicata alla giornalista Lola Wicks, pubblicato
invece nel 2014. Tra l’altro, il primo libro di Lola si intitola “Montana” ed
ha un suo senso.
Perché
il teatro delle vicende che girano intorno alla protagonista, Lola Wicks, si
trova proprio lì, nel grande nord americano. Lola era stata una giornalista
corrispondente di guerra in Afghanistan ed altri posti mediorientali (in questo
riproduce in piccolo quanto la stessa Gwen ha fatto nel suo percorso
giornalistico). Finite le guerre, torna al giornale per cui lavora, a
Baltimora. Ma le sue posizioni sulla guerra non hanno l’appoggio che sperava, e
Lola viene emarginata. Così che decide di dimettersi ed accettare il posto in
un piccolo giornale nel Montana, nella cittadina di Magpie. Dove conosce, si
innamora e va a vivere insieme allo sceriffo del posto, Charlie Laurendeau.
Charlie è un nativo, discendente cioè dei nativi americani, che vengono
individuati come “Piedi Neri”, anche se è un termine che ingloba una più grande
massa di nativi, la maggior parte dei quali si trova in Alberta, nel Canada.
Inciso,
il termine con cui vengono identificati deriva dalla particolarità che, per
motivi di protezione dal freddo, i nativi usavano mocassini molto resistenti di
color nero.
Tutta
questa parte l’ho desunta da cenni che compaiono in questo secondo volume e da
alcune menzioni che l’autrice dedica ai suoi libri all’interno del suo sito
internet. Purtroppo, ed è un po’ strano, non esistono invece sue entrate in
Wikipedia.
In
questo secondo libro, Lola, sempre di base nel Montana, si trova ad
interessarsi ad alcune vicende che avvengono non molto distanti da lì, nel
North Dakota. Altro inciso, ancora un volta per tirare l’orecchio ai traduttori
e editor italiani. Il titolo originale è solo “Dakota”, e non si capisce il
motivo di aggiungervi quel cenno alle ragazze. Certo, ci sono delle ragazze al
centro della vicenda, ma comunque sono native del Montana (e sono native
americane), dato che nel Dakota non c’è una riserva indiana dei Piedi Neri, ma
dei Sioux (motivo per cui in alcuni lanci pubblicitari, per sveltire, si parla
di questi e non di quelli).
Il
via alla vicenda viene dal ritrovamento del corpo di una nativa, Judith,
allontanatasi da mesi dal villaggio di Magpie, senza lasciare indicazioni, ed
appunto ritrovata morta non distante. Sembra di freddo, ma la polizia non è
convinta. Né lo è Lola, che comincia un’indagine, abbastanza sotterranea, per
capire cosa sia successo. Anche perché Judith non è la prima ragazza scomparsa.
E di nascosta, che ufficialmente Lola non si deve occupare di nera, dato che
solleverebbe un conflitto di interessi con il suo compagno.
Ma
Lola è caparbia, parla, dice, sente, si intrufola. E scopre che c’è un grande
flusso di persone tra il Montana e la zona di Burnt Creek, dove da poco sono
stati scoperti giacimenti petroliferi. In quella zona sorgono quindi quelle che
vengono chiamate “boomtown”, cittadine cioè che per motivi economici subiscono
una rapida espansione. Che porta con sé diversi problemi, soprattutto se legata
ai giacimenti, dove ci sono solo uomini. È facile capire che presto (“l’uomo
non è di legno”), sorgono bar, locali di spogliarello e donne compiacenti.
Un’industria
che però non basta, così che qualcuno pensa bene di alimentarla forzatamente,
magari attraverso rapimenti o altre maniere coercitive. Lola capisce i
meccanismi, entrando in rotta di collisione con tutti: il giornale, che vuole
se ne occupi una diversa giornalista, Charlie che la vede in pericolo e pensa
non vi sia motivo che Lola interferisca con il suo lavoro, e finalmente i
cattivi della storia, che cercheranno i tutti i modi, anche violenti, di
fermare il lavoro della nostra eroina.
Non
ci riusciranno, anche perché in suo aiuto, le donne native americane insorgono
mute e silenti, quasi in una protesta gandhiana, che tuttavia raggiunge il suo
scopo. Non sappiamo, forse ci interessa poco, sapere se i colpevoli ultimi
avranno, ed in che modo, la giusta punizione (potete leggerlo per scoprirlo),
ma sappiamo che la fine della vicenda porterà Lola ad una nuova consapevolezza
del territorio e del suo rapporto con Charlie, anche perché, alla fine,
scopriamo anche che Lola è incinta.
Comunque,
il libro nel complesso è un po’ fiacco, ogni tanto si perde. Di certo è
meritevole per sollevare la questione dei nativi americani, che tutti, laggiù
oltreoceano, sembrano dimenticare o voler dimenticare a forza. Mentre sappiamo
che nelle riserve, una donna su tre viene stuprata ed i nativi vengono ancora
visti come il nemico. Per questo, Gwen fa un buon lavoro, anche se, ad esempio,
nessun altro suo libro di questa serie è ancora giunto in Italia, e dei suoi
numerosi altri libri, solo un altro è stato tradotto.
Ma
non posso non sottolineare che, nelle more della vicenda non tanto brillante,
si narrano riti e costumi dei Piedi Neri, ed in particolare il ruolo
fondamentale della famiglia nelle loro tradizioni. Una piccola parte da leggere
e magari approfondire.
Visto
che è una settimana di trame nere, mi sento in vena di citarne due. La prima,
della mia amata Fred Vargas che in uno dei tanti episodi del commissario
Adamsberg, di quelli letti in originale, (e precisamente in “Un lieu incertain”) affermava: “Ogni cosa molto bella o
molto brutta lascia un frammento di sé negli occhi di chi la guarda. … - E
dopo, che se ne fa? – La si riordina … in una grande scatola chiamata memoria.
– E la possiamo gettar via? – No, è impossibile. La memoria non è spazzatura.”
(46)
E mi preme che vi soffermiate sul finale.
Saltiamo oltre oceano. Verso un autore leggibile ma
niente di più, David Baldacci, che ne “I collezionisti”,
sottolinea un aspetto anche sa meditare: “Forse faceva davvero
collezione di qualcosa, forse collezionava occasioni perdute.” (205)
Speravo di potervi accogliere con notizie di nuovi viaggi, ma per il momento tutto tace. Forse anche io taccio, magari sapendone il perché e sottolineando a tutti di ricordarsi di “Sally” di Vasco Rossi (che penso continuerò a citare a lungo). Quindi soltanto gli usuali abbracci.
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