domenica 10 novembre 2024

Ritorno ai vecchi mondi - 10 novembre 2024

Dopo una puntata dedicata all’Asia ed agli scritti di Murakami, oggi (e credo per altre trame ancora) si torna alla mia letteratura di riferimento, gialla, nera, thriller e altro. Menzioniamo, per dover di cronaca, le collane del Corriere, con due scritti che non si sollevano da un’aurea mediocrità. Ma dedichiamo attenzione all’ultimo di Gimenez-Bartlett, buono seppur non eccelso e all’ultimo di Guillaume Musso, a me sempre gradito, che ritorna ai suoi abituali standard di scrittura. Tuttavia ci soffermiamo perché è necessario tributare un plauso al brasiliano Samir Machado de Machado che ci fornisce un giallo di ottima fattura, nonché di spirito, a me assai gradito.

Alicia Gimenez-Bartlett “La donna che fugge” Sellerio s.p. (regalo di Benedetta e Giulio)

[A: 07/05/2024 – I: 26/05/2024 – T: 28/05/2024] - &&& e ½    

[tit. or.: La mujer fugitiva; ling. or.: spagnolo; pagine: 430; anno 2024]

Altro gradito regalo compleannico, che mi consente di riprendere in mano gli scritti di Alicia ed in particolare le vicende di Petra Delicado (e del suo mondo). In realtà pensavo che, dopo l’autobiografia di Petra, uscita ormai quattro anni fa, Alicia avesse poca intenzione di riprendere in mano il suo personaggio simbolo. Ed in realtà, seppur sempre gradevole, il romanzo stenta a decollare, e quando lo fa non vola molto alto. Tanto che, nella parte “noir” in senso stretto si stava avviando verso una stentata sufficienza. C’è voluto un colpo di coda dedicato alle vicende private per elevare verso punte più consone alla scrittrice il testo nel suo complesso.

Intanto l’impianto è quello classico: un morto, un’indagine ed un alternarsi tra pubblico e privato di Petra e del fido Firmin. Anche se il secondo ha meno margini, sia pubblici che privati. Il morto ci introduce in un mondo alternativo che si vede affascina la nostra scrittrice. Siamo nel mondo dello street food, ed in particolare di quei camion attrezzati che vanno in giro per fiere e paesi, cucinando e proponendo cibi di interesse.

In particolare il morto è il cuoco di uno di questi camion, specializzato in cucina francese, che gestiva insieme all’amico Bob. Cuoco francese, anche, affascinante e “tombeur de femme”, ucciso nel camion con pugnalate al cuore. Sembra un delitto inspiegabile, per Bob, per il camion vegetariano che girava insieme a loro, gestito da Javier ed Elisenda, per Pepa, la maga dei formaggi, e per tutti i “saltimbanchi del cibo”, come malamente li apostrofa Firmin.

Ma, seppur con una lentezza infinta, a poco a poco escono fuori problemi inaspettati. Compare e scompare una misteriosa donna, anche lei francese, vista spesso, anche se con lunghi intervalli, insieme al cuoco. Ma soprattutto si scopre che sia il cuoco che la donna non sono quello che dicono, hanno passaporti falsi, hanno storie da scoprire alle spalle, e non sono certo storie edificanti. Fatto sta che, una volta capito il movimento generale, il lettore smaliziato indirizza i propri sospetti verso il giusto bersaglio, aspettando solo che Alicia porti i nostri investigatori alle stesse conclusioni. Anche perché loro hanno bisogno di prove, noi ci figuriamo la scena e basta.

Tuttavia non la trama gialla il meglio del libro, che invece ci si rivela nei due aspetti descrittivi e programmatici che innervano il testo. Da un lato, la vita dei “saltimbanchi” come citati sopra, dall’altro le vicende familiari e personali di Firmin, di Petra e di Alicia stessa.

Per i primi, osservati con occhio amorevole da Alicia, c’è il perdente fisso, Bob, quello a cui non va mai bene niente. Si innamora, ma mai è ricambiato. Rubacchia, ed è l’unico ad andare in carcere. Finalmente riesce a trovare un binario per la sua vita, con il cibo da strada insieme al cuoco francese, per poi scoprire che il cuoco è un piccolo trafficante di droga, che acchiappa tutte le donne che incontra, che per uno dei due motivi suddetti viene ucciso, e che, infine, qualcuno, per motivi chiari solo alla fine, gli ruba e brucia il camion, unico sostentamento rimastogli. Povero Bob!

Poi c’è Javier, chimico fallito per mancanza di posti di lavoro, che si illude di essere felice con il suo cibo vegetariano, ma sogna sempre una rivincita. Che invece la sua compagna Elisenda sa non poterci essere e lei sì, si accontenta di quello che ha, con un potente bagno di realtà.

Sono questi personaggi che vivono una vita un po’ fuori dagli schemi quelli che piacciono ad Alicia, e che lei descrive con il trasporto di chi ne conosce fortune e sfortune.

Poi, abbiamo i problemi di vita dei nostri eroi, sempre in bilico fra presenze casalinghe ed assenze di lavoro. Quanto è giusto condividere una vita così sbilanciata? Se lo chiede Firmin, che risolve tutto con un po’ di greve ironia, e con qualche birra (anche se Beatriz incalza). Non lo risolve Petra, che sente il suo mondo in pericolo dalla sua non presenza quando affronta un caso di forte coinvolgimento (e questo lo è). I figli di Marcos sono in grado di aiutarla? E Marcos stesso (innamorato da quando è entrato in scena) vive serenamente una vita che la stessa Petra non riesce a vivere? Nel capitolo finale, c’è una bella disamina che Petra fa della situazione, ed è forse il miglior capitolo di tutto il libro.

E per finire c’è Alicia stessa, che, quindici giorni fa (rispetto al tempo di lettura) in un’intervista a Torino, apre uno spiraglio sulla sua vita privata, confessando che la scrittura di questo libro le è servita anche per elaborare il lutto per la perdita dell’amato compagno, morto in sei mesi di cancro. Un’elaborazione che, a posteriori, spiega cose che sembravano strane.

Non riuscirò a staccarmi da Alicia e da Petra, che spero altri capitoli escano. Anche se le premesse non sono per nulla positive.

“La verità e la realtà non sono quasi mai la stessa cosa, e … bisogna imparare ad accontentarsi della realtà.” (253)

“A me quello che fa saltare i nervi è la gente stupida, che non mette un po’ di testa nelle cose, quella che non sa nemmeno in che mondo vive.” (401)

Guillaume Musso “Qualcun altro” La Nave di Teseo euro 20 (in realtà, scontato a 18 euro)

[A: 12/06/2024 – I: 13/06/2024 – T: 16/06/2024] - &&&& 

[tit. or.: Quelqu’un d’autre; ling. or.: francese; pagine: 309; anno 2024]

Pur non tornando ai livelli delle sue opere migliori, è sempre piacevole e distensivo leggere un romanzo di Guillaume Musso, non a caso lo scrittore francese con il più alto numero di copie vendute nell’ultimo decennio.

Anche questo ultimo romanzo non si smentisce, ben fatto, senza troppe sbavature, anche se, per i miei tassi di gradimento di Musso, con qualcosa che manca per raggiungere l’Olimpo della mia bibliografia personale. Forse manca realmente un personaggio cui affezionarsi sino in fondo, che i due principali elementi della storia, almeno i due che tengono la pagina per più tempo, in un modo o nell’altro, hanno delle piccole carenze.

Sia Adrien che Justine sono ben costruiti, hanno un loro giusto spazio lungo tutto il corso delle trecento pagine, ma non fanno mai scattare quel momento positivo in più che altri eroi o eroine di Musso facevano nascere in altri suoi libri.

Il secondo elemento che rende meno agevole la lettura globale, pur se ovviamente voluto, è il su e giù temporale che ormai è una costante degli autori moderni. Non si riesce a leggere un libro degli ultimi anni in cui i flashback non siano un elemento costruttivo forte. In più, qui abbiamo la difficoltà che questi salti avvengono nel corso di soli due anni, dal 2022 al 2024 (e si, il romanzo è di ambiente super attuale), per cui ci si perde un po’. Come si perde il fatto che, benché ambientato nell’oggi, si sia già stata abbandonata ogni traccia della pandemia.

C’è un terzo personaggio, almeno, e forse un quarto che riempiono le pagine. Oriana la ricca ereditiera che viene uccisa nelle prime pagine del libro e Adèle, la donna misteriosa che appare e scompare lungo tutto il corso del romanzo stesso. Ma anche di loro non ci si innamora. La prima perché oltre che morta sembra anche un po’ troppo supponente. La seconda perché sembra sfuggire in ogni pagina in cui si presenta. Ed a chi fugge se fosse un nemico, ponti d’oro, se tenta di essere un amico, ci regala solo una dimenticanza dell’esserci vicino.

Ridotto all’osso abbiamo Oriana cui il suo dottore svizzero annuncia un tumore irreversibile. Lei pensa al suicidio, poi ad un omicidio autocomandato, poi, dovendo anche pensare al marito ed ai figli, pensa ad una donna che possa prendere il suo posto. Alla fine, cioè all’inizio, muore, e noi giriamo per tutte le più di trecento pagine alla ricerca dell’assassino.

Per la maggior parte del tempo, in compagnia di Justine, una poliziotta molto acuta ed affidabile, che qui ha invece i suoi momenti di défaillance: da poco lasciata dal marito, che va a vivere con una donna più giovane con cui fa un figlio (un po’ di modernità nei passi di Justine che stalkerizza il marito via Instagram). Ciò nonostante, ha un fiuto, che la pone sulle calcagna del marito di Oriana, il bel pianista Adrien.

Seguiamo così anche Adrien, ne intuiamo le capacità jazzistiche, ne leggiamo della riuscita di dischi e concerti, nonché della musica dedicata ad Oriana, ma anche in generale al mondo (e ai due figli). Vediamo poi come, un anno dopo l’omicidio, venga tutto accelerato dal ritrovamento di un rampino con tracce di sangue di Oriana nella cantina di Adrien.

Uno dei momenti alti del romanzo è l’interrogatorio di Adrien gestito da Justine. Che non porta direttamente a nulla, ma nei cui rivoli nascono gli elementi che portano luci sulle ombre della vicenda. La musica, gli spostamenti, la Svizzera, Adèle, Oriana, Adrien, insomma tutti gli attori del dramma, con a valle una Justine che alla fine capisce come vadano disposti i pezzi del puzzle. Con la solita capacità di Musso, non solo di mescolare le carte, ma anche di dirci la sua verità, instillandoci nello stesso tempo l’ombra del dubbio.

In fondo, Musso torna sempre lì, all’idea di fondo, alla domanda di base. Chi siamo noi? Sia per noi stessi che per gli altri. Come ci rapportiamo al mondo. Cosa sappiamo delle nostre azioni. Tutto bello e ben congeniato, con l’unico dubbio espresso all’inizio: nessun personaggio si empatizza con il lettore.

Come al solito, poi, lo stuzzicamento intellettuale di Musso è massimo, laddove, ad ogni capitolo ci propone una citazione, di scrittori, di saggisti, di registi. Non solo: nelle note finali, ci dice anche da dove ha tratto le sue frasi. Così ci scorrono davanti agli occhi: Paul Valery, Jean-Paul Sartre (con una frase stupenda: “Nel calcio tutto è complicato dalla presenza della squadra avversaria”), Patricia Highsmith, Proust, Tanizaki, Eluard, Updike, Paul Auster, Camus, Cioran, Murakami, Kurosawa, Godard, Lacan , Watzlawick, Alberoni. Con il grande Kundera che ci ammonisce “Poter vivere una vita sola è come non vivere affatto”.

Élmer Mendoza “Il cartello del Pacifico” Corriere Noir 13 euro 8,90

[A: 29/11/2022 – I: 13/07/2024 – T: 14/07/2024] - && 

[tit. or.: La prueba del ácido; ling. or.: spagnolo; pagine: 311; anno 2010]

Si parlava, non molte trame fa, di “romanzi della dittatura”, una parte del modo di affrontare la propria realtà di alcuni scrittori latino-americani. Qui siamo presenti in un sottosettore in un certo senso parallelo. Che si parla di narco-letteratura, cioè letteratura che gira intorno ai potenti cartelli della droga, coinvolgendo nelle spire del malaffare istituzioni e forze dell’ordine.

Ed è una scrittura molto ristretta all’ambiente messicano, anche se la droga gira in molte altre parti del continente (vedi Colombia in prima battuta). D’altra parte, non poteva non avere come un esponente di spicco il professor Élmer Mendoza, nato e cresciuto nelle zone del narcotraffico, nonché insegnante di letteratura all’università di Sinaloa. E noi sappiamo che Sinaloa è la patria di uno dei cartelli della droga più potenti al mondo, il cartello di Sinaloa, che nell’ambito della malavita è anche noto come “il cartello del Pacifico”. Motivo che induce gli italiani ad un titolo anodino, ben lontano da “la prova dell’acido”, come riportava il titolo originale e su cui tornerò nel finale.

Purtroppo (anche per miei demeriti) forse il testo non mi ha dato tutte le buone sensazioni che poteva fornire, anche e soprattutto usufruendo di una traduzione tra le migliori che conosca, ad opera di un profondo conoscitore della realtà messicana come Pino Cacucci. E questo perché il romanzo è il secondo episodio di una serie dedicata ad Edgard “el Zurdo” Mendieta, poliziotto un tempo corrotto, di sicuro dipendente da ansiolitici, che frequenta uno piscoanalista perché la sua donna lo ha lasciato, e che tenta di combattere la violenza e la droga da dentro il sistema di potere dei trafficanti. Inciso, per i non spagnoli, Zurdo significa mancino.

Ma tornando al filo della trama, nell’episodio precedente (che non ho letto, ma di cui ho trovato tracce tra il testo ed altre ricerche), tra le tante avventure, conosce la ballerina brasiliana Mayra Cabral de Melo, passando con lei almeno una notte di passione. Certo, è un grosso colpo quando, chiamato ad un indagine relativa ad un omicidio, scopre che la morta è proprio Mayra. Cui si aggiunge, nel giro di una notte, anche Yolanda, coinquilina di Mayra. Coincidenza o conseguenza?

Mendieta non può che indagare nell’ambito del malaffare e dei locali frequentati da Mayra e Jolanda, restringendo, forse, l’ambito dei sospettati ai più assidui frequentatori di Mayra: il narco in ascesa ma poco gestibile Richie Bernal, un politico in carriera Luis Ángel Meraz, uno strano spagnolo che si cela dietro il molto palese pseudonimo di Miguel de Cervantes e Adan Carrasco, un faccendiere dai molti contatti.

Dato questo contesto, bisogna dire che Mendoza si muove bene tra le pagine. Innanzi tutto perché, essendo del luogo, riesce a farci entrare nei modi della vita locale, descrivendoci i vari teatri delle vicende con mano ferma quasi da fotografo. Ed in secondo luogo, per lo stesso motivo, rende reali e partecipati i dialoghi, che sono poi il nervo del romanzo. Sempre ben organizzati, precisi nel dire e nel far vedere. Così come precisi nell’agire sono i personaggi, laddove la precisione porta ad un numero impressionante di morti, diverse e per diversi motivi.

El Zurdo, guidato da Mendoza, si muove benissimo in questo mondo corrotto, dove, per non farci mancare nulla, irrompe l’antidroga americana, la DEA, si fanno largo contrabbandieri che riforniscono d'armi i narcos e l'esercito messicano, nonché cartelli della droga che, dopo la morte del loro capo indiscusso, si contendono il Paese. Alla fine ne esce fuori una trama che non ha nulla da invidiare alle tanto celebrate trame dei serial di Netflix.

L’idea forte di Mendoza, anche se non sempre riuscita alla perfezione, è di prendere spunto dalle cronache di droga e traffici vari, per denunciare il modo in cui il Messico si è trasformato nel tempo. Ricordo solo che, dal 2006 ad oggi, circa 60mila persone sono state assassinate nella guerra tra Cartelli del narcotraffico.

Dicevo sopra della prova dell’acido del titolo originario, che è un modo di riconoscere la purezza dell’oro, facendo interagire l’oggetto di cui vogliamo conoscere la purezza con l’acido nitrico, un potente acido corrosivo. Qui, immagino l’idea di Mendoza sia quella di far interagire tutta una serie di cattive componenti (polizia corrotta, trafficanti di droga, sfruttatori di donne) in modo da vedere se, all’interno di questo mondo corrotto, ci sia spazio per un poco di oro, per un poco di purezza. El Zurdo non sarà puro, ma ben reagisce all’acido nitrico. Non so se sia stata l’idea dell’autore, ma è la mia interpretazione del titolo, e, per me, calza abbastanza bene alla costruzione del romanzo.

“C’è qualcosa di meglio di un fratello? Non diciamo cazzate, è ovvio che no.” (270)

Samir Machado de Machado “Il crimine del buon nazista” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 13,30 euro)

[A: 01/08/2024 – I: 06/08/2024 – T: 07/08/2024] - &&&&  

[tit. or.: O crime do bom nazista; ling. or.: portoghese; pagine: 187; anno 2023]

Non sono un grande conoscitore della letteratura di lingua portoghese in generale, ed ancor meno di quella brasiliana (a parte i caposaldi con Jorge Amado in testa). Per cui solo seguendo qualche buon consiglio librario mi sono avvicinato a questo inusuale giallo brasiliano, ambientato negli anni ’30 con personaggi tedeschi che capitano, per sbaglio o per scelta, in territorio brasiliano.

Seppur con l’aria di un pastiche semistorico, Samir imbastisce una storia intrigante, quasi da giallo classico, avendo ben presente le scritture alla Agatha Christie. Ma la fa con la sua sensibilità moderna, enfatizzando un lato che (nelle critiche dotte) è sempre presente nelle scritture del brasiliano. Una forte attenzione alla critica sociale, valida ai tempi del romanzo, ma valida, e forse ancor di più, ai tempi nostri.

La parte intrigante del giallo è il suo svolgimento tutto su di un mezzo in movimento. Così come era per il capostipite, “Assassinio sull’Oriente Express”, tutto su di un treno, o per uno dei suoi maggiori epigoni, “Notte sull’acqua” di Ken Follett, tutto su di un idrovolante. Qui l’azione si svolge tutta su un dirigibile, esistito realmente, l’LZ 127 Graf Zeppelin. Un dirigibile che visse dieci anni, dal ’28 al ’37, e che, dopo alcune performance significative, come il giro del mondo, nei primi anni Trenta fu impiegato come mezzo di linea per i collegamenti tra la Germania ed il Brasile. Una traversata che durava in media sui quattro giorni.

Il secondo elemento storico è la presenza del comandante del dirigibile il capitano Hugo Eckener, successore di von Zeppelin alla guida della società. Da cui fu rimosso dalle leve del comando per le sue manifeste simpatie antinaziste. Qui, sebbene con un cammeo, entra nella storia, ribadendo, in poche battute, le sue ferme posizioni.

Altro elemento da giallo classico è lo sviluppo stesso della storia. Omicidio in un mezzo in movimento, quindi con una platea di possibili assassini delimitata e senza possibilità di fuga. Inoltre, c’è un uso intensivo degli interrogatori, una sessione (quasi) da finale con tutti gli attori del dramma presenti e con una descrizione plausibile e credibile della successione delle azioni di ognuno. Per poi finire con “il” finale che spariglia le carte e le riaccomoda in una nuova e convincente successioni. Un finale che, oltre ad alcuni meriti sparsi qua e là, è uno dei punti migliori della scrittura di Samir.

Ma a parte le corrette e complete descrizioni del dirigibile, del suo funzionamento e della tipologia di vita a bordo (molto simile ad una crociera di lusso, però in quota) abbiamo i vari personaggi che compongono l’amalgama del crimine.

A bordo troviamo un medico eugenista, nazista convinto e propugnatori delle più bieche tesi ariane, una baronessa alcolizzata nemica dei “negri” ma che ascolta jazz, un misterioso commerciante tedesco, un rampollo inglese di buona e ricchissima famiglia, ed un commissario della Kriminalpolizei di Berlino. Tutti con buone ma a volte celate ragioni di allontanarsi dalla Germania. Per congressi, per dimenticare un nipote forse gay, per allontanarsi dalla famiglia, per fare affari in un mercato in espansione, per un periodo misterioso di ferie.

Quando il commerciante viene trovato morto avvelenato dal cianuro, il capitano non può che chiedere al commissario di venire a capo del mistero, nei quasi due giorni che separano il dirigibile dall’arrivo a Rio de Janeiro. Ed il commissario si impegna, interroga, scopre altarini nascosti, coinvolge i sospettati in una ridda di possibili soluzioni. Arrivando a spiegare tutto e coinvolgendo tutti nella sua soluzione.

Arrivati a Rio, Samir ci spiegherà finalmente come sono andati i fatti e chi ha fatto cosa. Un capitolo finale costruito con cura e bello da leggere.

Samir, attraverso i suoi personaggi, affonda il coltello nelle aberrazioni del nazismo non solo verso gli ebrei, ma anche verso gli omosessuali. E ben sappiamo che nei campi di sterminio furono trucidati molti gay (i numeri parlano di circa 50.000 perseguitati “ufficialmente”). Unendo quindi, come detto sopra e come riconosciuto allo scrittore, la critica sociale ad un racconto discretamente avvincente. Sarebbe già stato di buon livello, ma l’idea del racconto ed il modo di portarlo avanti nel romanzo meritano senz’altro una buona dose di riconoscimento. Da leggere.

“Sta dicendo che quest’individuo, oltre che un ebreo e un omosessuale era oltretutto un comunista?” (128)

“[aveva] reso finalmente … un buon nazista nell’unico modo in cui un nazista può essere buono: da morto.” (185)

Gwen Florio “Le ragazze del Dakota” Corriere Oggi 34 euro 8,90

[A: 28/08/2023– I: 28/08/2024 – T: 30/08/2024] - &&  

[tit. or.: Dakota; ling. or.: inglese; pagine: 303; anno 1988 o 2014]

Per chi cerca notizie e precisioni su libri ed autori, soprattutto a fine lettura quando si tratta di farsi un quadro più generale e distante di quanto letto, questo libro rimane un mistero. Che la manchette del libro edito da RCS come allegato per la rivista “Oggi”, riporta il copyright al 1988 ed il libro come il primo della scrittrice. Invece, andando sul sito della scrittrice questo risulta il secondo della serie dedicata alla giornalista Lola Wicks, pubblicato invece nel 2014. Tra l’altro, il primo libro di Lola si intitola “Montana” ed ha un suo senso.

Perché il teatro delle vicende che girano intorno alla protagonista, Lola Wicks, si trova proprio lì, nel grande nord americano. Lola era stata una giornalista corrispondente di guerra in Afghanistan ed altri posti mediorientali (in questo riproduce in piccolo quanto la stessa Gwen ha fatto nel suo percorso giornalistico). Finite le guerre, torna al giornale per cui lavora, a Baltimora. Ma le sue posizioni sulla guerra non hanno l’appoggio che sperava, e Lola viene emarginata. Così che decide di dimettersi ed accettare il posto in un piccolo giornale nel Montana, nella cittadina di Magpie. Dove conosce, si innamora e va a vivere insieme allo sceriffo del posto, Charlie Laurendeau. Charlie è un nativo, discendente cioè dei nativi americani, che vengono individuati come “Piedi Neri”, anche se è un termine che ingloba una più grande massa di nativi, la maggior parte dei quali si trova in Alberta, nel Canada.

Inciso, il termine con cui vengono identificati deriva dalla particolarità che, per motivi di protezione dal freddo, i nativi usavano mocassini molto resistenti di color nero.

Tutta questa parte l’ho desunta da cenni che compaiono in questo secondo volume e da alcune menzioni che l’autrice dedica ai suoi libri all’interno del suo sito internet. Purtroppo, ed è un po’ strano, non esistono invece sue entrate in Wikipedia.

In questo secondo libro, Lola, sempre di base nel Montana, si trova ad interessarsi ad alcune vicende che avvengono non molto distanti da lì, nel North Dakota. Altro inciso, ancora un volta per tirare l’orecchio ai traduttori e editor italiani. Il titolo originale è solo “Dakota”, e non si capisce il motivo di aggiungervi quel cenno alle ragazze. Certo, ci sono delle ragazze al centro della vicenda, ma comunque sono native del Montana (e sono native americane), dato che nel Dakota non c’è una riserva indiana dei Piedi Neri, ma dei Sioux (motivo per cui in alcuni lanci pubblicitari, per sveltire, si parla di questi e non di quelli).

Il via alla vicenda viene dal ritrovamento del corpo di una nativa, Judith, allontanatasi da mesi dal villaggio di Magpie, senza lasciare indicazioni, ed appunto ritrovata morta non distante. Sembra di freddo, ma la polizia non è convinta. Né lo è Lola, che comincia un’indagine, abbastanza sotterranea, per capire cosa sia successo. Anche perché Judith non è la prima ragazza scomparsa. E di nascosta, che ufficialmente Lola non si deve occupare di nera, dato che solleverebbe un conflitto di interessi con il suo compagno.

Ma Lola è caparbia, parla, dice, sente, si intrufola. E scopre che c’è un grande flusso di persone tra il Montana e la zona di Burnt Creek, dove da poco sono stati scoperti giacimenti petroliferi. In quella zona sorgono quindi quelle che vengono chiamate “boomtown”, cittadine cioè che per motivi economici subiscono una rapida espansione. Che porta con sé diversi problemi, soprattutto se legata ai giacimenti, dove ci sono solo uomini. È facile capire che presto (“l’uomo non è di legno”), sorgono bar, locali di spogliarello e donne compiacenti.

Un’industria che però non basta, così che qualcuno pensa bene di alimentarla forzatamente, magari attraverso rapimenti o altre maniere coercitive. Lola capisce i meccanismi, entrando in rotta di collisione con tutti: il giornale, che vuole se ne occupi una diversa giornalista, Charlie che la vede in pericolo e pensa non vi sia motivo che Lola interferisca con il suo lavoro, e finalmente i cattivi della storia, che cercheranno i tutti i modi, anche violenti, di fermare il lavoro della nostra eroina.

Non ci riusciranno, anche perché in suo aiuto, le donne native americane insorgono mute e silenti, quasi in una protesta gandhiana, che tuttavia raggiunge il suo scopo. Non sappiamo, forse ci interessa poco, sapere se i colpevoli ultimi avranno, ed in che modo, la giusta punizione (potete leggerlo per scoprirlo), ma sappiamo che la fine della vicenda porterà Lola ad una nuova consapevolezza del territorio e del suo rapporto con Charlie, anche perché, alla fine, scopriamo anche che Lola è incinta.

Comunque, il libro nel complesso è un po’ fiacco, ogni tanto si perde. Di certo è meritevole per sollevare la questione dei nativi americani, che tutti, laggiù oltreoceano, sembrano dimenticare o voler dimenticare a forza. Mentre sappiamo che nelle riserve, una donna su tre viene stuprata ed i nativi vengono ancora visti come il nemico. Per questo, Gwen fa un buon lavoro, anche se, ad esempio, nessun altro suo libro di questa serie è ancora giunto in Italia, e dei suoi numerosi altri libri, solo un altro è stato tradotto.

Ma non posso non sottolineare che, nelle more della vicenda non tanto brillante, si narrano riti e costumi dei Piedi Neri, ed in particolare il ruolo fondamentale della famiglia nelle loro tradizioni. Una piccola parte da leggere e magari approfondire.

Visto che è una settimana di trame nere, mi sento in vena di citarne due. La prima, della mia amata Fred Vargas che in uno dei tanti episodi del commissario Adamsberg, di quelli letti in originale, (e precisamente in “Un lieu incertain”) affermava: “Ogni cosa molto bella o molto brutta lascia un frammento di sé negli occhi di chi la guarda. … - E dopo, che se ne fa? – La si riordina … in una grande scatola chiamata memoria. – E la possiamo gettar via? – No, è impossibile. La memoria non è spazzatura.” (46)

E mi preme che vi soffermiate sul finale.

Saltiamo oltre oceano. Verso un autore leggibile ma niente di più, David Baldacci, che ne “I collezionisti”, sottolinea un aspetto anche sa meditare: “Forse faceva davvero collezione di qualcosa, forse collezionava occasioni perdute.” (205)

Speravo di potervi accogliere con notizie di nuovi viaggi, ma per il momento tutto tace. Forse anche io taccio, magari sapendone il perché e sottolineando a tutti di ricordarsi di “Sally” di Vasco Rossi (che penso continuerò a citare a lungo). Quindi soltanto gli usuali abbracci.

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