domenica 25 maggio 2025

Scienza fantastica? - 25 maggio 2025

Come riporto nella prima trama, e qui preannuncio, con questa trama andiamo verso un “ritorno al futuro”. Da adolescente fin alla prima maturità, ero un incosciente collezionista di libri di fantascienza. Ne avevo tanti e letti il giusto. Poi, congiunture della vita mi hanno, giustamente, portato (o riportato) verso altre letture. Ma, prendendo spunto da una celebrazione mondadoriana, ho messo di nuovo tra i miei scaffali una buona dose di quelli che dovrebbero essere dei caposaldi del genere. Di cui qui abbiamo le prime trame.

Con due italiani, Mongai ed Evangelisti, che ci hanno lasciato. E tre autori anglosassoni, Shiel, Bova e Blish, esempi interessanti di diverse sfaccettature del genere. Devo dire che il solo Mongai raggiunge un buon livello con la sua fantascienza umoristica. Meglio degli altri pur esemplari testi, dalla fantascienza apocalittica, a quella religiosa, passando per tematiche vicine al fantasy ed alla fantastoria.

Comunque, ma con molta flemma, ne vedremo altro, come dire, in futuro.

Massimo Mongai “Memorie di un cuoco d’astronave” Mondadori Urania 25 euro 6,99

[A: 15/07/2022 – I: 13/08/2023 – T: 14/08/2023] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 262; anno: 1997]

Con questa lettura inauguriamo un omaggio ed un ricordo. Forse non molti sanno (o ricordano) che il vostro tramatore era in gioventù un appassionato lettore di fantascienza, quando questa affrontava temi sociali, dilemmi morali ed altre storie non basate sull’invenzione di armi, guerre ed altre diavolerie. Poi, a partire dalla svolta, che io non approvai, data da “Negromante” di Gibson, progressivamente ho abbandonato questo filone, per convertirmi ad un interesse più vicino all’esperienza quotidiana, il poliziesco di situazione.

Ma lo scorso anno si celebrava il 70° anniversario della nascita della rivista fondamentale della fantascienza italiana. Infatti, il 10 ottobre 1952 esce il primo romanzo di Urania, “Le sabbie di Marte” di Arthur C. Clarke. Ed allora, la stessa Mondadori decide di ripubblicare una serie di numeri storici di questi romanzi. Io, personalmente, ne avrei riediti per l’appunto settanta, ma la casa editrice ha deciso di fermarsi a quarantacinque.

La casualità di alcune mie scelte di lettura mi porta poi a leggere come primo libro un romanzo di un autore italiano, che già apprezzai venticinque anni fa, ma che poi, come tutto il genere, lasciai decadere. Per questo, è con dispiacere che ho letto che Massimo Mongai è morto sei anni fa. Era un buon autore, elemento di punta negli anni Novanta di un ramo di fantascienza, quella umoristica, che ha espresso alcune opere interessanti (ad esempio tutta la serie galattica di Douglas Adams, le opere di Kurt Vonnegut jr, per non andare indietro sino alle “Cosmicomiche” di Calvino).

Mongai era sempre stato uno spirito libero, cosa che si riflette in alcune scelte all’interno del romanzo: tolleranza, uguaglianza tra razze e sessi, liberalismo, antiproibizionismo (vedi la ricetta che riporto in fondo a tutte le trame). Insomma, nella descrizione dell’Agorà spaziale, riversa (e noi con lui) le sue idee. Anche per le sue esperienze diverse di vita. Non a caso, l’idea di questo “memoir” inventato deriva direttamente dalle sue esperienze di cuoco su di una nave.

Quindi seguiamo questo cuoco del futuro, Rudy Turturro (sarà il caso questo cognome attorialmente riferito?), che decide di imbarcarsi su di una nave come aiuto-cuoco, che per una serie di avvenimenti fortuiti diventa Capo Cuoco, e dove, con la sua sagacia, con una intelligenza pronta a adattarsi alle diverse situazioni, non solo terminerà gloriosamente i tre anni da cuoco nello spazio. Ma ne trarrà spunto per libri di cucina intergalattica, ed anche per intraprendere con successo e lungimiranza, una carriera politica.

Perché navigando tra i vari mondi, sperimenta le cucine e le abitudini alimentari di specie di diverse natura, viene a contatto, senza mai supporsi superiore, alle diverse culture infragalattiche, dove si impara che il diverso è solo diverso, né inferiore né altro. E se il diverso, con un composizione organica simile alla nostra mangia qualcosa, vuol dire che quel qualcosa si può mangiare. Come mostrano le ricette che adornano la fine di ogni capitolo, come ho capito io nei miei lunghi anni girovagando intorno al globo.

La seconda idea ironica di Mongai è l’utilizzo, per descrivere razze ed altre diversità, di una lingua anglo-romanesca. Per cui, una volta fatto l’orecchio capiamo (tanto per fare un esempio) che l’astronave si chiama Muhmmeenuh, che letta in inglese viene “Mammina”. O che l’ingrediente della ricetta finale sono le “poon-tah-raelluh” (e le capite da voi).

Come detto, l’astuzia di Rudy gli consente di barcamenarsi nel preparare ricette per le tre tipologie di passeggeri: gli umani, gli Alieni Ox (cioè che respirano ossigeno) e quelli non-Ox. Di sopravvivere a fughe di gas, a passeggeri dediti a sesso tipo mantide religiosa, a pianeti-bordello come “Porto Pazzo” (e sono da gustare le sue personale avventure erotiche), ad una possibile invasione dei Talponi di Altair, ad insaporire i piatti di una Regina delle Api con ingredienti basici come olio e sale (poco aglio, please).

Non è molta la fantascienza che si occupa di cibo, che non è un elemento facile da trattare, ma Mongai, con le sue ricette ad anni-luce zero, ci invoglia non solo a provarle, magari sostituendo elementi alieni con elementi nostrani. Ma ci conduce a pensare che la cosa che tutti dovremmo fare è viaggiare, viaggiare, viaggiare.

Dispiace solo una piccola svista, dove a pagina 92, per risolvere un problema relativo a degli alieni di Buh-Kur-‘Otzee, sta cucinando un piatto sardo. Peccato che la scrittura in stampa riporti: “Io stavo preparando le seadas, sarde da friggere”. Dove appunto, Rudy prepara le “seadas” sarde, ravioloni di formaggio fritti ricoperti di miele, e non dei pesci, le sarde, da friggere.

Ultimo accenno, è la vittoria finale contro un’insalatona aliena che rischia di invadere e di mangiare tutti gli esseri Ox dell’astronave. Rudy con un espediente che non vi dico la sconfigge. E da quel giorno avrà il suo nome completo: Rudy “Basilico” Turturro.

Divertiti ancora a cucinare, caro Massimo, e noi a provare la tua ricetta.

Matthew P. Shiel “La nube purpurea” Mondadori Urania 11 euro 6,99

[A: 12/04/2022 – I: 31/10/2023 – T: 01/11/2023] - &&  +

[tit. or.: The Purple Cloud; ling. or.: inglese; pagine: 329; anno 1901]

Seconda lettura della collana dedicata al compleanno della rivista Urania, e lettura che induce alla riflessione sul termine “fantascienza”, e sui suoi derivati. Infatti, è unanimemente accettato che la fantascienza abbia origine, ufficialmente, il mese di aprile del 1926, con la pubblicazione del primo numero della rivista “Amazing Stories” (cioè storie sorprendenti) da parte di Hugo Gernsback, un lussemburghese naturalizzato americano. Che diverrà talmente centrale per la fantascienza che il premio assegnato annualmente al miglior romanzo del genere si chiama “Premio Hugo”.

Gli scritti precedenti vengono allora chiamati proto-fantascienza (dove, insieme a mio cugino Cesare, possiamo risalire sino a Gilgamesh), oppure viaggi immaginari (pensiamo a Verne), romanzi scientifici (e qui citiamo Wells) o letteratura post-apocalittica (di cui, forse, questo è un esempio chiaro e premonitore). Tanti potrebbero essere gli spunti, ma qui, pur non essendo un romanzo che contiene elementi scientifici, può essere letto come precursore del genere (dove possiamo stendere un filo rosso che partendo da qui, passando per “La peste scarlatta” di Jack London, arrivi sino a “La strada” di Cormac McCarthy).

Venendo al testo ed al suo autore, per chi non ne sapesse molto, Shiel è un oriundo antillano, di buona famiglia meticcia, che si trasferisce in Inghilterra per studiare e lavorare, entrando nel mondo letterario, anche se viene maggiormente ricordato, nelle cronache, come primo re di Redonda con il nome di Felipe I. L’isola, poi annessa allo stato di Antigua e Barbuda, era stata acquistata dal padre di Shiel, che l’aveva eretta a regno per il figlio, pur nell’ambito della corona britannica. Ricordo, per inciso, che l’ultimo re di Redonda fu lo spagnolo Javier Marias.

Comunque, pur spaziando su varie tematiche, l’opera letteraria di Shiel è ricordata solo per questo testo, in cui costruisce un insieme enorme di pagine al fine di descrivere una vicenda semplice e lineare, seppur “apocalittica”.

Ricordo che il testo viene scritto nel 1900 e pubblicato l’anno successivo.

Il primo espediente soprannaturale che Shiel usa è immaginare di ricevere le confessioni di un suo amico ipnotista, che gli cede la scrittura di una sua paziente ipnotizzata, che, durante l’ipnosi stessa, parla di fatti passati e futuri secondo l’autore senza sbagliarne uso. Ecco allora che le più di 300 pagine sono dedicate alle parole della paziente che descrive gli avvenimenti che dovrebbero svolgersi quindici anni nel futuro rispetto alla scrittura di Shiel.

Qual è la predizione della signora? Tutto comincia (e questa prima parte è la meglio riuscita dal punto di vista dell’intreccio) con l’organizzazione di una spedizione alla conquista del Polo Nord. Ricordo ancora, per inciso, che il primo uomo ad avvicinarsi realmente al Polo fu Frederick Cook nel 1908. Chi descrive i fatti è un medico, con diverse cognizioni scientifiche, il venticinquenne Adam Jeffson.

Lui non vorrebbe partire, ma la morte di uno degli scienziati lo invoglia ad accettare l’imbarco sulla Boreal. Morte che forse è causata da un veleno somministrato dalla sua fidanzata arrivista. In questa parte si descrive il viaggio della Boreal sino all’89° parallelo, dove bisogna lasciare la nave ed avventurarsi con slitte. Ci sono solo cinque posti e Adam è il sesto. Ma sfida a duello il meteorologo, lo uccide e potrebbe partire. Tuttavia, il ghiaccio impedisce la partenza, i cani muoiono, ed i posti si riducono a quattro, e lui è il quinto. Ma in una notte di tragedia, incidentalmente Adam uccide un altro membro, così che finalmente è della partita.

Fatto sta che, a poca distanza dal Polo, un terremoto artico uccide tutti gli altri, e Adam sarà il solo ad arrivare alla meta. Mentre la guarda, nota una nuvola purpurea (forse sarebbe meglio descritta come viola) sollevarsi dal Polo. Adam è rimasto solo, con difficoltà riprende la via del ritorno, sino alla nave, ancora bloccata nei ghiacci. Ma una volta a bordo scopre che tutti i marinai sono morti.

Qui comincia la seconda, lunga e discretamente pallosa (se non per alcuni punti che vi dirò), in cui Adam intraprende il lungo viaggio verso la civiltà, al fine di tornare a Londra. Durante la via scopre che tutte le persone che incontra sono morte, come morti sono tutti gli abitanti di Londra. Dopo aver tentato inutilmente di trovare un vivente, trova una barca, ed intraprende un lungo viaggio per le città del mondo, con l’intento (e vi riesce) di bruciarle, di distruggerle tutte, in un impeto di potenza “divina”. Il bello di questa lunga parte è la descrizione geografica dei luoghi, che l’autore riesce a rendere con vivida piacevolezza.

Dopo vent’anni di questo delirio, Adam decide di incendiare anche Istanbul. E qui trova una sorpresa che permette all’autore di passare alla terza parte della storia.

Nella città turca trova una ragazza ventenne, scampata alla morte della nube in quanto nasce mentre avviene il cataclisma, e per qualche oscura ragione ne rimane immune. Ora abbiamo una giovane e piacente ventenne ed un cinquantenne che da metà della sua vita è rimasto solo. Che potrà succedere?

L’apocalittico Shiel la mena a lungo sul fatto che Adam (vi siete accorti del nome) decida o non decida di accoppiarsi con la signorina (che lui chiamerà Leda, forse ricordando non tanto il cigno quanto il fatto che uno degli attributi mitologici era Nemesi, dea della vendetta) per ricominciare a polare la terra. D’altra parte Adam è un assassino di almeno due se non tre persone, e, benché proveniente da una famiglia metodista, questo contrappasso non potrà non aver intrigato la mente dell’autore. Questa è la parte meno riuscita, e per fortuna abbastanza corta, da ricordare solo per l’educazione che Adam fornisce a Leda, la quale, avendo vissuto venti anni in un ambiente senza umani, non sa parlare.

Con la decisione di Adam si chiude il libro. Le potenze divine avevano scatenato la distruzione, ma il primo uomo che ora è anche l’ultimo, deciderà come comportarsi.

Una scrittura molto datata, che non si fa leggere agevolmente. Tuttavia, la parte geografica è notevole, la parte avventurosa (cioè la prima parte) è leggibile, da pagina 80 in poi è consumabile a salti. Tutto si ripete un po’ uguale, andando verso una fine che già si adombra nelle prime pagine del testo.

Comunque, a me, a parte la lettura filologica, rimane più impressa la figura dell’autore.

Ben Bova “Orion” Mondadori Urania 10 euro 6,99

[A: 01/04/2022 – I: 02/07/2024 – T: 04/07/2024] - && e ½ 

[tit. or.: Orion; ling. or.: inglese; pagine: 399; anno 1984]

Benjamin “Ben” Bova è stato un altro grande pilastro della fantascienza, anche se, personalmente, non mi ha mai dato una grande impressione, a livello di scrittura. Infatti, affacciatosi sulla scena negli anni ’60 con titolo di medio successo, ha avuto il grande merito di inventarsi compilazioni di antologie con un piglio molto attraente, motivo per il quale ha più volte vinto i grandi premi del settore.

Ha anche scritto molto (nella sua bibliografia si contano almeno un centinaio di opere), spaziando nei vari settori del genere, ed in particolare rimane famoso per la saga intitolata “Il ciclo di Orion”, di cui questo libro, uscito quarant’anni fa, segna il primo e forse migliore capitolo. Un capitolo che, ad onor del vero, si colloca un po’ ibridamente nel settore, contenendo in sé una serie di semi che innestano, sul filone puro e duro, qualche venatura di fantasy.

La storia inizia in maniera coinvolgente: John O’ Ryan sta in un bar a Manhattan, guardando una signorina attraente, quando entrano due tizi, uno bello e sereno, l’altro cupo e tenebroso. Peccato che subito scoppi una bomba, lui salva la signorina, che però viene rapita. A questo punto cominciano i salti quantici del raccontare fantascientifico. John è un tecnico dedicato ad un complicato programma di fusione nucleare. Il tenebroso che ha buttato la bomba (sul bello torniamo poi) è, forse, il cattivo e vuole invertire la fusione e far scoppiare una bomba per distruggere metà degli Stati Uniti, far nascere una guerra e far scomparire il genere umano.

John salva la situazione e il mondo, ed a questo punto passiamo alla parte fantasy del romanzo. Che il bello ed il cattivo sono da miliardi di anni in lotta, e non è un caso che quando scopriamo i loro nomi, abbiamo facilità di risalire ai miti primitivi, alle credenze zoroastriane. Infatti il buono si fa chiamare Ormazd il Radioso che facilmente deriva dal dio creatore conosciuto come Ahura Mazda. Mentre il cattivo è noto come Ahriman, anche lui dal dio zoroastriano delle tenebre Angra Mainyu. Niente di sconvolgente quindi che John O’ Ryan sia una storpiatura americana del nome del nostro eroe, ovviamente Orion (se li pronunciata all’inglese capite subito).

Orion è quindi derivato di Orione, il cacciatore della mitologia, che si innamora di una dea, che per questo viene osteggiato, che comunque ha una vita gloriosa, e rispettosamente servente Zeus e gli dèi maggiori. Ed in questa riscrittura delle mitologie erranti per i secoli, vediamo le varie tappe di avvicinamento al nucleo del racconto. Orion, con l’aiuto del Radioso rinasce ogni volta secoli e secoli all’indietro. Ed ogni volta c’è una donna, incarnazione della dea Anya, che lo aiuta nei momenti difficili. E c’è sempre il Tenebroso che cerca di trovare il modo per mettere delle zeppe all’evoluzione dell’umanità.

In realtà, i due momenti topici sono quando Orion si trova prima ai tempi di Gengis Khan e poi nel neolitico. La prima situazione è la più interessante, e meglio descritta, anche se si tratta più di un ucronia che di fantasy o altro. Vediamo i discendenti del Khan, in particolare il suo successore Ögödei Khan o Ogotai. Che continua la spinta espansionistica del padre, pur rimanendo negli ozi della capitale Karakorum, mentre il suo principale generale Subotai si estende sempre più verso Occidente. Il dilemma è facile: se continua a vincere Subotai, non può nascere una civiltà occidentale (cosa cui sta spingendo il Tenebroso). Per fermarlo, Orion deve uccidere Ogotai, così che tutti i generali tornino in patria e si fermino le conquiste.

Sappiamo bene dai libri di storia com’è andata, anche se Ogotai muore di cirrosi epatica.

Nel neolitico, invece, si imbatte in una delle tante tribù nomadi, che, una volta l’anno, torna nella valle ancestrale, raccoglie il grano e poi riparte. Orion, arrivato lì, insegna ai trogloditi i rudimenti dell’agricoltura, trasformando il popolo nomade in un popolo sedentario. Ovvio che anche qui abbia da combattere con il Tenebroso.

Andando a ritroso nel tempo, alla fine, Orion arriva al nocciolo della questione, là dove tutto ha inizio. Dove si scopre che il popolo del Tenebroso era lui che viveva pacificamente in quelle terre, mentre il Radioso è lui il conquistatore, quello cui serve la Terra per perpetrare la propria razza. Insomma, l’ateo Bova arriva al nocciolo del suo problema: chi ha popolato la Terra? Perché e come l’Homo Sapiens ha soppiantato l’Homo Neanderthalensis? Come nascono e si sviluppano i miti antichi che portano alla nascita degli Dei?

Niente ci sorprende se, alla fine, Orion pur avendo sconfitto Ahriman, non rimane pedissequamente servizievole con Ormazd, anzi si sente che potrà nascere una rivalità (che non ci sorprende a posteriori, visto che Bova scrive altri sei romanzi del Ciclo).

Insomma una serie di problematiche para-filosofiche, cui però Bova, pur attento alle dinamiche della scrittura di genere, non ha la struttura letteraria per arrivare a darci un quadro convincente delle sue teorie. Rimane il resto della storia, dove il lato romantico (il rincorrersi nelle ere geologiche di Orion e Anya) ci lascia alquanto freddo. Meglio, come detto, le parti di ricostruzione storica. Ed in particolare, tutta quella dedicata ai Mongoli, che si vede ha preso la penna e la testa dell’autore, che l’ha riempita di fatti noti e di intrecci realisticamente inventati.

Il resto è abbastanza giù di corda, facendo di questo libro un buon esempio di un filone fantascientifico interessante, pur non essendo uno degli argomenti migliori del genere. Ne riparleremo per altre scritture.

Un ultima domanda, per i traduttori. A pagina 126 viene nominato il capo della setta degli Assassini (quelli che uccidevano sotto l’influsso dell’hascisc da cui il nome), indicandolo come “Veglio della Montagna”. Penso che nessuno si sarebbe offeso se avessero utilizzato il nome corretto, e cioè “Vecchio”. Ogni tanto ci vuole un po’ di attenzione.

“[Gli umani] quando non hanno nessun altro contro cui combattere, combattono tra loro. Si massacrano a vicenda, continuamente.” (73)

Valerio Evangelisti “Nicolas Eymerich, inquisitore” Mondadori Urania 9 euro 6,99

[A: 30/03/2022 – I: 22/02/2025 – T: 23/02/2025] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 236; anno: 1994]

Senza purtroppo saperlo ho comprato questo libro un mese prima della morte di Valerio Evangelisti. Uno scrittore che mi ha sempre leggermente inquietato, data la scrittura, potente ma un po’ distante da me, che evoca spazi fantastici e trame complesso nello spazio e nel tempo. Per questo non ne ho affrettato la lettura che intraprendo solo ora dopo tre anni, e dopo anche essermi documentato meglio su Valerio e sui suoi scritti.

Evangelisti, oltre ad essere stato un prolifico scrittore, è stato anche molto attivo nella Bologna alternativa della contestazione, ma anche i questo XXI secolo, proponendosi diverse volte come capofila di movimenti antagonisti alla sinistra dominante in città. Ovviamente, lui si poneva ancora più a sinistra, ad esempio come primo rappresentante della lista “Potere al Popolo”.

La sua ben vasta produzione, spesso legata a descrizioni distopiche, è stata anche sovente collegata alle idee di scrittura del collettivo Wu Ming. Ma di certo ha avuto modo di spaziare dalla monumentale biografia di Nostradamus a romanzi e racconti reinterpretanti la storia degli Stati Uniti e del Messico.

Ma ovviamente, la sua creatura migliore è più nota è la lunga saga, di cui questo è il primo volume, legata alla figura dell’Inquisitore della casa di Aragona, Nicolas (o Nicolau) Eymerich. Una saga che si è espansa, tra il ’94 ed il 2018 in una dozzina di romanzi ed alcuni racconti. L’impianto del libro, come del resto di tutta la serie, è sempre suddiviso in tre schemi temporali: passato, dove seguiamo le vicende romanzate di Eymerich, un Inquisitore realmente esistito nel XIV secolo; presente, dove vediamo l’evolversi delle idee fantascientifiche di un ricercatore, Marcus Frullifer; futuro, dove le idee di Marcus, in vario modo, vengono realizzate, si evolvono ed in qualche modo interagiscono con il passato (passaggio obbligato, altrimenti poco si comprenderebbe della vicenda complessiva e del perché venga narrata in questo modo).

Il vantaggio dei leggere questa prima storia è quindi quello di trovare esposte le basi di tutto il castello del mondo che verrà poi battezzato con il nome del protagonista. Anche se la chiarezza non è un punto di forza di questo primo testo (ed augusti lettori ed esegeti mi dicono che con l’andar dei libri, Evangelisti aggiusta meglio la parte teorica della saga).

Insomma, nel presente il fisico Marcus, a partire da ipotesi non sperimentate elaborate dal matematico Adrian Dobbs (reale) negli anni ’60, ipotizza l’esistenza di particelle cui dà il nome di psitroni. Sono entità senza massa, praticamente idee eteree, che però possono essere eccitate e catalizzate, in modo da fornire spiegazioni a fenomeni paranormali. In base a passaggi che sinceramente non ho capito, l’uso di questi psitroni consentirebbe la costruzione di astronavi che possono viaggiare nello spazio ed anche nel tempo. In tutta questa parte, Marcus cerca di farsi accettare dalla comunità scientifica, soprattutto provando a portare dalla sua parte il capo dipartimento Frank Tripler (tenete a mente il nome, che se ne riparlerà).

Nel futuro, seguiamo il viaggio dell’astronave Malpertuis (tenete a mente anche questa) costruita sulla base delle teorie di Frullifer (che quindi funzionano). Un viaggio che porta la nave ed il suo equipaggio nell’orbita di un pianeta che si propone “terra compitabile”. Laddove i gestori della nave cercano di catturare qualcosa sul pianeta, che tuttavia non viene ben descritto e se ne capisce poco. Solo un accenno trasversale ci fa capire che la nave ha viaggiato nel tempo, ritrovandosi nel 1352 in quello che in realtà non è un altro pianeta ma la Terra in un altro tempo. E dove i fenomeni fisici provenienti dal futuro non possono che diventare oggetti esoterici nel tempo del passato.

Nel 1352 invece assistiamo all’ascesa ed alle prime mosse di un personaggio altamente antipatico: saccente, presuntuoso, strenuo difensore della cristianità, dove, da frate domenicano, diventa (o si auto investe) Inquisitore del Regno di Aragona. Qui si innesta un pastiche storico che mescola brani di realtà con invenzioni fantasy. Intanto, Evangelisti anticipa la nomina di Eymerich ad Inquisitore di sei anni. Tuttavia ne inserisce le attività nella reale lotta di potere tra il Casato di Aragona, guidato dal re Pietro IV d’Aragona e la nobiltà locale legata al clero ed al potere papale (al tempo Clemente VI, in esilio ad Avignone).

Ma per la storia fantasy, Eymerich si deve scontrare con la rinascita di un culto pagano legato a Diana cacciatrice e nato (si dice) in quel di Ariccia. Che il nostro autore fa rinascere, per assonanza, nella città aragonese di Ariza. Tutta la parte storica, comunque, si svolge a Saragozza o nei dintorni. Dove si trova modo di far rinascere la figlia del re, Maria, morta a tre anni durante la peste del 1348 (peste reale che uccise il 30% della popolazione europea), di far suscitare dal nulla una serie di bambini malformati che muoiono o vengono uccisi o (questa la parte fantasy) si dissolvono in una schiuma biancastra.

Senza saper nulla della gente del futuro, comunque, Eymerich come Inquisitore, tortura e uccide varie persone, ma soprattutto, per la gloria del casato di Aragona, fa una strage delle donne dedite al culto di Diana, evocando spiriti esoterici che si palesano in forme sataniche. Solo nelle ultime pagine qualcosa si ricompone: gli astronauti vedono Eymerich, ma il romanzo si chiude senza che si ricompongano le tre storie narrate.

Certo, è interessante il funambolismo inventivo di Evangelisti, anche se, data la formazione solo storica dell’autore, i passaggi para-scientifici sono molto “al limite”. Stando a critiche successive, molte incongruenze si ricomporranno. Ma qui possiamo solo rendergli omaggio come inventore di un contesto narrativo interessante e che rimarrà valido per una ventina di anni.

Intanto, oltre all’omaggio di aver studiato e riproposto una persona interessante benché controversa, segnalo due altre citazioni trasversali di cui avevo accennato sopra. La prima riguarda il mancato mentore di Marcus, il professor Frank Tripler, che facilmente si fa risalire al fisico statunitense Frank J. Tipler autore della teoria del “Punto Omega”. Dove riprendendo il discorso sul massimo livello di complessità verso cui tende l’umanità, tesi elaborata dal filosofo Pierre Teilhard de Chardin, giustifica, secondo lui scientificamente, l’esistenza di un Dio futuro, costruttore o ricostruttore dell’Universo (inciso: mi scuso della brevità di questa trattazione che forse esula da questo contesto di trame).

Il secondo punto riguarda l’aver battezzato l’astronave psitronica “Malpertuis”. Un omaggio palese allo scrittore belga Jean Ray ed al suo capolavoro fantasy dello stesso nome. Omaggio che riprende una tesi che Ray cerca di dimostrare nel suo libro: la fede degli uomini nella divinità è tale da determinare l'esistenza della divinità stessa, un’esistenza che perdura fin tanto che gli uomini continuino a credere nella sua esistenza.

Qui ci sarebbe spazio (ma purtroppo non le capacità) per fare un discorso più ampio sulla teosofia del testo (o dell’autore). Io mi limito invece a riportare un passo del romanzo dove Evangelisti descrive un momento della storia coeva alla scrittura, facendola agire nel Texas del 1994. Letta ora, con la mente a Donald Trump, è di una preveggenza spaventosa.

Tuttavia, e finisco, il testo non mi ha preso in modo particolare, e non penso di approfondire ulteriormente le vicende dell’Inquisitore Nicolas Eymerich.

 “Un docente di Storia medioevale è stato mandato a casa perché sosteneva che l’Inquisizione era stata un fenomeno abominevole. A Storia moderna un altro docente è stato fatto fuori per aver scritto che la Rivoluzione francese è stata un evento positivo. Chi l’ha sostituito spiega agli alunni che positiva era la Vandea, fedele al re e alla nobiltà. A Storia contemporanea hanno licenziato due terzi dei professori. Uno per aver affermato che durante la guerra di Spagna avevano ragione i repubblicani e non Franco, un altro per aver detto che i campi di concentramento nazisti erano orridi mattatoi.” (177) [scritto per un Texas nel 1994 e Donald?]

James Blish “Guerra al Grande Nulla” Mondadori Urania 13 euro 6,99

[A: 27/04/2022 – I: 31/10/2023 – T: 01/11/2023] - &&  +

[tit. or.: A Case of Conscience; ling. or.: inglese; pagine: 178; anno 1958]

James Blish è un esimio scrittore e critico di fantascienza, che pur avendo scritto abbastanza, rimane nelle storie esimie del settore per questo romanzo che, alla sua uscita, fu etichettato come “fantascienza teologica”, per poi ripiegare su un meno aggressivo “fantascienza speculativa. Blish, tra l’altro, ha anche fornito la sceneggiatura ad episodi di “Star Trek”.

Venendo al testo, dobbiamo subito sottolineare che, in realtà, è un ibrido. Nasce da un racconto, scritto nel ’53, che è riproposto nella prima parte. Poi, per ragioni editoriali, viene chiesto all’autore di allungarlo, con una seconda parte, al fine di raggiungere dimensioni da romanzo piuttosto che da racconto lungo. Ed in questa veste, si aggiudica nel ’59 il maggior premio per gli scritti di genere, il premio Hugo (come detto sopra, dal nome di quello che viene considerato il padre del genere, Hugo Gernsback).

Il primo problema che incontriamo, leggendone in questa ennesima pubblicazione italiana, è proprio nel titolo. L’originale riporta infatti il più consono al testo “Un caso di coscienza”, mentre le edizioni Mondadori che lo pubblicarono in Italia nel 1960, scelsero un titolo più adatto ad un romanzo di fantascienza, questo “Guerra al Grande Nulla”, che in realtà non ha nessun appiglio al testo. Non c’è nessuna guerra, né tanto meno, se non in modo traslato come vedremo, si può parlare di “Grande Nulla”, opposto al “Tutto” che dovrebbe permeare la nostra vita.

Il secondo problema è dato proprio dall’ampliamento sopra citato. La prima parte, quella che fonda le basi della problematica del testo è interessante, in alcuni punti forse poteva essere più sviluppata, ma in fin dei conti ha una buona riuscita come testo. La seconda parte, che doveva servire per approfondire e portare a conclusione quanto detto e sollevato nella prima, in realtà non solo non affronta i problemi, ma introduce tutta un serie di rivoli irrisolti, che non apportano molto al testo stesso. Anzi, come molti critici hanno rilevato, preso nel suo complesso, il romanzo risulta un filo sopravvalutato, proprio per questa poco utile seconda parte.

Il nucleo della storia si colloca in un futuro in cui si è sviluppato il volo intergalattico, e si sono cominciati ad incontrare mondi abitati da culture aliene. Su questi mondi, al fine di valutarne la possibilità di interazione tra le razze, viene inviato un manipolo di scienziati che ne devono comprendere la struttura ed emettere un giudizio se consentire lo scambio reciproco, permettere solo la presenza come sosta tra viaggi o interdire i contatti.

Veniamo così a conoscenza del pianeta Lithia, così chiamato perché si è scoperta la presenza di minerali interessanti all’uomo, in particolare il litio. Il pianeta è abitato da una razza di esseri sensienti, di conformazione rettiloide, alti quasi quattro metri. Di vivida intelligenza, hanno sviluppato una civiltà basata sulle risorse presenti in loco, anche se, essendo il pianeta praticamente privo di ferro, in tutto verso una direzione leggermente diversa dai terrestri. I litiani non hanno il senso delle contrapposizioni, nessuna invida, odio, amore, non conoscono l’amore o il dubbio. Portando tutto alle estreme conseguenze scopriamo quindi che non conoscono l’arte o la religione.

La squadra che analizza le possibili interazioni è composta da un chimico, un geologo (entrambi di scarso peso) dal fisico Cleaver e dal biologo padre Ramon Ruiz-Sanchez (un gesuita). Lo scontro si innesta su questi due. Cleaver vede nel pianeta la possibilità di sviluppare un arsenale termonucleare. Il gesuita, invece, è preoccupato da quello che individua come mancanza di liberi arbitrio, innescando il lato teologico del testo. Senza libero arbitrio, padre Ramon ipotizza che Lithia sia opera del Maligno, perché troppo perfetto, atto a mettere alla prova l’umanità in un mondo che non ha conosciuto il peccato originale.

Questa posizione porterà anche alla scomunica del gesuita, che, propugnando la tesi di un mondo costruito dal Diavolo, ricade nell’eresia manichea, che il Diavolo può distruggere non costruire. Ed infatti il papa Adriano VII (norvegese, laddove Blish già negli anni Cinquanta ipotizzava l’elezione di un papa non italiano, tra l’altro usando il nome Adriano, quello utilizzato dell’allora ultimo papa straniero, Adriano VI, noto come Adriano di Utrecht salito al soglio di Pietro nel 1522) lo scomunica, ma gli chiede anche di fare un esorcismo verso il pianeta (mostrando la filosofia di avere due piedi in una scarpa).

Nella seconda parte, che sorvolerei volentieri, si avviano tutta una serie di vicende poco utili al testo (la crescita di un litiano nel mondo terrestre, la descrizione della Terra come paese sempre sull’orlo della guerra atomica, la presa di coscienza del litiano-terrestre che, poco in linea con i costumi terrestri, si imbarca clandestino per tornare al pianeta Natale, la vittoria di Cleaver che convince i governi della Terra ad impiantare arsenali nucleari su Lithia).

La fine è emblematica. Cleaver, mentre avvia il suo programma, si accorge di una falla nel meccanismo da lui ideato. E mentre padre Ramon dalla Terra lancia il suo esorcismo, la falla fa il suo corso. Alla fine, Lithia esplode e scompare. Per l’errore di Cleaver o per le parole di Ramon? Ai lettori l’ardua sentenza.

Quello di cui si sente la mancanza, dopo l’interessante costruzione della prima parte verso la descrizione di “un mondo senza peccato”, è un contraddittorio intorno alle tesi di padre Ramon: Blish ci presenta i ragionamenti (a volte un po’ forzati) che portano Ramon alla sua decisione, ma non ci presenta le tesi contrarie. Ed in fondo, tutta la parabola del litiano che, cresciuto sulla terra, ne viene corrotto, servono in un certo senso all’autore di farci ragionare sull’assunto che non è il “buon selvaggio” una creatura del diavolo, ma forse siamo noi elementi corruttori, pur non essendo noi tali creature.

D’altra parte, Blish è anche uomo di buona cultura e di grandi letture. Se sul lato teologico diciamo siamo al 60% di buone scritture e del restante un po’ inventato, qua e là ci sono indicazioni di riferimenti “alti”. Padre Ramon, nei momenti di ozio su Lithia, legge un libro, dove cerca di discernere in una interazione tra uomini e donne, dove sia giusto porsi. Alla fine della prima parte scopriamo che si tratta dal Libro III dei “Finnegans Wake” di James Joyce, che prima cita, poi denigra descrivendolo come “628 pagine di chiacchiere demoniache compulsive”.

Nell’ottica della scrittura di genere, alla fine, un prodotto interessante, se non proprio buono, e di sicuro, degno di una attenta lettura nella sua dimensione di racconto.

Non sapendo dove orizzontare i miei strali di pensiero, a questa trama fantastica associo tre ordini di pensieri: giallo, saggistico e storico.

Ecco, quindi, che da Edward Bunker di “Come una bestia feroce” prendiamo:

“Ma un giorno o l’altro, che sia domani o fra vent’anni quando ne avrai cinquanta, ti renderei conto che chiunque tu sia e qualsiasi cosa tu abbia fatto, non poteva andare in modo granché diverso.” (14)

“Comportarsi da stupidi è disgustoso, ma lo è in misura doppia quando si agisce sapendo in anticipo di fare un’idiozia.” (156)

“L’amore di cui parli è quello dei giovani. Nessuno te lo può più dare. È più illusione che sentimento. Quello che hai con … è qualcosa che può durare nel tempo.” (242)

Mentre dal difficile ma che ho sempre letto con interesse, José Saramago da “Il vangelo secondo Gesù Cristo”, estraggo:

“Un uomo, qualunque sia l’epoca in cui viva o sia vissuto, è mentalmente contemporaneo di un altro individuo di una qualsiasi altra epoca” (155)

Infine, da Elizabeth Peters ed il suo “Il faraone assassino”, un ricordo che mi riporta ai miei anni dell’ultimo decennio del secolo scorso in Egitto:

“Immagini [il lettore] di sedere con me sulla terrazza dell’hotel Shepheard, al Cairo. Il cielo è d’un brillante blu porcellana. Imparziale, il sole getta i suoi benevoli raggi … su tutta l’infinta varietà di persone che compongono l’affaccendata folla che attraversa l’ampia via principale davanti a noi.” (51)

Invitando a leggere la brillantissima ricetta sotto riportata, chiudo questa settimana con un pensiero rivolto agli incastri che si stanno verificando per la gestione dell’estate. Ci ritorneremo presto, intanto vi abbraccio. 

Fonduta erotico-mediterranea “à la mode de Kumpawdaepheeawree”.

[ovvia la lettura in termine romani di una delle piazze della movida capitolina, Piazza Campo de’ Fiori]

Ricetta tratta da “Il Turturro, Manuale di Cucina Spaziale, ottava Edizione” di Rudy “Basilico” Turturro.

Dosi: non indicabili

Preparate un soffritto di olio, aglio, peperoncino, cipolle e peperoni tagliati il più possibile fini; appena il tutto imbiondisce, aggiungete pomodori a pezzettoni e passata di pomodoro e fate ammalvire a fuoco lento, finché i vegetali non si sono quasi completamente sciolti. A parte, preparate un ciotola con non più di 20 grammi di “poon-tah-raelluh”, mi raccomando, non più di 20 grammi. Conditeli con un pesto di aglio e acciughe. A parte, preparerete dei pezzettoni di bruschetta (pane tostato con aglio e olio strofinati).

Verserete il sugo così ottenuto in una ciotola di coccio abbastanza capiente (potrete cucinare direttamente nella ciotola) che porterete a tavola su un fornello a spirito di quelli per la fonduta alla borgognona. Intingete il pane nel sugo bollente, mangiateci insieme una forchettata di “poon-tah-raelluh” e beveteci sopra ad ogni boccone un sorso di vino frizzante, secco e gelato.

Note e variazioni

Già mi immagino la vostra obiezione: come ci arrivo su Kumpawdaepheeawree a comprare la “poon-tah-raelluh”? A parte il fatto che si trova anche congelata nei migliori negozi di raffinatezze spaziali, vi concedo che, costando letteralmente a “peso di platino” è un po’ cara.

La prima andrebbe bene anche agli Umanisti: in pochissimo burro fuso, ma non bruciato, sciogliete una quarantina di grammi di hashish, possibilmente di quello nero afgano, ma anche quello commerciale andrà bene; amalgamatelo lentamente ed aggiungete pasta d’olive, pasta di funghi, un po’ di tartufo ed un pizzico di aglio spremuto. Con questo paté guarnite le fette di pane tostato.

Se nella vostra area, l’hashish è ancora illegale (ebbene sì, miei cari lettori, esistono ancora luoghi sulla Terra e nell’Agorà in cui questa follia accade) voi e la/il/i vostra/o/i partner praticate trenta giorni di astinenza da sesso ed alcool, contemporaneamente a trenta giorni di addestramento quotidiano di mezzofondo, per almeno tre ore al giorno, sempre di pomeriggio inoltrato o verso sera. Il trentunesimo giorno, fate preparare tutto da un cuoco o da un amico, sostituendo la “poon-tah-raelluh” con abbondanti cime di cicoria di tipo romano; allenatevi per un’ora soltanto e dedicatevi poi, subito dopo una doccia tiepida, alla cena; gli ingredienti sopra indicati e lo scatenarsi delle endorfine da “estasi dell’atleta” per le mancate due ore d’allenamento, dovrebbero dare un effetto molto simile a quello della poon-tah-raelluh. Provare per credere!

 

domenica 18 maggio 2025

International serial - 18 maggio 2025

Cediamo ancora una volta al fascino delle serie poliziesche, con cinque trame che si collocano in vari punti spaziali delle avventure dei protagonisti. Ci sono due serie al terzo episodio: la trilogia spagnola di Dolores Redondo, imperniata sull’ispettrice Amaia Salazar, e l’episodio dedicato alla terza delle sorelle Mitford, uscito dalla penna di Jessica Fellowes. Entrambi di rese non eccelsa.

C’è poi, con trent’anni di ritardo, il primo episodio dell’ispettore Erlendur Sveinsson dell’islandese Arnaldur Indriðason e quello del detective Boone Daniels uscito dalla penna di Don Winslow, entrambi invece di livello adeguato e leggermente superiore alla media. Mentre il primo libro dedicato a “Il club dei delitti del giovedì” di Richard Osman mi ha lasciato decisamente freddino.

Dolores Redondo “Offerta alla tormenta” TEA euro 13 (in realtà, scontato a 11,70 euro)

[A: 07/06/2021 – I: 24/12/2024 – T: 27/12/2024] - &&    

[tit. or.: Ofrenda a la tormenta; ling. or.: spagnolo; pagine: 446; anno 2014]

Con questo terzo libro arriviamo, finalmente, al compimento della trilogia scritta da Dolores Redondo, e da lei appunto chiamata “Trilogia di Baztan”, dal nome del fiume e della valle su cui si svolge la maggior parte della trama, piuttosto che “Trilogia di Amaia Salazar”, come si ostinano a battezzarla gli editori italiani, più propensi a legare il titolo al nome della protagonista.

Certo, Amaia Salazar, l’ispettrice della Policia Foral de Navarra (una delle quattro forze di polizia autonome della Spagna), è il centro della trilogia, la persona che riflette sugli avvenimenti, che agisce e che trova la soluzione finale. Ma è il territorio, ed il folclore ad esso legato che in realtà è il vero protagonista della serie, nel bene e nel male.

Se infatti guardiamo ora, che siamo al capitolo finale, l’opera nel complesso, vediamo che il primo episodio (“Guardiano dell’invisibile”) è dedicato al “Basajaun”, il signore della foresta, generalmente benigno verso i contadini, diventando a volte terrificanti “troll”. Il secondo episodio (“Inciso nelle ossa”) è legato al mitologico “Tartalo” un gigantesco ciclope antropomorfo con costumi antropofagi e comportamenti terrificanti. Vediamo quindi come, libro dopo libro, ci si sposti da miti (quasi) benigni verso mitologie sempre più terrificanti. Infatti, la trilogia termina con un omaggio a “Inguma”, un genio minore della mitologia basca, dotato di una natura malvagia, poiché il suo unico scopo è soffocare le sue vittime mentre dormono.

Fatta questa premessa sulle basi mitologiche della trilogia, solo leggendo quest’ultimo capitolo, unito alla nota della scrittrice, capiamo la genesi globale dell’opera. La cui idea di base si concretizza proprio qui, laddove i primi due libri in fondo non erano che delle tappe di avvicinamento, di certo strutturate e miranti, comunque, ad esplorare le prime mitologie, ma che tendevano a questo punto finale.

Infatti, l’idea di Dolores nasce da un articolo del giornale “ABC” che riporta come, nel 2011, si sia cominciato ad indagare sulla morte, avvenuta trenta anni prima, della piccola Ainara, una bambina di quattordici mesi, che si dice sia stata sacrificata dagli stessi genitori facenti parte di una delle tante sette locali. Si dice, perché i genitori, e Dolores lo riprende pari pari nel libro, inventano un viaggio nel Regno Unito, dove, hanno spiegato, la bambina ha subito un ictus da cui non si è più ripresa, e hanno deciso di seppellirla lì. Per arrivare qui, la scrittrice imbastisce le storie del Basajaun e del Tartalo. Qui, ad Inguma.

Il lato più difficile di tutti è che solo leggendo i tre libri in sequenza ravvicinata riusciamo a coglierne gli aspetti ed i collegamenti. Che personaggi che qui agiscono e muoiono si comprendono avendo in mente il resto. E questo è uno dei lati più deboli del testo. Come debole è il finale cui si arriva già sapendo, già comprendendo dalla metà dell’ultimo libro come siano andate le cose. L’altro lato debole è la vicenda di chi, dopo aver fatto sacrifici a Inguma, ne trae benefici economici (e questo potrebbe essere se ipotizziamo la presenza di un fornitore di beni economici), ma soprattutto ne trae benefici fisici. Non si capisce né si spiega come una delle persone che partecipa alle offerte a Inguma, malato di cancro ad uno stato avanzato, possa guarirne ed essere in piena salute dieci anni dopo.

Venendo alla storia, i personaggi base sono gli stessi che ruotano intorno ad Amaia. Il marito James, amato anche se con alti e bassi. Il figlio Ibai e la zia Engrasi presenti quasi solo come corifei. Le due sorelle Ros e Flora, con i loro problemi di rapporti reciproci e con Amaia. L’ispettore Jonan che finirà ucciso, ma la cui morte servirà a sollevare tutti i veli e portare Amaia alla soluzione. Il giudice Markina dal piglio seducente ed ammaliatore.

La storia ruota intorno alla morte di bambine sotto i due anni, molte archiviate come “morte nella culla”, ma che, scavando e ricostruendo, molte di quelle morti risultano sospette e collegate ad una comunità, forse hippy all’inizio poi “satanica” (anche se la parole non mi piace). Comunità cui faceva parte Rosario, la madre di Amaia. Cui faceva da consulente psicologico Barasetegui, incriminato per istigazione al suicidio ed ora suicida egli stesso. Cui faceva parte Elena, ma si era allontanata, e per questo ne viene punita. Che era nota anche ai vertici ecclesiastici, laddove padre Sarasola non fa una gran bella figura.

La nostra scrittrice fa tanti giri di parole, di situazioni, di momenti di pathos. Ci fa entrare nell’orografia navarrina, andando su e giù tra Elizondo e Pamplona. Seguiamo le sue vicende familiari. Vediamo le indagine fare due passi avanti ed uno indietro. Tutto senza un reale coinvolgimento del lettore-spettatore. Per finire tutti i rivoli come ci si aspetta finiscano.

Mistero risolto, strade nuove e separate per le sorelle, madre morta, e Amalia in procinto di riunirsi a James e Ibai che la aspettano in America. Con l’unico dubbio rimasto, collegato ai contatti americani di Amaia: perché le rispondono sempre? Perché la invitano a tenere corsi all’FBI? E chi è il misterioso agente sotto copertura che ogni tanto telefona?

Certo, Dolores prova a toccare molti tasti: l’amicizia, la famiglia, il modo di affrontare le proprie paure, il rispetto, la solidarietà, l’urgenza, interiore, di non subire supinamente il proprio destino. Il tutto condito con la mitologia basca, di cui la scrittrice ben sa e ne è fiera. Tuttavia, lei, e noi con lei, ci manda un messaggio molto semplice. Per quanto si possa credere a figure sovrannaturali, le azioni più truci sono sempre messe in atto dagli essere umani.

“Di tutti i diritti che ha un uomo, quello più importante è il diritto di sbagliarsi, di capire l’errore, di trasformarlo in valore e di non renderlo una condanna per tutta la vita.” (126)

Richard Osman “Il club dei delitti del giovedì” Repubblica Anima Noir 18 euro 8,90

[A: 25/10/2021 – I: 02/01/2025 – T: 04/01/2025] - & e ½   

[tit. or.: The Thursday Murder Club; ling. or.: inglese; pagine: 430; anno 2020]

Molta critica aveva inneggiato al “noir-ironico” di Richard Osman che inaugurava una serie dedicata a “Il club dei delitti del giovedì”, titolo che volutamente ricordava il primo racconto in cui compare Miss Marple di Agatha Christie (“Il club del martedì sera”). Personalmente, devo invece dire che mi ha deluso abbastanza. Qualche spunto ironico, molto inglese, una buona dose di personaggi ben tipicizzati (anche se si potevano approfondire). Ma una trama lenta, contorta, con tante piccole storie che si intrecciano, e con un finale scontato e purtroppo anche molto appiccicato alla trama stessa. Nel senso che si arriva a rendere palesi molti meccanismi, ma con nessun coinvolgimento del lettore. La soluzione usa modi esterni allo sviluppo del testo, così che non è possibile (a meno di esserne l’autore) capire come ci si sia arrivati.

L’idea di partenza poteva essere divertente e foriera di sviluppi. C’è un villaggio, Coopers Chase, creato per i pensionati. Case autonome, ma anche spazi in comune. Lì, tra le tante attività autogestite, un gruppetto di arzilli e arzille persone anziane decide di usare i pochi neuroni che restano prima dell’inevitabile fine, per dedicarsi allo studio (ed eventualmente alla soluzione) di “cold case” che le due organizzatrici hanno nei loro archivi. Il che porta ad uno dei pochi punti positivi del libro: la rappresentazione non stereotipata della vecchiaia, vista sia dal punto di vista degli anziani sia da quello dei giovani (siano essi i figli dei primi o giovani agenti di polizia).

I “vecchietti” sono Elizabeth, una forse ex-agente dei servizi segreti, che ogni tanto tira fuori dal cilindro conoscenze improbabili per una persona apparentemente solitaria (non sola, visto che accudisce il marito Stephen ormai sulla via senza ritorno dell’Alzheimer, ma capace di giocare, anche molto bene, a scacchi) e Penny, una ex-ispettrice di polizia, che molti dossier ha nel suo armadio. Le due sono coadiuvate da Ron, un ex sindacalista rosso  come spesso ce ne sono nella provincia inglese che non ha perso il fervore, la parlantina e che non si fa fregare dalle apparenze, e Ibrahim, detto Ib, un nero (egiziano?) psichiatra con l’amore per i dettagli che serve a portare raziocinio nei momenti troppo concitati. Quando Penny viene colpita da un ictus e ricoverata in coma in ospedale, il suo posto viene preso da Joyce, una ex-infermiera molto naif, dal grande intuito e pronta a voler bene a quasi tutti.

Il villaggio è gestito da un faccendiere, Ian, e da Tony, un ex-gangster che ha quasi ripulito la sua fedina penale. E tutti sono aiutati da uno slavo, Bogdan, anche lui con molti trascorsi fuori dalle linee di condotta perbene. Ma Bogdan è anche uno che sa fare di tutto, quindi serve alla comunità. Che però viene investita da tutta una serie di piccoli fatti. Ian vuole aumentare le sue entrate costruendo altre zone da pensionati, ma per far questo deve anche eliminare il vecchio cimitero del convento di suore che sorge ancora lì, pur senza convento e senza suore.

Ian è anche stanco di Tony, e lo licenzia mettendo Bogdan al suo posto. Mentre assistiamo all’arrivo di un sedicente prete, Matthews, che prende a cuore le sorti del cimitero, ed alla continua osservazione del cimitero stesso da parte di Bertrand, un vedovo della comunità, in sequenza, prima viene ucciso a randellate Tony, poi con un’iniezione di fentanyl in mezzo al tumulto scatenato dalle ruspe che devono svuotare le tombe delle suore, muore anche Ian.

Dicevo delle storie che si intrecciano. Bertrand, facendoci supporre che sia coinvolto in qualcosa del cimitero, si suicida. Nel cimitero Bogdan, in una vecchia tomba (vecchia di almeno centocinquanta anni), trova anche un morto giovane (cioè un cadavere sepolto una trentina di anni prima, ed un cadavere vittima di morte violenta). Si scopre che Matthews, ora medico e spretato, da giovane era veramente un prete e veramente viveva nel villaggio. Si scopre che il marito di Penny (cui non abbiamo prestato attenzione fin ora) è un ex-medico con buone conoscenze dei veleni. Si scopre che Tony in gioventù, da gangster, era sodale con un cipriota che senza motivi apparenti uccise uno slavo per poi sparire dalla circolazione.

Alla fine, senza che si possa ragionarci su per comprendere il tutto, le spiegazioni vengono date, ma usando elementi fino ad allora non noti al lettore. Ed è molto scorretto. Tuttavia sapremo perché è scomparso il cipriota, perché Bertrand si è suicidato, perché Matthews è tornato, perché, come e per mano di chi sono morti Ian e Tony, perché Penny non uscirà dal coma, perché suo marito invece uscirà di scena. Tutto dalla bocca di Elizabeth (ma anche da quella del marito malato), che se non ci diceva lei i collegamenti, noi si starebbe ancora a girare a vuoto.

Così come a vuoto girano due personaggi “attori non protagonisti” che costellano quasi inutilmente le pagine: l’agente Donna ed il suo capo, l’ispettore Curtis. Così come a vuoto girano le pagine del libro, che, avevo dimenticato di dire, si svolge con due linee narrative. Una che racconta i fatti per bocca del narratore onnisciente (che, come detto, sa tutto e ce lo dice senza farcelo capire). Una che invece prende la forma di un flusso di coscienza scritta da Joyce in prima persona (capirete facilmente il gioco letterario che c’è dietro, un flusso di coscienza alla maniera di James Joyce scritto da un’ex-infermiera di nome Joyce).

Ovvio che questa è, bene o male, sono una sintesi del poderoso volume e di tutte le altre piccole storie che lo costellano. Ma che non diventano mai una storia organica. Così come i nostri partecipanti al club, non diventano mai dei ragionatori connessi tra loro magari in sedute di confronto di pensieri ed opere (come ad esempio, nel nostro piccolo, i vecchietti del BarLume di Malvaldi). Così che tutto il testo risulta di un’estrema difficoltà di lettura, dove si salta a destra e sinistra, magari inserendo dopo duecento pagine un personaggio nuovo, ma funzionale alla parte migliore del testo.

Ne esco quindi discretamente insoddisfatto, e seppur so che ho altri libri dell’autore sugli scaffali, non ho al momento nessuna fretta di prenderli in mano. Per tanti dei motivi sopradetti, ma anche per una difficoltà (non so se del testo o della traduzione) che a volte mi fa apparire brani che, per quanto stia attento, non riesco minimamente a comprendere. Come il seguente, a pagina 230, che spero qualcuno sia in grado di spiegarmi: “Chiuse la portiera della Focus dalla parte del passeggero. Il che sembrava appropriato, perché Chris e Donna erano qui per vedere.”

“Conosco la differenza tra solo e solitario, e … è solitario. C’è una cura per questo.” (119)

Don Winslow “La pattuglia dell’alba” Repubblica Brivido Noir 22 euro 8,90

[A: 01/11/2020 – I: 16/01/2025 – T: 18/01/2025] - &&&  

[tit. or.: The Dawn Patrol; ling. or.: inglese; pagine: 412; anno 2008]

Non conoscevo Don Winslow ed anche se questo suo scritto, pur interessante e ben scritto, non mi ha entusiasmato, l’ho trovato una personalità interessante. Prima di tutto perché siamo nati lo stesso anno (e questo è giù un punto in favore), e secondo poi perché da alcuni anni ha deciso di ritirarsi dalla scrittura per dedicarsi ad una serie di campagne tese da ostacolare l’ascesa politica di Donald Trump (e questo è un grande punto a favore).

Il lato sociale di Winslow, comunque, appare com’è ovvio anche nei suoi scritti, ed anche in questo ci sono non pochi momenti in cui abbandona la trama per parlarci del mondo che gira intorno a San Diego, delle speculazioni edilizie, del mondo dei surfer, ed altri momenti della nascita del mondo che gravita intorno alla cittadina californiana a soli 40 chilometri dal confine messicano. Questi momenti sociopolitici sono di certo interessanti, avendo purtroppo il difetto di appesantire una trama che altrimenti sarebbe abbastanza lineare, anche se piena di molti ed interessanti personaggi.

Altro elemento, che almeno per me, ha reso ostica la lettura è tutta la filosofia dei surfer. Incluse le descrizioni delle onde, di come cavalcarle, del codice d’onore dei surfisti, delle tavole, inzeppati da puntate in dialetti hawaiani e samoani (di cui si sa sono un grande conoscitore…).

Il fulcro degli attori del testo è Boone Daniels, tipico esemplare hippies (se ancora ce ne fossero) degli anni 2000. Figlio di due surfisti leggendari, gran surfista lui stesso, ha fatto alcuni anni da poliziotto, scontrandosi però con la corruzione latente della polizia. Si è quindi dimesso, dedicando la sua vita al surf, ed in piccola parte, per sopravvivere, facendo l’investigatore privato. Aveva una grande storia con Sunny ma i problemi in polizia, legati anche alla scomparsa senza ritrovamento di una ragazzina forse vittima di un pedofilo, li hanno raffreddati.

La sua passione per il surf lo ha portato a fondare un gruppo di surfisti, che, riunendosi ad ore antelucane per praticare la loro passione, sono stati battezzati, appunto, la pattuglia dell’alba.

Sunny Day è l’unica donna del gruppo, forse anche la migliore surfista naturale, nata Emily Wendelin, ma poi adottata dalla nonna Eleanor Day (di cui prende il cognome) e chiamata da tutti Sunny perché illumina le loro esistenze. C’è anche un altro elemento unico, il poliziotto sodale di Boone quando questi era in polizia, John Kodani, di origine giapponese così da essere soprannominato Johnny Banzai, e discendente di una delle poche famiglie giapponesi che è rimasta in zona a coltivare la terra.

Anche gli altri membri della pattuglia sono meglio noti con il loro soprannome. Josiah Pamavatuu, un samoano di 170 chili, viene chiamato High Tide (alta marea) perché l’Oceano si innalza quando lui entra in acqua. Ex-membro di una baby gang locale, viene salvato dalla china non proprio eccelsa che aveva intrapreso da Boone e compagni. Brian Brousseau, il più giovane della pattuglia, viene anche lui tirato fuori dal mondo della droga dove lo aveva avviato il padre tossico, e soprannominato Hang Twelve perché ha sei dita per piede. Ed infine Dave the Love God (di cui non sappiamo il vero nome) bagnino infaticabile, ma soprattutto straordinariamente bello, così da conquistare un esercito di cuori (e corpi) femminili.

La storia si svolge nel 2007, dato che non ci viene rivelato ma che si desume dal fatto che tutti i surfisti della zona e non solo attendono delle onde mai viste, generate da un terremoto sottomarino avvenuto nelle Isole Aleutine (che ognuno sa essere la punta estrema dell’Alaska). Ma l’attesa di Boone sarà deviata verso l’investigazione quando l’avvenente avvocato Petra Hall lo contatta per un compito cui non si può rifiutare (perché, al solito, è a corto di soldi).

Deve rintracciare una spogliarellista Tammy Roddick, testimone oculare di un tentativo di truffa perpetrato da un boss locale, Dan Silver, uno dei sodali di primo livello del ras di San Diego, l’hawaiano Red Eddie. Compito non semplice che prima sembra che qualcuno ha ucciso Tammy, essendo invece uno scambio di persone. Poi ci si mette in mezzo un medico Teddy Cole, noto per la sua bravura nel rifare le tette (da cui il soprannome Re di Coppe) e per essere anche lui uno sciupafemmine.

Seguendo queste labili tracce, vediamo scoperchiarsi anche il vaso di Pandora dei “mojados”, gli immigrati messicani clandestini, nonché di un’altra e meno nobile “pattuglia dell’alba”, quella costituita dalla ragazzine messicane immigrate che vengono prese dalle bande locali per essere usate come giovani “carne da macello” ad uso di pedofili e puttanieri vari.

La vicenda è assai complicata, laddove nessuno sembra essere, sino in fondo, quello che appare a prima vista. Petra sembra dura e inflessibile, ma ha i suoi motivi di origine familiare, e della sua bellezza è ben colpito anche Boone. Forse Tammy e Teddy non sono proprio amanti ed hanno altro da nascondere. Ma da quali occhi? E di sicuro Dan è un malavitoso sino in fondo, e forse anche di più. Insomma, tutto si complica e si incastra.

I campi dove lavorano gli immigrati e dove vengono portate le bambine sono di proprietà del nonno di Johnny Banzai, High Tide viene ricattato da Red Eddie che minaccia la sua famiglia a Samoa se non viene aiutato a trovare il fuggitivo Boone. Deve the Love God, oltre a fare il bagnino, è anche uno spallone della droga per Red, ma quando scopre la tratta delle bambine deve decidere da che parte stare: Red o Boone?

Tutti momenti che sarebbe lineare seguire se non ci fossero quelle divagazioni che ho accennato. E se non si accelerasse il finale, per vedere se Sunny riesce a cavalcare l’onda gigante e diventare professionista del surf, se Boone riesce a svelare i segreti di Tammy ed incastrare Dan e Red, se Petra decide di cedere al fascino di Boone.

Un po’ lungo, a volte lento, forse un filo telefonato, ma la mano dello scrittore c’è.

Arnaldur Indriðason “I figli della polvere” TEA euro 14 (in realtà, scontato a 13,30 euro)

[A: 23/11/2024 – I: 14/03/2025 – T: 15/03/2025] &&&

[tit. or.: Syinir duftsins; ling. or.: islandese; pagine: 330; anno 1997]

ES01

E con questo, chiudiamo un cerchio. Negli ultimi quindici anni, a partire dal 2010, ho letto diciannove dei ventuno libri tradotti in italiano e scritti dal grande scrittore islandese Arnaldur figlio di Indriði G. Þorsteinsson, a sua volta scrittore e giornalista. In particolare quest’ultima lettura è in realtà il primo volume scritto da Arnaldur con le avventure e le indagini del commissario Erlendur Sveinsson. Questo perché a suo tempo cominciarono a tradurre il terzo libro, che aveva avuto successo internazionale, mentre questo (e il secondo episodio) ritenuti un po’ acerbi, hanno dovuto aspettare quasi trent’anni per essere tradotti.

E seppur concordiamo con la non completa maturità del testo, vediamo nascere il personaggio, ne vediamo alcuni tratti che rimarranno, ed altri che andranno scomparendo. Erlendur non è ancora quel maestro di pensiero ed introiezione, ha ancora molte pulsioni eccentriche rispetto alla sua natura. Così come il contorno dell’azione è ancora molto sfumato ed in un certo senso ancora non veramente islandese.

Il primo elemento che balza agli occhi è l’attrito che c’è tra Erlendur ed il suo vice, Sigurður Oli, frutto di alcune vicende pregresse e di alcuni atteggiamenti attuali. Un attrito che sfumerà ben presto in una più attiva collaborazione e comprensione reciproca, sebbene ci vorranno alcuni libri. Come libri e tempo ci vorrà per l’entrata in scena del terzo elemento indagatore, l’ispettrice Elinborg. Mentre il rapporto con i figli è già presente e conflittuale, anche se qui rimane in un certo senso marginale.

L’altro elemento atipico di questa prima uscita è il fatto che c’è una seconda voce che indaga per tutto il romanzo. Una voce che ogni tanto converge con Erlendur, ma non sempre. Anzi, se convergesse di più, forse si arriverebbe prima alla comprensione dei meccanismi della trama. Mentre qui seguiamo appunto le riflessioni di Palmi, che ben si inseriscono nel filo della trama, ed in un certo senso ce ne danno una visione non omologa a quella poliziesca.

La vicenda parte da due morti: Daniel, un paziente di una struttura psichiatrica e fratello maggiore di Palmi, si suicida e Halldór, un vecchio insegnante in pensione, muore nel rogo della sua casa, con evidenti problemi di dolo, visto che era legato e strettamente ad una sedia e cosparso di benzina, prima che la casa prendesse fuoco, bruciando lui e tutto il contenuto (ricordo che spesso le case islandesi sono costruite in legno).

Ben presto si scopre il legame tra i due: Halldór era venuto spesso negli ultimi tempi a trovare Daniel. E Palmi scopre anche che Halldór era stato l’insegnante di Daniel verso i quindici anni del fratello. Erlendur, trovato questo aggancio, comincia ad indagare scoprendo che: la classe di Daniel, quell’anno, ebbe risultati scolastici sorprendenti e che, dall’anno successivo, tutti gli alunni cominciano ad avere problemi. Chi muore d’infarto a quattrodici anni, che si suicida, chi comincia ad abusare di droghe, chi va fuori di testa.

Tuttavia, mentre seguiamo con occhi poliziesco l’indagine di Erlendur, è con l’occhio del cuore che ripercorriamo con Palmi la sua vita ed il suo rapporto con il fratello (una costante che si riproporrà molti libri più avanti, nella descrizione del rapporto tra Erlendur e suo fratello). In fondo questa, oltre alle tematiche che delineo più avanti, è la parte migliore del libro. Che invece, nella parte thriller vira ben presto verso una poca plausibilità.

Si scopre infatti che c’è un industria islandese che decide di sperimentare una strana polverina, utilizzando come cavie inconsapevoli proprio la classe di Daniel e costringendo Halldór a tenere lui in mano le fila della sperimentazione, usando come ricatto il passato poco limpido di Halldór stesso. Già questa è una situazione al limite, che poi Arnaldur esaspera verso il fine sperimentale, che non era chiaro all’epoca, ma che ora, trent’anni dopo si palesa. Un finale improbabile e poco coinvolgente. Unico momento di speranza e consolazione è l’uscita di Palmi dalla sua depressione, e l’avvio di un possibile più roseo futuro.

Mentre Erlendur e la sua squadra, risolto il caso, si avvieranno alle nuove prove che ho già descritto nel corso di questi anni.

Come vedete, l’altro e fondante elemento già presente qui, e sempre presente, con più o meno forza, nella narrativa di Arnaldur, è la critica allo stato sociale, ed ai guasti di una situazione generale dell’isola che porterà (anche se qui si può solo ipotizzarlo visto che siamo nel secolo scorso) ai problemi dei primi decenni del secolo. Anzi, per fare un riassunto completo, pur se accennate, sono presenti quasi tutte le topiche di Arnaldur: il gelo, la solitudine, le improvvise sparizioni, lo sviluppo economico anomalo, fino a tutto il retaggio dell’occupazione militare americana e britannica, con tutti i rapporti interpersonali che ha creato e spesso portato a momenti di forte attrito.

Una lettura filologica, ma non priva d’interesse.

Jessica Fellowes “Scandalo in casa Mitford” Repubblica Anima Noir 32 euro 8,90

[A: 26/01/2022 – I: 03/04/2025 – T: 06/04/2025] - &&

[tit. or.: The Mitford Scandal; ling. or.: inglese; pagine: 366; anno 2019]

Riprendiamo, a distanza di un anno circa, la lettura dell’epopea seriale scritta da Jessica Fellowes quasi a mo’ di biografia della famiglia Mitford. Questo è il terzo episodio, e, come ci si può aspettare, è ovviamente un episodio incentrato sulla terza sorella. Così come il primo aveva per protagonista la primogenita Nancy ed il secondo la cadetta Pamela. Qui è il turno di Diana. Anche se, come sa chi ne ha letto, la figura di riferimento che ci fa percorrere le varie vicende è Louisa Cannon.

L’abbiamo conosciuto con Nancy che si occupava della nursery di casa Mitford, e poi nelle vesti di chaperon della giovane Pamela. Ovviamente sempre invischiata in problemi legati a morti sospette. Ed in questo aiutata sempre dal sergente Guy Sullivan. Ora, dopo i primi anni con i Mitford, Louisa cerca di emanciparsi, anche sull’onda delle suffragette incontrate nel secondo episodio. Vive a Londra, e spera di sfondare in qualche ramo, anche se si deve accontentare di piccoli lavori domestici, avendo fallito il concorso a donna poliziotto.

Un fallimento che si ripercuote anche sulla sua vita privata, visto che, per scorno, si allontana da Guy, anche se sembravano due anime non dico gemelle, ma gemellabili. E questo tira e molla tra i due, senza entrare in altre descrizioni, prosegue anche qui, pur se sembra, alla fine, destinato alla soluzione che tutti ci aspettiamo.

Un punto di sicuro pregio dell’episodio è il fatto che molte delle morti del romanzo sono realmente avvenute, o sono realmente descritte come avvenute con qualche piccola modifica. L’elemento meso positivo, oltre ad un paio di notazioni che farò nel finale, riguarda alla grande estensione temporale degli avvenimenti. Tra una cosa e l’altra, le avventure iniziano nel 1928 e terminano nel 1932, un lasso temporale che di certo non facilita le eventuali indagini sulle possibili morti sospette.

Comunque noi seguiamo Louisa. Poiché non trova lavori stabili, si adatta nel ’28 a fare da supervisione per un grande banchetto organizzato dalla famiglia Guinness a Grosvenor Place. Dove, ad un certo punto, dal ballatoio dove stavano per guardare i balli, una cameriera, Dorothy Martin, precipita e muore. L’avvenimento è reale (si legge nelle cronache dei giornali del tempo). La scrittrice lo trasforma in un possibile inizio di una vicenda criminosa.

In ogni caso, al ballo, l’erede dei Guinness, Bryan, chiede la mano di Diana nel giorno del diciottesimo compleanno di lei. Diana, ancora inesperta, chiede allora a Louisa di diventare sua cameriera personale. Ed in tal veste, si recano tutti a Parigi. Dove avviene una seconda morte, quella pare per crisi allergica da sesamo di Shaun Mulloney. Una morte poco sospetta, al tempo, anche se poi qualche pensiero viene quando tutti si trasferiscono a Venezia.

Non ci sono solo Diana e Bryan, insieme alla fida Louisa. Ma c’è Nancy con l’amica Clara, c’è Kate la vedova poco triste di Shaun, c’è Luke un giornalista da gossip presente sia a Parigi (dove aveva portato dei cioccolatini alla compagnia) sia a Grosvenor, dove era per qualche articolo. Ed a Grosvenor e Venezia, accompagnato dalla zia, Lady Boyd, una dama decaduta che organizza i pranzi, le cene, ed i ricevimenti degli aristocratici.

Perché a Venezia, per un’overdose di oppio, muore Clara, che era l’amante di Shaun. Tutti i sospetti convergono su Kate, tant’è che tornati a Londra, dietro alle indagini non pressanti ma palesi di Louisa e Guy, muore anche Kate, in un suicidio che lascia qualche domanda sui modi. Quand’anche una quarta persona sta per essere uccisa, i nostri riescono a trovare il bandolo di tutte queste morti, ed a sventare la folla impresa criminale di… (e di certo non ve lo dico).

Quello che vi dico è appunto che tra la prima morte (che si rivelerà collegata, seppur casualmente) e l’ultimo quasi omicidio passano quattro anni. E non vi dico con che fatica si possano reperire prove di eventi dolosi a così lunga distanza temporale. Una pecca, ovvio, ma che serve alla scrittrice per inserire in controcanto la vicenda reale di Diana Mitford. Che sposa Bryan a gennaio del ’29, che partorisce due figli (Jonathan nel ’30 e Desmond nel ’31), che diventa uno dei fari della vita mondana londinese degli inizi degli anni Trenta. Vita mondana dove incontra Oswald Mosley, di quattordici anni più anziano, e con lui scoppia “l’amour fou”. Nel ’32 Diana va via di casa con i figli, nel ’33 divorzia da Bryan e nel ’36, quando muore la prima moglie di Oswald, lo sposa, ed anche con lui ha due figli (Oswald Alexander nel ’38 e Max nel ’40).

Le vicende Mosley sono comunque importanti che Oswald, ammiratore di Mussolini, fonda il BUF (British Union of Fascists), e diventa il punto di riferimento dei fascisti anglofoni. Ovviamente, nel ’40 verrà prima arrestato, poi tenuto ai domiciliari con Diana sino alla fine della guerra. Da ricordare che il matrimonio di Oswald e Diana si tenne a Berlino, a casa di Goebbels, e vide tra gli ospiti anche Adolf Hitler. Per vicende più “amene” ricordo invece che il figlio Max, da sempre legato agli ambienti automobilistici, circa dal 1990 al 2010 fu presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile, quella che, tra l’altro, organizza il campionato mondiale di Formula 1.

Venendo ad alcune puntualizzazioni, a pagina 180 si ipotizza che gli effetti del venerdì nero di Wall Street (24 ottobre 1929) si siano sentiti in Inghilterra solo verso marzo 1930. Mi permetto di dubitare. Laddove invece non dubito che a pagine 260, il correttore di bozze abbia confuso Luke con Guy. Quello che invece non è confuso è l’accenno alla somiglianza tra il secondo morto, Shaun, e Gary Cooper. Gary all’epoca aveva 28 anni, ed era bello quasi quanto me, essendo entrambi nati il 7 maggio.

Pur non disdegnando le incursioni nella realtà (e non ultima tutta la parte dedicata al fascino del fascismo per certa élite londinese), e non sottovalutando la bravura della scrittrice nel dipingere le attività e le atmosfere della “middle and upper class” britannica, il romanzo risulta troppo sfilacciato (ci si perde nei tempi lunghi). Tanto che ci si domanda se sia veramente possibili ricollegare avvenimenti sparsi a distanza di quattro anni, laddove solo tecniche attuali sembrano poterlo assicurare.

Anche lo scioglimento non è dei più facili da digerire, sperando solo che finalmente, dopo quasi dieci anni di tira e molla, Louisa e Guy possano trovare una convergenza non solo sugli omicidi, ma anche nella vita quotidiana.

Credo che andrò a stanare prima o poi il quarto libro della serie, perché penso sia incentrato sulla figura di Unity, forse la più fascista delle sorelle Mitford.

“La vita è breve, e non bisogna sprecarne neppure un secondo.” (323)

Poiché sono anche queste settimane di riflessione, vi dedico un ampio florilegio dello scrittore psicologo Lorenzo Licalzi. Certo non siamo ai livelli di “Io no”, quando continuando a chiedere risposte sulle questioni della vita al fratello, questo gli risponde: "Secondo te, uno che si fa tatuare un punto interrogativo ti può dare qualche risposta?".

Qui cominciamo con alcune belle frasi tratte da “Non so”:

“Io faccio parte di quella percentuale minima di italiani che ai sondaggi risponde non so … un po’ perché le convinzioni non sono il mio forte, ma soprattutto perché non ho nessuna intenzione di dire a quelli del sondaggio se preferisco il dolce o il salato…” (11)

“Lo sai che odio andare nei negozi a misurarmi le cose” (54)

“Io rimanevo … sospeso tra il ragazzo che ero e l’uomo che dovevo diventare” (65)

“Io non sono mai stato un ribelle; ero irrequieto, insofferente alle regole, fondamentalmente anticonformista … magari non … in modo appariscente … per il resto non ho mai inseguito con determinazione un sogno, non sono mai stato uno di quelli che hanno un fuoco dentro che non si spegne mai e che non possono star fermi ad aspettare che succeda qualcosa che gli cambi la vita, io ho sempre aspettato Godot.” (65)

“Se non avessi voluto lavare i piatti non li avrei lavati fino a quando non ero costretto a bere il caffè nel mestolo del minestrone (che era l’unica cosa che non sporcavo perché, a parte il fatto che il minestrone è già triste di suo, cucinarselo e mangiarselo da soli è davvero una delle cose più tristi della vita, seconda solo a farsi un bagno in una vasca con poca acqua in una stanza fredda).” (164)

E terminiamo con altre frasi tratte da “Che cosa ti aspetti da me?”:

“Ora che sono vecchio e stanco e solo, se mi guardo indietro mi sembra che la mia vita sia la vita di un altro. … Eppure, nei sotterranei della coscienza, l’essenza ultima della mia persona non è cambiata, è la stessa di quando avevo vent’anni o quattordici o nove. …Io ho l’anima del bambino che ero e il corpo del vecchio che sono.” (13)

“Da qualche parte … ho letto una frase che diceva all’incirca: il nostro destino è quello di essere inferiori all’idea che avevamo di noi stessi.” (50)

“L’avessi incontrata prima … Sapere che lei c’era, che è nata nella mia stessa città, in un quartiere non lontano dal mio, è il più grande rimpianto che ho. Chissà quante volte ci siamo sfiorati, questione di ore, di minuti, forse sarebbe bastato un cambiamento minimo, impercettibile dei percorsi della nostra vita, e la vita l’avremmo trascorsa insieme.” (96)

“Mi ero dimenticato che sapevo emozionarmi.” (135)

“Un giorno me lo hai chiesto, ricordi? Che cosa ti aspetti da me? E ricordi cosa ti ho risposto? Mi aspetto che tu non mi chieda che cosa mi aspetto da te. Che non voleva dire ‘niente’, ma tutto quello che eri in grado di darmi senza avere bisogno di chiedermelo.” (142)

“Mi spiegò, per esempio, che il segreto della piena realizzazione è riuscire a comunicare agli altri ciò che si è attraverso quel che si fa, ma che per essere davvero equilibrati e sereni è indispensabile che ciò che si fa sia realmente quello che si vuole e non quello che vogliono gli altri.” (156)

Chiudiamo questa settimana, girata intorno alle ultime attenzioni al nostro cane, lasciandoci in testa riflessioni e pensieri. C’è chi muore fisicamente ma rimane sempre vivo nella mente, nei ricordi. Chi muore nella mente, invece, sparisce per sempre. Ma ora dobbiamo affrontare i mesi estivi e la loro complessa organizzazione di spostamenti, piccoli e grossi. Per cui, per ora, finiamo qui con tanti abbracci.