Come riporto nella prima trama, e qui preannuncio, con questa trama andiamo verso un “ritorno al futuro”. Da adolescente fin alla prima maturità, ero un incosciente collezionista di libri di fantascienza. Ne avevo tanti e letti il giusto. Poi, congiunture della vita mi hanno, giustamente, portato (o riportato) verso altre letture. Ma, prendendo spunto da una celebrazione mondadoriana, ho messo di nuovo tra i miei scaffali una buona dose di quelli che dovrebbero essere dei caposaldi del genere. Di cui qui abbiamo le prime trame.
Con due italiani, Mongai ed
Evangelisti, che ci hanno lasciato. E tre autori anglosassoni, Shiel, Bova e
Blish, esempi interessanti di diverse sfaccettature del genere. Devo dire che
il solo Mongai raggiunge un buon livello con la sua fantascienza umoristica. Meglio
degli altri pur esemplari testi, dalla fantascienza apocalittica, a quella
religiosa, passando per tematiche vicine al fantasy ed alla fantastoria.
Comunque, ma con molta flemma, ne
vedremo altro, come dire, in futuro.
Massimo
Mongai “Memorie di un cuoco d’astronave” Mondadori Urania 25 euro 6,99
[A: 15/07/2022
– I: 13/08/2023 – T: 14/08/2023] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 262; anno: 1997]
Con
questa lettura inauguriamo un omaggio ed un ricordo. Forse non molti sanno (o
ricordano) che il vostro tramatore era in gioventù un appassionato lettore di
fantascienza, quando questa affrontava temi sociali, dilemmi morali ed altre
storie non basate sull’invenzione di armi, guerre ed altre diavolerie. Poi, a
partire dalla svolta, che io non approvai, data da “Negromante” di Gibson,
progressivamente ho abbandonato questo filone, per convertirmi ad un interesse
più vicino all’esperienza quotidiana, il poliziesco di situazione.
Ma
lo scorso anno si celebrava il 70° anniversario della nascita della rivista
fondamentale della fantascienza italiana. Infatti, il 10 ottobre 1952 esce il
primo romanzo di Urania, “Le sabbie di Marte” di Arthur C. Clarke. Ed allora,
la stessa Mondadori decide di ripubblicare una serie di numeri storici di
questi romanzi. Io, personalmente, ne avrei riediti per l’appunto settanta, ma
la casa editrice ha deciso di fermarsi a quarantacinque.
La
casualità di alcune mie scelte di lettura mi porta poi a leggere come primo
libro un romanzo di un autore italiano, che già apprezzai venticinque anni fa,
ma che poi, come tutto il genere, lasciai decadere. Per questo, è con
dispiacere che ho letto che Massimo Mongai è morto sei anni fa. Era un buon
autore, elemento di punta negli anni Novanta di un ramo di fantascienza, quella
umoristica, che ha espresso alcune opere interessanti (ad esempio tutta la
serie galattica di Douglas Adams, le opere di Kurt Vonnegut jr, per non andare
indietro sino alle “Cosmicomiche” di Calvino).
Mongai
era sempre stato uno spirito libero, cosa che si riflette in alcune scelte
all’interno del romanzo: tolleranza, uguaglianza tra razze e sessi, liberalismo,
antiproibizionismo (vedi la ricetta che riporto in fondo a tutte le trame).
Insomma, nella descrizione dell’Agorà spaziale, riversa (e noi con lui) le sue
idee. Anche per le sue esperienze diverse di vita. Non a caso, l’idea di questo
“memoir” inventato deriva direttamente dalle sue esperienze di cuoco su di una
nave.
Quindi
seguiamo questo cuoco del futuro, Rudy Turturro (sarà il caso questo cognome
attorialmente riferito?), che decide di imbarcarsi su di una nave come
aiuto-cuoco, che per una serie di avvenimenti fortuiti diventa Capo Cuoco, e
dove, con la sua sagacia, con una intelligenza pronta a adattarsi alle diverse
situazioni, non solo terminerà gloriosamente i tre anni da cuoco nello spazio.
Ma ne trarrà spunto per libri di cucina intergalattica, ed anche per
intraprendere con successo e lungimiranza, una carriera politica.
Perché
navigando tra i vari mondi, sperimenta le cucine e le abitudini alimentari di
specie di diverse natura, viene a contatto, senza mai supporsi superiore, alle
diverse culture infragalattiche, dove si impara che il diverso è solo diverso,
né inferiore né altro. E se il diverso, con un composizione organica simile
alla nostra mangia qualcosa, vuol dire che quel qualcosa si può mangiare. Come
mostrano le ricette che adornano la fine di ogni capitolo, come ho capito io
nei miei lunghi anni girovagando intorno al globo.
La
seconda idea ironica di Mongai è l’utilizzo, per descrivere razze ed altre
diversità, di una lingua anglo-romanesca. Per cui, una volta fatto l’orecchio
capiamo (tanto per fare un esempio) che l’astronave si chiama Muhmmeenuh, che letta in inglese viene
“Mammina”. O che l’ingrediente della ricetta finale sono le “poon-tah-raelluh”
(e le capite da voi).
Come detto, l’astuzia di Rudy gli consente
di barcamenarsi nel preparare ricette per le tre tipologie di passeggeri: gli
umani, gli Alieni Ox (cioè che respirano ossigeno) e quelli non-Ox. Di
sopravvivere a fughe di gas, a passeggeri dediti a sesso tipo mantide
religiosa, a pianeti-bordello come “Porto Pazzo” (e sono da gustare le sue
personale avventure erotiche), ad una possibile invasione dei Talponi di
Altair, ad insaporire i piatti di una Regina delle Api con ingredienti basici
come olio e sale (poco aglio, please).
Non è molta la fantascienza che si occupa di
cibo, che non è un elemento facile da trattare, ma Mongai, con le sue ricette
ad anni-luce zero, ci invoglia non solo a provarle, magari sostituendo elementi
alieni con elementi nostrani. Ma ci conduce a pensare che la cosa che tutti
dovremmo fare è viaggiare, viaggiare, viaggiare.
Dispiace solo una piccola svista, dove a
pagina 92, per risolvere un problema relativo a degli alieni di Buh-Kur-‘Otzee,
sta cucinando un piatto sardo. Peccato che la scrittura in stampa riporti: “Io
stavo preparando le seadas, sarde da friggere”. Dove appunto, Rudy prepara le
“seadas” sarde, ravioloni di formaggio fritti ricoperti di miele, e non dei
pesci, le sarde, da friggere.
Ultimo accenno, è la vittoria finale contro
un’insalatona aliena che rischia di invadere e di mangiare tutti gli esseri Ox
dell’astronave. Rudy con un espediente che non vi dico la sconfigge. E da quel
giorno avrà il suo nome completo: Rudy “Basilico” Turturro.
Divertiti ancora a cucinare, caro Massimo, e
noi a provare la tua ricetta.
Matthew
P. Shiel “La nube purpurea” Mondadori Urania 11 euro 6,99
[A: 12/04/2022 – I: 31/10/2023 – T:
01/11/2023] - && +
[tit. or.: The Purple Cloud; ling. or.: inglese; pagine: 329; anno 1901]
Seconda
lettura della collana dedicata al compleanno della rivista Urania, e lettura
che induce alla riflessione sul termine “fantascienza”, e sui suoi derivati.
Infatti, è unanimemente accettato che la fantascienza abbia origine,
ufficialmente, il mese di aprile del 1926, con la pubblicazione del primo
numero della rivista “Amazing Stories” (cioè storie sorprendenti) da parte di Hugo
Gernsback, un lussemburghese naturalizzato americano. Che diverrà talmente
centrale per la fantascienza che il premio assegnato annualmente al miglior
romanzo del genere si chiama “Premio Hugo”.
Gli
scritti precedenti vengono allora chiamati proto-fantascienza (dove, insieme a
mio cugino Cesare, possiamo risalire sino a Gilgamesh), oppure viaggi
immaginari (pensiamo a Verne), romanzi scientifici (e qui citiamo Wells) o
letteratura post-apocalittica (di cui, forse, questo è un esempio chiaro e
premonitore). Tanti potrebbero essere gli spunti, ma qui, pur non essendo un
romanzo che contiene elementi scientifici, può essere letto come precursore del
genere (dove possiamo stendere un filo rosso che partendo da qui, passando per
“La peste scarlatta” di Jack London, arrivi sino a “La strada” di Cormac
McCarthy).
Venendo
al testo ed al suo autore, per chi non ne sapesse molto, Shiel è un oriundo
antillano, di buona famiglia meticcia, che si trasferisce in Inghilterra per
studiare e lavorare, entrando nel mondo letterario, anche se viene maggiormente
ricordato, nelle cronache, come primo re di Redonda con il nome di Felipe I.
L’isola, poi annessa allo stato di Antigua e Barbuda, era stata acquistata dal
padre di Shiel, che l’aveva eretta a regno per il figlio, pur nell’ambito della
corona britannica. Ricordo, per inciso, che l’ultimo re di Redonda fu lo
spagnolo Javier Marias.
Comunque,
pur spaziando su varie tematiche, l’opera letteraria di Shiel è ricordata solo
per questo testo, in cui costruisce un insieme enorme di pagine al fine di
descrivere una vicenda semplice e lineare, seppur “apocalittica”.
Ricordo
che il testo viene scritto nel 1900 e pubblicato l’anno successivo.
Il
primo espediente soprannaturale che Shiel usa è immaginare di ricevere le
confessioni di un suo amico ipnotista, che gli cede la scrittura di una sua
paziente ipnotizzata, che, durante l’ipnosi stessa, parla di fatti passati e
futuri secondo l’autore senza sbagliarne uso. Ecco allora che le più di 300
pagine sono dedicate alle parole della paziente che descrive gli avvenimenti
che dovrebbero svolgersi quindici anni nel futuro rispetto alla scrittura di
Shiel.
Qual
è la predizione della signora? Tutto comincia (e questa prima parte è la meglio
riuscita dal punto di vista dell’intreccio) con l’organizzazione di una
spedizione alla conquista del Polo Nord. Ricordo ancora, per inciso, che il
primo uomo ad avvicinarsi realmente al Polo fu Frederick Cook nel 1908. Chi
descrive i fatti è un medico, con diverse cognizioni scientifiche, il
venticinquenne Adam Jeffson.
Lui
non vorrebbe partire, ma la morte di uno degli scienziati lo invoglia ad
accettare l’imbarco sulla Boreal. Morte che forse è causata da un veleno
somministrato dalla sua fidanzata arrivista. In questa parte si descrive il
viaggio della Boreal sino all’89° parallelo, dove bisogna lasciare la nave ed
avventurarsi con slitte. Ci sono solo cinque posti e Adam è il sesto. Ma sfida
a duello il meteorologo, lo uccide e potrebbe partire. Tuttavia, il ghiaccio
impedisce la partenza, i cani muoiono, ed i posti si riducono a quattro, e lui
è il quinto. Ma in una notte di tragedia, incidentalmente Adam uccide un altro
membro, così che finalmente è della partita.
Fatto
sta che, a poca distanza dal Polo, un terremoto artico uccide tutti gli altri, e
Adam sarà il solo ad arrivare alla meta. Mentre la guarda, nota una nuvola
purpurea (forse sarebbe meglio descritta come viola) sollevarsi dal Polo. Adam
è rimasto solo, con difficoltà riprende la via del ritorno, sino alla nave,
ancora bloccata nei ghiacci. Ma una volta a bordo scopre che tutti i marinai
sono morti.
Qui
comincia la seconda, lunga e discretamente pallosa (se non per alcuni punti che
vi dirò), in cui Adam intraprende il lungo viaggio verso la civiltà, al fine di
tornare a Londra. Durante la via scopre che tutte le persone che incontra sono
morte, come morti sono tutti gli abitanti di Londra. Dopo aver tentato
inutilmente di trovare un vivente, trova una barca, ed intraprende un lungo
viaggio per le città del mondo, con l’intento (e vi riesce) di bruciarle, di
distruggerle tutte, in un impeto di potenza “divina”. Il bello di questa lunga
parte è la descrizione geografica dei luoghi, che l’autore riesce a rendere con
vivida piacevolezza.
Dopo
vent’anni di questo delirio, Adam decide di incendiare anche Istanbul. E qui
trova una sorpresa che permette all’autore di passare alla terza parte della
storia.
Nella
città turca trova una ragazza ventenne, scampata alla morte della nube in
quanto nasce mentre avviene il cataclisma, e per qualche oscura ragione ne
rimane immune. Ora abbiamo una giovane e piacente ventenne ed un cinquantenne
che da metà della sua vita è rimasto solo. Che potrà succedere?
L’apocalittico
Shiel la mena a lungo sul fatto che Adam (vi siete accorti del nome) decida o
non decida di accoppiarsi con la signorina (che lui chiamerà Leda, forse
ricordando non tanto il cigno quanto il fatto che uno degli attributi
mitologici era Nemesi, dea della vendetta) per ricominciare a polare la terra.
D’altra parte Adam è un assassino di almeno due se non tre persone, e, benché
proveniente da una famiglia metodista, questo contrappasso non potrà non aver
intrigato la mente dell’autore. Questa è la parte meno riuscita, e per fortuna
abbastanza corta, da ricordare solo per l’educazione che Adam fornisce a Leda,
la quale, avendo vissuto venti anni in un ambiente senza umani, non sa parlare.
Con
la decisione di Adam si chiude il libro. Le potenze divine avevano scatenato la
distruzione, ma il primo uomo che ora è anche l’ultimo, deciderà come
comportarsi.
Una
scrittura molto datata, che non si fa leggere agevolmente. Tuttavia, la parte
geografica è notevole, la parte avventurosa (cioè la prima parte) è leggibile,
da pagina 80 in poi è consumabile a salti. Tutto si ripete un po’ uguale,
andando verso una fine che già si adombra nelle prime pagine del testo.
Comunque,
a me, a parte la lettura filologica, rimane più impressa la figura dell’autore.
Ben
Bova “Orion” Mondadori Urania 10 euro 6,99
[A:
01/04/2022 – I: 02/07/2024 – T: 04/07/2024] - &&
e ½
[tit.
or.: Orion; ling. or.: inglese; pagine: 399; anno 1984]
Benjamin
“Ben” Bova è stato un altro grande pilastro della fantascienza, anche se,
personalmente, non mi ha mai dato una grande impressione, a livello di
scrittura. Infatti, affacciatosi sulla scena negli anni ’60 con titolo di medio
successo, ha avuto il grande merito di inventarsi compilazioni di antologie con
un piglio molto attraente, motivo per il quale ha più volte vinto i grandi
premi del settore.
Ha
anche scritto molto (nella sua bibliografia si contano almeno un centinaio di
opere), spaziando nei vari settori del genere, ed in particolare rimane famoso
per la saga intitolata “Il ciclo di Orion”, di cui questo libro, uscito
quarant’anni fa, segna il primo e forse migliore capitolo. Un capitolo che, ad
onor del vero, si colloca un po’ ibridamente nel settore, contenendo in sé una
serie di semi che innestano, sul filone puro e duro, qualche venatura di
fantasy.
La
storia inizia in maniera coinvolgente: John O’ Ryan sta in un bar a Manhattan,
guardando una signorina attraente, quando entrano due tizi, uno bello e sereno,
l’altro cupo e tenebroso. Peccato che subito scoppi una bomba, lui salva la
signorina, che però viene rapita. A questo punto cominciano i salti quantici
del raccontare fantascientifico. John è un tecnico dedicato ad un complicato
programma di fusione nucleare. Il tenebroso che ha buttato la bomba (sul bello
torniamo poi) è, forse, il cattivo e vuole invertire la fusione e far scoppiare
una bomba per distruggere metà degli Stati Uniti, far nascere una guerra e far
scomparire il genere umano.
John
salva la situazione e il mondo, ed a questo punto passiamo alla parte fantasy
del romanzo. Che il bello ed il cattivo sono da miliardi di anni in lotta, e
non è un caso che quando scopriamo i loro nomi, abbiamo facilità di risalire ai
miti primitivi, alle credenze zoroastriane. Infatti il buono si fa chiamare
Ormazd il Radioso che facilmente deriva dal dio creatore conosciuto come Ahura
Mazda. Mentre il cattivo è noto come Ahriman, anche lui dal dio zoroastriano
delle tenebre Angra Mainyu. Niente di sconvolgente quindi che John O’ Ryan sia
una storpiatura americana del nome del nostro eroe, ovviamente Orion (se li
pronunciata all’inglese capite subito).
Orion
è quindi derivato di Orione, il cacciatore della mitologia, che si innamora di
una dea, che per questo viene osteggiato, che comunque ha una vita gloriosa, e
rispettosamente servente Zeus e gli dèi maggiori. Ed in questa riscrittura
delle mitologie erranti per i secoli, vediamo le varie tappe di avvicinamento
al nucleo del racconto. Orion, con l’aiuto del Radioso rinasce ogni volta
secoli e secoli all’indietro. Ed ogni volta c’è una donna, incarnazione della
dea Anya, che lo aiuta nei momenti difficili. E c’è sempre il Tenebroso che
cerca di trovare il modo per mettere delle zeppe all’evoluzione dell’umanità.
In
realtà, i due momenti topici sono quando Orion si trova prima ai tempi di
Gengis Khan e poi nel neolitico. La prima situazione è la più interessante, e
meglio descritta, anche se si tratta più di un ucronia che di fantasy o altro.
Vediamo i discendenti del Khan, in particolare il suo successore Ögödei Khan o Ogotai.
Che continua la spinta espansionistica del padre, pur rimanendo negli ozi della
capitale Karakorum, mentre il suo principale generale Subotai si estende sempre
più verso Occidente. Il dilemma è facile: se continua a vincere Subotai, non
può nascere una civiltà occidentale (cosa cui sta spingendo il Tenebroso). Per
fermarlo, Orion deve uccidere Ogotai, così che tutti i generali tornino in
patria e si fermino le conquiste.
Sappiamo
bene dai libri di storia com’è andata, anche se Ogotai muore di cirrosi
epatica.
Nel
neolitico, invece, si imbatte in una delle tante tribù nomadi, che, una volta
l’anno, torna nella valle ancestrale, raccoglie il grano e poi riparte. Orion,
arrivato lì, insegna ai trogloditi i rudimenti dell’agricoltura, trasformando
il popolo nomade in un popolo sedentario. Ovvio che anche qui abbia da
combattere con il Tenebroso.
Andando
a ritroso nel tempo, alla fine, Orion arriva al nocciolo della questione, là
dove tutto ha inizio. Dove si scopre che il popolo del Tenebroso era lui che
viveva pacificamente in quelle terre, mentre il Radioso è lui il conquistatore,
quello cui serve la Terra per perpetrare la propria razza. Insomma, l’ateo Bova
arriva al nocciolo del suo problema: chi ha popolato la Terra? Perché e come
l’Homo Sapiens ha soppiantato l’Homo Neanderthalensis? Come nascono e si
sviluppano i miti antichi che portano alla nascita degli Dei?
Niente
ci sorprende se, alla fine, Orion pur avendo sconfitto Ahriman, non rimane
pedissequamente servizievole con Ormazd, anzi si sente che potrà nascere una
rivalità (che non ci sorprende a posteriori, visto che Bova scrive altri sei
romanzi del Ciclo).
Insomma
una serie di problematiche para-filosofiche, cui però Bova, pur attento alle
dinamiche della scrittura di genere, non ha la struttura letteraria per
arrivare a darci un quadro convincente delle sue teorie. Rimane il resto della
storia, dove il lato romantico (il rincorrersi nelle ere geologiche di Orion e
Anya) ci lascia alquanto freddo. Meglio, come detto, le parti di ricostruzione
storica. Ed in particolare, tutta quella dedicata ai Mongoli, che si vede ha
preso la penna e la testa dell’autore, che l’ha riempita di fatti noti e di
intrecci realisticamente inventati.
Il
resto è abbastanza giù di corda, facendo di questo libro un buon esempio di un
filone fantascientifico interessante, pur non essendo uno degli argomenti
migliori del genere. Ne riparleremo per altre scritture.
Un
ultima domanda, per i traduttori. A pagina 126 viene nominato il capo della
setta degli Assassini (quelli che uccidevano sotto l’influsso dell’hascisc da
cui il nome), indicandolo come “Veglio della Montagna”. Penso che nessuno si
sarebbe offeso se avessero utilizzato il nome corretto, e cioè “Vecchio”. Ogni
tanto ci vuole un po’ di attenzione.
“[Gli
umani] quando non hanno nessun altro contro cui combattere, combattono tra
loro. Si massacrano a vicenda, continuamente.” (73)
Valerio
Evangelisti “Nicolas Eymerich, inquisitore” Mondadori Urania 9 euro 6,99
[A: 30/03/2022
– I: 22/02/2025 – T: 23/02/2025] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 236; anno: 1994]
Senza
purtroppo saperlo ho comprato questo libro un mese prima della morte di Valerio
Evangelisti. Uno scrittore che mi ha sempre leggermente inquietato, data la
scrittura, potente ma un po’ distante da me, che evoca spazi fantastici e trame
complesso nello spazio e nel tempo. Per questo non ne ho affrettato la lettura
che intraprendo solo ora dopo tre anni, e dopo anche essermi documentato meglio
su Valerio e sui suoi scritti.
Evangelisti,
oltre ad essere stato un prolifico scrittore, è stato anche molto attivo nella
Bologna alternativa della contestazione, ma anche i questo XXI secolo,
proponendosi diverse volte come capofila di movimenti antagonisti alla sinistra
dominante in città. Ovviamente, lui si poneva ancora più a sinistra, ad esempio
come primo rappresentante della lista “Potere al Popolo”.
La
sua ben vasta produzione, spesso legata a descrizioni distopiche, è stata anche
sovente collegata alle idee di scrittura del collettivo Wu Ming. Ma di certo ha
avuto modo di spaziare dalla monumentale biografia di Nostradamus a romanzi e
racconti reinterpretanti la storia degli Stati Uniti e del Messico.
Ma
ovviamente, la sua creatura migliore è più nota è la lunga saga, di cui questo
è il primo volume, legata alla figura dell’Inquisitore della casa di Aragona,
Nicolas (o Nicolau) Eymerich. Una saga che si è espansa, tra il ’94 ed il 2018
in una dozzina di romanzi ed alcuni racconti. L’impianto del libro, come del
resto di tutta la serie, è sempre suddiviso in tre schemi temporali: passato,
dove seguiamo le vicende romanzate di Eymerich, un Inquisitore realmente
esistito nel XIV secolo; presente, dove vediamo l’evolversi delle idee
fantascientifiche di un ricercatore, Marcus Frullifer; futuro, dove le idee di
Marcus, in vario modo, vengono realizzate, si evolvono ed in qualche modo
interagiscono con il passato (passaggio obbligato, altrimenti poco si comprenderebbe
della vicenda complessiva e del perché venga narrata in questo modo).
Il
vantaggio dei leggere questa prima storia è quindi quello di trovare esposte le
basi di tutto il castello del mondo che verrà poi battezzato con il nome del
protagonista. Anche se la chiarezza non è un punto di forza di questo primo
testo (ed augusti lettori ed esegeti mi dicono che con l’andar dei libri,
Evangelisti aggiusta meglio la parte teorica della saga).
Insomma,
nel presente il fisico Marcus, a partire da ipotesi non sperimentate elaborate
dal matematico Adrian Dobbs (reale) negli anni ’60, ipotizza l’esistenza di
particelle cui dà il nome di psitroni. Sono entità senza massa, praticamente
idee eteree, che però possono essere eccitate e catalizzate, in modo da fornire
spiegazioni a fenomeni paranormali. In base a passaggi che sinceramente non ho
capito, l’uso di questi psitroni consentirebbe la costruzione di astronavi che
possono viaggiare nello spazio ed anche nel tempo. In tutta questa parte,
Marcus cerca di farsi accettare dalla comunità scientifica, soprattutto
provando a portare dalla sua parte il capo dipartimento Frank Tripler (tenete a
mente il nome, che se ne riparlerà).
Nel
futuro, seguiamo il viaggio dell’astronave Malpertuis (tenete a mente anche
questa) costruita sulla base delle teorie di Frullifer (che quindi funzionano).
Un viaggio che porta la nave ed il suo equipaggio nell’orbita di un pianeta che
si propone “terra compitabile”. Laddove i gestori della nave cercano di
catturare qualcosa sul pianeta, che tuttavia non viene ben descritto e se ne
capisce poco. Solo un accenno trasversale ci fa capire che la nave ha viaggiato
nel tempo, ritrovandosi nel 1352 in quello che in realtà non è un altro pianeta
ma la Terra in un altro tempo. E dove i fenomeni fisici provenienti dal futuro
non possono che diventare oggetti esoterici nel tempo del passato.
Nel
1352 invece assistiamo all’ascesa ed alle prime mosse di un personaggio
altamente antipatico: saccente, presuntuoso, strenuo difensore della
cristianità, dove, da frate domenicano, diventa (o si auto investe) Inquisitore
del Regno di Aragona. Qui si innesta un pastiche storico che mescola brani di
realtà con invenzioni fantasy. Intanto, Evangelisti anticipa la nomina di
Eymerich ad Inquisitore di sei anni. Tuttavia ne inserisce le attività nella
reale lotta di potere tra il Casato di Aragona, guidato dal re Pietro IV
d’Aragona e la nobiltà locale legata al clero ed al potere papale (al tempo
Clemente VI, in esilio ad Avignone).
Ma
per la storia fantasy, Eymerich si deve scontrare con la rinascita di un culto
pagano legato a Diana cacciatrice e nato (si dice) in quel di Ariccia. Che il
nostro autore fa rinascere, per assonanza, nella città aragonese di Ariza.
Tutta la parte storica, comunque, si svolge a Saragozza o nei dintorni. Dove si
trova modo di far rinascere la figlia del re, Maria, morta a tre anni durante
la peste del 1348 (peste reale che uccise il 30% della popolazione europea), di
far suscitare dal nulla una serie di bambini malformati che muoiono o vengono
uccisi o (questa la parte fantasy) si dissolvono in una schiuma biancastra.
Senza
saper nulla della gente del futuro, comunque, Eymerich come Inquisitore,
tortura e uccide varie persone, ma soprattutto, per la gloria del casato di
Aragona, fa una strage delle donne dedite al culto di Diana, evocando spiriti
esoterici che si palesano in forme sataniche. Solo nelle ultime pagine qualcosa
si ricompone: gli astronauti vedono Eymerich, ma il romanzo si chiude senza che
si ricompongano le tre storie narrate.
Certo,
è interessante il funambolismo inventivo di Evangelisti, anche se, data la
formazione solo storica dell’autore, i passaggi para-scientifici sono molto “al
limite”. Stando a critiche successive, molte incongruenze si ricomporranno. Ma
qui possiamo solo rendergli omaggio come inventore di un contesto narrativo
interessante e che rimarrà valido per una ventina di anni.
Intanto,
oltre all’omaggio di aver studiato e riproposto una persona interessante benché
controversa, segnalo due altre citazioni trasversali di cui avevo accennato
sopra. La prima riguarda il mancato mentore di Marcus, il professor Frank
Tripler, che facilmente si fa risalire al fisico statunitense Frank J. Tipler
autore della teoria del “Punto Omega”. Dove riprendendo il discorso sul massimo
livello di complessità verso cui tende l’umanità, tesi elaborata dal filosofo Pierre
Teilhard de Chardin, giustifica, secondo lui scientificamente, l’esistenza di
un Dio futuro, costruttore o ricostruttore dell’Universo (inciso: mi scuso
della brevità di questa trattazione che forse esula da questo contesto di
trame).
Il
secondo punto riguarda l’aver battezzato l’astronave psitronica “Malpertuis”.
Un omaggio palese allo scrittore belga Jean Ray ed al suo capolavoro fantasy
dello stesso nome. Omaggio che riprende una tesi che Ray cerca di dimostrare
nel suo libro: la fede degli uomini nella divinità è tale da determinare
l'esistenza della divinità stessa, un’esistenza che perdura fin tanto che gli
uomini continuino a credere nella sua esistenza.
Qui
ci sarebbe spazio (ma purtroppo non le capacità) per fare un discorso più ampio
sulla teosofia del testo (o dell’autore). Io mi limito invece a riportare un
passo del romanzo dove Evangelisti descrive un momento della storia coeva alla
scrittura, facendola agire nel Texas del 1994. Letta ora, con la mente a Donald
Trump, è di una preveggenza spaventosa.
Tuttavia,
e finisco, il testo non mi ha preso in modo particolare, e non penso di
approfondire ulteriormente le vicende dell’Inquisitore Nicolas Eymerich.
“Un docente di Storia medioevale è stato
mandato a casa perché sosteneva che l’Inquisizione era stata un fenomeno
abominevole. A Storia moderna un altro docente è stato fatto fuori per aver
scritto che la Rivoluzione francese è stata un evento positivo. Chi l’ha
sostituito spiega agli alunni che positiva era la Vandea, fedele al re e alla
nobiltà. A Storia contemporanea hanno licenziato due terzi dei professori. Uno
per aver affermato che durante la guerra di Spagna avevano ragione i
repubblicani e non Franco, un altro per aver detto che i campi di
concentramento nazisti erano orridi mattatoi.” (177) [scritto per un Texas nel
1994 e Donald?]
James
Blish “Guerra al Grande Nulla” Mondadori Urania 13 euro 6,99
[A: 27/04/2022 – I: 31/10/2023 – T:
01/11/2023] - && +
[tit. or.: A Case of Conscience; ling. or.: inglese; pagine: 178; anno 1958]
James Blish
è un esimio scrittore e critico di fantascienza, che pur avendo scritto
abbastanza, rimane nelle storie esimie del settore per questo romanzo che, alla
sua uscita, fu etichettato come “fantascienza teologica”, per poi ripiegare su
un meno aggressivo “fantascienza speculativa. Blish, tra l’altro, ha anche
fornito la sceneggiatura ad episodi di “Star Trek”.
Venendo
al testo, dobbiamo subito sottolineare che, in realtà, è un ibrido. Nasce da un
racconto, scritto nel ’53, che è riproposto nella prima parte. Poi, per ragioni
editoriali, viene chiesto all’autore di allungarlo, con una seconda parte, al
fine di raggiungere dimensioni da romanzo piuttosto che da racconto lungo. Ed
in questa veste, si aggiudica nel ’59 il maggior premio per gli scritti di
genere, il premio Hugo (come detto sopra, dal nome di quello che viene
considerato il padre del genere, Hugo Gernsback).
Il
primo problema che incontriamo, leggendone in questa ennesima pubblicazione
italiana, è proprio nel titolo. L’originale riporta infatti il più consono al
testo “Un caso di coscienza”, mentre le edizioni Mondadori che lo pubblicarono
in Italia nel 1960, scelsero un titolo più adatto ad un romanzo di
fantascienza, questo “Guerra al Grande Nulla”, che in realtà non ha nessun
appiglio al testo. Non c’è nessuna guerra, né tanto meno, se non in modo
traslato come vedremo, si può parlare di “Grande Nulla”, opposto al “Tutto” che
dovrebbe permeare la nostra vita.
Il
secondo problema è dato proprio dall’ampliamento sopra citato. La prima parte,
quella che fonda le basi della problematica del testo è interessante, in alcuni
punti forse poteva essere più sviluppata, ma in fin dei conti ha una buona
riuscita come testo. La seconda parte, che doveva servire per approfondire e
portare a conclusione quanto detto e sollevato nella prima, in realtà non solo
non affronta i problemi, ma introduce tutta un serie di rivoli irrisolti, che
non apportano molto al testo stesso. Anzi, come molti critici hanno rilevato,
preso nel suo complesso, il romanzo risulta un filo sopravvalutato, proprio per
questa poco utile seconda parte.
Il
nucleo della storia si colloca in un futuro in cui si è sviluppato il volo
intergalattico, e si sono cominciati ad incontrare mondi abitati da culture
aliene. Su questi mondi, al fine di valutarne la possibilità di interazione tra
le razze, viene inviato un manipolo di scienziati che ne devono comprendere la
struttura ed emettere un giudizio se consentire lo scambio reciproco,
permettere solo la presenza come sosta tra viaggi o interdire i contatti.
Veniamo
così a conoscenza del pianeta Lithia, così chiamato perché si è scoperta la
presenza di minerali interessanti all’uomo, in particolare il litio. Il pianeta
è abitato da una razza di esseri sensienti, di conformazione rettiloide, alti
quasi quattro metri. Di vivida intelligenza, hanno sviluppato una civiltà
basata sulle risorse presenti in loco, anche se, essendo il pianeta
praticamente privo di ferro, in tutto verso una direzione leggermente diversa
dai terrestri. I litiani non hanno il senso delle contrapposizioni, nessuna
invida, odio, amore, non conoscono l’amore o il dubbio. Portando tutto alle
estreme conseguenze scopriamo quindi che non conoscono l’arte o la religione.
La
squadra che analizza le possibili interazioni è composta da un chimico, un
geologo (entrambi di scarso peso) dal fisico Cleaver e dal biologo padre Ramon
Ruiz-Sanchez (un gesuita). Lo scontro si innesta su questi due. Cleaver vede
nel pianeta la possibilità di sviluppare un arsenale termonucleare. Il gesuita,
invece, è preoccupato da quello che individua come mancanza di liberi arbitrio,
innescando il lato teologico del testo. Senza libero arbitrio, padre Ramon
ipotizza che Lithia sia opera del Maligno, perché troppo perfetto, atto a
mettere alla prova l’umanità in un mondo che non ha conosciuto il peccato
originale.
Questa
posizione porterà anche alla scomunica del gesuita, che, propugnando la tesi di
un mondo costruito dal Diavolo, ricade nell’eresia manichea, che il Diavolo può
distruggere non costruire. Ed infatti il papa Adriano VII (norvegese, laddove
Blish già negli anni Cinquanta ipotizzava l’elezione di un papa non italiano,
tra l’altro usando il nome Adriano, quello utilizzato dell’allora ultimo papa
straniero, Adriano VI, noto come Adriano di Utrecht salito al soglio di Pietro
nel 1522) lo scomunica, ma gli chiede anche di fare un esorcismo verso il
pianeta (mostrando la filosofia di avere due piedi in una scarpa).
Nella
seconda parte, che sorvolerei volentieri, si avviano tutta una serie di vicende
poco utili al testo (la crescita di un litiano nel mondo terrestre, la
descrizione della Terra come paese sempre sull’orlo della guerra atomica, la
presa di coscienza del litiano-terrestre che, poco in linea con i costumi
terrestri, si imbarca clandestino per tornare al pianeta Natale, la vittoria di
Cleaver che convince i governi della Terra ad impiantare arsenali nucleari su
Lithia).
La
fine è emblematica. Cleaver, mentre avvia il suo programma, si accorge di una
falla nel meccanismo da lui ideato. E mentre padre Ramon dalla Terra lancia il
suo esorcismo, la falla fa il suo corso. Alla fine, Lithia esplode e scompare.
Per l’errore di Cleaver o per le parole di Ramon? Ai lettori l’ardua sentenza.
Quello
di cui si sente la mancanza, dopo l’interessante costruzione della prima parte
verso la descrizione di “un mondo senza peccato”, è un contraddittorio intorno
alle tesi di padre Ramon: Blish ci presenta i ragionamenti (a volte un po’
forzati) che portano Ramon alla sua decisione, ma non ci presenta le tesi
contrarie. Ed in fondo, tutta la parabola del litiano che, cresciuto sulla
terra, ne viene corrotto, servono in un certo senso all’autore di farci
ragionare sull’assunto che non è il “buon selvaggio” una creatura del diavolo,
ma forse siamo noi elementi corruttori, pur non essendo noi tali creature.
D’altra
parte, Blish è anche uomo di buona cultura e di grandi letture. Se sul lato
teologico diciamo siamo al 60% di buone scritture e del restante un po’
inventato, qua e là ci sono indicazioni di riferimenti “alti”. Padre Ramon, nei
momenti di ozio su Lithia, legge un libro, dove cerca di discernere in una
interazione tra uomini e donne, dove sia giusto porsi. Alla fine della prima
parte scopriamo che si tratta dal Libro III dei “Finnegans Wake” di James Joyce,
che prima cita, poi denigra descrivendolo come “628 pagine di chiacchiere
demoniache compulsive”.
Nell’ottica
della scrittura di genere, alla fine, un prodotto interessante, se non proprio
buono, e di sicuro, degno di una attenta lettura nella sua dimensione di
racconto.
Non sapendo
dove orizzontare i miei strali di pensiero, a questa trama fantastica associo
tre ordini di pensieri: giallo, saggistico e storico.
Ecco,
quindi, che da Edward Bunker di
“Come una bestia feroce” prendiamo:
“Ma
un giorno o l’altro, che sia domani o fra vent’anni quando ne avrai cinquanta,
ti renderei conto che chiunque tu sia e qualsiasi cosa tu abbia fatto, non
poteva andare in modo granché diverso.” (14)
“Comportarsi
da stupidi è disgustoso, ma lo è in misura doppia quando si agisce sapendo in
anticipo di fare un’idiozia.” (156)
“L’amore
di cui parli è quello dei giovani. Nessuno te lo può più dare. È più illusione
che sentimento. Quello che hai con … è qualcosa che può durare nel tempo.”
(242)
Mentre
dal difficile ma che ho sempre letto con interesse, José Saramago da “Il vangelo secondo Gesù Cristo”, estraggo:
“Un uomo, qualunque sia l’epoca in cui viva
o sia vissuto, è mentalmente contemporaneo di un altro individuo di una
qualsiasi altra epoca” (155)
Infine,
da Elizabeth Peters ed il suo “Il faraone assassino”, un
ricordo che mi riporta ai miei anni dell’ultimo decennio del secolo scorso in
Egitto:
“Immagini [il lettore] di sedere con me
sulla terrazza dell’hotel Shepheard, al Cairo. Il cielo è d’un brillante blu
porcellana. Imparziale, il sole getta i suoi benevoli raggi … su tutta
l’infinta varietà di persone che compongono l’affaccendata folla che attraversa
l’ampia via principale davanti a noi.” (51)
Invitando a leggere la brillantissima ricetta sotto riportata, chiudo questa settimana con un pensiero rivolto agli incastri che si stanno verificando per la gestione dell’estate. Ci ritorneremo presto, intanto vi abbraccio.
Fonduta erotico-mediterranea “à la mode de
Kumpawdaepheeawree”.
[ovvia la lettura in termine romani di una
delle piazze della movida capitolina, Piazza Campo de’ Fiori]
Ricetta tratta da “Il Turturro, Manuale di
Cucina Spaziale, ottava Edizione” di Rudy “Basilico” Turturro.
Dosi: non indicabili
Preparate un soffritto di olio, aglio,
peperoncino, cipolle e peperoni tagliati il più possibile fini; appena il tutto
imbiondisce, aggiungete pomodori a pezzettoni e passata di pomodoro e fate
ammalvire a fuoco lento, finché i vegetali non si sono quasi completamente
sciolti. A parte, preparate un ciotola con non più di 20 grammi di
“poon-tah-raelluh”, mi raccomando, non più di 20 grammi. Conditeli con un pesto
di aglio e acciughe. A parte, preparerete dei pezzettoni di bruschetta (pane
tostato con aglio e olio strofinati).
Verserete il sugo così ottenuto in una
ciotola di coccio abbastanza capiente (potrete cucinare direttamente nella
ciotola) che porterete a tavola su un fornello a spirito di quelli per la
fonduta alla borgognona. Intingete il pane nel sugo bollente, mangiateci
insieme una forchettata di “poon-tah-raelluh” e beveteci sopra ad ogni boccone
un sorso di vino frizzante, secco e gelato.
Note e variazioni
Già mi immagino la vostra obiezione: come ci
arrivo su Kumpawdaepheeawree a comprare la “poon-tah-raelluh”? A parte il fatto
che si trova anche congelata nei migliori negozi di raffinatezze spaziali, vi
concedo che, costando letteralmente a “peso di platino” è un po’ cara.
La prima andrebbe bene anche agli Umanisti:
in pochissimo burro fuso, ma non bruciato, sciogliete una quarantina di grammi
di hashish, possibilmente di quello nero afgano, ma anche quello commerciale
andrà bene; amalgamatelo lentamente ed aggiungete pasta d’olive, pasta di
funghi, un po’ di tartufo ed un pizzico di aglio spremuto. Con questo paté
guarnite le fette di pane tostato.
Se nella vostra area, l’hashish è ancora
illegale (ebbene sì, miei cari lettori, esistono ancora luoghi sulla Terra e
nell’Agorà in cui questa follia accade) voi e la/il/i vostra/o/i partner
praticate trenta giorni di astinenza da sesso ed alcool, contemporaneamente a
trenta giorni di addestramento quotidiano di mezzofondo, per almeno tre ore al
giorno, sempre di pomeriggio inoltrato o verso sera. Il trentunesimo giorno,
fate preparare tutto da un cuoco o da un amico, sostituendo la
“poon-tah-raelluh” con abbondanti cime di cicoria di tipo romano; allenatevi
per un’ora soltanto e dedicatevi poi, subito dopo una doccia tiepida, alla
cena; gli ingredienti sopra indicati e lo scatenarsi delle endorfine da “estasi
dell’atleta” per le mancate due ore d’allenamento, dovrebbero dare un effetto
molto simile a quello della poon-tah-raelluh. Provare per credere!
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