C’è poi, con trent’anni di ritardo, il primo
episodio dell’ispettore Erlendur Sveinsson dell’islandese Arnaldur Indriðason e
quello del detective Boone Daniels uscito dalla penna di Don Winslow, entrambi
invece di livello adeguato e leggermente superiore alla media. Mentre il primo
libro dedicato a “Il club dei delitti del giovedì” di Richard Osman mi ha
lasciato decisamente freddino.
Dolores
Redondo “Offerta alla tormenta” TEA euro 13 (in realtà, scontato a 11,70 euro)
[A: 07/06/2021
– I: 24/12/2024 – T: 27/12/2024] - &&
[tit.
or.: Ofrenda a la tormenta; ling. or.: spagnolo; pagine: 446;
anno 2014]
Certo, Amaia Salazar, l’ispettrice della
Policia Foral de Navarra (una delle quattro forze di polizia autonome della
Spagna), è il centro della trilogia, la persona che riflette sugli avvenimenti,
che agisce e che trova la soluzione finale. Ma è il territorio, ed il folclore
ad esso legato che in realtà è il vero protagonista della serie, nel bene e nel
male.
Se infatti guardiamo ora, che siamo al
capitolo finale, l’opera nel complesso, vediamo che il primo episodio
(“Guardiano dell’invisibile”) è dedicato al “Basajaun”, il signore della
foresta, generalmente benigno verso i contadini, diventando a volte
terrificanti “troll”. Il secondo episodio (“Inciso nelle ossa”) è legato al
mitologico “Tartalo” un gigantesco ciclope antropomorfo con costumi antropofagi
e comportamenti terrificanti. Vediamo quindi come, libro dopo libro, ci si
sposti da miti (quasi) benigni verso mitologie sempre più terrificanti.
Infatti, la trilogia termina con un omaggio a “Inguma”, un genio minore della
mitologia basca, dotato di una natura malvagia, poiché il suo unico scopo è soffocare
le sue vittime mentre dormono.
Fatta questa premessa sulle basi mitologiche
della trilogia, solo leggendo quest’ultimo capitolo, unito alla nota della
scrittrice, capiamo la genesi globale dell’opera. La cui idea di base si
concretizza proprio qui, laddove i primi due libri in fondo non erano che delle
tappe di avvicinamento, di certo strutturate e miranti, comunque, ad esplorare
le prime mitologie, ma che tendevano a questo punto finale.
Infatti, l’idea di Dolores nasce da un
articolo del giornale “ABC” che riporta come, nel 2011, si sia cominciato ad
indagare sulla morte, avvenuta trenta anni prima, della piccola Ainara, una
bambina di quattordici mesi, che si dice sia stata sacrificata dagli stessi
genitori facenti parte di una delle tante sette locali. Si dice, perché i
genitori, e Dolores lo riprende pari pari nel libro, inventano un viaggio nel
Regno Unito, dove, hanno spiegato, la bambina ha subito un ictus da cui non si
è più ripresa, e hanno deciso di seppellirla lì. Per arrivare qui, la
scrittrice imbastisce le storie del Basajaun e del Tartalo. Qui, ad Inguma.
Il lato più difficile di tutti è che solo
leggendo i tre libri in sequenza ravvicinata riusciamo a coglierne gli aspetti
ed i collegamenti. Che personaggi che qui agiscono e muoiono si comprendono
avendo in mente il resto. E questo è uno dei lati più deboli del testo. Come
debole è il finale cui si arriva già sapendo, già comprendendo dalla metà
dell’ultimo libro come siano andate le cose. L’altro lato debole è la vicenda
di chi, dopo aver fatto sacrifici a Inguma, ne trae benefici economici (e
questo potrebbe essere se ipotizziamo la presenza di un fornitore di beni
economici), ma soprattutto ne trae benefici fisici. Non si capisce né si spiega
come una delle persone che partecipa alle offerte a Inguma, malato di cancro ad
uno stato avanzato, possa guarirne ed essere in piena salute dieci anni dopo.
Venendo alla storia, i personaggi base sono
gli stessi che ruotano intorno ad Amaia. Il marito James, amato anche se con
alti e bassi. Il figlio Ibai e la zia Engrasi presenti quasi solo come corifei.
Le due sorelle Ros e Flora, con i loro problemi di rapporti reciproci e con
Amaia. L’ispettore Jonan che finirà ucciso, ma la cui morte servirà a sollevare
tutti i veli e portare Amaia alla soluzione. Il giudice Markina dal piglio
seducente ed ammaliatore.
La storia ruota intorno alla morte di bambine
sotto i due anni, molte archiviate come “morte nella culla”, ma che, scavando e
ricostruendo, molte di quelle morti risultano sospette e collegate ad una
comunità, forse hippy all’inizio poi “satanica” (anche se la parole non mi
piace). Comunità cui faceva parte Rosario, la madre di Amaia. Cui faceva da
consulente psicologico Barasetegui, incriminato per istigazione al suicidio ed
ora suicida egli stesso. Cui faceva parte Elena, ma si era allontanata, e per questo
ne viene punita. Che era nota anche ai vertici ecclesiastici, laddove padre
Sarasola non fa una gran bella figura.
La nostra scrittrice fa tanti giri di parole,
di situazioni, di momenti di pathos. Ci fa entrare nell’orografia navarrina,
andando su e giù tra Elizondo e Pamplona. Seguiamo le sue vicende familiari.
Vediamo le indagine fare due passi avanti ed uno indietro. Tutto senza un reale
coinvolgimento del lettore-spettatore. Per finire tutti i rivoli come ci si
aspetta finiscano.
Mistero risolto, strade nuove e separate per
le sorelle, madre morta, e Amalia in procinto di riunirsi a James e Ibai che la
aspettano in America. Con l’unico dubbio rimasto, collegato ai contatti
americani di Amaia: perché le rispondono sempre? Perché la invitano a tenere
corsi all’FBI? E chi è il misterioso agente sotto copertura che ogni tanto
telefona?
Certo, Dolores prova a toccare molti tasti:
l’amicizia, la famiglia, il modo di affrontare le proprie paure, il rispetto,
la solidarietà, l’urgenza, interiore, di non subire supinamente il proprio
destino. Il tutto condito con la mitologia basca, di cui la scrittrice ben sa e
ne è fiera. Tuttavia, lei, e noi con lei, ci manda un messaggio molto semplice.
Per quanto si possa credere a figure sovrannaturali, le azioni più truci sono
sempre messe in atto dagli essere umani.
“Di
tutti i diritti che ha un uomo, quello più importante è il diritto di
sbagliarsi, di capire l’errore, di trasformarlo in valore e di non renderlo una
condanna per tutta la vita.” (126)
Richard Osman “Il club dei delitti del
giovedì” Repubblica Anima Noir 18 euro 8,90
[A: 25/10/2021 – I: 02/01/2025 – T: 04/01/2025] - & e ½
[tit. or.: The Thursday Murder Club; ling. or.: inglese; pagine: 430; anno 2020]
Molta critica aveva inneggiato al “noir-ironico” di Richard
Osman che inaugurava una serie dedicata a “Il club dei delitti del giovedì”, titolo che volutamente ricordava
il primo racconto in cui compare Miss Marple di Agatha Christie (“Il club del
martedì sera”). Personalmente, devo invece dire che mi ha deluso abbastanza.
Qualche spunto ironico, molto inglese, una buona dose di personaggi ben
tipicizzati (anche se si potevano approfondire). Ma una trama lenta, contorta,
con tante piccole storie che si intrecciano, e con un finale scontato e
purtroppo anche molto appiccicato alla trama stessa. Nel senso che si arriva a
rendere palesi molti meccanismi, ma con nessun coinvolgimento del lettore. La
soluzione usa modi esterni allo sviluppo del testo, così che non è possibile (a
meno di esserne l’autore) capire come ci si sia arrivati.
L’idea di partenza poteva essere
divertente e foriera di sviluppi. C’è un villaggio, Coopers Chase, creato per i
pensionati. Case autonome, ma anche spazi in comune. Lì, tra le tante attività
autogestite, un gruppetto di arzilli e arzille persone anziane decide di usare
i pochi neuroni che restano prima dell’inevitabile fine, per dedicarsi allo
studio (ed eventualmente alla soluzione) di “cold case” che le due
organizzatrici hanno nei loro archivi. Il che porta ad uno dei pochi punti
positivi del libro: la rappresentazione non stereotipata della vecchiaia, vista
sia dal punto di vista degli anziani sia da quello dei giovani (siano essi i
figli dei primi o giovani agenti di polizia).
I “vecchietti” sono Elizabeth, una
forse ex-agente dei servizi segreti, che ogni tanto tira fuori dal cilindro
conoscenze improbabili per una persona apparentemente solitaria (non sola,
visto che accudisce il marito Stephen ormai sulla via senza ritorno dell’Alzheimer,
ma capace di giocare, anche molto bene, a scacchi) e Penny, una ex-ispettrice
di polizia, che molti dossier ha nel suo armadio. Le due sono coadiuvate da
Ron, un ex sindacalista rosso come
spesso ce ne sono nella provincia inglese che non ha perso il fervore, la
parlantina e che non si fa fregare dalle apparenze, e Ibrahim, detto Ib, un
nero (egiziano?) psichiatra con l’amore per i dettagli che serve a portare
raziocinio nei momenti troppo concitati. Quando Penny viene colpita da un ictus
e ricoverata in coma in ospedale, il suo posto viene preso da Joyce, una
ex-infermiera molto naif, dal grande intuito e pronta a voler bene a quasi
tutti.
Il villaggio è gestito da un
faccendiere, Ian, e da Tony, un ex-gangster che ha quasi ripulito la sua fedina
penale. E tutti sono aiutati da uno slavo, Bogdan, anche lui con molti
trascorsi fuori dalle linee di condotta perbene. Ma Bogdan è anche uno che sa
fare di tutto, quindi serve alla comunità. Che però viene investita da tutta
una serie di piccoli fatti. Ian vuole aumentare le sue entrate costruendo altre
zone da pensionati, ma per far questo deve anche eliminare il vecchio cimitero
del convento di suore che sorge ancora lì, pur senza convento e senza suore.
Ian è anche stanco di Tony, e lo
licenzia mettendo Bogdan al suo posto. Mentre assistiamo all’arrivo di un
sedicente prete, Matthews, che prende a cuore le sorti del cimitero, ed alla
continua osservazione del cimitero stesso da parte di Bertrand, un vedovo della
comunità, in sequenza, prima viene ucciso a randellate Tony, poi con
un’iniezione di fentanyl in mezzo al tumulto scatenato dalle ruspe che devono
svuotare le tombe delle suore, muore anche Ian.
Dicevo delle storie che si
intrecciano. Bertrand, facendoci supporre che sia coinvolto in qualcosa del
cimitero, si suicida. Nel cimitero Bogdan, in una vecchia tomba (vecchia di
almeno centocinquanta anni), trova anche un morto giovane (cioè un cadavere
sepolto una trentina di anni prima, ed un cadavere vittima di morte violenta).
Si scopre che Matthews, ora medico e spretato, da giovane era veramente un
prete e veramente viveva nel villaggio. Si scopre che il marito di Penny (cui
non abbiamo prestato attenzione fin ora) è un ex-medico con buone conoscenze
dei veleni. Si scopre che Tony in gioventù, da gangster, era sodale con un
cipriota che senza motivi apparenti uccise uno slavo per poi sparire dalla
circolazione.
Alla fine, senza che si possa
ragionarci su per comprendere il tutto, le spiegazioni vengono date, ma usando
elementi fino ad allora non noti al lettore. Ed è molto scorretto. Tuttavia
sapremo perché è scomparso il cipriota, perché Bertrand si è suicidato, perché
Matthews è tornato, perché, come e per mano di chi sono morti Ian e Tony,
perché Penny non uscirà dal coma, perché suo marito invece uscirà di scena.
Tutto dalla bocca di Elizabeth (ma anche da quella del marito malato), che se
non ci diceva lei i collegamenti, noi si starebbe ancora a girare a vuoto.
Così come a vuoto girano due
personaggi “attori non protagonisti” che costellano quasi inutilmente le
pagine: l’agente Donna ed il suo capo, l’ispettore Curtis. Così come a vuoto
girano le pagine del libro, che, avevo dimenticato di dire, si svolge con due
linee narrative. Una che racconta i fatti per bocca del narratore onnisciente
(che, come detto, sa tutto e ce lo dice senza farcelo capire). Una che invece
prende la forma di un flusso di coscienza scritta da Joyce in prima persona
(capirete facilmente il gioco letterario che c’è dietro, un flusso di coscienza
alla maniera di James Joyce scritto da un’ex-infermiera di nome Joyce).
Ovvio che questa è, bene o male, sono
una sintesi del poderoso volume e di tutte le altre piccole storie che lo
costellano. Ma che non diventano mai una storia organica. Così come i nostri
partecipanti al club, non diventano mai dei ragionatori connessi tra loro
magari in sedute di confronto di pensieri ed opere (come ad esempio, nel nostro
piccolo, i vecchietti del BarLume di Malvaldi). Così che tutto il testo risulta
di un’estrema difficoltà di lettura, dove si salta a destra e sinistra, magari
inserendo dopo duecento pagine un personaggio nuovo, ma funzionale alla parte
migliore del testo.
Ne esco quindi discretamente
insoddisfatto, e seppur so che ho altri libri dell’autore sugli scaffali, non
ho al momento nessuna fretta di prenderli in mano. Per tanti dei motivi
sopradetti, ma anche per una difficoltà (non so se del testo o della traduzione)
che a volte mi fa apparire brani che, per quanto stia attento, non riesco
minimamente a comprendere. Come il seguente, a pagina 230, che spero qualcuno
sia in grado di spiegarmi: “Chiuse la portiera della Focus dalla parte del
passeggero. Il che sembrava appropriato, perché Chris e Donna erano qui per
vedere.”
“Conosco
la differenza tra solo e solitario, e … è solitario. C’è una cura per questo.”
(119)
Don Winslow “La pattuglia dell’alba”
Repubblica Brivido Noir 22 euro 8,90
[A: 01/11/2020 – I: 16/01/2025 – T:
18/01/2025] - &&&
[tit. or.: The Dawn Patrol; ling. or.: inglese; pagine: 412; anno 2008]
Non
conoscevo Don Winslow ed anche se questo suo scritto, pur interessante e ben
scritto, non mi ha entusiasmato, l’ho trovato una personalità interessante.
Prima di tutto perché siamo nati lo stesso anno (e questo è giù un punto in
favore), e secondo poi perché da alcuni anni ha deciso di ritirarsi dalla
scrittura per dedicarsi ad una serie di campagne tese da ostacolare l’ascesa
politica di Donald Trump (e questo è un grande punto a favore).
Il
lato sociale di Winslow, comunque, appare com’è ovvio anche nei suoi scritti,
ed anche in questo ci sono non pochi momenti in cui abbandona la trama per
parlarci del mondo che gira intorno a San Diego, delle speculazioni edilizie,
del mondo dei surfer, ed altri momenti della nascita del mondo che gravita
intorno alla cittadina californiana a soli 40 chilometri dal confine messicano.
Questi momenti sociopolitici sono di certo interessanti, avendo purtroppo il
difetto di appesantire una trama che altrimenti sarebbe abbastanza lineare,
anche se piena di molti ed interessanti personaggi.
Altro
elemento, che almeno per me, ha reso ostica la lettura è tutta la filosofia dei
surfer. Incluse le descrizioni delle onde, di come cavalcarle, del codice
d’onore dei surfisti, delle tavole, inzeppati da puntate in dialetti hawaiani e
samoani (di cui si sa sono un grande conoscitore…).
Il
fulcro degli attori del testo è Boone Daniels, tipico esemplare hippies (se
ancora ce ne fossero) degli anni 2000. Figlio di due surfisti leggendari, gran
surfista lui stesso, ha fatto alcuni anni da poliziotto, scontrandosi però con
la corruzione latente della polizia. Si è quindi dimesso, dedicando la sua vita
al surf, ed in piccola parte, per sopravvivere, facendo l’investigatore
privato. Aveva una grande storia con Sunny ma i problemi in polizia, legati
anche alla scomparsa senza ritrovamento di una ragazzina forse vittima di un
pedofilo, li hanno raffreddati.
La
sua passione per il surf lo ha portato a fondare un gruppo di surfisti, che,
riunendosi ad ore antelucane per praticare la loro passione, sono stati
battezzati, appunto, la pattuglia dell’alba.
Sunny
Day è l’unica donna del gruppo, forse anche la migliore surfista naturale, nata
Emily Wendelin, ma poi adottata dalla nonna Eleanor Day (di cui prende il
cognome) e chiamata da tutti Sunny perché illumina le loro esistenze. C’è anche
un altro elemento unico, il poliziotto sodale di Boone quando questi era in
polizia, John Kodani, di origine giapponese così da essere soprannominato
Johnny Banzai, e discendente di una delle poche famiglie giapponesi che è
rimasta in zona a coltivare la terra.
Anche
gli altri membri della pattuglia sono meglio noti con il loro soprannome.
Josiah Pamavatuu, un samoano di 170 chili, viene chiamato High Tide (alta
marea) perché l’Oceano si innalza quando lui entra in acqua. Ex-membro di una
baby gang locale, viene salvato dalla china non proprio eccelsa che aveva
intrapreso da Boone e compagni. Brian Brousseau, il più giovane della
pattuglia, viene anche lui tirato fuori dal mondo della droga dove lo aveva
avviato il padre tossico, e soprannominato Hang Twelve perché ha sei dita per
piede. Ed infine Dave the Love God (di cui non sappiamo il vero nome) bagnino
infaticabile, ma soprattutto straordinariamente bello, così da conquistare un
esercito di cuori (e corpi) femminili.
La
storia si svolge nel 2007, dato che non ci viene rivelato ma che si desume dal
fatto che tutti i surfisti della zona e non solo attendono delle onde mai
viste, generate da un terremoto sottomarino avvenuto nelle Isole Aleutine (che
ognuno sa essere la punta estrema dell’Alaska). Ma l’attesa di Boone sarà
deviata verso l’investigazione quando l’avvenente avvocato Petra Hall lo
contatta per un compito cui non si può rifiutare (perché, al solito, è a corto
di soldi).
Deve
rintracciare una spogliarellista Tammy Roddick, testimone oculare di un
tentativo di truffa perpetrato da un boss locale, Dan Silver, uno dei sodali di
primo livello del ras di San Diego, l’hawaiano Red Eddie. Compito non semplice
che prima sembra che qualcuno ha ucciso Tammy, essendo invece uno scambio di
persone. Poi ci si mette in mezzo un medico Teddy Cole, noto per la sua bravura
nel rifare le tette (da cui il soprannome Re di Coppe) e per essere anche lui
uno sciupafemmine.
Seguendo
queste labili tracce, vediamo scoperchiarsi anche il vaso di Pandora dei
“mojados”, gli immigrati messicani clandestini, nonché di un’altra e meno
nobile “pattuglia dell’alba”, quella costituita dalla ragazzine messicane
immigrate che vengono prese dalle bande locali per essere usate come giovani
“carne da macello” ad uso di pedofili e puttanieri vari.
La
vicenda è assai complicata, laddove nessuno sembra essere, sino in fondo,
quello che appare a prima vista. Petra sembra dura e inflessibile, ma ha i suoi
motivi di origine familiare, e della sua bellezza è ben colpito anche Boone.
Forse Tammy e Teddy non sono proprio amanti ed hanno altro da nascondere. Ma da
quali occhi? E di sicuro Dan è un malavitoso sino in fondo, e forse anche di
più. Insomma, tutto si complica e si incastra.
I
campi dove lavorano gli immigrati e dove vengono portate le bambine sono di
proprietà del nonno di Johnny Banzai, High Tide viene ricattato da Red Eddie
che minaccia la sua famiglia a Samoa se non viene aiutato a trovare il
fuggitivo Boone. Deve the Love God, oltre a fare il bagnino, è anche uno
spallone della droga per Red, ma quando scopre la tratta delle bambine deve
decidere da che parte stare: Red o Boone?
Tutti
momenti che sarebbe lineare seguire se non ci fossero quelle divagazioni che ho
accennato. E se non si accelerasse il finale, per vedere se Sunny riesce a
cavalcare l’onda gigante e diventare professionista del surf, se Boone riesce a
svelare i segreti di Tammy ed incastrare Dan e Red, se Petra decide di cedere
al fascino di Boone.
Un
po’ lungo, a volte lento, forse un filo telefonato, ma la mano dello scrittore
c’è.
Arnaldur Indriðason “I figli della
polvere” TEA euro 14 (in realtà, scontato a 13,30 euro)
[A: 23/11/2024 – I: 14/03/2025 – T:
15/03/2025] &&&
[tit.
or.: Syinir duftsins; ling. or.: islandese; pagine: 330; anno 1997]
ES01
E con questo, chiudiamo un cerchio. Negli
ultimi quindici anni, a partire dal 2010, ho letto diciannove dei ventuno libri
tradotti in italiano e scritti dal grande scrittore islandese Arnaldur figlio
di Indriði G. Þorsteinsson, a sua volta scrittore e giornalista. In particolare
quest’ultima lettura è in realtà il primo volume scritto da Arnaldur con le
avventure e le indagini del commissario Erlendur Sveinsson. Questo perché a suo
tempo cominciarono a tradurre il terzo libro, che aveva avuto successo internazionale,
mentre questo (e il secondo episodio) ritenuti un po’ acerbi, hanno dovuto
aspettare quasi trent’anni per essere tradotti.
E seppur concordiamo con la non completa
maturità del testo, vediamo nascere il personaggio, ne vediamo alcuni tratti
che rimarranno, ed altri che andranno scomparendo. Erlendur non è ancora quel
maestro di pensiero ed introiezione, ha ancora molte pulsioni eccentriche
rispetto alla sua natura. Così come il contorno dell’azione è ancora molto
sfumato ed in un certo senso ancora non veramente islandese.
Il primo elemento che balza agli occhi è
l’attrito che c’è tra Erlendur ed il suo vice, Sigurður Oli, frutto di alcune
vicende pregresse e di alcuni atteggiamenti attuali. Un attrito che sfumerà ben
presto in una più attiva collaborazione e comprensione reciproca, sebbene ci
vorranno alcuni libri. Come libri e tempo ci vorrà per l’entrata in scena del terzo
elemento indagatore, l’ispettrice Elinborg. Mentre il rapporto con i figli è
già presente e conflittuale, anche se qui rimane in un certo senso marginale.
L’altro elemento atipico di questa prima
uscita è il fatto che c’è una seconda voce che indaga per tutto il romanzo. Una
voce che ogni tanto converge con Erlendur, ma non sempre. Anzi, se convergesse
di più, forse si arriverebbe prima alla comprensione dei meccanismi della
trama. Mentre qui seguiamo appunto le riflessioni di Palmi, che ben si
inseriscono nel filo della trama, ed in un certo senso ce ne danno una visione
non omologa a quella poliziesca.
La vicenda parte da due morti: Daniel, un
paziente di una struttura psichiatrica e fratello maggiore di Palmi, si suicida
e Halldór, un vecchio insegnante in pensione, muore nel rogo della sua casa,
con evidenti problemi di dolo, visto che era legato e strettamente ad una sedia
e cosparso di benzina, prima che la casa prendesse fuoco, bruciando lui e tutto
il contenuto (ricordo che spesso le case islandesi sono costruite in legno).
Ben presto si scopre il legame tra i due: Halldór
era venuto spesso negli ultimi tempi a trovare Daniel. E Palmi scopre anche che
Halldór era stato l’insegnante di Daniel verso i quindici anni del fratello.
Erlendur, trovato questo aggancio, comincia ad indagare scoprendo che: la
classe di Daniel, quell’anno, ebbe risultati scolastici sorprendenti e che,
dall’anno successivo, tutti gli alunni cominciano ad avere problemi. Chi muore
d’infarto a quattrodici anni, che si suicida, chi comincia ad abusare di
droghe, chi va fuori di testa.
Tuttavia, mentre seguiamo con occhi
poliziesco l’indagine di Erlendur, è con l’occhio del cuore che ripercorriamo
con Palmi la sua vita ed il suo rapporto con il fratello (una costante che si
riproporrà molti libri più avanti, nella descrizione del rapporto tra Erlendur
e suo fratello). In fondo questa, oltre alle tematiche che delineo più avanti,
è la parte migliore del libro. Che invece, nella parte thriller vira ben presto
verso una poca plausibilità.
Si scopre infatti che c’è un industria
islandese che decide di sperimentare una strana polverina, utilizzando come
cavie inconsapevoli proprio la classe di Daniel e costringendo Halldór a tenere
lui in mano le fila della sperimentazione, usando come ricatto il passato poco
limpido di Halldór stesso. Già questa è una situazione al limite, che poi
Arnaldur esaspera verso il fine sperimentale, che non era chiaro all’epoca, ma
che ora, trent’anni dopo si palesa. Un finale improbabile e poco coinvolgente.
Unico momento di speranza e consolazione è l’uscita di Palmi dalla sua
depressione, e l’avvio di un possibile più roseo futuro.
Mentre Erlendur e la sua squadra, risolto il
caso, si avvieranno alle nuove prove che ho già descritto nel corso di questi
anni.
Come vedete, l’altro e fondante elemento già
presente qui, e sempre presente, con più o meno forza, nella narrativa di
Arnaldur, è la critica allo stato sociale, ed ai guasti di una situazione
generale dell’isola che porterà (anche se qui si può solo ipotizzarlo visto che
siamo nel secolo scorso) ai problemi dei primi decenni del secolo. Anzi, per
fare un riassunto completo, pur se accennate, sono presenti quasi tutte le
topiche di Arnaldur: il gelo, la solitudine, le improvvise sparizioni, lo
sviluppo economico anomalo, fino a tutto il retaggio dell’occupazione militare
americana e britannica, con tutti i rapporti interpersonali che ha creato e
spesso portato a momenti di forte attrito.
Una lettura filologica, ma non priva
d’interesse.
Jessica Fellowes “Scandalo in casa
Mitford” Repubblica Anima Noir 32 euro 8,90
[A: 26/01/2022 – I: 03/04/2025 – T: 06/04/2025] - &&
[tit. or.: The Mitford Scandal; ling. or.: inglese; pagine: 366; anno 2019]
Riprendiamo,
a distanza di un anno circa, la lettura dell’epopea seriale scritta da Jessica Fellowes
quasi a mo’ di biografia della famiglia Mitford. Questo è il terzo episodio, e,
come ci si può aspettare, è ovviamente un episodio incentrato sulla terza
sorella. Così come il primo aveva per protagonista la primogenita Nancy ed il
secondo la cadetta Pamela. Qui è il turno di Diana. Anche se, come sa chi ne ha
letto, la figura di riferimento che ci fa percorrere le varie vicende è Louisa
Cannon.
L’abbiamo
conosciuto con Nancy che si occupava della nursery di casa Mitford, e poi nelle
vesti di chaperon della giovane Pamela. Ovviamente sempre invischiata in
problemi legati a morti sospette. Ed in questo aiutata sempre dal sergente Guy
Sullivan. Ora, dopo i primi anni con i Mitford, Louisa cerca di emanciparsi,
anche sull’onda delle suffragette incontrate nel secondo episodio. Vive a
Londra, e spera di sfondare in qualche ramo, anche se si deve accontentare di
piccoli lavori domestici, avendo fallito il concorso a donna poliziotto.
Un
fallimento che si ripercuote anche sulla sua vita privata, visto che, per
scorno, si allontana da Guy, anche se sembravano due anime non dico gemelle, ma
gemellabili. E questo tira e molla tra i due, senza entrare in altre
descrizioni, prosegue anche qui, pur se sembra, alla fine, destinato alla
soluzione che tutti ci aspettiamo.
Un
punto di sicuro pregio dell’episodio è il fatto che molte delle morti del
romanzo sono realmente avvenute, o sono realmente descritte come avvenute con
qualche piccola modifica. L’elemento meso positivo, oltre ad un paio di
notazioni che farò nel finale, riguarda alla grande estensione temporale degli
avvenimenti. Tra una cosa e l’altra, le avventure iniziano nel 1928 e terminano
nel 1932, un lasso temporale che di certo non facilita le eventuali indagini
sulle possibili morti sospette.
Comunque
noi seguiamo Louisa. Poiché non trova lavori stabili, si adatta nel ’28 a fare
da supervisione per un grande banchetto organizzato dalla famiglia Guinness a
Grosvenor Place. Dove, ad un certo punto, dal ballatoio dove stavano per
guardare i balli, una cameriera, Dorothy Martin, precipita e muore.
L’avvenimento è reale (si legge nelle cronache dei giornali del tempo). La
scrittrice lo trasforma in un possibile inizio di una vicenda criminosa.
In
ogni caso, al ballo, l’erede dei Guinness, Bryan, chiede la mano di Diana nel
giorno del diciottesimo compleanno di lei. Diana, ancora inesperta, chiede
allora a Louisa di diventare sua cameriera personale. Ed in tal veste, si
recano tutti a Parigi. Dove avviene una seconda morte, quella pare per crisi
allergica da sesamo di Shaun Mulloney. Una morte poco sospetta, al tempo, anche
se poi qualche pensiero viene quando tutti si trasferiscono a Venezia.
Non
ci sono solo Diana e Bryan, insieme alla fida Louisa. Ma c’è Nancy con l’amica
Clara, c’è Kate la vedova poco triste di Shaun, c’è Luke un giornalista da
gossip presente sia a Parigi (dove aveva portato dei cioccolatini alla
compagnia) sia a Grosvenor, dove era per qualche articolo. Ed a Grosvenor e
Venezia, accompagnato dalla zia, Lady Boyd, una dama decaduta che organizza i
pranzi, le cene, ed i ricevimenti degli aristocratici.
Perché
a Venezia, per un’overdose di oppio, muore Clara, che era l’amante di Shaun.
Tutti i sospetti convergono su Kate, tant’è che tornati a Londra, dietro alle
indagini non pressanti ma palesi di Louisa e Guy, muore anche Kate, in un
suicidio che lascia qualche domanda sui modi. Quand’anche una quarta persona
sta per essere uccisa, i nostri riescono a trovare il bandolo di tutte queste
morti, ed a sventare la folla impresa criminale di… (e di certo non ve lo
dico).
Quello
che vi dico è appunto che tra la prima morte (che si rivelerà collegata, seppur
casualmente) e l’ultimo quasi omicidio passano quattro anni. E non vi dico con
che fatica si possano reperire prove di eventi dolosi a così lunga distanza
temporale. Una pecca, ovvio, ma che serve alla scrittrice per inserire in
controcanto la vicenda reale di Diana Mitford. Che sposa Bryan a gennaio del
’29, che partorisce due figli (Jonathan nel ’30 e Desmond nel ’31), che diventa
uno dei fari della vita mondana londinese degli inizi degli anni Trenta. Vita
mondana dove incontra Oswald Mosley, di quattordici anni più anziano, e con lui
scoppia “l’amour fou”. Nel ’32 Diana va via di casa con i figli, nel ’33
divorzia da Bryan e nel ’36, quando muore la prima moglie di Oswald, lo sposa,
ed anche con lui ha due figli (Oswald Alexander nel ’38 e Max nel ’40).
Le
vicende Mosley sono comunque importanti che Oswald, ammiratore di Mussolini,
fonda il BUF (British Union of Fascists), e diventa il punto di riferimento dei
fascisti anglofoni. Ovviamente, nel ’40 verrà prima arrestato, poi tenuto ai
domiciliari con Diana sino alla fine della guerra. Da ricordare che il
matrimonio di Oswald e Diana si tenne a Berlino, a casa di Goebbels, e vide tra
gli ospiti anche Adolf Hitler. Per vicende più “amene” ricordo invece che il
figlio Max, da sempre legato agli ambienti automobilistici, circa dal 1990 al
2010 fu presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile, quella
che, tra l’altro, organizza il campionato mondiale di Formula 1.
Venendo
ad alcune puntualizzazioni, a pagina 180 si ipotizza che gli effetti del
venerdì nero di Wall Street (24 ottobre 1929) si siano sentiti in Inghilterra
solo verso marzo 1930. Mi permetto di dubitare. Laddove invece non dubito che a
pagine 260, il correttore di bozze abbia confuso Luke con Guy. Quello che
invece non è confuso è l’accenno alla somiglianza tra il secondo morto, Shaun,
e Gary Cooper. Gary all’epoca aveva 28 anni, ed era bello quasi quanto me,
essendo entrambi nati il 7 maggio.
Pur
non disdegnando le incursioni nella realtà (e non ultima tutta la parte
dedicata al fascino del fascismo per certa élite londinese), e non
sottovalutando la bravura della scrittrice nel dipingere le attività e le
atmosfere della “middle and upper class” britannica, il romanzo risulta troppo
sfilacciato (ci si perde nei tempi lunghi). Tanto che ci si domanda se sia
veramente possibili ricollegare avvenimenti sparsi a distanza di quattro anni,
laddove solo tecniche attuali sembrano poterlo assicurare.
Anche
lo scioglimento non è dei più facili da digerire, sperando solo che finalmente,
dopo quasi dieci anni di tira e molla, Louisa e Guy possano trovare una
convergenza non solo sugli omicidi, ma anche nella vita quotidiana.
Credo
che andrò a stanare prima o poi il quarto libro della serie, perché penso sia
incentrato sulla figura di Unity, forse la più fascista delle sorelle Mitford.
“La
vita è breve, e non bisogna sprecarne neppure un secondo.” (323)
Poiché
sono anche queste settimane di riflessione, vi dedico un ampio florilegio dello
scrittore psicologo Lorenzo
Licalzi. Certo non siamo ai livelli
di “Io no”, quando continuando a chiedere risposte sulle questioni della vita
al fratello, questo gli risponde:
"Secondo te, uno che si fa
tatuare un punto interrogativo ti può dare qualche risposta?".
Qui
cominciamo con alcune belle frasi tratte da “Non so”:
“Io faccio parte di quella percentuale
minima di italiani che ai sondaggi risponde non so … un po’ perché le
convinzioni non sono il mio forte, ma soprattutto perché non ho nessuna
intenzione di dire a quelli del sondaggio se preferisco il dolce o il salato…”
(11)
“Lo sai che odio andare nei negozi a
misurarmi le cose” (54)
“Io rimanevo … sospeso tra il ragazzo che
ero e l’uomo che dovevo diventare” (65)
“Io non sono mai stato un ribelle; ero
irrequieto, insofferente alle regole, fondamentalmente anticonformista … magari
non … in modo appariscente … per il resto non ho mai inseguito con
determinazione un sogno, non sono mai stato uno di quelli che hanno un fuoco
dentro che non si spegne mai e che non possono star fermi ad aspettare che
succeda qualcosa che gli cambi la vita, io ho sempre aspettato Godot.” (65)
“Se non avessi voluto lavare i piatti non li
avrei lavati fino a quando non ero costretto a bere il caffè nel mestolo del
minestrone (che era l’unica cosa che non sporcavo perché, a parte il fatto che
il minestrone è già triste di suo, cucinarselo e mangiarselo da soli è davvero
una delle cose più tristi della vita, seconda solo a farsi un bagno in una
vasca con poca acqua in una stanza fredda).” (164)
E terminiamo
con altre frasi tratte da “Che
cosa ti aspetti da me?”:
“Ora che sono vecchio e stanco e solo, se mi
guardo indietro mi sembra che la mia vita sia la vita di un altro. … Eppure,
nei sotterranei della coscienza, l’essenza ultima della mia persona non è
cambiata, è la stessa di quando avevo vent’anni o quattordici o nove. …Io ho
l’anima del bambino che ero e il corpo del vecchio che sono.” (13)
“Da qualche parte … ho letto una frase che
diceva all’incirca: il nostro destino è quello di essere inferiori all’idea che
avevamo di noi stessi.” (50)
“L’avessi incontrata prima … Sapere che lei
c’era, che è nata nella mia stessa città, in un quartiere non lontano dal mio,
è il più grande rimpianto che ho. Chissà quante volte ci siamo sfiorati,
questione di ore, di minuti, forse sarebbe bastato un cambiamento minimo,
impercettibile dei percorsi della nostra vita, e la vita l’avremmo trascorsa
insieme.” (96)
“Mi ero dimenticato che sapevo emozionarmi.”
(135)
“Un giorno me lo hai chiesto, ricordi? Che
cosa ti aspetti da me? E ricordi cosa ti ho risposto? Mi aspetto che tu non mi
chieda che cosa mi aspetto da te. Che non voleva dire ‘niente’, ma tutto quello
che eri in grado di darmi senza avere bisogno di chiedermelo.” (142)
“Mi spiegò, per esempio, che il segreto
della piena realizzazione è riuscire a comunicare agli altri ciò che si è
attraverso quel che si fa, ma che per essere davvero equilibrati e sereni è
indispensabile che ciò che si fa sia realmente quello che si vuole e non quello
che vogliono gli altri.” (156)
Chiudiamo questa settimana, girata intorno alle ultime attenzioni al nostro cane, lasciandoci in testa riflessioni e pensieri. C’è chi muore fisicamente ma rimane sempre vivo nella mente, nei ricordi. Chi muore nella mente, invece, sparisce per sempre. Ma ora dobbiamo affrontare i mesi estivi e la loro complessa organizzazione di spostamenti, piccoli e grossi. Per cui, per ora, finiamo qui con tanti abbracci.
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