domenica 18 maggio 2025

International serial - 18 maggio 2025

Cediamo ancora una volta al fascino delle serie poliziesche, con cinque trame che si collocano in vari punti spaziali delle avventure dei protagonisti. Ci sono due serie al terzo episodio: la trilogia spagnola di Dolores Redondo, imperniata sull’ispettrice Amaia Salazar, e l’episodio dedicato alla terza delle sorelle Mitford, uscito dalla penna di Jessica Fellowes. Entrambi di rese non eccelsa.

C’è poi, con trent’anni di ritardo, il primo episodio dell’ispettore Erlendur Sveinsson dell’islandese Arnaldur Indriðason e quello del detective Boone Daniels uscito dalla penna di Don Winslow, entrambi invece di livello adeguato e leggermente superiore alla media. Mentre il primo libro dedicato a “Il club dei delitti del giovedì” di Richard Osman mi ha lasciato decisamente freddino.

Dolores Redondo “Offerta alla tormenta” TEA euro 13 (in realtà, scontato a 11,70 euro)

[A: 07/06/2021 – I: 24/12/2024 – T: 27/12/2024] - &&    

[tit. or.: Ofrenda a la tormenta; ling. or.: spagnolo; pagine: 446; anno 2014]

Con questo terzo libro arriviamo, finalmente, al compimento della trilogia scritta da Dolores Redondo, e da lei appunto chiamata “Trilogia di Baztan”, dal nome del fiume e della valle su cui si svolge la maggior parte della trama, piuttosto che “Trilogia di Amaia Salazar”, come si ostinano a battezzarla gli editori italiani, più propensi a legare il titolo al nome della protagonista.

Certo, Amaia Salazar, l’ispettrice della Policia Foral de Navarra (una delle quattro forze di polizia autonome della Spagna), è il centro della trilogia, la persona che riflette sugli avvenimenti, che agisce e che trova la soluzione finale. Ma è il territorio, ed il folclore ad esso legato che in realtà è il vero protagonista della serie, nel bene e nel male.

Se infatti guardiamo ora, che siamo al capitolo finale, l’opera nel complesso, vediamo che il primo episodio (“Guardiano dell’invisibile”) è dedicato al “Basajaun”, il signore della foresta, generalmente benigno verso i contadini, diventando a volte terrificanti “troll”. Il secondo episodio (“Inciso nelle ossa”) è legato al mitologico “Tartalo” un gigantesco ciclope antropomorfo con costumi antropofagi e comportamenti terrificanti. Vediamo quindi come, libro dopo libro, ci si sposti da miti (quasi) benigni verso mitologie sempre più terrificanti. Infatti, la trilogia termina con un omaggio a “Inguma”, un genio minore della mitologia basca, dotato di una natura malvagia, poiché il suo unico scopo è soffocare le sue vittime mentre dormono.

Fatta questa premessa sulle basi mitologiche della trilogia, solo leggendo quest’ultimo capitolo, unito alla nota della scrittrice, capiamo la genesi globale dell’opera. La cui idea di base si concretizza proprio qui, laddove i primi due libri in fondo non erano che delle tappe di avvicinamento, di certo strutturate e miranti, comunque, ad esplorare le prime mitologie, ma che tendevano a questo punto finale.

Infatti, l’idea di Dolores nasce da un articolo del giornale “ABC” che riporta come, nel 2011, si sia cominciato ad indagare sulla morte, avvenuta trenta anni prima, della piccola Ainara, una bambina di quattordici mesi, che si dice sia stata sacrificata dagli stessi genitori facenti parte di una delle tante sette locali. Si dice, perché i genitori, e Dolores lo riprende pari pari nel libro, inventano un viaggio nel Regno Unito, dove, hanno spiegato, la bambina ha subito un ictus da cui non si è più ripresa, e hanno deciso di seppellirla lì. Per arrivare qui, la scrittrice imbastisce le storie del Basajaun e del Tartalo. Qui, ad Inguma.

Il lato più difficile di tutti è che solo leggendo i tre libri in sequenza ravvicinata riusciamo a coglierne gli aspetti ed i collegamenti. Che personaggi che qui agiscono e muoiono si comprendono avendo in mente il resto. E questo è uno dei lati più deboli del testo. Come debole è il finale cui si arriva già sapendo, già comprendendo dalla metà dell’ultimo libro come siano andate le cose. L’altro lato debole è la vicenda di chi, dopo aver fatto sacrifici a Inguma, ne trae benefici economici (e questo potrebbe essere se ipotizziamo la presenza di un fornitore di beni economici), ma soprattutto ne trae benefici fisici. Non si capisce né si spiega come una delle persone che partecipa alle offerte a Inguma, malato di cancro ad uno stato avanzato, possa guarirne ed essere in piena salute dieci anni dopo.

Venendo alla storia, i personaggi base sono gli stessi che ruotano intorno ad Amaia. Il marito James, amato anche se con alti e bassi. Il figlio Ibai e la zia Engrasi presenti quasi solo come corifei. Le due sorelle Ros e Flora, con i loro problemi di rapporti reciproci e con Amaia. L’ispettore Jonan che finirà ucciso, ma la cui morte servirà a sollevare tutti i veli e portare Amaia alla soluzione. Il giudice Markina dal piglio seducente ed ammaliatore.

La storia ruota intorno alla morte di bambine sotto i due anni, molte archiviate come “morte nella culla”, ma che, scavando e ricostruendo, molte di quelle morti risultano sospette e collegate ad una comunità, forse hippy all’inizio poi “satanica” (anche se la parole non mi piace). Comunità cui faceva parte Rosario, la madre di Amaia. Cui faceva da consulente psicologico Barasetegui, incriminato per istigazione al suicidio ed ora suicida egli stesso. Cui faceva parte Elena, ma si era allontanata, e per questo ne viene punita. Che era nota anche ai vertici ecclesiastici, laddove padre Sarasola non fa una gran bella figura.

La nostra scrittrice fa tanti giri di parole, di situazioni, di momenti di pathos. Ci fa entrare nell’orografia navarrina, andando su e giù tra Elizondo e Pamplona. Seguiamo le sue vicende familiari. Vediamo le indagine fare due passi avanti ed uno indietro. Tutto senza un reale coinvolgimento del lettore-spettatore. Per finire tutti i rivoli come ci si aspetta finiscano.

Mistero risolto, strade nuove e separate per le sorelle, madre morta, e Amalia in procinto di riunirsi a James e Ibai che la aspettano in America. Con l’unico dubbio rimasto, collegato ai contatti americani di Amaia: perché le rispondono sempre? Perché la invitano a tenere corsi all’FBI? E chi è il misterioso agente sotto copertura che ogni tanto telefona?

Certo, Dolores prova a toccare molti tasti: l’amicizia, la famiglia, il modo di affrontare le proprie paure, il rispetto, la solidarietà, l’urgenza, interiore, di non subire supinamente il proprio destino. Il tutto condito con la mitologia basca, di cui la scrittrice ben sa e ne è fiera. Tuttavia, lei, e noi con lei, ci manda un messaggio molto semplice. Per quanto si possa credere a figure sovrannaturali, le azioni più truci sono sempre messe in atto dagli essere umani.

“Di tutti i diritti che ha un uomo, quello più importante è il diritto di sbagliarsi, di capire l’errore, di trasformarlo in valore e di non renderlo una condanna per tutta la vita.” (126)

Richard Osman “Il club dei delitti del giovedì” Repubblica Anima Noir 18 euro 8,90

[A: 25/10/2021 – I: 02/01/2025 – T: 04/01/2025] - & e ½   

[tit. or.: The Thursday Murder Club; ling. or.: inglese; pagine: 430; anno 2020]

Molta critica aveva inneggiato al “noir-ironico” di Richard Osman che inaugurava una serie dedicata a “Il club dei delitti del giovedì”, titolo che volutamente ricordava il primo racconto in cui compare Miss Marple di Agatha Christie (“Il club del martedì sera”). Personalmente, devo invece dire che mi ha deluso abbastanza. Qualche spunto ironico, molto inglese, una buona dose di personaggi ben tipicizzati (anche se si potevano approfondire). Ma una trama lenta, contorta, con tante piccole storie che si intrecciano, e con un finale scontato e purtroppo anche molto appiccicato alla trama stessa. Nel senso che si arriva a rendere palesi molti meccanismi, ma con nessun coinvolgimento del lettore. La soluzione usa modi esterni allo sviluppo del testo, così che non è possibile (a meno di esserne l’autore) capire come ci si sia arrivati.

L’idea di partenza poteva essere divertente e foriera di sviluppi. C’è un villaggio, Coopers Chase, creato per i pensionati. Case autonome, ma anche spazi in comune. Lì, tra le tante attività autogestite, un gruppetto di arzilli e arzille persone anziane decide di usare i pochi neuroni che restano prima dell’inevitabile fine, per dedicarsi allo studio (ed eventualmente alla soluzione) di “cold case” che le due organizzatrici hanno nei loro archivi. Il che porta ad uno dei pochi punti positivi del libro: la rappresentazione non stereotipata della vecchiaia, vista sia dal punto di vista degli anziani sia da quello dei giovani (siano essi i figli dei primi o giovani agenti di polizia).

I “vecchietti” sono Elizabeth, una forse ex-agente dei servizi segreti, che ogni tanto tira fuori dal cilindro conoscenze improbabili per una persona apparentemente solitaria (non sola, visto che accudisce il marito Stephen ormai sulla via senza ritorno dell’Alzheimer, ma capace di giocare, anche molto bene, a scacchi) e Penny, una ex-ispettrice di polizia, che molti dossier ha nel suo armadio. Le due sono coadiuvate da Ron, un ex sindacalista rosso  come spesso ce ne sono nella provincia inglese che non ha perso il fervore, la parlantina e che non si fa fregare dalle apparenze, e Ibrahim, detto Ib, un nero (egiziano?) psichiatra con l’amore per i dettagli che serve a portare raziocinio nei momenti troppo concitati. Quando Penny viene colpita da un ictus e ricoverata in coma in ospedale, il suo posto viene preso da Joyce, una ex-infermiera molto naif, dal grande intuito e pronta a voler bene a quasi tutti.

Il villaggio è gestito da un faccendiere, Ian, e da Tony, un ex-gangster che ha quasi ripulito la sua fedina penale. E tutti sono aiutati da uno slavo, Bogdan, anche lui con molti trascorsi fuori dalle linee di condotta perbene. Ma Bogdan è anche uno che sa fare di tutto, quindi serve alla comunità. Che però viene investita da tutta una serie di piccoli fatti. Ian vuole aumentare le sue entrate costruendo altre zone da pensionati, ma per far questo deve anche eliminare il vecchio cimitero del convento di suore che sorge ancora lì, pur senza convento e senza suore.

Ian è anche stanco di Tony, e lo licenzia mettendo Bogdan al suo posto. Mentre assistiamo all’arrivo di un sedicente prete, Matthews, che prende a cuore le sorti del cimitero, ed alla continua osservazione del cimitero stesso da parte di Bertrand, un vedovo della comunità, in sequenza, prima viene ucciso a randellate Tony, poi con un’iniezione di fentanyl in mezzo al tumulto scatenato dalle ruspe che devono svuotare le tombe delle suore, muore anche Ian.

Dicevo delle storie che si intrecciano. Bertrand, facendoci supporre che sia coinvolto in qualcosa del cimitero, si suicida. Nel cimitero Bogdan, in una vecchia tomba (vecchia di almeno centocinquanta anni), trova anche un morto giovane (cioè un cadavere sepolto una trentina di anni prima, ed un cadavere vittima di morte violenta). Si scopre che Matthews, ora medico e spretato, da giovane era veramente un prete e veramente viveva nel villaggio. Si scopre che il marito di Penny (cui non abbiamo prestato attenzione fin ora) è un ex-medico con buone conoscenze dei veleni. Si scopre che Tony in gioventù, da gangster, era sodale con un cipriota che senza motivi apparenti uccise uno slavo per poi sparire dalla circolazione.

Alla fine, senza che si possa ragionarci su per comprendere il tutto, le spiegazioni vengono date, ma usando elementi fino ad allora non noti al lettore. Ed è molto scorretto. Tuttavia sapremo perché è scomparso il cipriota, perché Bertrand si è suicidato, perché Matthews è tornato, perché, come e per mano di chi sono morti Ian e Tony, perché Penny non uscirà dal coma, perché suo marito invece uscirà di scena. Tutto dalla bocca di Elizabeth (ma anche da quella del marito malato), che se non ci diceva lei i collegamenti, noi si starebbe ancora a girare a vuoto.

Così come a vuoto girano due personaggi “attori non protagonisti” che costellano quasi inutilmente le pagine: l’agente Donna ed il suo capo, l’ispettore Curtis. Così come a vuoto girano le pagine del libro, che, avevo dimenticato di dire, si svolge con due linee narrative. Una che racconta i fatti per bocca del narratore onnisciente (che, come detto, sa tutto e ce lo dice senza farcelo capire). Una che invece prende la forma di un flusso di coscienza scritta da Joyce in prima persona (capirete facilmente il gioco letterario che c’è dietro, un flusso di coscienza alla maniera di James Joyce scritto da un’ex-infermiera di nome Joyce).

Ovvio che questa è, bene o male, sono una sintesi del poderoso volume e di tutte le altre piccole storie che lo costellano. Ma che non diventano mai una storia organica. Così come i nostri partecipanti al club, non diventano mai dei ragionatori connessi tra loro magari in sedute di confronto di pensieri ed opere (come ad esempio, nel nostro piccolo, i vecchietti del BarLume di Malvaldi). Così che tutto il testo risulta di un’estrema difficoltà di lettura, dove si salta a destra e sinistra, magari inserendo dopo duecento pagine un personaggio nuovo, ma funzionale alla parte migliore del testo.

Ne esco quindi discretamente insoddisfatto, e seppur so che ho altri libri dell’autore sugli scaffali, non ho al momento nessuna fretta di prenderli in mano. Per tanti dei motivi sopradetti, ma anche per una difficoltà (non so se del testo o della traduzione) che a volte mi fa apparire brani che, per quanto stia attento, non riesco minimamente a comprendere. Come il seguente, a pagina 230, che spero qualcuno sia in grado di spiegarmi: “Chiuse la portiera della Focus dalla parte del passeggero. Il che sembrava appropriato, perché Chris e Donna erano qui per vedere.”

“Conosco la differenza tra solo e solitario, e … è solitario. C’è una cura per questo.” (119)

Don Winslow “La pattuglia dell’alba” Repubblica Brivido Noir 22 euro 8,90

[A: 01/11/2020 – I: 16/01/2025 – T: 18/01/2025] - &&&  

[tit. or.: The Dawn Patrol; ling. or.: inglese; pagine: 412; anno 2008]

Non conoscevo Don Winslow ed anche se questo suo scritto, pur interessante e ben scritto, non mi ha entusiasmato, l’ho trovato una personalità interessante. Prima di tutto perché siamo nati lo stesso anno (e questo è giù un punto in favore), e secondo poi perché da alcuni anni ha deciso di ritirarsi dalla scrittura per dedicarsi ad una serie di campagne tese da ostacolare l’ascesa politica di Donald Trump (e questo è un grande punto a favore).

Il lato sociale di Winslow, comunque, appare com’è ovvio anche nei suoi scritti, ed anche in questo ci sono non pochi momenti in cui abbandona la trama per parlarci del mondo che gira intorno a San Diego, delle speculazioni edilizie, del mondo dei surfer, ed altri momenti della nascita del mondo che gravita intorno alla cittadina californiana a soli 40 chilometri dal confine messicano. Questi momenti sociopolitici sono di certo interessanti, avendo purtroppo il difetto di appesantire una trama che altrimenti sarebbe abbastanza lineare, anche se piena di molti ed interessanti personaggi.

Altro elemento, che almeno per me, ha reso ostica la lettura è tutta la filosofia dei surfer. Incluse le descrizioni delle onde, di come cavalcarle, del codice d’onore dei surfisti, delle tavole, inzeppati da puntate in dialetti hawaiani e samoani (di cui si sa sono un grande conoscitore…).

Il fulcro degli attori del testo è Boone Daniels, tipico esemplare hippies (se ancora ce ne fossero) degli anni 2000. Figlio di due surfisti leggendari, gran surfista lui stesso, ha fatto alcuni anni da poliziotto, scontrandosi però con la corruzione latente della polizia. Si è quindi dimesso, dedicando la sua vita al surf, ed in piccola parte, per sopravvivere, facendo l’investigatore privato. Aveva una grande storia con Sunny ma i problemi in polizia, legati anche alla scomparsa senza ritrovamento di una ragazzina forse vittima di un pedofilo, li hanno raffreddati.

La sua passione per il surf lo ha portato a fondare un gruppo di surfisti, che, riunendosi ad ore antelucane per praticare la loro passione, sono stati battezzati, appunto, la pattuglia dell’alba.

Sunny Day è l’unica donna del gruppo, forse anche la migliore surfista naturale, nata Emily Wendelin, ma poi adottata dalla nonna Eleanor Day (di cui prende il cognome) e chiamata da tutti Sunny perché illumina le loro esistenze. C’è anche un altro elemento unico, il poliziotto sodale di Boone quando questi era in polizia, John Kodani, di origine giapponese così da essere soprannominato Johnny Banzai, e discendente di una delle poche famiglie giapponesi che è rimasta in zona a coltivare la terra.

Anche gli altri membri della pattuglia sono meglio noti con il loro soprannome. Josiah Pamavatuu, un samoano di 170 chili, viene chiamato High Tide (alta marea) perché l’Oceano si innalza quando lui entra in acqua. Ex-membro di una baby gang locale, viene salvato dalla china non proprio eccelsa che aveva intrapreso da Boone e compagni. Brian Brousseau, il più giovane della pattuglia, viene anche lui tirato fuori dal mondo della droga dove lo aveva avviato il padre tossico, e soprannominato Hang Twelve perché ha sei dita per piede. Ed infine Dave the Love God (di cui non sappiamo il vero nome) bagnino infaticabile, ma soprattutto straordinariamente bello, così da conquistare un esercito di cuori (e corpi) femminili.

La storia si svolge nel 2007, dato che non ci viene rivelato ma che si desume dal fatto che tutti i surfisti della zona e non solo attendono delle onde mai viste, generate da un terremoto sottomarino avvenuto nelle Isole Aleutine (che ognuno sa essere la punta estrema dell’Alaska). Ma l’attesa di Boone sarà deviata verso l’investigazione quando l’avvenente avvocato Petra Hall lo contatta per un compito cui non si può rifiutare (perché, al solito, è a corto di soldi).

Deve rintracciare una spogliarellista Tammy Roddick, testimone oculare di un tentativo di truffa perpetrato da un boss locale, Dan Silver, uno dei sodali di primo livello del ras di San Diego, l’hawaiano Red Eddie. Compito non semplice che prima sembra che qualcuno ha ucciso Tammy, essendo invece uno scambio di persone. Poi ci si mette in mezzo un medico Teddy Cole, noto per la sua bravura nel rifare le tette (da cui il soprannome Re di Coppe) e per essere anche lui uno sciupafemmine.

Seguendo queste labili tracce, vediamo scoperchiarsi anche il vaso di Pandora dei “mojados”, gli immigrati messicani clandestini, nonché di un’altra e meno nobile “pattuglia dell’alba”, quella costituita dalla ragazzine messicane immigrate che vengono prese dalle bande locali per essere usate come giovani “carne da macello” ad uso di pedofili e puttanieri vari.

La vicenda è assai complicata, laddove nessuno sembra essere, sino in fondo, quello che appare a prima vista. Petra sembra dura e inflessibile, ma ha i suoi motivi di origine familiare, e della sua bellezza è ben colpito anche Boone. Forse Tammy e Teddy non sono proprio amanti ed hanno altro da nascondere. Ma da quali occhi? E di sicuro Dan è un malavitoso sino in fondo, e forse anche di più. Insomma, tutto si complica e si incastra.

I campi dove lavorano gli immigrati e dove vengono portate le bambine sono di proprietà del nonno di Johnny Banzai, High Tide viene ricattato da Red Eddie che minaccia la sua famiglia a Samoa se non viene aiutato a trovare il fuggitivo Boone. Deve the Love God, oltre a fare il bagnino, è anche uno spallone della droga per Red, ma quando scopre la tratta delle bambine deve decidere da che parte stare: Red o Boone?

Tutti momenti che sarebbe lineare seguire se non ci fossero quelle divagazioni che ho accennato. E se non si accelerasse il finale, per vedere se Sunny riesce a cavalcare l’onda gigante e diventare professionista del surf, se Boone riesce a svelare i segreti di Tammy ed incastrare Dan e Red, se Petra decide di cedere al fascino di Boone.

Un po’ lungo, a volte lento, forse un filo telefonato, ma la mano dello scrittore c’è.

Arnaldur Indriðason “I figli della polvere” TEA euro 14 (in realtà, scontato a 13,30 euro)

[A: 23/11/2024 – I: 14/03/2025 – T: 15/03/2025] &&&

[tit. or.: Syinir duftsins; ling. or.: islandese; pagine: 330; anno 1997]

ES01

E con questo, chiudiamo un cerchio. Negli ultimi quindici anni, a partire dal 2010, ho letto diciannove dei ventuno libri tradotti in italiano e scritti dal grande scrittore islandese Arnaldur figlio di Indriði G. Þorsteinsson, a sua volta scrittore e giornalista. In particolare quest’ultima lettura è in realtà il primo volume scritto da Arnaldur con le avventure e le indagini del commissario Erlendur Sveinsson. Questo perché a suo tempo cominciarono a tradurre il terzo libro, che aveva avuto successo internazionale, mentre questo (e il secondo episodio) ritenuti un po’ acerbi, hanno dovuto aspettare quasi trent’anni per essere tradotti.

E seppur concordiamo con la non completa maturità del testo, vediamo nascere il personaggio, ne vediamo alcuni tratti che rimarranno, ed altri che andranno scomparendo. Erlendur non è ancora quel maestro di pensiero ed introiezione, ha ancora molte pulsioni eccentriche rispetto alla sua natura. Così come il contorno dell’azione è ancora molto sfumato ed in un certo senso ancora non veramente islandese.

Il primo elemento che balza agli occhi è l’attrito che c’è tra Erlendur ed il suo vice, Sigurður Oli, frutto di alcune vicende pregresse e di alcuni atteggiamenti attuali. Un attrito che sfumerà ben presto in una più attiva collaborazione e comprensione reciproca, sebbene ci vorranno alcuni libri. Come libri e tempo ci vorrà per l’entrata in scena del terzo elemento indagatore, l’ispettrice Elinborg. Mentre il rapporto con i figli è già presente e conflittuale, anche se qui rimane in un certo senso marginale.

L’altro elemento atipico di questa prima uscita è il fatto che c’è una seconda voce che indaga per tutto il romanzo. Una voce che ogni tanto converge con Erlendur, ma non sempre. Anzi, se convergesse di più, forse si arriverebbe prima alla comprensione dei meccanismi della trama. Mentre qui seguiamo appunto le riflessioni di Palmi, che ben si inseriscono nel filo della trama, ed in un certo senso ce ne danno una visione non omologa a quella poliziesca.

La vicenda parte da due morti: Daniel, un paziente di una struttura psichiatrica e fratello maggiore di Palmi, si suicida e Halldór, un vecchio insegnante in pensione, muore nel rogo della sua casa, con evidenti problemi di dolo, visto che era legato e strettamente ad una sedia e cosparso di benzina, prima che la casa prendesse fuoco, bruciando lui e tutto il contenuto (ricordo che spesso le case islandesi sono costruite in legno).

Ben presto si scopre il legame tra i due: Halldór era venuto spesso negli ultimi tempi a trovare Daniel. E Palmi scopre anche che Halldór era stato l’insegnante di Daniel verso i quindici anni del fratello. Erlendur, trovato questo aggancio, comincia ad indagare scoprendo che: la classe di Daniel, quell’anno, ebbe risultati scolastici sorprendenti e che, dall’anno successivo, tutti gli alunni cominciano ad avere problemi. Chi muore d’infarto a quattrodici anni, che si suicida, chi comincia ad abusare di droghe, chi va fuori di testa.

Tuttavia, mentre seguiamo con occhi poliziesco l’indagine di Erlendur, è con l’occhio del cuore che ripercorriamo con Palmi la sua vita ed il suo rapporto con il fratello (una costante che si riproporrà molti libri più avanti, nella descrizione del rapporto tra Erlendur e suo fratello). In fondo questa, oltre alle tematiche che delineo più avanti, è la parte migliore del libro. Che invece, nella parte thriller vira ben presto verso una poca plausibilità.

Si scopre infatti che c’è un industria islandese che decide di sperimentare una strana polverina, utilizzando come cavie inconsapevoli proprio la classe di Daniel e costringendo Halldór a tenere lui in mano le fila della sperimentazione, usando come ricatto il passato poco limpido di Halldór stesso. Già questa è una situazione al limite, che poi Arnaldur esaspera verso il fine sperimentale, che non era chiaro all’epoca, ma che ora, trent’anni dopo si palesa. Un finale improbabile e poco coinvolgente. Unico momento di speranza e consolazione è l’uscita di Palmi dalla sua depressione, e l’avvio di un possibile più roseo futuro.

Mentre Erlendur e la sua squadra, risolto il caso, si avvieranno alle nuove prove che ho già descritto nel corso di questi anni.

Come vedete, l’altro e fondante elemento già presente qui, e sempre presente, con più o meno forza, nella narrativa di Arnaldur, è la critica allo stato sociale, ed ai guasti di una situazione generale dell’isola che porterà (anche se qui si può solo ipotizzarlo visto che siamo nel secolo scorso) ai problemi dei primi decenni del secolo. Anzi, per fare un riassunto completo, pur se accennate, sono presenti quasi tutte le topiche di Arnaldur: il gelo, la solitudine, le improvvise sparizioni, lo sviluppo economico anomalo, fino a tutto il retaggio dell’occupazione militare americana e britannica, con tutti i rapporti interpersonali che ha creato e spesso portato a momenti di forte attrito.

Una lettura filologica, ma non priva d’interesse.

Jessica Fellowes “Scandalo in casa Mitford” Repubblica Anima Noir 32 euro 8,90

[A: 26/01/2022 – I: 03/04/2025 – T: 06/04/2025] - &&

[tit. or.: The Mitford Scandal; ling. or.: inglese; pagine: 366; anno 2019]

Riprendiamo, a distanza di un anno circa, la lettura dell’epopea seriale scritta da Jessica Fellowes quasi a mo’ di biografia della famiglia Mitford. Questo è il terzo episodio, e, come ci si può aspettare, è ovviamente un episodio incentrato sulla terza sorella. Così come il primo aveva per protagonista la primogenita Nancy ed il secondo la cadetta Pamela. Qui è il turno di Diana. Anche se, come sa chi ne ha letto, la figura di riferimento che ci fa percorrere le varie vicende è Louisa Cannon.

L’abbiamo conosciuto con Nancy che si occupava della nursery di casa Mitford, e poi nelle vesti di chaperon della giovane Pamela. Ovviamente sempre invischiata in problemi legati a morti sospette. Ed in questo aiutata sempre dal sergente Guy Sullivan. Ora, dopo i primi anni con i Mitford, Louisa cerca di emanciparsi, anche sull’onda delle suffragette incontrate nel secondo episodio. Vive a Londra, e spera di sfondare in qualche ramo, anche se si deve accontentare di piccoli lavori domestici, avendo fallito il concorso a donna poliziotto.

Un fallimento che si ripercuote anche sulla sua vita privata, visto che, per scorno, si allontana da Guy, anche se sembravano due anime non dico gemelle, ma gemellabili. E questo tira e molla tra i due, senza entrare in altre descrizioni, prosegue anche qui, pur se sembra, alla fine, destinato alla soluzione che tutti ci aspettiamo.

Un punto di sicuro pregio dell’episodio è il fatto che molte delle morti del romanzo sono realmente avvenute, o sono realmente descritte come avvenute con qualche piccola modifica. L’elemento meso positivo, oltre ad un paio di notazioni che farò nel finale, riguarda alla grande estensione temporale degli avvenimenti. Tra una cosa e l’altra, le avventure iniziano nel 1928 e terminano nel 1932, un lasso temporale che di certo non facilita le eventuali indagini sulle possibili morti sospette.

Comunque noi seguiamo Louisa. Poiché non trova lavori stabili, si adatta nel ’28 a fare da supervisione per un grande banchetto organizzato dalla famiglia Guinness a Grosvenor Place. Dove, ad un certo punto, dal ballatoio dove stavano per guardare i balli, una cameriera, Dorothy Martin, precipita e muore. L’avvenimento è reale (si legge nelle cronache dei giornali del tempo). La scrittrice lo trasforma in un possibile inizio di una vicenda criminosa.

In ogni caso, al ballo, l’erede dei Guinness, Bryan, chiede la mano di Diana nel giorno del diciottesimo compleanno di lei. Diana, ancora inesperta, chiede allora a Louisa di diventare sua cameriera personale. Ed in tal veste, si recano tutti a Parigi. Dove avviene una seconda morte, quella pare per crisi allergica da sesamo di Shaun Mulloney. Una morte poco sospetta, al tempo, anche se poi qualche pensiero viene quando tutti si trasferiscono a Venezia.

Non ci sono solo Diana e Bryan, insieme alla fida Louisa. Ma c’è Nancy con l’amica Clara, c’è Kate la vedova poco triste di Shaun, c’è Luke un giornalista da gossip presente sia a Parigi (dove aveva portato dei cioccolatini alla compagnia) sia a Grosvenor, dove era per qualche articolo. Ed a Grosvenor e Venezia, accompagnato dalla zia, Lady Boyd, una dama decaduta che organizza i pranzi, le cene, ed i ricevimenti degli aristocratici.

Perché a Venezia, per un’overdose di oppio, muore Clara, che era l’amante di Shaun. Tutti i sospetti convergono su Kate, tant’è che tornati a Londra, dietro alle indagini non pressanti ma palesi di Louisa e Guy, muore anche Kate, in un suicidio che lascia qualche domanda sui modi. Quand’anche una quarta persona sta per essere uccisa, i nostri riescono a trovare il bandolo di tutte queste morti, ed a sventare la folla impresa criminale di… (e di certo non ve lo dico).

Quello che vi dico è appunto che tra la prima morte (che si rivelerà collegata, seppur casualmente) e l’ultimo quasi omicidio passano quattro anni. E non vi dico con che fatica si possano reperire prove di eventi dolosi a così lunga distanza temporale. Una pecca, ovvio, ma che serve alla scrittrice per inserire in controcanto la vicenda reale di Diana Mitford. Che sposa Bryan a gennaio del ’29, che partorisce due figli (Jonathan nel ’30 e Desmond nel ’31), che diventa uno dei fari della vita mondana londinese degli inizi degli anni Trenta. Vita mondana dove incontra Oswald Mosley, di quattordici anni più anziano, e con lui scoppia “l’amour fou”. Nel ’32 Diana va via di casa con i figli, nel ’33 divorzia da Bryan e nel ’36, quando muore la prima moglie di Oswald, lo sposa, ed anche con lui ha due figli (Oswald Alexander nel ’38 e Max nel ’40).

Le vicende Mosley sono comunque importanti che Oswald, ammiratore di Mussolini, fonda il BUF (British Union of Fascists), e diventa il punto di riferimento dei fascisti anglofoni. Ovviamente, nel ’40 verrà prima arrestato, poi tenuto ai domiciliari con Diana sino alla fine della guerra. Da ricordare che il matrimonio di Oswald e Diana si tenne a Berlino, a casa di Goebbels, e vide tra gli ospiti anche Adolf Hitler. Per vicende più “amene” ricordo invece che il figlio Max, da sempre legato agli ambienti automobilistici, circa dal 1990 al 2010 fu presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile, quella che, tra l’altro, organizza il campionato mondiale di Formula 1.

Venendo ad alcune puntualizzazioni, a pagina 180 si ipotizza che gli effetti del venerdì nero di Wall Street (24 ottobre 1929) si siano sentiti in Inghilterra solo verso marzo 1930. Mi permetto di dubitare. Laddove invece non dubito che a pagine 260, il correttore di bozze abbia confuso Luke con Guy. Quello che invece non è confuso è l’accenno alla somiglianza tra il secondo morto, Shaun, e Gary Cooper. Gary all’epoca aveva 28 anni, ed era bello quasi quanto me, essendo entrambi nati il 7 maggio.

Pur non disdegnando le incursioni nella realtà (e non ultima tutta la parte dedicata al fascino del fascismo per certa élite londinese), e non sottovalutando la bravura della scrittrice nel dipingere le attività e le atmosfere della “middle and upper class” britannica, il romanzo risulta troppo sfilacciato (ci si perde nei tempi lunghi). Tanto che ci si domanda se sia veramente possibili ricollegare avvenimenti sparsi a distanza di quattro anni, laddove solo tecniche attuali sembrano poterlo assicurare.

Anche lo scioglimento non è dei più facili da digerire, sperando solo che finalmente, dopo quasi dieci anni di tira e molla, Louisa e Guy possano trovare una convergenza non solo sugli omicidi, ma anche nella vita quotidiana.

Credo che andrò a stanare prima o poi il quarto libro della serie, perché penso sia incentrato sulla figura di Unity, forse la più fascista delle sorelle Mitford.

“La vita è breve, e non bisogna sprecarne neppure un secondo.” (323)

Poiché sono anche queste settimane di riflessione, vi dedico un ampio florilegio dello scrittore psicologo Lorenzo Licalzi. Certo non siamo ai livelli di “Io no”, quando continuando a chiedere risposte sulle questioni della vita al fratello, questo gli risponde: "Secondo te, uno che si fa tatuare un punto interrogativo ti può dare qualche risposta?".

Qui cominciamo con alcune belle frasi tratte da “Non so”:

“Io faccio parte di quella percentuale minima di italiani che ai sondaggi risponde non so … un po’ perché le convinzioni non sono il mio forte, ma soprattutto perché non ho nessuna intenzione di dire a quelli del sondaggio se preferisco il dolce o il salato…” (11)

“Lo sai che odio andare nei negozi a misurarmi le cose” (54)

“Io rimanevo … sospeso tra il ragazzo che ero e l’uomo che dovevo diventare” (65)

“Io non sono mai stato un ribelle; ero irrequieto, insofferente alle regole, fondamentalmente anticonformista … magari non … in modo appariscente … per il resto non ho mai inseguito con determinazione un sogno, non sono mai stato uno di quelli che hanno un fuoco dentro che non si spegne mai e che non possono star fermi ad aspettare che succeda qualcosa che gli cambi la vita, io ho sempre aspettato Godot.” (65)

“Se non avessi voluto lavare i piatti non li avrei lavati fino a quando non ero costretto a bere il caffè nel mestolo del minestrone (che era l’unica cosa che non sporcavo perché, a parte il fatto che il minestrone è già triste di suo, cucinarselo e mangiarselo da soli è davvero una delle cose più tristi della vita, seconda solo a farsi un bagno in una vasca con poca acqua in una stanza fredda).” (164)

E terminiamo con altre frasi tratte da “Che cosa ti aspetti da me?”:

“Ora che sono vecchio e stanco e solo, se mi guardo indietro mi sembra che la mia vita sia la vita di un altro. … Eppure, nei sotterranei della coscienza, l’essenza ultima della mia persona non è cambiata, è la stessa di quando avevo vent’anni o quattordici o nove. …Io ho l’anima del bambino che ero e il corpo del vecchio che sono.” (13)

“Da qualche parte … ho letto una frase che diceva all’incirca: il nostro destino è quello di essere inferiori all’idea che avevamo di noi stessi.” (50)

“L’avessi incontrata prima … Sapere che lei c’era, che è nata nella mia stessa città, in un quartiere non lontano dal mio, è il più grande rimpianto che ho. Chissà quante volte ci siamo sfiorati, questione di ore, di minuti, forse sarebbe bastato un cambiamento minimo, impercettibile dei percorsi della nostra vita, e la vita l’avremmo trascorsa insieme.” (96)

“Mi ero dimenticato che sapevo emozionarmi.” (135)

“Un giorno me lo hai chiesto, ricordi? Che cosa ti aspetti da me? E ricordi cosa ti ho risposto? Mi aspetto che tu non mi chieda che cosa mi aspetto da te. Che non voleva dire ‘niente’, ma tutto quello che eri in grado di darmi senza avere bisogno di chiedermelo.” (142)

“Mi spiegò, per esempio, che il segreto della piena realizzazione è riuscire a comunicare agli altri ciò che si è attraverso quel che si fa, ma che per essere davvero equilibrati e sereni è indispensabile che ciò che si fa sia realmente quello che si vuole e non quello che vogliono gli altri.” (156)

Chiudiamo questa settimana, girata intorno alle ultime attenzioni al nostro cane, lasciandoci in testa riflessioni e pensieri. C’è chi muore fisicamente ma rimane sempre vivo nella mente, nei ricordi. Chi muore nella mente, invece, sparisce per sempre. Ma ora dobbiamo affrontare i mesi estivi e la loro complessa organizzazione di spostamenti, piccoli e grossi. Per cui, per ora, finiamo qui con tanti abbracci.

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