Valérie
Perrin “Tatà” E/O s.p. (Prestito di Alessandra)
[A: 03/01/2025
– I: 10/03/2025 – T: 11/03/2025] - &&
e ½
[tit.
or.: Tata; ling. or.: francese; pagine: 597; anno 2024]
Valérie Perrin
conferma, in questo suo ulteriore volume, le doti affabulatrici che ci hanno
intrigato, soprattutto in “Cambiare l’acqua ai fiori”, anche se, rispetto al
suo miglior risultato, qui rimane una trama un po’ involuta. Interessante, con
alcuni spunti, ma forse, in alcuni momenti, troppo tesa a ripercorrere le
strade usuali che le hanno dato notorietà. Ambiti familiari non usuali,
rapporti non sempre semplici, situazioni che all’inizio sembrano andare in una
direzione e poi ne imboccano altre.
Le capacità dell’autrice qui si esplicano
anche nelle diverse forme espressive. C’è il racconto in prima persona, in
terza, riproposizioni di audiocassette, scritti di sceneggiature, salti
temporali. Tutto serve per portare avanti diversi discorsi narrativi, senza
scoprire subito tutte le carte, in modo da condurre il lettore allo svelamento
di tutti i misteri narrativi.
Credo che l’idea originaria del testo sia
nata come omaggio ad un luogo dell’infanzia dell’autrice, che proprio a
Gueugnon in Borgogna passa la sua infanzia, in una famiglia dove il padre Yves
è un calciatore professionista della locale squadra di calcio. Una squadra di
secondo ed anche terzo piano, con un solo lampo di classe, quando nel 2000
vince la “Coppa di Liga” (terza competizione francese, ormai dismessa),
battendo in finale il Paris St. Germain.
Per fare ciò si inventa una sua alter-ego,
Agnès, regista e sceneggiatrice di successo, che però ha smesso di lavorare in
seguito ad un traumatico divorzio, e la zia Colette, poco appariscente,
calzolaia, ma tifosa sfegatata della squadra di calcio, per la quale andava
sempre allo stadio, in casa ed in trasferta. Qui, tra l’altro, i traduttori
italiani hanno fatto una scelta coraggiosa, in quanto in francese zietta (come
era Colette) si dice “Tata”, pronunciata con l’accento sul finale. Ma in
italiano “tata” sta per governante, quindi hanno deciso di inserire un accento
posticcio, creando una parola che non esiste in nessuna lingua, ma che è
plausibile.
Agnès si vede richiamata nella natia Gueugnon
a fronte della morte della zia Colette. Peccato che la zia sia stata già
inumata tre anni prima. Comunque la morte è proprio Colette, Agnès si
trasferisce nella cittadina, e si trova di fronte a due bivi: chi è la persona
nella tomba della zia? E cosa contengono le innumerevoli audiocassette che
Colette le ha lasciato in eredità?
Da qui, appunto, le storie nella storia. Tra
ascolti, ricerche ed altre agnizioni, la nostra eroina riflette sulla propria
vita, sul passato e sulle scelte che sono state fatte. Veniamo così intanto
convolti nella storia del padre Jean e di sua moglie Hannah, comprendendo tutte
le vicende della guerra e dell’olocausto. Dall’altro entra meglio dentro la
vita di Colette.
Ripercorriamo l’infanzia della zia, quando
incontra la sua gemella diversa, Blanche, figlia di giostrai ambulanti, con
padre almeno manesco se non peggio. Tra le due nasce una comunanza immediata.
Poi si perderanno di vista per una serie di motivi che scoprirete leggendo, per,
alla fine, ritrovarsi alla famosa finale di calcio di cui ho scritto sopra.
Colette si prende cura di Blanche (potrebbero anche avere una relazione? Ma chi
se ne importa, ed anche se non viene mai detta, una verità, è sempre meno dolorosa
dell’inganno).
Si capisce ben presto che è proprio Blanche
quella morta tre anni prima, con Colette che si auto-esilia per non essere
separata da lei anche dopo la morte (i cimiteri sembrano una costante della
scrittura di Valérie). In tutto si inseriscono anche storie collaterali, ad
esempio quella degli abusi di un allenatore della squadra di calcio giovanile e
dei guasti che la pedofilia porta nella piccola cittadina.
Così, nel corso della grande avventura,
compresa una sceneggiatura che Agnès cerca di scrivere su questa storia,
Valérie affronta tanti temi rilevanti nella vita di ognuno: maternità, violenza
di genere, la nascita e la fine di una amore, e le sue diverse forme. Non
mancando elementi forti che parlano di talenti musicali, di ebrei deportati, di
donne che fuggono da un circo che non è gioioso ma colmo di orrori.
Il messaggio finale della nostra valente
scrittrice è forse un messaggio semplice ma forte: la famiglia è costituita
semplicemente dalle persone che ci amano e che noi amiamo. Tutto il dolore che
abbiamo attraversato nelle quasi seicento pagine possiamo trasformarlo in forza
se non lo lasciamo in silenzio, se siamo capaci di affrontare le nostre ferite,
e poterle guardare, magari con tutta la nostra famiglia come sopra definita.
Alla fine, Valérie scrive bene (per sua
bravura, non solo per la vicinanza con Claude Lelouch, che magari le fornisce
solo un ulteriore occhio per guardare la realtà), ma il risultato finale, pur
positivo, non raggiunge i cambiamenti dell’acqua ai fiori.
Kawakami Hiromi “La cartella del
professore” Corriere Giappone 10 euro 8,90
[A: 14/07/2021 – I: 13/03/2025 – T: 14/03/2025]
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[tit. or.: センセイの鞄 Sensei
no kaban; ling. or.: giapponese;
pagine: 181; anno 2001]
Kawakami
Hiromi è una scrittrice giapponese molto nota in patria, ed un po’ anche fuori
dal Giappone, anche se non ha la risonanza di una Banana o di un Murakami. Tra
l’altro leggo e commento questo suo libro nei dintorni del suo 67° compleanno
(nata il 1° aprile9). E leggo e tramo un libro che mi verrebbe da commentare
come “un nulla pieno di tutto”.
Hiromi
è poetessa e si nota nella leggerezza dello scrivere, nonché nella presenza di
alcuni delicati “haiku”, che sono sempre di gradita lettura. Ma è anche
saggista e critica letteraria, cosa che traspare in controluce in alcuni
accenni del personaggio Harutsuna Matsumoto, il “sensei” (professore) del
titolo, che a lungo è stato insegnante di giapponese nelle scuole secondarie.
La
delicata storia è narrata in prima persona da Omachi Tsukiko, che ci porta a
viaggiare per un lungo tratto della sua vita. Tsukiko è una cosiddetta “office
lady”, donne che lavorano nelle ditte e generalmente si dimettono una volta
sposate; ma ve ne sono anche di quelle che resistono, dotate di buona cultura,
e che hanno deciso di rimanere consapevolmente non sposate.
Inciso:
la scrittrice, in gioventù insegnante di biologia, quando si sposa e rimane
incinta, si licenzia, rimane in casa, dove comincia anche a scrivere, seppur in
una condizione di difficoltà, tant’è che dopo una ventina d’anni divorzia. Ed
in effetti, essere moglie e madre in Giappone non è certo semplice (anche se
non lo è mai da nessuna parte): obblighi sociali legati alla pulizia della
casa, la capacità di cucinare, accudire bambini e anziani, rimanendo sempre sorridenti
e impeccabili. Da paura!
Ma
veniamo a Tsukiko, che dopo il lavoro, e nei momenti di riposo, frequenta un
nomi-ya, una specie di bar dove si va a bere sakè, caldo o freddo, o magari
birra, e a mangiare qualcosa. In questo locale ci si siede così come capita su
dei lunghi banconi. E così come capita, è lì che Tsukiko incontra spesso un
signore di una certa età (soprattutto per lei che è poco sotto i quaranta).
Sarà il signore che la riconosce e si palese è sensei Matsumoto, il suo
professore di liceo. Comincia così una frequentazione fatta di bevute, di cibo
e di haiku.
Di
fatto è il cibo il convitato di pietra che assiste a tutta la storia, dove,
accanto alle bevande vediamo passare tanti cibi di piccola dimensione, adatti
alla tipologia “aperitivo” dei nomi-ya: nattō di tonno, fettine di balena
affumicata, frittelle di renkon, scalogni sotto sale. Poi se volete ci torniamo
sopra. Ma qui servono solo da contorno alla storia di Tsukiko e Sensei. Lei,
giovane ed un po’ sbalestrata, cerca di capire quale sia il suo posto nel
mondo; lui è maturo, vedovo, molto attento a qualsiasi cosa si faccia o si
dica.
I
due non si danno mai un reale appuntamento, si incontrano nel nomi-ya, parlano,
mangiano e bevono. Ma quando per un certo periodo Sensei non compare, Tsukiko
entra in ansia. Sensei tuttavia era solo influenzato. Il momento clou si
avvolge intorno ad una delle più celebrate feste locali, quella della fioritura
dei ciliegi, dove Sensei la invita alla festa che si tiene nel loro vecchio
liceo. In quell’atmosfera altra (non sono più protetti dal bar) Tsukiko si
accorge di due cose complementari: non è attratta dalle attenzioni di un suo
coetanee, pur carino, ed ha una punta di gelosia per le attenzioni che altri rivolgono
a Sensei.
Finisce
così che è lei che lo invita a passare due giorni in un ryokan con vista mare,
dove si comincia a sgretolare il muro della loro solitudine. Nasce quella
storia d’amore che ci si aspettava sin dalle prime pagine, ma Hiromi la veste
di tutta la cultura giapponese di cui è capace: niente sesso al primo incontro,
ma un graduale avvicinarsi di due anime affini nello spirito seppur lontane nei
tempi. In fondo, la scrittrici ci lancia qui un messaggio semplice e lineare:
gli incontri che facciamo ci segnano e talvolta ci cambiano radicalmente la
vita.
Kawakami
ha la capacità di descrivere senza giudicare, di registrare gli avvenimenti e
di porgerli a noi lettori descrivendo situazioni ordinarie che la
consapevolezza dei personaggi fa cessare di essere banali. Così come, i
delicati modi di Sensei, uomo d’altri tempi, fanno scoprire a noi e Tsukiko
tutto quello che serve di sapere sull’amore: rischio, incertezza, delicatezza,
incontrollabilità, incomprensibilità. Ma soprattutto quello che non dovrebbe
mai mancare in ogni momento: il rispetto.
E
tutto si condenserà nell’ultimo capitolo, intitolato appunto “la borsa del
professore”, in onore di quella borsa di cuoio che Sensei porta sempre con sé.
Un ultimo capitolo bello e da giusto suggello ad un bel libro. Con Tsukiko e
Sensei abbiamo bevuto, mangiato, condiviso momenti diversi, ci siamo incontrati
per quasi duecento pagine. Ed ora li porteremo con noi.
Sono
contento di aver avuto la possibilità di conoscere questa storia e questa
scrittrice.
Dimenticavo
il nattō di tonno è fatto con tonno mescolato a soia fermentata (buono ma
dall’odore molto forte), mentre le frittelle di renkon sono fatte friggendo le
radici del loto.
“Il
fatto è che a scuola non le insegnano mai, le cose veramente importanti.” (41)
“Vivere,
significa causare problemi a qualcuno.” (50)
Emi Yagi “Il diario geniale della
signorina Shibata” Repubblica Giappone 25 euro 8,90
[A: 23/03/2025 – I: 23/04/2025 – T: 26/04/2025]
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[tit. or.: 空芯手帳 Kushin
techo; ling. or.: giapponese;
pagine: 162; anno 2020]
Un
libro interessante per l’argomento ed il modo di trattarlo, anche se, molto
interno al modo di vivere giapponese, in alcuni punti si fa fatica a seguirne
la logica. Certo, nel momento in cui questa logica (o illogicità) viene palese,
a mente fredda, e ripensando, da uomo, sia al mondo giapponese che al mondo
occidentale, il gradimento e l’interesse non può che salire.
Emi
è una giovane giapponese, under 40, che lavora nel mondo dell’editoria, ed ha
pubblicato poco, seppur d’interesse, come questo libro, vincitore di un
importante premio giapponese (il premio Osamu Dezai per l’opera prima) ed
essendo inserita nella lista dei migliori libri usciti in America nel 2022 ad
opera del “The New Yorker”. Credo anche che lo spunto del libro, come ha
accennato in un’intervista, sia nato proprio dalla sua esperienza lavorativa.
Venendo
all’editoria italiana, intanto, comincerei proprio dal titolo, essendo l’unico
paese in cui la traduzione si discosta e molto dall’originale. In giapponese (e
nelle maggiori lingue che ho controllato) si rimane molto vicini al titolo
originale che, pur con qualche variazione dovuta alla volubilità interpretativa
dei caratteri locali, indica il “Diario di un vuoto” (o tutt’al più, “Storia di
un vuoto”). Mentre da noi, per sottolineare sia la provenienza giapponese che
quel tono semi leggero di tutta una serie di libri in uscita negli ultimi anni,
si indica il nome della protagonista, e quell’aggettivo, geniale, che in
effetti potremmo riprendere in finale di trama.
Tutto
il libro, in realtà, è un grido di dolore della condizione lavorativa (ed anche
umana) della donna in Giappone. La signorina Shibata lavora in un’industria di
produzione di cartone, in un’unità in cui è la sola donna. Per questo, oltre al
lavoro normale, viene dato per scontato che sia lei a dover fare il caffè
durante le riunioni, sia lei a fare le fotocopie, sia lei a riordinare dopo le
riunioni. In un ambiente maschilista, in cui non viene chiamata neanche per
nome, ma se si dimenticava qualcosa, ecco che partivano i “Ehi, microonde!”,
manca questo, manca quello.
Ecco
che Shibata ha la prima idea geniale: si inventa di essere incinta. Non può
pulire la stanza riunioni che l’odore delle sigarette e del caffè le dà la
nausea. Con questo espediente, da semplice soprammobile dell’ufficio, assurge
ad un altro ruolo, molto giapponese: la donna incinta che diventerà madre e
moglie.
Shibata
però ribalta tutto ciò. Perché non è sposata, e non è più una persona dedita
solo al lavoro. Che non solo ai tempi delle geishe, ma anche ai giorni nostri,
Emi ci mostra che il ruolo della donna è di dover essere sia una lavoratrice
modello, che diventare madre entro una certa età e preferibilmente avere un
marito accanto. Anche se poi, pur aderendo al modello proposto, la donna rimane
sempre indietro, laddove lo stipendio femminile, a parità di mansioni, è sempre
più basso di quello maschile.
Ora
Shibata ha più libertà. Non fa straordinari, ha più tempo per sé, si iscrive ad
una palestra, non mangia più cibi precotti, ma cucina. E passeggia, che
camminare fa bene alla gravidanza. Usa una app che la indirizza su cosa deve
fare una donna incinta, settimana dopo settimana. Si fascia il corpo con
asciugamani per mostrarsi più rotonda. Si iscrive anche ad un corso preparto.
Questo serve a mostrare anche l’altra metà della difficoltà di essere donna.
Che nel parco, in palestra, in ospedale, incontra solo donne. Gli uomini sono
assenti, a volte giustificati, spesso solo assenti per maschilismo sfrenato.
Alla
fin fine, è il racconto di una donna sola, che a volte usa toni leggeri anche
per descrivere momenti di difficoltà. Toni che l’autrice maneggia bene,
soprattutto quando arriva al secondo colpo di genio. Che nel finale, riesce ad
imbrogliare le carte e lo scritto, per cui non si capisce (e forse non è
nemmeno importante) se in realtà partorisce realmente o meno. Fatto sta che
(vero o falso che sia) risulta presente anche un bambino, e con lui la voglia
di riprendere la propria vita, e metterla su binari diversi. Ad esempio,
licenziandosi, e prendendo una via lavorativa più consona a quanto ha scoperto
nei nove mesi di gestazione.
Un
ultimo accenno, che riprendo sempre da siti con traduzione e da esperti della
lingua giapponese. Il vuoto del titolo, come abbiamo visto, attraversa tutta la
storia di Shibata, e ne diventerà un simbolo, dato che alla fine sceglierà
proprio per il figlio (vero? immaginario?) il nome di Sorato, scritto con i
caratteri di cielo e/o vuoto (空) e di persona (人).
Ripeto,
un libro intrinsecamente nipponico ma che, letto nell’ottica della condizione
della donna, non può che farci venire in mente anche il nostro mondo
occidentale. Non ci sono, in realtà, molte differenze.
Morishita Noriko “Ogni giorno è un buon
giorno” Corriere Giappone 17 euro 8,90
[A: 01/09/2021 – I: 07/06/2025 – T: 09/06/2025]
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[tit. or.: 日日是好日-「お茶」が教えてくれた15のしあわせ Hibikorekōjitsu
- ocha ga oshiete kureta 15 no shiawase; ling. or.: giapponese; pagine: 231; anno 2002]
Le
edizioni del Corriere, nell’ambito di questa collana dagli esiti alterni,
ripropongono, a poca distanza dalla pubblicazione presso Einaudi, un libro
fondamentale se si vuole entrare consapevolmente in una delle tradizioni
maggiori e più radicate del Giappone: la cerimonia del tè.
Il
libro è, anche, una finestra sulla vita della scrittrice, Morishita Noriko, che
ha realmente intrapreso lo studio del tè, quando aveva vent’anni, ma per motivi
diversi che qui non compaiono, ma che ce ne danno una visione a tutto tondo,
soprattutto per il suo inserimento nel mondo giapponese.
Noriko,
appena laureata, cerca lavoro nella scrittura, da sempre la sua aspirazione.
Trova solo la possibilità di scrivere pezzi di colore per “Weekly Asahi”, un
importante giornale giapponese. In uno di questi pezzi, si traveste da “maiko”
(termine che sta per “apprendista geisha”), va a vivere nei quartieri delle
geishe a Kyoto, inizia a studiare la cerimonia del tè, e pubblica questi suoi
pezzi sul giornale.
Un
buon successo che da un lato le apre alcune porte di scrittura come saggista,
dall’altra la porta a legarsi per decenni alla cerimonia del tè, un’avventura
che poi, intorno ai quarantacinque anni, con venticinque anni di vicinanza con
tutto l’insieme del tè, la porta a condensare la sua esperienza in questo
libro, cui non può mancare un buon sottotitolo, che nelle edizioni italiane
compare, anche se un po’ defilato: “Quindici gioie che il tè mi ha insegnato”.
Bisogna
però immergersi nella mentalità e nel modo di vivere giapponese per apprezzare
questo libro, che da un lato è assai lento, pur ripercorrendo i venticinque
anni di tè di Noriko, dall’altro è molto specifico, entrando nelle minuzie
della cerimonia, usando, correttamente, non solo i termini appropriati, ma in
particolare, i termini giapponesi. Un grosso sforzo da cui ci salva un apparato
di note robusto ed un glossario consistente. Ci salva, ho detto, ma, appesantendo
il quadro, non consente una fruizione leggera come poteva esserlo la materia
trattata.
E
non perché sia da prendere sottogamba, ma perché, per noi occidentali, tutto
questo rituale risulta esteticamente affascinante, ma solo come la visione di
un bel quadro, senza che le emozioni possano penetrare più a fondo.
Volendo
fare un breve riassunto, esterno al testo, ma forse utile a chi poco sa di tè,
ricordo che la bevanda viene “inventata” in Cina, e solo con la diffusione
della religione nel mondo asiatico approda in Giappone. Dove per secoli l’unica
dedizione alla bevanda erano gare per riconoscere che tipo di tè si stesse
bevendo. Solo in un periodo di grande turbolenza, intorno al 1500, per creare
oasi di calma e riflessione durante guerre ed altro, i samurai cominciarono a
concepire uno spazio neutro, in cui stare, pensare, e bere tè. In questo
contesto, si erge la figura di Sen no Rikyū, un monaco buddista, che codifica
in termini zen la cerimonia. Una codifica che, come impianto generale, è ancora
quella usata oggi.
È
importante ricordare comunque, per inquadrare la cerimonia, che si usa solo tè
Matcha. Una polvere di tè verde molto carica di teina, che viene mescolata con
acqua calda utilizzando uno strumento speciale, una frusta di bambù. E si usano
tutta una serie di utensili, tazze, cucchiaini e fazzoletti di lino.
Noriko
ci porta a piccoli passi in questo mondo, iniziando quasi svogliatamente a
seguire i corsi di una grande maestra del tè, la signora Takada. Anche lei,
come tutti noi, si domanda il significato di questi piccoli gesti che
compongono il rituale, senza mai darne una risposta. Che l’unica vera risposta
è l’immersione nel “qui e ora” che risulta dal seguire il complesso rituale.
Essere
qui e ora, prendersi il proprio tempo, fino ad arrivare a due punti che seguono
il culmine della giapponesità. Nel primo, ci fa riflettere sulla frase di
Takada: nei giorni di pioggia ascolta la pioggia, cioè stai qui, assapora il
momento attuale. La seconda è una frase scritta su di una trave della stanza
della cerimonia, che poi Noriko riprende come titolo del libro: “Ogni giorno è
un buon giorno”, un detto zen che viene interpretato come “cerca di trascorrere
ogni giorno in modo significativo”.
Certo,
oltre a tutti i passaggi, pur interessanti, sulla cerimonia del tè, seguiamo
anche i piccoli passi di Noriko, che si laurea, va a vivere da sola, fa dei
lavoretti, sta per sposarsi, gli muore il padre, trova un grande amore. Ma sono
tutti accidenti della vita, che per me arriveranno al culmine con la
comprensione dell’ultima frase che riporto. Mentre il tentativo di fare un
arduo paragone tra banchetti formali e consuetudine italiana alla buona tavola,
naufraga nella poco felice prima frase che riporto.
La
riflessione che deriva dal titolo zen è che ci ricorda come il fatto di
concentrarsi sull’oggi, sul giorno che stiamo attraversando, serve non ad “aggiustare”
il passato o il futuro, ma perché offre la possibilità di diventare coscienti
del proprio sé attuale. Una riflessione che deve aver presente una delle grandi
figure artistiche del mio pantheon personale, John Cage, la quale la inserì
nella voce sola numero 64 della sua opera “Song Books (Solos for Voice 3–92)”.
Tuttavia,
pur pieno di stimoli, il testo non riesce ad emozionare, e la scrittura di
Noriko, totalmente fredda nel suo essere giapponese, pur nell’intensa
traduzione di Laura Testaverde, non riesce ad entrare molto nelle mie corde.
“Gli
italiani pranzano con calma, impiegando tre ore. Mangiano a sazietà antipasto,
un bel piatto di pasta, insalata e grandi pezzi di carne, bevendo Chianti da
grandi bottiglie anche a pranzo. Mangiano il dolce e bevono perfino il
digestivo.” (148)
“La
gente dà valore solo all’ottimismo e all’allegria. Ma l’allegria non
esisterebbe se non esistesse il suo opposto. Proprio dall’esistenza di entrambe
queste dimensioni nasce la profondità. Non sono una bella e una brutta: sono
ognuna bella a modo suo. L’essere umano ha bisogno di entrambe.” (171)
“Dai
‘Dialoghi di Confucio’: A quindici anni avevo come unico obiettivo lo studio; a
trenta ero già fermo [nei principi]; a quaranta non avevo più dubbi; a
cinquanta conoscevo la legge divina; a sessanta il mio orecchio sapeva
comprendere; a settanta seguivo i desideri del cuore, senza calpestare la
regola.” (172 nota 2)
“Fintanto
che si pensa al passato e al futuro, non si potrà mai vivere tranquilli. C’è
solo un modo: godere del presente. Solo quando riesce a concentrarsi su questo
istante, senza passato e senza futuro, l’essere umano si accorge di vivere una
libertà senza limiti.” (186)
“Provate
a insegnare: insegnare è un’opportunità di imparare tante cose.” (206)
Gioconda
Belli “Nel paese delle donne” Repubblica Latinoamericana euro 9,90
[A: 19/05/2020
– I: 12/07/2025 – T: 14/07/2025] - &&
e ½
[tit.
or.: El pais de las mujeras; ling. or.: spagnolo; pagine: 248;
anno 2010]
Gioconda
Belli è un personaggio particolare nell’ambito della scrittura e della vita
politica centro-americana. Nicaraguense, colta, in gioventù aderisce al
movimento sandinista, epica formazione che per decenni si oppone alla dittatura
della famiglia Somoza. Esiliata, torna in patria con la vittoria del movimento,
partecipa alla vita politica mentre comincia a scrivere. Quando inizia a
criticare le intese di governo, prima viene allontanata, poi privata della
cittadinanza.
Nella
scrittura ha sempre avuto una posizione molto pronunciata in favore
dell’emancipazione femminile, pur evidenziando sempre tutte le contraddizioni
presenti nella vita sociale e privata.
In
questo testo scritto nella grande maturità (si avviava ai sessantacinque anni)
usa in modo iperbolico ironia e razionalità, per mandare un messaggio forte e
chiaro a tutti, uomini e donne: solo favorendo un cambiamento, anche radicale,
degli atteggiamenti pubblici e privati, sarà possibile traghettare i nostri
discendenti verso un mondo più equilibrato (non mi azzardo a dire più giusto,
che implica giudizi fuori della mia capacità).
Ecco,
quindi, che costruisce un’allegra allegoria a tinte fosche, sempre incentrata
sul paese caraibico teatro di molti suoi libri. Siamo a Faguas, dove sta
avvenendo una rivoluzione epocale. Poco tempo prima un’eruzione vulcanica ha
stranamente abbassato il testosterone maschile, favorendo la nascita e la
crescita di una fronda al femminile nata proprio per contrastare la corruzione
imperante che stava travolgendo il paese.
Nasce,
su impulso della giornalista Viviana Sanson, un partito con l’acronimo PIE, che
in spagnolo significa “piede”, ed ha per simbolo un piede femminile con le
unghie laccate di rosso, indicando che bisogna andare avanti, mettendo un piede
davanti all’altro. Quello ancor più importante è che PIE sta per “Partido de la
Izquierda Erotica”. Qui, Gioconda fa un omaggio a sé stessa ed alle donne
nicaraguensi. Infatti, lei ed altre donne fondarono un gruppo così denominato
negli anni Ottanta, in onore della poetessa guatemalteca Ana María Rodas, autrice
del libro “Poemas de la Izquierda Erótica”.
Approfittando
delle defaillance maschili, il PIE prende il potere e nomina a capo di Faguas,
Viviana ed il suo staff. Qui abbiamo un piccolo difetto, tra traduzione e
scrittura di Gioconda. Lei, in spagnolo, usa per Viviana il termine
“Presidenta”, voce inesistente in italiano, e che la traduttrice riporta come
“Presidentessa”. Purtroppo, questo termine ha spesso connotati denigratori,
tanto che la Crusca indica per quella carica l’uso del termine “Presidente”
usato in modo indeclinabile. Anche perché è usato come participio presente del
verbo presiedere.
Sono
quattro le donne che affiancano Viviana nella costruzione del “mondo nuovo”:
Martina, Eva, Rebecca ed Ifigenia. E sono le loro cinque voci quelle che si
alternano nella descrizione degli avvenimenti di Faguas, prima, dopo e durante
la vittoria.
Prima
c’è la presentazione di un programma semplice: pulizia, comprensione,
solidarietà ed assoluta parità di genere. Perché vivere in un mondo pulito
aiuta ad essere puliti dentro e fuori. Comprendere significa ascoltare l’altro,
entrare in contatto. Essere solidari significa venire in contro. Sulla parità,
penso che non debba aggiungere altro.
Così
si istituiscono ronde per la pulizia delle strade, tutti frequentano fino ai 12
anni una scuola di quartiere per imparare a leggere, scrivere, far di conto ed
anche dedicarsi alle proprie attività preferite. Dai 12 ai 18 anni, invece, si
dovranno frequentare obbligatoriamente scuole vere e proprie. Tutte le cariche
pubbliche vengono affidate a donne, lasciando agli uomini le cura domestiche,
anche se c’è una convergente solidarietà. Tutto per realizzare quell’armonia
dal basso che possa portare felicità in ogni casa. Una casa felice, una
famiglia felice sono propedeutiche ad un mondo con sempre meno attriti.
Ovviamente,
Gioconda è donna di mondo, e sa bene che la troppa esasperazione di questo
“estremismo femminista” porta ad errori, a posizioni a volte ridicole, ad
arrivare a dei limiti di difficile gestione.
In
media res, entriamo subito a contatto con Viviana, leader carismatica del PIE,
impulsiva, ed anche notevolmente attraente. E nella prima pagina, durante un
comizio, Viviana viene presa a colpi d’arma da fuoco. Uno sparo che non la
uccide, ma la fa entrare in coma. Da qui, tra le sue parole durante il coma, e
quelle delle sue sodali che si alternano nelle descrizioni, ricostruiamo il
passato ed il presente di Faguas come appena descritto.
Vorrei
segnalare come l’imparzialità di Gioconda ci presenta anche donne che
esagerano, ma anche uomini che collaborano, come il buon José de la Aritmetica,
che alla fine troverà il bandolo della matassa degli intrighi che vogliono
destabilizzare Faguas, ricalcando, nell’immaginario latino-americano, quanto
poteva essere successo nel Cile degli anni Settanta.
Non
entro, non mi interessa entrare nei minuti avvenimenti descritti nel libro, che
ci accompagnano alla scoperta di un possibile mondo, ma anche alla coscienza di
come sia difficile e complicato ipotizzarlo. L’unico difetto è che, a volte, la
scrittura si incarta su sé stessa, non riuscendo a sciogliersi nelle
descrizioni degli avvenimenti, laddove, venendo tutto fuori dalle voci delle
protagoniste, si rischia di perdere il filo reale di quanto succede.
Ma
la chiusa finale della nota che Gioconda Belli ci lascia è commovente e bella,
tale da riscattare molte imprecisione, che la scrittrice rende omaggio a sua
madre perché l’ha fatta “sentire orgogliosa di essere donna”.
Dopo
tante donne, ecco tre belle citazioni di scrittori noir. Le prime vengono da “L’ombra del coyote” di Michael Connelly:
“Il
passato, è quello che tu lo fai diventare. Lo puoi usare per farti del male, o
lo puoi usare per diventare più forte.” (48)
“La
persona giusta s’incontra una volta sola nella vita. Quando la trovi tienitela
stretta. … non sapeva se fosse lei quella persona, ma per il momento la teneva
con tutte le sue forze.” (397)
La terza
da un classico noir di Cornell Woolrich
“Appuntamenti in nero”:
“Non
si fanno [mai] le cose che si desiderano veramente.” (42)
Quindi, per tutti, si riprende l’andamento lento delle nostre vite. Anche se, come diceva il poeta, “settembre, andiamo…”. E noi si spera di andare e andare e andare. Perché, come tutti i viaggiatori sanno, tornare significa cominciare a programmare un nuovo viaggio. Sperando che questo ritorno alle usuali faccende trovi tutti in salute, vi abbraccio.