domenica 31 agosto 2025

Giappone e altre donne - 31 agosto 2025

Per completare questo mese di riposo campagnolo ed agostano, propongo questa settimana un ventaglio femminile. Quindi, ovviamente, con molto Giappone, laddove su tutte le altre si eleva Kawakami Hiromi, con uno scritto datato, ma molto interessante. Di lontano, seppur sufficienti, giungono le due non giapponesi: l’ultimo libro di Valérie Perrin ed un libro storico di Gioconda Belli. Chiudono la settimana altre due proposte giapponesi con una risicata sufficienza sia della recente Emi Yagi che dello storico scritto di Morishita Noriko.

Valérie Perrin “Tatà” E/O s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 03/01/2025 – I: 10/03/2025 – T: 11/03/2025] - && e ½   

[tit. or.: Tata; ling. or.: francese; pagine: 597; anno 2024]

Valérie Perrin conferma, in questo suo ulteriore volume, le doti affabulatrici che ci hanno intrigato, soprattutto in “Cambiare l’acqua ai fiori”, anche se, rispetto al suo miglior risultato, qui rimane una trama un po’ involuta. Interessante, con alcuni spunti, ma forse, in alcuni momenti, troppo tesa a ripercorrere le strade usuali che le hanno dato notorietà. Ambiti familiari non usuali, rapporti non sempre semplici, situazioni che all’inizio sembrano andare in una direzione e poi ne imboccano altre.

Le capacità dell’autrice qui si esplicano anche nelle diverse forme espressive. C’è il racconto in prima persona, in terza, riproposizioni di audiocassette, scritti di sceneggiature, salti temporali. Tutto serve per portare avanti diversi discorsi narrativi, senza scoprire subito tutte le carte, in modo da condurre il lettore allo svelamento di tutti i misteri narrativi.

Credo che l’idea originaria del testo sia nata come omaggio ad un luogo dell’infanzia dell’autrice, che proprio a Gueugnon in Borgogna passa la sua infanzia, in una famiglia dove il padre Yves è un calciatore professionista della locale squadra di calcio. Una squadra di secondo ed anche terzo piano, con un solo lampo di classe, quando nel 2000 vince la “Coppa di Liga” (terza competizione francese, ormai dismessa), battendo in finale il Paris St. Germain.

Per fare ciò si inventa una sua alter-ego, Agnès, regista e sceneggiatrice di successo, che però ha smesso di lavorare in seguito ad un traumatico divorzio, e la zia Colette, poco appariscente, calzolaia, ma tifosa sfegatata della squadra di calcio, per la quale andava sempre allo stadio, in casa ed in trasferta. Qui, tra l’altro, i traduttori italiani hanno fatto una scelta coraggiosa, in quanto in francese zietta (come era Colette) si dice “Tata”, pronunciata con l’accento sul finale. Ma in italiano “tata” sta per governante, quindi hanno deciso di inserire un accento posticcio, creando una parola che non esiste in nessuna lingua, ma che è plausibile.

Agnès si vede richiamata nella natia Gueugnon a fronte della morte della zia Colette. Peccato che la zia sia stata già inumata tre anni prima. Comunque la morte è proprio Colette, Agnès si trasferisce nella cittadina, e si trova di fronte a due bivi: chi è la persona nella tomba della zia? E cosa contengono le innumerevoli audiocassette che Colette le ha lasciato in eredità?

Da qui, appunto, le storie nella storia. Tra ascolti, ricerche ed altre agnizioni, la nostra eroina riflette sulla propria vita, sul passato e sulle scelte che sono state fatte. Veniamo così intanto convolti nella storia del padre Jean e di sua moglie Hannah, comprendendo tutte le vicende della guerra e dell’olocausto. Dall’altro entra meglio dentro la vita di Colette.

Ripercorriamo l’infanzia della zia, quando incontra la sua gemella diversa, Blanche, figlia di giostrai ambulanti, con padre almeno manesco se non peggio. Tra le due nasce una comunanza immediata. Poi si perderanno di vista per una serie di motivi che scoprirete leggendo, per, alla fine, ritrovarsi alla famosa finale di calcio di cui ho scritto sopra. Colette si prende cura di Blanche (potrebbero anche avere una relazione? Ma chi se ne importa, ed anche se non viene mai detta, una verità, è sempre meno dolorosa dell’inganno).

Si capisce ben presto che è proprio Blanche quella morta tre anni prima, con Colette che si auto-esilia per non essere separata da lei anche dopo la morte (i cimiteri sembrano una costante della scrittura di Valérie). In tutto si inseriscono anche storie collaterali, ad esempio quella degli abusi di un allenatore della squadra di calcio giovanile e dei guasti che la pedofilia porta nella piccola cittadina.

Così, nel corso della grande avventura, compresa una sceneggiatura che Agnès cerca di scrivere su questa storia, Valérie affronta tanti temi rilevanti nella vita di ognuno: maternità, violenza di genere, la nascita e la fine di una amore, e le sue diverse forme. Non mancando elementi forti che parlano di talenti musicali, di ebrei deportati, di donne che fuggono da un circo che non è gioioso ma colmo di orrori.

Il messaggio finale della nostra valente scrittrice è forse un messaggio semplice ma forte: la famiglia è costituita semplicemente dalle persone che ci amano e che noi amiamo. Tutto il dolore che abbiamo attraversato nelle quasi seicento pagine possiamo trasformarlo in forza se non lo lasciamo in silenzio, se siamo capaci di affrontare le nostre ferite, e poterle guardare, magari con tutta la nostra famiglia come sopra definita.

Alla fine, Valérie scrive bene (per sua bravura, non solo per la vicinanza con Claude Lelouch, che magari le fornisce solo un ulteriore occhio per guardare la realtà), ma il risultato finale, pur positivo, non raggiunge i cambiamenti dell’acqua ai fiori.

Kawakami Hiromi “La cartella del professore” Corriere Giappone 10 euro 8,90

[A: 14/07/2021 – I: 13/03/2025 – T: 14/03/2025] - &&&&

[tit. or.: センセイの鞄 Sensei no kaban; ling. or.: giapponese; pagine: 181; anno 2001]

Kawakami Hiromi è una scrittrice giapponese molto nota in patria, ed un po’ anche fuori dal Giappone, anche se non ha la risonanza di una Banana o di un Murakami. Tra l’altro leggo e commento questo suo libro nei dintorni del suo 67° compleanno (nata il 1° aprile9). E leggo e tramo un libro che mi verrebbe da commentare come “un nulla pieno di tutto”.

Hiromi è poetessa e si nota nella leggerezza dello scrivere, nonché nella presenza di alcuni delicati “haiku”, che sono sempre di gradita lettura. Ma è anche saggista e critica letteraria, cosa che traspare in controluce in alcuni accenni del personaggio Harutsuna Matsumoto, il “sensei” (professore) del titolo, che a lungo è stato insegnante di giapponese nelle scuole secondarie.

La delicata storia è narrata in prima persona da Omachi Tsukiko, che ci porta a viaggiare per un lungo tratto della sua vita. Tsukiko è una cosiddetta “office lady”, donne che lavorano nelle ditte e generalmente si dimettono una volta sposate; ma ve ne sono anche di quelle che resistono, dotate di buona cultura, e che hanno deciso di rimanere consapevolmente non sposate.

Inciso: la scrittrice, in gioventù insegnante di biologia, quando si sposa e rimane incinta, si licenzia, rimane in casa, dove comincia anche a scrivere, seppur in una condizione di difficoltà, tant’è che dopo una ventina d’anni divorzia. Ed in effetti, essere moglie e madre in Giappone non è certo semplice (anche se non lo è mai da nessuna parte): obblighi sociali legati alla pulizia della casa, la capacità di cucinare, accudire bambini e anziani, rimanendo sempre sorridenti e impeccabili. Da paura!

Ma veniamo a Tsukiko, che dopo il lavoro, e nei momenti di riposo, frequenta un nomi-ya, una specie di bar dove si va a bere sakè, caldo o freddo, o magari birra, e a mangiare qualcosa. In questo locale ci si siede così come capita su dei lunghi banconi. E così come capita, è lì che Tsukiko incontra spesso un signore di una certa età (soprattutto per lei che è poco sotto i quaranta). Sarà il signore che la riconosce e si palese è sensei Matsumoto, il suo professore di liceo. Comincia così una frequentazione fatta di bevute, di cibo e di haiku.

Di fatto è il cibo il convitato di pietra che assiste a tutta la storia, dove, accanto alle bevande vediamo passare tanti cibi di piccola dimensione, adatti alla tipologia “aperitivo” dei nomi-ya: nattō di tonno, fettine di balena affumicata, frittelle di renkon, scalogni sotto sale. Poi se volete ci torniamo sopra. Ma qui servono solo da contorno alla storia di Tsukiko e Sensei. Lei, giovane ed un po’ sbalestrata, cerca di capire quale sia il suo posto nel mondo; lui è maturo, vedovo, molto attento a qualsiasi cosa si faccia o si dica.

I due non si danno mai un reale appuntamento, si incontrano nel nomi-ya, parlano, mangiano e bevono. Ma quando per un certo periodo Sensei non compare, Tsukiko entra in ansia. Sensei tuttavia era solo influenzato. Il momento clou si avvolge intorno ad una delle più celebrate feste locali, quella della fioritura dei ciliegi, dove Sensei la invita alla festa che si tiene nel loro vecchio liceo. In quell’atmosfera altra (non sono più protetti dal bar) Tsukiko si accorge di due cose complementari: non è attratta dalle attenzioni di un suo coetanee, pur carino, ed ha una punta di gelosia per le attenzioni che altri rivolgono a Sensei.

Finisce così che è lei che lo invita a passare due giorni in un ryokan con vista mare, dove si comincia a sgretolare il muro della loro solitudine. Nasce quella storia d’amore che ci si aspettava sin dalle prime pagine, ma Hiromi la veste di tutta la cultura giapponese di cui è capace: niente sesso al primo incontro, ma un graduale avvicinarsi di due anime affini nello spirito seppur lontane nei tempi. In fondo, la scrittrici ci lancia qui un messaggio semplice e lineare: gli incontri che facciamo ci segnano e talvolta ci cambiano radicalmente la vita.

Kawakami ha la capacità di descrivere senza giudicare, di registrare gli avvenimenti e di porgerli a noi lettori descrivendo situazioni ordinarie che la consapevolezza dei personaggi fa cessare di essere banali. Così come, i delicati modi di Sensei, uomo d’altri tempi, fanno scoprire a noi e Tsukiko tutto quello che serve di sapere sull’amore: rischio, incertezza, delicatezza, incontrollabilità, incomprensibilità. Ma soprattutto quello che non dovrebbe mai mancare in ogni momento: il rispetto.

E tutto si condenserà nell’ultimo capitolo, intitolato appunto “la borsa del professore”, in onore di quella borsa di cuoio che Sensei porta sempre con sé. Un ultimo capitolo bello e da giusto suggello ad un bel libro. Con Tsukiko e Sensei abbiamo bevuto, mangiato, condiviso momenti diversi, ci siamo incontrati per quasi duecento pagine. Ed ora li porteremo con noi.

Sono contento di aver avuto la possibilità di conoscere questa storia e questa scrittrice.

Dimenticavo il nattō di tonno è fatto con tonno mescolato a soia fermentata (buono ma dall’odore molto forte), mentre le frittelle di renkon sono fatte friggendo le radici del loto.

“Il fatto è che a scuola non le insegnano mai, le cose veramente importanti.” (41)

“Vivere, significa causare problemi a qualcuno.” (50)

Emi Yagi “Il diario geniale della signorina Shibata” Repubblica Giappone 25 euro 8,90

[A: 23/03/2025 – I: 23/04/2025 – T: 26/04/2025] - &&

[tit. or.: 空芯手帳 Kushin techo; ling. or.: giapponese; pagine: 162; anno 2020]

Un libro interessante per l’argomento ed il modo di trattarlo, anche se, molto interno al modo di vivere giapponese, in alcuni punti si fa fatica a seguirne la logica. Certo, nel momento in cui questa logica (o illogicità) viene palese, a mente fredda, e ripensando, da uomo, sia al mondo giapponese che al mondo occidentale, il gradimento e l’interesse non può che salire.

Emi è una giovane giapponese, under 40, che lavora nel mondo dell’editoria, ed ha pubblicato poco, seppur d’interesse, come questo libro, vincitore di un importante premio giapponese (il premio Osamu Dezai per l’opera prima) ed essendo inserita nella lista dei migliori libri usciti in America nel 2022 ad opera del “The New Yorker”. Credo anche che lo spunto del libro, come ha accennato in un’intervista, sia nato proprio dalla sua esperienza lavorativa.

Venendo all’editoria italiana, intanto, comincerei proprio dal titolo, essendo l’unico paese in cui la traduzione si discosta e molto dall’originale. In giapponese (e nelle maggiori lingue che ho controllato) si rimane molto vicini al titolo originale che, pur con qualche variazione dovuta alla volubilità interpretativa dei caratteri locali, indica il “Diario di un vuoto” (o tutt’al più, “Storia di un vuoto”). Mentre da noi, per sottolineare sia la provenienza giapponese che quel tono semi leggero di tutta una serie di libri in uscita negli ultimi anni, si indica il nome della protagonista, e quell’aggettivo, geniale, che in effetti potremmo riprendere in finale di trama.

Tutto il libro, in realtà, è un grido di dolore della condizione lavorativa (ed anche umana) della donna in Giappone. La signorina Shibata lavora in un’industria di produzione di cartone, in un’unità in cui è la sola donna. Per questo, oltre al lavoro normale, viene dato per scontato che sia lei a dover fare il caffè durante le riunioni, sia lei a fare le fotocopie, sia lei a riordinare dopo le riunioni. In un ambiente maschilista, in cui non viene chiamata neanche per nome, ma se si dimenticava qualcosa, ecco che partivano i “Ehi, microonde!”, manca questo, manca quello.

Ecco che Shibata ha la prima idea geniale: si inventa di essere incinta. Non può pulire la stanza riunioni che l’odore delle sigarette e del caffè le dà la nausea. Con questo espediente, da semplice soprammobile dell’ufficio, assurge ad un altro ruolo, molto giapponese: la donna incinta che diventerà madre e moglie.

Shibata però ribalta tutto ciò. Perché non è sposata, e non è più una persona dedita solo al lavoro. Che non solo ai tempi delle geishe, ma anche ai giorni nostri, Emi ci mostra che il ruolo della donna è di dover essere sia una lavoratrice modello, che diventare madre entro una certa età e preferibilmente avere un marito accanto. Anche se poi, pur aderendo al modello proposto, la donna rimane sempre indietro, laddove lo stipendio femminile, a parità di mansioni, è sempre più basso di quello maschile.

Ora Shibata ha più libertà. Non fa straordinari, ha più tempo per sé, si iscrive ad una palestra, non mangia più cibi precotti, ma cucina. E passeggia, che camminare fa bene alla gravidanza. Usa una app che la indirizza su cosa deve fare una donna incinta, settimana dopo settimana. Si fascia il corpo con asciugamani per mostrarsi più rotonda. Si iscrive anche ad un corso preparto. Questo serve a mostrare anche l’altra metà della difficoltà di essere donna. Che nel parco, in palestra, in ospedale, incontra solo donne. Gli uomini sono assenti, a volte giustificati, spesso solo assenti per maschilismo sfrenato.

Alla fin fine, è il racconto di una donna sola, che a volte usa toni leggeri anche per descrivere momenti di difficoltà. Toni che l’autrice maneggia bene, soprattutto quando arriva al secondo colpo di genio. Che nel finale, riesce ad imbrogliare le carte e lo scritto, per cui non si capisce (e forse non è nemmeno importante) se in realtà partorisce realmente o meno. Fatto sta che (vero o falso che sia) risulta presente anche un bambino, e con lui la voglia di riprendere la propria vita, e metterla su binari diversi. Ad esempio, licenziandosi, e prendendo una via lavorativa più consona a quanto ha scoperto nei nove mesi di gestazione.

Un ultimo accenno, che riprendo sempre da siti con traduzione e da esperti della lingua giapponese. Il vuoto del titolo, come abbiamo visto, attraversa tutta la storia di Shibata, e ne diventerà un simbolo, dato che alla fine sceglierà proprio per il figlio (vero? immaginario?) il nome di Sorato, scritto con i caratteri di cielo e/o vuoto () e di persona ().

Ripeto, un libro intrinsecamente nipponico ma che, letto nell’ottica della condizione della donna, non può che farci venire in mente anche il nostro mondo occidentale. Non ci sono, in realtà, molte differenze.

Morishita Noriko “Ogni giorno è un buon giorno” Corriere Giappone 17 euro 8,90

[A: 01/09/2021 – I: 07/06/2025 – T: 09/06/2025] - &&

[tit. or.: 日日是好日-「お茶」が教えてくれた15のしあわせ Hibikorekōjitsu - ocha ga oshiete kureta 15 no shiawase; ling. or.: giapponese; pagine: 231; anno 2002]

Le edizioni del Corriere, nell’ambito di questa collana dagli esiti alterni, ripropongono, a poca distanza dalla pubblicazione presso Einaudi, un libro fondamentale se si vuole entrare consapevolmente in una delle tradizioni maggiori e più radicate del Giappone: la cerimonia del tè.

Il libro è, anche, una finestra sulla vita della scrittrice, Morishita Noriko, che ha realmente intrapreso lo studio del tè, quando aveva vent’anni, ma per motivi diversi che qui non compaiono, ma che ce ne danno una visione a tutto tondo, soprattutto per il suo inserimento nel mondo giapponese.

Noriko, appena laureata, cerca lavoro nella scrittura, da sempre la sua aspirazione. Trova solo la possibilità di scrivere pezzi di colore per “Weekly Asahi”, un importante giornale giapponese. In uno di questi pezzi, si traveste da “maiko” (termine che sta per “apprendista geisha”), va a vivere nei quartieri delle geishe a Kyoto, inizia a studiare la cerimonia del tè, e pubblica questi suoi pezzi sul giornale.

Un buon successo che da un lato le apre alcune porte di scrittura come saggista, dall’altra la porta a legarsi per decenni alla cerimonia del tè, un’avventura che poi, intorno ai quarantacinque anni, con venticinque anni di vicinanza con tutto l’insieme del tè, la porta a condensare la sua esperienza in questo libro, cui non può mancare un buon sottotitolo, che nelle edizioni italiane compare, anche se un po’ defilato: “Quindici gioie che il tè mi ha insegnato”.

Bisogna però immergersi nella mentalità e nel modo di vivere giapponese per apprezzare questo libro, che da un lato è assai lento, pur ripercorrendo i venticinque anni di tè di Noriko, dall’altro è molto specifico, entrando nelle minuzie della cerimonia, usando, correttamente, non solo i termini appropriati, ma in particolare, i termini giapponesi. Un grosso sforzo da cui ci salva un apparato di note robusto ed un glossario consistente. Ci salva, ho detto, ma, appesantendo il quadro, non consente una fruizione leggera come poteva esserlo la materia trattata.

E non perché sia da prendere sottogamba, ma perché, per noi occidentali, tutto questo rituale risulta esteticamente affascinante, ma solo come la visione di un bel quadro, senza che le emozioni possano penetrare più a fondo.

Volendo fare un breve riassunto, esterno al testo, ma forse utile a chi poco sa di tè, ricordo che la bevanda viene “inventata” in Cina, e solo con la diffusione della religione nel mondo asiatico approda in Giappone. Dove per secoli l’unica dedizione alla bevanda erano gare per riconoscere che tipo di tè si stesse bevendo. Solo in un periodo di grande turbolenza, intorno al 1500, per creare oasi di calma e riflessione durante guerre ed altro, i samurai cominciarono a concepire uno spazio neutro, in cui stare, pensare, e bere tè. In questo contesto, si erge la figura di Sen no Rikyū, un monaco buddista, che codifica in termini zen la cerimonia. Una codifica che, come impianto generale, è ancora quella usata oggi.

È importante ricordare comunque, per inquadrare la cerimonia, che si usa solo tè Matcha. Una polvere di tè verde molto carica di teina, che viene mescolata con acqua calda utilizzando uno strumento speciale, una frusta di bambù. E si usano tutta una serie di utensili, tazze, cucchiaini e fazzoletti di lino.

Noriko ci porta a piccoli passi in questo mondo, iniziando quasi svogliatamente a seguire i corsi di una grande maestra del tè, la signora Takada. Anche lei, come tutti noi, si domanda il significato di questi piccoli gesti che compongono il rituale, senza mai darne una risposta. Che l’unica vera risposta è l’immersione nel “qui e ora” che risulta dal seguire il complesso rituale.

Essere qui e ora, prendersi il proprio tempo, fino ad arrivare a due punti che seguono il culmine della giapponesità. Nel primo, ci fa riflettere sulla frase di Takada: nei giorni di pioggia ascolta la pioggia, cioè stai qui, assapora il momento attuale. La seconda è una frase scritta su di una trave della stanza della cerimonia, che poi Noriko riprende come titolo del libro: “Ogni giorno è un buon giorno”, un detto zen che viene interpretato come “cerca di trascorrere ogni giorno in modo significativo”.

Certo, oltre a tutti i passaggi, pur interessanti, sulla cerimonia del tè, seguiamo anche i piccoli passi di Noriko, che si laurea, va a vivere da sola, fa dei lavoretti, sta per sposarsi, gli muore il padre, trova un grande amore. Ma sono tutti accidenti della vita, che per me arriveranno al culmine con la comprensione dell’ultima frase che riporto. Mentre il tentativo di fare un arduo paragone tra banchetti formali e consuetudine italiana alla buona tavola, naufraga nella poco felice prima frase che riporto.

La riflessione che deriva dal titolo zen è che ci ricorda come il fatto di concentrarsi sull’oggi, sul giorno che stiamo attraversando, serve non ad “aggiustare” il passato o il futuro, ma perché offre la possibilità di diventare coscienti del proprio sé attuale. Una riflessione che deve aver presente una delle grandi figure artistiche del mio pantheon personale, John Cage, la quale la inserì nella voce sola numero 64 della sua opera “Song Books (Solos for Voice 3–92)”.

Tuttavia, pur pieno di stimoli, il testo non riesce ad emozionare, e la scrittura di Noriko, totalmente fredda nel suo essere giapponese, pur nell’intensa traduzione di Laura Testaverde, non riesce ad entrare molto nelle mie corde.

“Gli italiani pranzano con calma, impiegando tre ore. Mangiano a sazietà antipasto, un bel piatto di pasta, insalata e grandi pezzi di carne, bevendo Chianti da grandi bottiglie anche a pranzo. Mangiano il dolce e bevono perfino il digestivo.” (148)

“La gente dà valore solo all’ottimismo e all’allegria. Ma l’allegria non esisterebbe se non esistesse il suo opposto. Proprio dall’esistenza di entrambe queste dimensioni nasce la profondità. Non sono una bella e una brutta: sono ognuna bella a modo suo. L’essere umano ha bisogno di entrambe.” (171)

“Dai ‘Dialoghi di Confucio’: A quindici anni avevo come unico obiettivo lo studio; a trenta ero già fermo [nei principi]; a quaranta non avevo più dubbi; a cinquanta conoscevo la legge divina; a sessanta il mio orecchio sapeva comprendere; a settanta seguivo i desideri del cuore, senza calpestare la regola.” (172 nota 2)

“Fintanto che si pensa al passato e al futuro, non si potrà mai vivere tranquilli. C’è solo un modo: godere del presente. Solo quando riesce a concentrarsi su questo istante, senza passato e senza futuro, l’essere umano si accorge di vivere una libertà senza limiti.” (186)

“Provate a insegnare: insegnare è un’opportunità di imparare tante cose.” (206)

Gioconda Belli “Nel paese delle donne” Repubblica Latinoamericana euro 9,90

[A: 19/05/2020 – I: 12/07/2025 – T: 14/07/2025] - && e ½

[tit. or.: El pais de las mujeras; ling. or.: spagnolo; pagine: 248; anno 2010]

Gioconda Belli è un personaggio particolare nell’ambito della scrittura e della vita politica centro-americana. Nicaraguense, colta, in gioventù aderisce al movimento sandinista, epica formazione che per decenni si oppone alla dittatura della famiglia Somoza. Esiliata, torna in patria con la vittoria del movimento, partecipa alla vita politica mentre comincia a scrivere. Quando inizia a criticare le intese di governo, prima viene allontanata, poi privata della cittadinanza.

Nella scrittura ha sempre avuto una posizione molto pronunciata in favore dell’emancipazione femminile, pur evidenziando sempre tutte le contraddizioni presenti nella vita sociale e privata.

In questo testo scritto nella grande maturità (si avviava ai sessantacinque anni) usa in modo iperbolico ironia e razionalità, per mandare un messaggio forte e chiaro a tutti, uomini e donne: solo favorendo un cambiamento, anche radicale, degli atteggiamenti pubblici e privati, sarà possibile traghettare i nostri discendenti verso un mondo più equilibrato (non mi azzardo a dire più giusto, che implica giudizi fuori della mia capacità).

Ecco, quindi, che costruisce un’allegra allegoria a tinte fosche, sempre incentrata sul paese caraibico teatro di molti suoi libri. Siamo a Faguas, dove sta avvenendo una rivoluzione epocale. Poco tempo prima un’eruzione vulcanica ha stranamente abbassato il testosterone maschile, favorendo la nascita e la crescita di una fronda al femminile nata proprio per contrastare la corruzione imperante che stava travolgendo il paese.

Nasce, su impulso della giornalista Viviana Sanson, un partito con l’acronimo PIE, che in spagnolo significa “piede”, ed ha per simbolo un piede femminile con le unghie laccate di rosso, indicando che bisogna andare avanti, mettendo un piede davanti all’altro. Quello ancor più importante è che PIE sta per “Partido de la Izquierda Erotica”. Qui, Gioconda fa un omaggio a sé stessa ed alle donne nicaraguensi. Infatti, lei ed altre donne fondarono un gruppo così denominato negli anni Ottanta, in onore della poetessa guatemalteca Ana María Rodas, autrice del libro “Poemas de la Izquierda Erótica”.

Approfittando delle defaillance maschili, il PIE prende il potere e nomina a capo di Faguas, Viviana ed il suo staff. Qui abbiamo un piccolo difetto, tra traduzione e scrittura di Gioconda. Lei, in spagnolo, usa per Viviana il termine “Presidenta”, voce inesistente in italiano, e che la traduttrice riporta come “Presidentessa”. Purtroppo, questo termine ha spesso connotati denigratori, tanto che la Crusca indica per quella carica l’uso del termine “Presidente” usato in modo indeclinabile. Anche perché è usato come participio presente del verbo presiedere.

Sono quattro le donne che affiancano Viviana nella costruzione del “mondo nuovo”: Martina, Eva, Rebecca ed Ifigenia. E sono le loro cinque voci quelle che si alternano nella descrizione degli avvenimenti di Faguas, prima, dopo e durante la vittoria.

Prima c’è la presentazione di un programma semplice: pulizia, comprensione, solidarietà ed assoluta parità di genere. Perché vivere in un mondo pulito aiuta ad essere puliti dentro e fuori. Comprendere significa ascoltare l’altro, entrare in contatto. Essere solidari significa venire in contro. Sulla parità, penso che non debba aggiungere altro.

Così si istituiscono ronde per la pulizia delle strade, tutti frequentano fino ai 12 anni una scuola di quartiere per imparare a leggere, scrivere, far di conto ed anche dedicarsi alle proprie attività preferite. Dai 12 ai 18 anni, invece, si dovranno frequentare obbligatoriamente scuole vere e proprie. Tutte le cariche pubbliche vengono affidate a donne, lasciando agli uomini le cura domestiche, anche se c’è una convergente solidarietà. Tutto per realizzare quell’armonia dal basso che possa portare felicità in ogni casa. Una casa felice, una famiglia felice sono propedeutiche ad un mondo con sempre meno attriti.

Ovviamente, Gioconda è donna di mondo, e sa bene che la troppa esasperazione di questo “estremismo femminista” porta ad errori, a posizioni a volte ridicole, ad arrivare a dei limiti di difficile gestione.

In media res, entriamo subito a contatto con Viviana, leader carismatica del PIE, impulsiva, ed anche notevolmente attraente. E nella prima pagina, durante un comizio, Viviana viene presa a colpi d’arma da fuoco. Uno sparo che non la uccide, ma la fa entrare in coma. Da qui, tra le sue parole durante il coma, e quelle delle sue sodali che si alternano nelle descrizioni, ricostruiamo il passato ed il presente di Faguas come appena descritto.

Vorrei segnalare come l’imparzialità di Gioconda ci presenta anche donne che esagerano, ma anche uomini che collaborano, come il buon José de la Aritmetica, che alla fine troverà il bandolo della matassa degli intrighi che vogliono destabilizzare Faguas, ricalcando, nell’immaginario latino-americano, quanto poteva essere successo nel Cile degli anni Settanta.

Non entro, non mi interessa entrare nei minuti avvenimenti descritti nel libro, che ci accompagnano alla scoperta di un possibile mondo, ma anche alla coscienza di come sia difficile e complicato ipotizzarlo. L’unico difetto è che, a volte, la scrittura si incarta su sé stessa, non riuscendo a sciogliersi nelle descrizioni degli avvenimenti, laddove, venendo tutto fuori dalle voci delle protagoniste, si rischia di perdere il filo reale di quanto succede.

Ma la chiusa finale della nota che Gioconda Belli ci lascia è commovente e bella, tale da riscattare molte imprecisione, che la scrittrice rende omaggio a sua madre perché l’ha fatta “sentire orgogliosa di essere donna”.

Dopo tante donne, ecco tre belle citazioni di scrittori noir. Le prime vengono da “L’ombra del coyote” di Michael Connelly:

“Il passato, è quello che tu lo fai diventare. Lo puoi usare per farti del male, o lo puoi usare per diventare più forte.” (48)

“La persona giusta s’incontra una volta sola nella vita. Quando la trovi tienitela stretta. … non sapeva se fosse lei quella persona, ma per il momento la teneva con tutte le sue forze.” (397)

La terza da un classico noir di Cornell Woolrich “Appuntamenti in nero”:

“Non si fanno [mai] le cose che si desiderano veramente.” (42)

Quindi, per tutti, si riprende l’andamento lento delle nostre vite. Anche se, come diceva il poeta, “settembre, andiamo…”. E noi si spera di andare e andare e andare. Perché, come tutti i viaggiatori sanno, tornare significa cominciare a programmare un nuovo viaggio. Sperando che questo ritorno alle usuali faccende trovi tutti in salute, vi abbraccio.

domenica 24 agosto 2025

Vanina e altre indagini - 24 agosto 2025

Avevamo lasciato l’ultimo capitolo delle storie di Vanina Guarrasi in sospeso, e così qui lo completiamo. È il non episodio e non sappiamo se e quando uscirà un decimo episodio scritto dall’ottima Cristina Cassar Scalia (che intanto ha iniziato una nuova serie, di cui presto parleremo). A far da contorno alla brava scrittrice siciliana, abbiamo un quartetto italico. Con in testa, ovviamente Malvaldi ed il nostro bravo barrista. Subito sotto, il commissario Vincenzo Arcadipane del bravo Davide Longo e il commissario Laura Damiani, spinoff delle avventure raccontate da Romano De Marco. Chiude il gruppo Claudio Bandi, con un avventura dignitosa, ma, per il mio gusto, poco centrata con la sua ambientazione americana.

Romano De Marco “Se la notte ti cerca” Repubblica Anima Noir 40 euro 8,90

[A: 24/03/2022 – I: 15/04/2025 – T: 16/04/2025] &&+ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 316; anno: 2018]

Romano De Marco, e a volte ritornano. Lessi con una buona impressione il suo libro d’esordio sedici anni fa e poi non capitò altro. Ora torna, con questo che dovrebbe essere il suo ottavo romanzo (non conto quelli usciti solo in formato elettronico). Ovvio che abbiamo perso una serie di riferimenti, e quindi, su alcune cose voliamo un po’ “come pipistrelli”. Ma il modo di scrivere e molta tipologia di romanzo rimane fedele a sé stessa.

Il primo romanzo, e credo anche qualcuno dopo, era imperniato sulla figura ambivalente di Rinaldo Ferro, aiutato nelle indagini da una giovane poliziotta, Laura Damiani. Ed io ipotizzavo la possibile nascita di un feeling tra i due. Ora, da mezze parole e rimandi, direi che la storia c’è stata, e non poteva che finire, vista la peculiarità di Rinaldo. Fatto sta che ora è Laura che ha il ruolo di protagonista. Lei che dopo Rinaldo è stata del tempo a Milano, con grandi successi. Tali da farla proporre per una promozione.

Ma Il commissario Damiani vuole rimanere operativa, quindi torna a Roma, per indagare su piccola malavita all’Anticrimine, aiutata da quello che dovrebbe essere il suo vice storico, l’ispettor capo Paolo Silveri, e con l’introduzione di un secondo aiuto, il vice sovraintendente Leo Fragassi.

La più o meno tranquilla routine di una Roma un po’ annoiata cambia con l’omicidio di una cinquantenne di buon livello sociale. Anche se Claudia Longo, pariolina, stava scivolando in una china senza via d’uscita. Divorzio da un marito facoltoso e palazzinaro che si invaghisce di una giovane. Divorzio duro non concordato, con Claudia che recrimina su tutto, mandando alle ortiche anche i rapporti con i due figli, il più maturo Cristiano e la più giovane ed un po’ sbandata Azzurra. E mandato alle ortiche anche il rapporto con il fratello modenese, anche per strani intrecci ereditari.

Claudia si ritrova a “mendicare” l’amore in qualche angolo notturno, a colpi di chirurgia plastica e magari con elargizioni economiche a qualche toy boy. Ma è un omicidio che si vorrebbe chiudere al più presto (il capo della Mobile vuol fare carriera), per questo viene messa in mezzo Damiani e la sua squadra. Ovvio che Laura stravolge il tutto, e ben presto collega questo ad altre possibili morti, descritte come accidentali, ma tutti gravanti intorno ad un locale di incontri sito nell’orrido quartiere EUR, il Single (un nome, un programma).

Qui sta la parte migliore delle idee di De Marco, l’intreccio tra meta finzione e realtà, soprattutto toccando i tasti della Roma, diurna e notturna, ma che solo i romani capiscono a fondo. E se nella notte vediamo gente poco raccomandabile aggirarsi per l’EUR, di giorno vediamo attività intorno a via Ettore Pais (che ora conosco vivendoci abbastanza vicino), o meglio ancora, mangiando con Laura un “cheeseburger” da McDonald a viale Giulio Cesare.

Il lato “meta” qualcosa si incarna in Andy Lovato, che adombra la figura e le opere del cantante Danny Losito. Poiché, a parte il nome, tutto quanto si narra di Andy riprende senza mutamenti la vita di Danny, spero che ci sia stato un accordo fra i due (che in alcune scene si entra un po’ troppo nell’intimità). L’altra piccola parte è data da Angela Sala, una figura marginale, che finirà male anche lei, ma che serve a Romano per fare alcune piccole tirate sul mondo editoriale e sulla figura degli scrittori di ultima fascia.

Comunque, il nostro trio investigativo non può che calarsi nella notte. In quella romana, ma anche in quella personale di ognuno. Con Leo che lasciata una fidanzata in Veneto, trova un inatteso amore nel giovane Stefano. Con Paolo ossessionato da una ragazza tanto da diventarne uno stalker senza tregua. Con la stessa Laura che si immerge nell’atmosfera del “Single”, sino ad essere coinvolta in una storia di grande sesso proprio con Andy.

Purtroppo, come spesso accade nei noir moderni, anche De Marco usa salti temporali e di prospettiva attraverso l’uso del corsivo. Ma non si capisce perché non lo usi quando, in una serie di capitoli, ci fa seguire la vicenda dalla soggettiva di Laura. Fatto sta che i nostri tre si trovano molto vicini a pericoli, anche mortali, soggettivi e oggettivi.

Ovvio che Laura ne uscirà risolvendo sia l’omicidio di Claudia sia quello delle altre donne, anche se solo per il primo riusciamo a seguire le tracce investigative, risultando un bel giallo, anche un po’ contorto. Mentre l’altra parte viene fuori un po’ a caso. Mentre dei suoi aiutanti, uno solo vincerà i propri demoni, l’altro soccombendone.

Un solo appunto: per molta parte del libro, l’autore cerca di appuntare tutti gli indizi sul povero Lovato, ma, dato il Danny che nasconde, mi è sembrato subito una pista depistante. Ed è in effetti una parte un po’ traballante.

Meglio, come detto, le parti romane, con le descrizioni degli ambienti, dei luoghi, dei personaggi. Se vuoi bene a questa città, sono le parti migliori. Mentre al solito la figura del commissario Damiani, pur trattata con garba, risulta descritta in un’ottica troppo maschile.

Chissà quanti anni passeranno per leggere un altro libro di De Marco…

“Poter diventare indifferente a qualcuno che hai creduto di amare ti dà l’esatta idea di cosa sia questo sentimento.” (221)

Davide Longo “Una rabbia semplice” Repubblica Anima Noir 11 euro 8,90

[A: 02/09/2021 – I: 05/07/2025 – T: 09/07/2025] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 332; anno: 2021]

Come in un gioco di scivolamento delle azioni, in questo terzo libro dedicato alle vicende dei protagonisti che abbiamo incontrato nelle due precedenti puntate, si vede venire sempre più in primo piano il commissario Vincenzo Arcadipane, mentre l’ex-commissario Corso Bramard e la bravissima agente Isa Mancini, stanno scivolando nelle retrovie.

Ricordo che il bravo Davide Longo, insegnante alla Holden di Baricco, scrive, e bene, da oltre venti anni. E da una decina ha intrapreso il percorso giallo-momenti di vita con questi personaggi, di cui seguiamo le evoluzioni e le indagini. Se nel primo libro, il centro era Bramard, il secondo si pone in mezzo ai personaggi, mentre questa terza prova è di sicuro dedicata al commissario Arcadipane.

Certo, nei ragionamenti che seguono le indagini interviene, anche con azioni efficaci, l’emarginata Mancini, che sta cercando di trovare il modo di riscattare i suoi (giusti) scatti d’ira con comportamenti più moderati. E noi speriamo che, prima o poi, riesca nell’intento che ci sta moderatamente simpatica.

Certo, parla e aiuta Corso, ma il suo è un percorso che volge al termine. Sa di essere malato e scarsamente curabile, per cui cerca il modo di arrivare alla sua fine seguendo il suo modello di vita. Magari non sarà empatico, magari qualcuno non ne sarà contento (fino a dove e perché ci si può e deve curare?).

Rimane Vincenzo, con tutti i suoi problemi. Soprattutto familiari e di relazione. Ha un problema di impotenza che lo blocca nei rapporti familiari, tanto che la moglie se ne allontana e lui va a vivere da solo, con il suo cane Trepet, quello con tre zampe. Incontra in una chat erotica la figlia, ed ha con lei alcuni momenti catartici. Ma soprattutto è in cura da Ariel, una visionaria, psicologa, astrologa ed altro ancora. Che lo sottopone a prove diverse per scatenare una reazione nella sua passività. Una donna che a me aveva ispirato subito una simpatia proprio per quel suo essere sopra le righe (tipico esempio, quando Vincenzo a precise domande risponde “stavo riflettendo” Ariel lo inchioda con “non si lanci in attività spericolate”). Un rapporto che a tutte le premesse per evolversi, sperando che il pessimismo di fondo dell’autore non ci porti fuori strada (e che forse vedremo se riusciremo a trovare il tempo di leggere i tre successivi testi delle avventure dei nostri).

Come tutti i serial d’ambiente, una volta fatta luce sul contorno extra-indagine, possiamo dedicarci a capire di cosa stiamo indagando. Il fatto, inizialmente, sembra semplice. Una donna viene aggredita all’uscita della metropolitana da un tizio mascherato in modo strano (volto coperto, bermuda e katana). Ed un ragazzo viene riconosciuto dalle telecamere della metro. Tutto semplice, forse troppo semplice, tanto che Arcadipane cerca di capire meglio.

Interroga per ore il ragazzo, poi la ragazza, poi allarga il giro delle domande, coinvolge Isa e Corso, nonché altri poliziotti, che i meccanismi delle azioni sono strani. Come strane risultano altri morti ed altri accidenti. Ed alla fine, con qualche anticipazione su quanto forse ora vediamo succedere, ci si imbatte nella rete e nei suoi meccanismi. C’è il primo livello dell’iceberg di rete, quello che ci permette di navigare e di fare domande a Wikipedia; c’è il secondo livello della rete, una sorta di deep web, dove tutto è ancora lecito, pur se cominciano delle ombre. E poi c’è il dark web, quello che noi persone normali sentiamo nominare ma che forse neanche sappiamo come utilizzare.

In questo dark i nostri ricercatori si troveranno a scoprire le regole di un gioco folle e letale, che noi seguiamo, a volte forse con poca comprensione, in una discesa nel mondo sotterraneo alla scoperta di qualcosa che si mette a metà tra una sfida ed una vendetta subliminale. Qui il gioco si fa complicato, tanto che, sia perché ci si perde un po’, sia perché altrimenti si perde qualche sorpresa, vi lascio il piacere di leggerne.

Alla fine, sempre con quel sentimento un po’ maigrettiano di comprensione verso i colpevoli anche se non di giustificazione delle loro azioni, si arriva alla fine, con qualche sussulto positivo di Arcadipane che non dispiace.

Longo, ed è ovvio, scrive in maniera gradevole, si lascia seguire (abbastanza) bene e tutto sommato, pur con qualche salto e qualche omissione (che si lascia al lettore di completare) ci dà un buon prodotto. Soprattutto là dove ci tira fuori, già quattro anni fa, quello che vediamo ora affermarsi in giro. Certo non sempre così dark come qui, ma i “challenge” istigati dai social sono sempre più presenti e dannosi (ricordo solo l’ultimo: prendere il sole senza protezione per bruciarsi la pelle; una follia!). Longo è un bravo osservatore e ragiona con proprietà su quanto succede nel mondo, e ci fornisce un dignitoso prodotto (ed io ripeto aspetto di capire se leggerne ancora).

“Vuol dire che metti tra virgolette la parola che viene dopo. Quello l’ho imparato dalla serie ‘Friends’ tanti anni fa. Phoebe lo faceva sempre.” (175) [solo per i nostalgici]

Marco Malvaldi “Piomba libera tutti” Sellerio s.p. (regalo di Alessandra)

A: 26/06/2025 – I: 20/07/2025 – T: 23/07/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 298; anno: 2025]

Come sempre piacevole e rilassante leggere un libro di Marco Malvaldi, specie se in regalo per un onomastico passato tra lavori e riposi di fronte al mare toscano. Tuttavia, prima di parlarne, come al solito abbastanza bene, devo fare una tirata d’orecchi a Malvaldi ed a Sellerio.

Il gioco del nascondino credo sia un gioco non solo giocato dappertutto in Italia, ma forse anche nel mondo (giocato addirittura nell’Antica Grecia con il termine dialettale “apodidraskinda” che significa “gioco della fuga”). Penso che tutti lo conosciate, ma soprattutto vi ricordate cosa si dice quando, per una serie di motivi legate alle regole specifiche, qualcuno riesce a trovare il modo di liberare tutti i prigionieri. Mentre su questo torneremo in coda di trama, quello che rimprovero a Malvaldi, ed a Sellerio che ha pensato bene di non parlarne, è l’uso di un termine dialettale in uso solo in Toscana.

Qui, l’autore lo utilizza indicando che, al termine di un’indagine con un ristretto e ben identificato numero di possibili colpevoli, una volta risolto il mistero tutti gli altri sono liberi. Tuttavia, meritando una trattazione specifica, ne riparlo alla fine, dopo aver percorso i caposaldi dell’indagine.

Come tutte le serie, sappiamo che, oltre al filo di indagine, c’è tutto un contorno dei personaggi presenti che operano per le loro strade trovandosi qui a convivere e ad agire sullo stesso territorio. Il primo livello narrativo si ferma ad un fatto, doloroso ma possibile, dovendo i vecchietti far fronte alla dipartita di uno di loro, Aldo Griffa. Melomane impenitente, ristoratore di gusto e gestore, con Massimo e Tiziana, de “Il Bocacito”. Aldo, investito da una bicicletta, muore, lasciando ai due soci le azioni del ristorante. In più Massimo deve collocare l’enorme collezione musicale di Aldo, mentre Tiziana ha in dono l’appartamento di Aldo, cosa super gradita visto che lei e Marchino il marito sono in affitto.

Il secondo lascito è il più complicato, visto che, saputo della morte di Aldo, giovani locali hanno occupato la casa, e, come sappiamo, non è facile effettuarne lo sgombero. Dopo molti tentativi, sarà un brillante idea di Massimo a trovare il modo di risolvere questa difficoltà. Massimo che trova anche una possibile acquirente dei CD di Aldo, tale Viola, ma mentre intavola le trattative, si scopre che nel garage condominiale di Viola viene trovata uccisa Giada Meini.

Entra allora in opera anche Alice, vicequestore locale, nonché genitrice insieme al compagno Massimo della simpaticissima (e sveglissima) Matilde. Anche se, per una serie di motivi legati alle paturnie di Massimo e dei vecchietti, questa volta non disdegna di essere affiancata nelle indagini. Che sono complicate perché: Giada era una persona malvista da tutti, una condomina che non perdeva occasione di rompere le scatole e non solo. Lasciava soprattutto la macchina dove capitava, impedendo agli altri di uscire. Cosa che porta a liti furibonde, rigate di sportelli, nonché un ictus di una vicina, visto che, macchina bloccata, non è stata portata in ospedale in tempo.

Non solo, ma, approfittando del suo lavoro alle Poste, si faceva affari non suoi, e se trova spazio e modo, cominciava piccoli ricatti. Come quello che stava inscenando ai danni di tal Chiaromonte, direttore d’orchestra non sempre ben visto dai melomani, e proprio della Viola di cui sopra, che del Chiaromonte era rimasta incinta. Un intreccio perverso che coinvolge anche Laura, moglie del Chiaromonte, avvocato nello studio legale che tutela le mattane di Giada.

Indagando e collegando, alla fine molte sono le persone che hanno concreti motivi di intervenire nella morte di Giada. Oltre a Chiaromonte, Viola e Laura, c’è la famiglia Pierotti, quella della donna colpita dall’ictus, l’avvocato Biondi, gestore di molti appartamenti condominiali, il cui affitto veniva bloccato proprio dalla conoscenza che nello stabile c’era quella rompi… di Giada, nonché, per i motivi dei danni alle macchine, i gestori del garage, cioè la famiglia Carusotto, in specie il giovane di bottega, da sempre convinto della cattiveria di Giada e deciso a trovare tutti i modi per bloccarla.

Malvaldi, con l’abilità che gli riconosco, per lungo tempo ci induce a credere che sia possibile una soluzione tipo “Assassinio sull’Orient Express”, per poi trovare la vera soluzione, grazie ad alcune fortunate coincidenze (che ci stanno), ed al fatto che chi commette il fatto soffre di ipoacusia, e quindi ha una notevole capacità di leggere le labbra di chi parla. Ecco questo è un tiro mancino che non mi aspettavo da un matematico nonché chimico come Malvaldi.

Come non mi aspettavo, tornando a bomba sul lamento iniziale, che Malvaldi usasse il termine toscano “Piomba libera tutti”, invece che il termine ovunque noto di “Tana libera tutti”. ho impiegato del tempo per decrittarlo, ed in questo Sellerio non è stato d’aiuto. Anche perché, il gioco del nascondino è non solo praticato in Italia, e di derivazione greca come scritto sopra. Ma nelle maggiori lingue europee, ha una denominazione abbastanza semplice, ed un grido, per permettere la liberazioni di chi è stato scoperto, abbastanza omogenea. Quasi tutti dicono “tutti liberi”, solo in spagnolo si usa il termine locale per “tana” come in italiano.

Se posso permettermi questa piccola digressione ludica ecco allora un divertente specchietto:

Italiano

Nascondino

Tana libera tutti

Francese

Cache-cache o cachette

(cache à nascosto; cachette à nascondiglio)

Libre à tous

Inglese

Hide-and-seek

(hide à nascondere; seek à cercare)

Free for all

Spagnolo

Escondite

(escondite à nascondiglio)

¡Libre la guarida!

Tedesco

Versteckspiel

(versteck à nascondiglio; spiel à gioco)

Alle sind frei!

Allora, caro Marco, almeno mezzo punto in meno per questa scelta che non condivido. Mentre tutto il resto va molto bene, anche l’idea del modo di utilizzare le ceneri del povero Aldo, che lascio agli arguti lettori di scoprire.

Cristina Cassar Scalia “Il castagno dei cento cavalli” Einaudi s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2025 – I: 01/08/2025 – T: 03/08/2025] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 313; anno: 2024]

VG09

Eccoci allora all’ultima puntata conosciuta dei gialli del vicequestore Vanina Guarrasi, scritti dalla brava Cristina Cassar Scalia, e intrepretati sullo schermo da Giulia Buscemi. Ho voluto subito mettere le mani avanti, perché, nel mentre negli anni uscivano i vari libri ambientati nella bella città etnea, venivano programmati sul piccolo schermo le loro riduzioni televisive. Questo per sottolineare fin da subito che i libri sono altro, e che nella riduzione in tv si perdono molte sfumature.

Per esempio, che molto della squadra di Vanina viene ridotto a pura “macchietta”: il divorziato Spanò ed i suoi rapporti con la ex e con il nuovo marito, il nascosto Fragapane, praticamente scomparso, il “militare” Nunnari ed il suo mancato amore per Marta, la stessa Bonazzoli ormai diventata compagna ufficiale del grande capo Tito Macchia, l’ingenuo Lo Faro, qui perso d’amore per Agata (che invece spasima per il bel Sanna) ed in tv innamorato psicologicamente deviato della stessa Vanina.

Anche qui prende sempre più spazio il lato privato. C’è il trio Lescano di supporto, la bella Giuli ed i due amori-non amori Adriano e Luca. C’è di nuovo Bettina, con la sua cucina ed il club delle vedove. Non ci meravigliamo che pian piano si defila l’antipatico PM Vassalli. Mentre sempre pieno di ricordanze e contatti l’ex-commissario Patané, che però non comprende l’arrendevolezza della sua Angelina, e neanche noi, se non per un gancio in finale che dovrebbe preludere al decimo episodio. Anche se invece di un nuovo libro di Vanina, è uscito in questo 2025 un libro di Cristina con altri protagonisti.

Stendo un velo pietoso sui rapporti tra Vanina e Paolo, che non decollano né si arenano del tutto, rimanendo tra il liscio e il brusco, senza soddisfazione né per lei né per noi. Comunque, rispetto a Giulia Buscemi, la “reale” Vanina è forse più umbratile, ma di certo più simpatica. Ma prende piede è la giovane Cocò, la sorella piccola, di cui finalmente sappiamo i motivi del matrimonio mandato all’aria. Coinvolgendo nella simpatia il patrigno, sia per motivi legati al matrimonio sia per altro legato ai rapporti di lui con Vanina.

Ma tutto ciò dovrebbe, in un serial, essere in secondo piano rispetto alla materia centrale, che qui e altrove è o dovrebbe essere il giallo. Invece, la serie sembra sempre più rosa. Il giallo c’è, si vede, ma ha trame un po’ deboli.

Qui comincia collegandosi al castagno del titolo, su cui torneremo, dove, sotto le radici viene trovato il cadavere mutilato di una donna. Sebbene senza documenti, si risale con qualche suggerimento dei catanesi di collina, ad una donna chiamata “La Boscaiola”, una che andava per funghi e che faceva da guida per i vari sentieri etnei. Una che aveva un rapporto con un uomo trasferitosi dal Nord, il Bruseghin, dove era sospettato, ingiustamente, di diversi assassini di donne.

Ma Bruseghin era anche un impenitente donnaiolo, tanto da insidiare (o meglio corteggiare) una bella donna, che per sfortuna sua è la moglie di uno dei tanti caporioni mafiosi del luogo. Si suppone allora che la Boscaiola abbia avuto scene di gelosia e che Bruseghin l’abbia silenziata, o che il mafioso, per silenziare Bruseghin, abbia ucciso la Boscaiola. Tutto crolla quando, prima si scopre che la tipa viveva sotto falso nome, poi quando si scopre una seconda morte, di una signora anch’essa con nomi cambiati, ma che si scopre essere la cugina della Boscaiola.

Ovvio che Vanina, con l’aiuto di Patanè, capisca che forse bisogna risalire al passato delle due donne, al loro essere state infermiere ed aiutante in una clinica del Nord, ben avviata sino a che rimase in vita il medico titolare, e poi, lentamente ma inesorabilmente, caduta in disgrazia. Interventi mal riusciti ma soprattutto, si dice, pratiche abortive nascoste forse anch’essa malamente condotte.

Si arriverà alla soluzione del caso, ma sempre (e qui devo dire la serie subisce una piccola battuta d’arresto) tramite rivelazioni altre, tramite qualcuno che dice o suggerisce un collegamento. Niente a che vedere con un giallo classico, dove il lettore partecipa delle indagini e viene fornito degli elementi per capire, forse, come si sono svolti i fatti. Non sempre il perché, ma spesso il come sì.

Veniamo allora al luogo precipuo della storia, questo castagno dei cento cavalli. Un albero che esiste realmente, nel Parco dell’Etna, patrimonio Unesco. Per essere più aderente alla realtà, evitando inutili voli, riporto quanto se ne dice in rete: “Il Castagno dei cento cavalli è senza dubbio l’albero più famoso dell’Etna. Ha un’età stimata tra i 2000 e i 4000 anni ed è uno degli alberi più grandi e antichi del mondo. Deve il suo nome a una leggenda: pare che la regina Giovanna I d’Aragona e i suoi cento cavalieri abbiano trovato riparo sotto le fronde del castagno durante un temporale”.

Ripeto in finale, la scrittura di Cristina è sempre buona, ma la tensione cala, come se, una volta esauriti temi classici e forti, con l’ultimo colpo di coda del libro precedente, si stia esaurendo un po’ la vena e le motivazioni per continuarne a scrivere. Come direbbe il buon Battisti, quello che succedere nel futuro “lo scopriremo solo vivendo”.

Claudio Bandi “La città e l’abisso” Mondadori euro 7,50

[A: 14/07/2025 – I: 05/08/2025 – T: 06/08/2025] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 220; anno: 2025]

Un tentativo interessante ed onesto di produrre un hard-boiled omaggiando la letteratura americana di genere e la filmografia relativa. Il professore di “Evoluzione biologica” ed altre materie connesse, Claudio Bandi, cimentandosi nella sua passione verso libri e film, produce un libro comunque leggibile, tanto che vince, seppur ad ex-aequo, il Premio Tedeschi relativo agli inediti italiani del Giallo Mondadori.

Proprio per questa sua passione, Bandi decide di ambientare le sue vicende in una Los Angeles del ’52, con attenzione all’anno. Sia perché è l’anno del mio caro cugino Stefano, sia perché Ray Bradbury scrive “Fahrenheit “451” (insieme ad altre vicende storiche che vi invito a scoprire). Ma soprattutto è un anno in cui Los Angeles, nel pieno boom di crescita, vede aumentare a dismisura la malavita ed il malaffare. Così che Bandi riesce ad ambientare una storia molto legata al tempo.

Ma fa anche una seconda operazione, interessante. Al fine di non farsi coinvolgere in un tempo non facilmente districabile, la storia viene narrata dal protagonista una quarantina d’anni dopo gli avvenimenti. Così che l’ex-poliziotto William Slaytor, ora investigatore privato, ha agio di affrontare una narrazione senza l’ansia dell’immediatezza. I giochi sono finiti da tempo, lui è ancora vivo, quindi è andato tutto bene, e si può ripensare a quei tempi con il distacco dell’età (un piccolo calcolo, se all’epoca era un trentenne o giù di lì, ora ci parla un over Settanta).

Come molte tradizioni alla Chandler insegnano, l’inizio è quasi di routine. Slaytor viene incaricato dal preside della UCLA di indagare se le voci che un suo professore sia un pedofilo siano vere. Incarico apparentemente semplice: si segue il professore, si vedono i posti che frequenta, e si tirano le somme. Ma il professore, oltre a passare insistentemente davanti ad una rivendita di auto usato, di proprietà di tal Mike Rizzo e di frequentare saltuariamente una ricercatrice universitaria che va verso i trenta non fa.

Mentre questo secondo filone viene accantonato, Slaytor comincia ad indagare su Mike, che sembra scomparso. Incontrando così la di lui sorella, una che, dopo la guerra, ha capito che il ruolo della donna può essere anche lontano da quello di “madre e sposa”. C’è un po’ di feeling tra i due, così che Slaytor comincia ad indagare anche sulla scomparsa di Rizzo. Niente di sorprendente che ne trova ben presto il cadavere, in una discarica che appartiene ad una potente famiglia franco-americana, i Marseille.

C’è un piccolo scontro con loro, che non si capiscono i motivi dell’affitto del terreno a Mike. Ma frequentando i Marseille, si imbatta nel figlio di primo letto del potente, e nella seconda moglie di lui, oriunda messicana. Quando poi scopre che il figlio insegna nella scuola dove studia la tredicenne figlia del professore, e quando scopre che i due hanno una tresca, corredata da foto che Mike aveva fatto di nascosto, una bella trama da Dashiell Hammett salta subito fuori.

Nelle more la seconda moglie, viste le sue capacità e discrezioni (e non vi dico quali), gli chiede di ritrovare sua sorella, scomparsa o forse rapita da un marito manesco. Dati i suoi contatti con il demi-monde e con la parte buona dei LAPD, anche questo caso verrà risolto alla grande. Finendo con il primo caso, dove il professore di certo non è un pedofilo, ma la cui soluzione porta ad un giro di volta che il nostro buon Slaytor non si aspettava.

Insomma, una tipica trama gialla, ben scritta e ben portata avanti. Che si può leggere come un giallo di carattere, senza porsi altre domande. Oppure ponendosele, sulla spinta dei suggerimenti di Bandi. Vediamo così un approccio quasi biologico alla città di Los Angeles, quasi fosse un organismo vivo, e il biologo Bandi, oltre a farcene respirare il ritmo unitario, ci mette qua e là spunti etologici, con citazioni che vanno dall’orso degli Appalachi al ratto accumulatore fino allo scarabeo stercorario.

C’è di certo un gradito omaggio a tutta la cultura popolare americana, con abbondanti citazioni di libri e film del periodo. Anche perché Slaytor è un poliziotto colto (si nota da alcune citazioni che Bandi sparge durante le esternazioni dell’io narrante, anche se paragonare la stanza sgarrupata di un guardone alla camera gialla di Van Gogh mi pare un salto quantico non indifferente. Ma soprattutto, c’è la lettura della denuncia sociale, laddove nel testo compaiono quattro diverse figure femminili che, ogniuna nel proprio ambito ed in modo diverso, ci fanno capire che il ruolo della donna, fin dagli inizi degli anni Cinquanta, sta cambiando.

C’è solo un’incongruenza che vorrei segnalare all’autore. Ad un certo punto compare un benzinaio, indicato come Jim Baumgarner, e Slaytor, entrato in sintonia con lui, gli prevede una bella carriera come attore in futuro. Vero, che quello è il vero nome di un bravo attore caratterista americano, a noi noto come James Garner. Ma lui, nel 1952, era ancora arruolato in marina, da dove si congedò nel 1954. Bisogna rivedere un po’ le date, caro Bandi.

Questa volta andiamo citando molto lontano, anche perché questo mese di riposo consente e spinge a riflessioni a tutto campo. Così riprendo alcune delle tante idee che mi ha lasciato la lettura di “Vite di corsa” del filosofo a me molto caro Zygmunt Bauman.

“da Kundera: le situazioni messe in scena dalla Storia rimangono sotto la luce dei riflettori solo per i primi minuti.” (7)

“nella società dei consumi l’obbligo di scegliere [prende] la forma della libertà di scelta.” (27)

“da Freud: la fine di un mal di denti ci rende felici, mentre non avere mal di denti non ha lo stesso effetto.” (45)

“Nella vita dell’adesso … la ragione di affrettarsi non è la spinta ad acquisire e conservare ma a scartare e sostituire.” (59)

“Siamo stati trasportati da una civiltà della durata, e quindi dell’apprendimento e della memorizzazione, a una civiltà del transitorio e quindi dell’oblio. Di questo passaggio cruciale la memoria è la prima vittima, mascherata però da danno collaterale. “(73)

 “da Robert Louis Stevenson: viaggiare pieni di speranza è meglio che arrivare.” (84)

“Il dominio conseguito mediante la deliberata coltivazione dell’ignoranza e dell’incertezza è più affidabile e costa meno del potere fondato sull’esaustiva disamina dei fatti e sullo sforzo prolungato di raggiungere un accordo circa la fondatezza dei problemi e i metodi meno rischiosi per affrontarli. L’ignoranza politica perpetua sé stessa e la corda intrecciata dell’ignoranza e dell’inazione fa sempre comodo quando si deve mettere il bavaglio o legare le mani alla democrazia.” (94)

Direi che propria quest’ultima sia degna di riflessione in questo momento di grande incertezza mondiale. Noi (ed in questo accomuno i miei amici e sodali) vorremmo un mondo in cui ci si possa fermare e ragionare senza il rombo delle armi. I soprusi sono sempre possibili, ma se potesse vincere il ragionamento, potremmo, forse, trovare soluzioni che guardino al futuro, e non al passato. Mi rendo conto che questo discorso potrebbe portarci lontano, ma forse è meglio affrontarlo con calma e in un prossimo futuro. Con l’ottimismo che sempre mi contraddistingue, allora, vi abbraccio tutti.