Georges
Simenon “I superstiti del Télémaque” Repubblica Simenon II 17 euro 9,90
[A: 10/07/2023 –
I: 18/11/2024 – T: 19/11/2024] - &&&&
[tit. or.: Les rescapés du
Télémaque; ling. or.: francese; pagine: 185; anno 1938]
Dicevo nella fine delle precedenti trame che
la metà degli anni Trenta è stata caratterizzata per Simenon da molti viaggi,
anche lunghi, e dai relativi reportage, ma anche da grossi ritardi tra la
scrittura dei suoi libri e la loro pubblicazione in volume, anche dovuta al
cambio di editore avvenuto in quegli anni.
Così, tra un viaggio e l’altro, a fine ’35,
in dicembre tiene una conferenza a Parigi, nella Sala Playel dal significativo
titolo “L’avventura è morta”, poi si trasferisce in montagna, nell’Alta Savoia
dove scrive “L’assassino”. Per riprendersi dai viaggi, poi, nel ’36 prima passa
lunghi mesi nel sud della Francia, dove a Anthéor, su di una collina non
distante da Cannes, scrive “Senza via di scampo”. Spostandosi poi nella sua
amata Porquerolles dove si impegna a lungo per uno dei suoi testi più lunghi,
“Il testamento Donadieu”.
Ma i romanzi duri hanno poco successo,
quindi a metà dell’anno torna nella periferia di Parigi, a Neuilly, dove mette
mano ad un grosso numero di nuove inchieste del commissario Maigret. Come
d’uso, però, nell’ultima parte dell’anno, la famiglia Simenon si trasferisce in
montagna. Questa volta siamo a Igls, nel Tirolo austriaco (praticamente a
Innsbruck), dove compone questo nuovo romanzo duro, che vedrà la luce da
Gallimard solo nel marzo del 1938.
In una delle poche prefazioni presenti nei
suoi romanzi, è poi lo stesso Simenon che confessa come spesso i suoi romanzi
siano un contrappasso rispetto al luogo in cui vengono scritti. Così è stato
per il cupo e nebbioso “Faubourg” scritto nella solare Papeete. Altrettanto
succede con questi “superstiti”, un romanzo che si svolge per la maggior parte
dell’azione in luoghi di mare. Principalmente nella cittadina e nel porto di
Fécamp, che tutti sanno essere affacciato sulla Manica, con piccole puntate a Le
Havre e a Rouen.
È un testo strano, nell’economia dei
non-Maigret. Dove c’è una piccola storia poliziesca, con morto e ricerca del
colpevole, immersa in una grande saga familiare e marittima, nella quale, in
particolare, l’autore ha interesse a seguire i comportamenti e le azioni dei
due principali protagonisti, i gemelli Charles e Pierre Canut.
La storia di contorno è abbastanza
intrigante. Nel 1906 (trent’anni prima) la nave “Télémaque” fa naufragio a
largo di Rio de Janeiro. Dopo diversi giorni di ricerca, viene ritrovata una
barca con cinque uomini a bordo: quattro vivi ed un morto. Morto con le vene
tagliate. Suicidio? Omicidio dei sopravvissuti? Fatto sta che i quattro sono
vivi perché hanno bevuto il sangue del morto. Ed il morto era il giovane Canut
che lasciava a Fécamp la moglie che poco tempo dopo partorisce due gemelli.
La vedova, comunque, dà fuori di testa,
maledicendo i quattro, e contando con gioia i tempi della loro morte. Nel
presente dell’azione rimane in vita solo uno, l’anziano Emile Février, che
all’inizio del romanzo viene trovato morto, accoltellato, nella sua abitazione.
È abbastanza logico che, dati gli odii familiari, ed alcune prove indiziarie,
venga ritenuto colpevole uno dei due gemelli, Pierre. Il capitano di
pescherecci, benvoluto da tutta la città.
In questo quadro, l’interesse di Simenon è
indagare sulla psicologia dei due gemelli, sulle loro azioni, sui loro
comportamenti. Ma anche sul contesto sociale che contrappone uomini di mare e
uomini di città.
Per il suo scopo, allora, l’autore ci fa
seguire Charles, l’altro gemello, che, convinto dell’innocenza di Pierre, si
mette in testa di scoprire come siano realmente andati i fatti. È così che
scopriamo le due facce dei gemelli stessi. Che Pierre è quello di facciata, ma
anche quello più debole. Mentre Charles è quello nell’ombra, e tuttavia la
mente della coppia.
Charles è cagionevole di salute, si
accontenta di un oscuro lavoro alle ferrovie, e di fare una corte molto lasca a
Babette, una servetta della taverna locale. Ma è anche quello risoluto. Quello
che ha fatto studiare Pierre, costringendolo sia a prendere il brevetto da
capitano, sia a prendere il mare al comando dei battelli. Pierre si sa muovere
in quei contesti, ma quando viene accusato non è capace di difendersi. Senza i
suggerimenti di Charles, rimane un muto fantoccio che rischia di essere
condannato anche se nessuno crede alla sua colpevolezza.
Seguiamo così Charles nelle sue
peregrinazioni tra Fécamp, Rouen e Le Havre, seguendo false piste e viaggi
senza un vero e proprio perché. E seguendo i suoi pensieri, e quasi la sua
voglia di dimostrare che non solo nell’ombra si sa muovere. Accumula indizi,
capisce che Gaston, un giovane scapestrato, possa essere coinvolto. E si mette
a pedinare la matura Emma, amante di Gaston e forse anche del vecchio Emile. Alla
fine, capisce tutto quello che è successo, ma mentre torna a Fécamp, la
polizia, che lui aveva imbeccato, arriva alla conclusione. E quando Charles
arriva a casa, Pierre è stato liberato, e tutta la città tributa omaggi al
fratello.
Charles tornerà nel lato poco in luce della
vita, riprenderà a far la corte a Babette, ha fatto tanto, ma nessuno gli rende
merito, e la vita ricomincia così come all’inizio del romanzo. Un libro basato
sulle possibilità, sull’inadeguatezza, sui contrasti (forte, ad esempio, lo
spaesamento di Charles nelle aule giudiziarie). Sulla presenza sempre di due
facce della stessa medaglia, una lucida ed una opaca. Gli attori non lo
sapranno mai, noi, lettori esterni, si.
La penna di Simenon scivola piacevolmente
tra le descrizioni, le azioni, i dialoghi, con quel modo tipico di portare
avanti un discorso, accennato, per poi riprenderlo in presa diretta, magari con
altri esiti. Con la sua scrittura pulita e diligente, l’autore ci porta a
Fécamp, nei vari momenti e nei modi della vita cittadina. Vediamo la città
svegliarsi, vediamo la tenue luce invernale far capolino dalla terra e poi
l’opaco sole calare oltre il mare. Vediamo le moglie dei marinai nell’attesa
del ritorno dei pescherecci, e poi affrettarsi verso il porto. Sentiamo sulla
nostra pelle le gocce d’acqua salmastra mescolarsi alle gocce di pioggia, e
penetrare fin dentro le nostre anime.
Un romanzo d’ambiente, triste e dolente come
spesso nella penna del grande scrittore. Un affresco di provincia e delle sue
minute e quotidiane avventure. Una bella lettura.
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Fécamp,
Rouen, Le Havre |
Charles
Canut, impiegato alle ferrovie, celibe, 33 anni |
Pierre
Canut, gemello di Charles, capitano di un
peschereccio Laurence
Canut, madre dei gemelli Emma,
fiamminga, proprietaria di un bar, 45 anni
circa Gaston
Paumelle, giovane scapestrato il cui padre era uno
sei superstiti del Télémaque, 20 anni Emile
Février, vecchio marinaio, superstite del Télémaque,
66 anni Babette,
fidanzata di Charles Canut, servetta. |
Una
settimana circa |
Epoca
contemporanea alla scrittura |
Georges
Simenon “Il sospettato” Repubblica Simenon II 2 euro 9,90
[A: 27/03/2023 – I: 14/02/2025 – T:
16/02/2025] - &&&
[tit. or.: Le suspect; ling. or.: francese; pagine: 142; anno 1938]
Torniamo ad occuparci degli scritti di
Simenon nel periodo del suo maggior sforzo per affrancarsi (senza riuscirci) da
Maigret e dar vita a romanzi “duri” (come vengono definiti in Francia), sotto
la spinta della fucina degli autori di Gallimard, e con il confronto costante
con il suo amico, al tempo, André Gide.
Siamo nel 1937, Simenon ha passato gli anni
precedenti tra la scrittura d’amore e odio per Maigret, ed alcuni viaggi
intorno al mondo, le cui esperienze riverserà in articoli e scritture varie. Ha
iniziato l’anno a Poquerolles, l’isola di fronte a Marsiglia, spesso e
volentieri suo buon rifugio (con moglie e governante-amante). Lì, tra febbraio
e maggio, scrive un Maigret e due romanzi. Poi per l’estate, si sposta sul Lago
Maggiore in Italia, dove, nell’hotel Verbano, sull’isola dei Pescatori, scrive
“Corte d’Assise”. Ma dopo l’estate torna nella periferia parigina, e si
installa nel boulevard Richard-Wallace a Neuilly-sur-Seine. Ed è qui che a
settembre concepisce questo romanzo che scrive (e che si legge) tutto d’un
fiato.
Li manda tutti a Gallimard, che, come
sappiamo, ha i propri modi di concepire il lancio dei suoi scrittori. Motivo
per cui questo, benché posteriore nella scrittura, è il primo ad essere
pubblicato nel maggio del 1938.
Un romanzo per certi versi atipico: c’è
tensione, ci sono situazioni che si susseguono senza pause, ma non ci sono
omicidi (anche se ci possono essere delle morti), non ci sono reali misteri.
C’è un uomo, la sua coscienza, un’atmosfera di tensione. E la capacità di
Simenon di farci entrare subito nel vivo del problema, per poi spiegarci in
corsa, quale sia il problema.
In effetti, tutto sembra cominciare in modo
anodino. C’è un uomo, Pierre Chave, che vive con moglie e figlio in periferia
di Bruxelles, fa il direttore di scena e tuttofare in un teatro di periferia.
L’arrivo di un suo sodale francese ci fa subito capire altro. Pierre è un
anarchico, fuggito dalla Francia per aver disertato l’esercito. Scrive sui
giornali anarchici, portando avanti le sue ferme idee di libertà, mantenendo
contatti con i suoi compagni parigini.
Ma Pierre è un teorico, e nuove leve
anarchiche (ma forse anche infiltrate) portano il suo gruppo allo sbando, alla
decisione di azioni dimostrative, di attentati contro obiettivi militari (una
fabbrica di produzione di aerei). Coinvolgendo il suo piccolo protetto Robert
in un’azione potenzialmente suicida.
Pierre allora decide di precipitarsi a
Parigi per fermare la deriva del gruppo. Rischia grosso, può essere arrestato.
Ma soprattutto non sa dove siano i suoi compagni, quale sia il reale obiettivo,
e non sa soprattutto come fermarli. È comunque un uomo di principi, e sa che
l’attentato potrebbe provocare molti morti tra gli operai della fabbrica.
È questo che seguiamo. Il percorso di
Pierre, i suoi ragionamenti, la scoperta che il gruppo, sotto la spinta dei
turpi slavi che sano venuti a proporre le azioni drastiche, lo ritiene un
delatore. È lui il sospettato. Dalla polizia francese che lo sospetta come
possibile autore dell’attentato e dagli anarchici che lo sospettano di
tradimento.
È un uomo solo, che alla fine trova Robert e
i cattivi ed ingaggia con loro una battaglia di idee. Sulle quali non potrà
vincere (almeno verso i suoi ex). Ma non demorde, che a Pierre interessa
evitare morti inutili. Scoprendo che c’è un solo mezzo per farlo. Ci riuscirà?
O verrà anche qui sconfitto? In fondo, si troverà comunque solo. Forse
arrestato, o forse di ritorno dalla moglie in un mondo che tuttavia continua a
rifiutare.
La bravura di Simenon è quella di porci
questi dilemmi morali, senza entrare nella spirale politica di discorsi
anarchici o libertari (in fondo credo che sia un dibattito in cui difficilmente
potrebbe dire un suo parere asettico e/o illuminante). Ci pone invece sempre di
fronte all’uomo ed alle sue decisioni. Decisioni di vita. Decisioni di varcare
quella linea d’ombra conradiana che pervade tutti i suoi scritti. E l’uomo (non
in senso di genere) non è solo Pierre.
L’umanità è nella moglie che si interroga
sulla giustezza del suo (del loro) amore che forse ha attenuato lo spirito
ribelle di Pierre. È nell’amico che riesce a prendere sempre decisioni
sbagliate, mettendo in pericoli amici ma anche potenziali nemici. È nel
poliziotto belga che frequentando la casa di Pierre si immedesima nel mondo
quotidiano dell’anarchico.
Ed ovviamente è in Pierre: fino a dove si
deve spingere? Fino a dove la sua vita vale più di quelli dei possibili operai
morti? Pierre, fermo oppositore di qualsiasi tipo di violenza, dovrà decidere
se usare la violenza per fermare altra violenza. Pierre soffre nel vedere che
il mondo è fatto male e vorrebbe porvi rimedio, ma sa che il terrorismo come
metodo di lotta politica è una strada senza uscita.
L’altro forte punto di positività della
scrittura è nell’ambientazione, nella descrizione dei luoghi. Tutti descritti
al meglio dalla sua penna: il teatro dove lavora Pierre, la casetta di
Schaerbeek dove vivono Pierre e Marie, ma soprattutto tutti i bistrot, belgi e
francesi, teatri di varie scene del romanzo. E tutti gli elementi di contorno
che sapientemente dosa nel corso della vicenda: la pioggia gelida che bagna
fino al midollo, il tabacco delle sigarette di Pierre e della pipa del
poliziotto, il sudore che gronda dalla fronte dei sospetti. Tutti piccoli
tocchi di un grande scrittore che sa come e dove ambientare i suoi romanzi.
E benché non sappia condividere le idee di
Pierre, riesce a farcelo vivere dipingendogli in fondo agli occhi un luminoso
momento di speranza. Portandoci in poche sapienti pagine in una descrizione di
un momento di vita che avanza senza fronzoli ma ponendoci, delicatamente, la
sua domanda di fondo, quella che forse lo aveva portato a cominciare a scrivere
questo testo: si deve sempre lottare per quello in cui si crede
Un ultimo aspetto curioso è poi legato al
romanzo: per iniziativa di Simenon, nel 1943, il manoscritto originale fu messo
all’asta devolvendo il ricavato a beneficio dei prigionieri di guerra.
“Fin da piccolo, non aveva mai potuto
evitare di fare una sciocchezza quando capitava l’occasione.” (26)
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Schaerbeek (Bruxelles), Courbevoie, Puteaux |
Pierre
Chave, francese, stabilitosi a Schaerbeek.
Direttore di scena teatrale, sposato, un figlio piccolo, membro di un gruppo
anarchico |
Marie,
sposa di Pierre Robert,
giovane anarchico, galoppino di un giornale
parigino K…,
anarchico d’origine slava, 30 anni Meulemans,
commissario di polizia belga |
Tre
o quattro giorni circa |
Epoca
contemporanea alla scrittura |
Georges
Simenon “Turista da banane” Repubblica Simenon II 18 euro 9,90
[A: 14/07/2023 –
I: 06/06/2025 – T: 08/06/2025] - &&& e ½
[tit. or.: Touriste de
bananes ou Le dimanches de Tahiti; ling. or.: francese; pagine: 189; anno 1938]
Come detto nell’introduzione al precedente
romanzo, siamo nel periodo di odio verso Maigret e tentativo di dar vita ad una
sua idea di letteratura. Non è il caso, quindi, che in questi romanzi la
tensione si presenti in forme diverse, e, laddove ci siano dei morti, questi
non siano il centro della trama, ma uno degli accidenti.
Va inoltre detto che, leggendone io in
cronologia di pubblicazione, mi ritrovi a volte a tornare sui miei passi.
Perché Gallimard che cura le edizioni di Simenon ha i
suoi tempi tecnici di uscita. Ed infatti, questo romanzo leggermente atipico, è
scritto prima del precedente, ad inizio dell’estate del ’37, quando la famiglia
Simenon era tutta riunita nella villa “Les Tamaris” sull’isola di Porquerolles,
dove, l’8 di giugno finisce di scriverne (e notate che esattamente ottantotto
anni dopo nello stesso giorno, io finisca di leggerne).
Pur
essendo poi un periodo fecondo, non tutte le uscite del periodo hanno la stessa
valenza letteraria, se pensate ad esempio che poco prima di questo aveva
terminato uno che per me è nella ristretta cerchia dell’élite della sua
produzione (“L’uomo che guardava passare i treni”). Inoltre, questo è una
specie di romanzo ibrido: da un lato cerca una profondità come nell’epopea di
Popinga, dall’altra si lega a quel giro del mondo di cui molto rimase nei suoi
appunti. Ricordiamo, infatti, che dal dicembre ’34 al maggio ’35 Simenon passa
155 giorni “per fare il giro del mondo”. In una ridda di notizie locali che
riverserà in almeno sei libri “Touriste de bananes” (di cui stiamo parlando),
“Quartier Nègre” (“Quartiere Negro”, ambientato a Panama), “Long cours” (“Il
Cargo”, in Colombia e Papeete), “Ceux de la soif” (“Gli assetati”, alle
Galapagos), “L'Aîné des Ferchaux” (“Il primogenito dei Ferchaux”, anche qui con
un passaggio in Colombia), “Le Passager clandestin” (“Passeggero clandestino”,
in un cargo durante la traversata da Panama a Tahiti).
Dicevo
ibrido, che questo è l’unico romanzo non di Maigret in cui ritorna un
personaggio di un libro precedente, però spostato in un diverso contesto.
Perché qui ritroviamo Oscar Donadieu detto Kiki, il giovane rampollo
quindicenne che avevamo incontrato nel “Testamento Donadieu”. E Simenon usa
anche un rimando trasversale per farci capire quanto le due vicende siano
legate: il sottotitolo del romanzo è “Le domeniche di Tahiti”. Ricordandovi che
il balzacchiano testamento era diviso in tre parti: le domeniche di La
Rochelle, le domeniche di Saint-Raphaël e le domeniche di Parigi.
Segnato
da tutta quella vicenda, in particolare dalle morti e dai suicidi finali,
passati diversi anni, troviamo Kiki che cerca di allontanarsi sempre più da
quella vicenda, sperando, immaginando, che mettere miglia e miglia tra sé e La
Rochelle, possa permettergli di cambiare la propria vita.
Quindi
si imbarca sul cargo “l’Île-de-Ré”, per trasferirsi nella Polinesia francese,
che si immagina, e come lui tanti, un luogo vergine, dove vivere a contatto con
la natura, lasciando in patria tutti i propri problemi. Ma ben sappiamo che se
non si comprende (e Oscar non lo fa) quale sia la vera ragione della voglia di
fuggire, soprattutto quando i motivi derivano da difficoltà interiori, i problemi che vogliamo lasciare, emigreranno
con noi.
La
narrazione è divisa in varie sezioni, anche se scorre tra le pagine con la
solita facilità di scrittura di Simenon. Quella facilità che gli permette
spesso di saltare i passaggi logici e le descrizioni puntuali. Si accostano
dialoghi diversi, si affastellano descrizioni di luoghi, ed ecco che, come per
magia, il lettore ricostruisce la trama, e segue le vicende nella sua testa in
maniera molto più coerente del testo. Se mi si consente un paragone, è come se
scrivesse una sceneggiatura sommaria, e noi, leggendone, la trasferissimo in un
continuum da film.
All’inizio
siamo sul cargo, dove vediamo Oscar scontrarsi, psicologicamente e fisicamente,
con diverse realtà. Lui, benestante in disgrazia che deve ora stare attento ad
ogni franco che spende, vede il contrasto tra i passeggeri di prima e di
seconda classe (che Simenon descrive con veloci tratti di penna, volando tra
tavole imbandite e serate danzanti). Oscar non fa amicizie (vorrebbe parlare
con il missionario, ma riesce solo a giocarci a scacchi, vorrebbe intrattenersi
con il telegrafista, ma riesce a scambiarci due parole solo all’arresto del
comandante Lagre), pensando appunto di arrivare nella natura, e vivere con i
rigogliosi frutti locali.
Mentre
affrontano due parole su Lagre, su cui torneremo, Oscar viene anche edotto del
ruolo che probabilmente andrà a ricoprire, e da cui deriva il titolo. È il
telegrafista che gli spiega: “… «turista da banane». … È una espressione che
usiamo noi, sulle navi, per indicare quelli che partono per le isole con l’idea
di vivere a contatto con la natura, lontano dal mondo, in un posto dove i soldi
non servono e ci si può nutrire di banane e noci di cocco… Di tipi così se ne
incontrano a ogni traversata… Hanno in tasca giusto quanto basta per arrivare
laggiù… Cercheranno una capanna abbandonata dagli indigeni, dopodiché, in capo
a qualche mese anemici e ammalati, si presenteranno alla polizia o al consolato
per farsi rimpatriare…” (17)
L’altro
elemento che serve a Simenon per rappresentare il contraltare immediato
dell’isola è il comandante Ferdinand Lagre, uomo apparentemente integerrimo,
con famiglia in Francia, che lì sulle isole si invaghisce di Tamatéa, una delle
tante donne libere dell’isola, che passano il tempo “di fiore in fiore”. Lagre
non ne capisce la mentalità, e quando Tamatéa si accompagna anche con un altro
marinaio, Lagre lo uccide.
Quindi
abbiamo i due mondi che arrivano a Tahiti. Oscar che cerca la natura, Lagre che
deve essere processato. Ma i giudici e gli avvocati sono gli stessi francesi
che in altre vesti (quelle dei dissoluti espatriati) Oscar incontra nei bar e
negli hotel. Mentre Simenon non disdegna di colpire anche i locali, che per
folklore indossano strass e paillettes e suonano ukulele, per poi, finita la
festa, indossare le vesti normali.
Oscar
si scontra così con gli ubriaconi tristi e dissoluti e le donne di facili virtù
(anche se Simenon qui riesce a non biasimare le “escort” locali, anche perché
credo ne abbia approfittato alquanto). Lui che era partito in quarta con gli
slogan interiori basta con i soldi, basta con i doveri sociali, basta con le
facciate di convenienza, se ne ritrova invischiato. Vuole fuggire, ma è preso
dalla trappola di Tahiti.
Alla
fine, benché diversi nell’esito, i destini di Lagre e di Oscar sono simili: per
propria malposta rettitudine il primo, per naufragio dei propri ideali il
secondo, andranno miseramente a fondo, lasciando che a sopravvivere siano gli
ubriaconi, gli affaristi, gli sfruttatori, le facili donnine. Insomma, tutta la
possibile schiera di opportunisti che riempiono l’isola, ma anche tutto il
resto del mondo.
Mi
piace ricordare un passaggio, forse marginale, in cui con pochi tratti Simenon
ci rende vivida la rappresentazione di uno dei tanti uomini “cattivi”
dell’isola. Un albergatore maleducato che, per parlar male degli immigrati
cinesi, dice che non solo puzzano di aglio ma puzzano … di cinese. Oppure,
parlando in vecchio depravato, ci dice che l’unico suo interesse era contare il
numero dei figli che aveva seminato nell’isola.
L’ultimo
elemento che va ricordato è l’uso delle descrizioni atmosferiche. Come quando
ci parla delle mattine parigine, o dei desolati pomeriggi del “plat pays”. La
descrizione reiterata del caldo soffocante e della pioggia impietosa che
flagellano l’isola sono un’ulteriore riprova dell’impossibilità, per un
esterno, di inserirsi nel tessuto isolano. Sono due mondi distanti e chi ne
cerca la sintesi non può che finirne schiacciato.
“Al giorno d’oggi il mondo cambia … Non
c’è quasi più niente di sicuro … alla fine c’è sempre la pensione, vale a dire
la certezza che, qualunque cosa succeda, si potrà concludere decentemente la
propria esistenza.” (123) [meditate …]
Dove |
Protagonista |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
A bordo del cargo « l’Île-de-Ré », durante
la traversata da Marsiglia a Tahiti. Poi Tahiti |
Oscar
Donadieu detto Kiki, figlio cadetto della
famiglia Donadieu (vedi romanzo relativo), celibe, 25 anni. |
Ferdinand
Lagre, comandante della nave “l’Ile-d’Oléron” Tamatéa,
tahitiana, escort di Papeete |
Qualche
mese |
Epoca
contemporanea alla scrittura |
Georges
Simenon “Le sorelle Lacroix” Repubblica Simenon II 28 euro 9,90
[A: 25/09/2023 –
I: 24/06/2025 – T: 25/06/2025] - &&&
[tit. or.: Les sœurs
Lacroix; ling. or.: francese; pagine: 167; anno 1938]
Dopo aver passato anni turbolenti intorno al
mondo, forieri di molti scritti “non romanzi”, ma anche di molti spunti per i
suoi romanzi, il 1937 è un anno di spostamenti tra diverse case, tra soggiorni
di piacere e ipotesi di costruzione di una dimora più stabile. Ovviamente in
ogni spostamento, non manca mai la scrittura, che non lo abbandona mai.
Così passa parte dell’estate sull’Isola dei
Pescatori, nel Lago Maggiore (dove scrive “Corte d’assise”), poi a settembre
torna in quella che per ora è la casa di famiglia a Neuilly (dove completa “Il
sospetto”). Si concede un autunno in Calvados, a Port-en-Bassin dove concepisce
e scrive “La Marie del porto”, in modo per lui inusuale: redige la maggior
parte del testo in luoghi vicini a dove si svolge l’azione descritta. Poi si
sposta nel centro della Francia, a Saint-Thibault-sur-Loire dove scrive questo
testo, ma avendo ancora negli occhi le immagini del Calvados, non a caso,
infatti, l’azione si svolge a Bayeux.
Ed infatti è il clima familiare del lungo
soggiorno nel Calvados, che ispira alcuni romanzi dove forte è la tensione
psicologica all’interno della famiglia. Sempre ricordando che Simenon non ebbe
un’infanzia facile o felice, oppresso dal sentimento di mancanza dovuto alla
morte del padre ed alla forte ed ossessiva personalità della madre. Un ricordo
che qui si riflette nel modo interno alla famiglia Lacroix di chiamarsi: come
nella famiglia Simenon, i figli chiamano i genitori “madre” e “padre” anziché “mamma”
e “papà”.
Quindi, questo Balzac senza la sua
lunghezza, questo Tolstoj con poco amore, mette in scena un potente dramma
familiare, dove il ruolo centrale lo prendono le due sorelle Lacroix, Poldine e
Mathilde. Non sappiamo la loro infanzia, ma di certo, da quello che vediamo in
questa maturità vicina all’anzianità, non depone certo né per un ambiente
sereno, né per rapporti di pacifica fratellanza.
Simenon ci immerge subito a metà del guado,
fa scorrere un’ottantina di pagine in cui sale la tensione, senza che se ne
capiscono realmente i motivi, poi si scatena e lancia i suoi strali contro
questo perbenismo campagnolo. Mathilde Lacroix sposa un pittore simpatico ma
squattrinato, Emmanuel, da cui ha un figlio, Jacques. Nella casa di famiglia
(che i Lacroix hanno una buona e solida posizione economica), vive anche la
sorella Poldine. Nel bovarysmo della provincia francese, Emmanuel e Poldine
diventano amanti. E qui nasce il dramma: Mathilde li scopre e Poldine rimane
incinta di Sophie. Poldine fa un matrimonio riparatore con un personaggio che
non sarà mai presente nel dramma. Intanto Mathilde intima a Emmanuel di non
uscire mai dalla soffitta dove dipinge, se non per mangiare e dormire. E di non
parlarle più. Nonostante ciò, due anni dopo lei partorisce Geneviéve.
Questa è quindi la foto in cui ci fa
immergere Simenon: le due sorelle che si guardano in cagnesco, magari facendosi
piccoli dispetti, Emmanuel rinchiuso in soffitta, muto e solitario, Jacques e
Sophie che hanno la sola mira di andarsene al più presto, e Geneviéve che
introietta tutti i mali del mondo, e comincia a deperire per consunzione (non
trova motivi per vivere, se non nella preghiera).
Il clima claustrofobico ci viene rimandato
da piccole frasi, da gesti, da pasti consumati in silenzio, da preghiere che si
innalzano mute e inascoltate. Con tutta una rete di piccoli dissapori, come il
tentativo (di chi? Forse di più di uno), di avvelenare la famiglia a poco a
poco. Ovvio che non potrà andare avanti all’infinito. Raggiunta la sua colma
misura, Emmanuel si impicca, lasciando tutti i suoi averi alla figlia piccola.
Jacques e Sophie si sposano per uscire dal clima familiare.
E Geneviéve continua a deperire, non cammina
più, non si alza più dal letto, dove, in punto di morte, ammonisce mamma e zia:
“quando me ne sarò andata, rimarrete sole”. Ed infatti, alla fine, lei morta,
le due sorelle rimarranno sole, avvolte nel loro odio reciproco, prigioniere di
questo odio che le unisce e le divide.
Simenon scrive un romanzo fortemente
psicologico (che deve molto ad alcune atmosfere mutuate da letture o notizie di
Freud), ma che costruisce come un giallo. Fa montare la tensione, scopre i
dettagli con lentezza, ci fa capire chi siano i colpevoli, ma anche che la loro
punizione è in questa terra, in quel modo di non poter vivere separate, ma
soprattutto di fare di tutto per rendere impossibile la vita all’altra sorella.
Si nota anche, ma solo per i palati fini e
per chi pensa all’opera dell’autore nel suo complesso, la fatica di Simenon
stesso a continuare la sua routine familiare, laddove si va allontanando sempre
più dalla moglie Tigy, pur non potendo, non volendo rompere (tanto che l’anno
successivo nascere il loro primogenito Marc). Se non ci fosse stata la guerra,
forse la rottura sarebbe avvenuta prima. Ma i tempi bui si avvicinano, e
Simenon, per ora, si accontenta di trasferire su carta tutte le sue paure.
Dove |
Protagonisti |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Bayeux |
Il
ruolo principale è doppio, per le sorelle Lacroix: Léopoldine,
detta Poldine, vedova di Roland Desborniaux, una figlia Mathilde,
la sorella minore, sposata, due figli Entrambe d’età matura. |
Emmanuel
Vernes, pittore, marito di Mathilde, d’età matura Jacques Vernes, apprendista notaio, 22 anni Geneviève Vernes, 17 anni Sophie Desborniaux, 20 anni |
Circa
6 mesi |
Epoca
contemporanea alla scrittura, precedente la guerra |
Georges
Simenon “La casa dei Krull” Repubblica Simenon II 5 euro 9,90
[A:
14/04/2023 – I: 23/07/2025 – T: 25/07/2025] - &&&
[tit. or.:
Chez Krull; ling. or.: francese; pagine: 208; anno 1939]
Ricordando sempre che c’è un notevole
divario temporale tra la scrittura di Simenon e la pubblicazione presso
Gallimard, non ci stupiamo se questo romanzo in realtà viene terminato nel
luglio dell’anno precedente. Tra l’altro in un momento di relativa stabilità di
vita (almeno di case, visto che la sua vita fu solo apparentemente stabile
negli anni Trenta). Per cui tra il novembre del 1937, quando termina di
scrivere delle sorelle Lacroix ed il luglio del 1938 quando mette il punto
finale alla casa dei Krull, si occupa in partica solo di acquisti immobiliari e
di spostamenti.
Compra infatti a Nieul-sur-Mer (nella
Charente-Inférieure) una grande casa familiare, che necessita sia loro di
sistemazione che un cospicuo tempo per lo spostamento dei mobili. Finisce così
di rimanere nella sua abbastanza amata La Rochelle. Dove la famiglia Simenon
alloggia in rue Jeanne d'Albert. Qui, dedicandosi molto alla sua scrittura
veloce, compone un gran numero di novelle. E qui termina questa nuova saga
familiare, anche qui con un forte accento sul lato psicologico dei rapporti
umani. Ma anche sulle difficoltà di integrazione degli immigrati (come lui
spesso si è sentito nel corso della sua vita).
Intanto, cominciamo il percorso del testo
con due rimandi. Agli inizi degli anni Trenta, Simenon tentò la strada di un
romanzo con immagini, dove scrisse il testo ed una fotografa lo corredò con 104
fotografia. La fotografa si chiamava Germaine Krull, profuga polacca, una delle
più talentuose fotografe della prima metà del secolo scorso. Non solo, ma nel
1932, uno dei personaggi del libro “Il passeggero del ‘Polarlys’”, ex-avvocato
e fuggiasco, si chiamava Peter Krull. Deve essere per questi ricordi che rimangono
in testa, che quando dovette battezzare una famiglia inserita in un contesto
ostile, riprende il cognome. E dà vita a questa lunga ballata presso la
famiglia Krull.
Una ballata che, al fondo, è un lungo grido
di dolore rivolto all’odio verso il diverso. Facendo anche una specie di
cross-over, visto che, oltre all’aspetto esterno, all’interno del nucleo
familiare si innescano litigi e gelosie che ricordano alla lontana il
precedente libro scritto dal nostro (“Le sorelle Lacroix”, per l’appunto).
In una cittadina non identificata (e questo
è un po’ strano per Simenon) si è trasferita una famiglia tedesca, i Krull.
Hanno aperto una bottega-rivendita di liquori. Ma non si sono mai integrati con
la comunità locale. Tanto che la bottega è frequentata praticamente solo dai
marinai di passaggio sulle chiatte che attraversano la campagna scendendo di
chiusa in chiusa lungo il fiume (quella dei canali e delle chiuse è un’altra
delle fisse topografiche di Simenon).
I Krull sono composti da Cornelius, il
padre, accondiscendente, schivo, che cerca di smussare tutti punti di attrito.
Da Maria, la madre, il motore della famiglia, colei che manda avanti la bottega
e che deve avere per forza contatti con i locali, senza alcun successo. Poi ci
sono i figli: Anna (trent'anni), cameriera di un negozio di alimentari in una
città vicina ed aiutante della madre, Joseph (venticinque anni), uno studente
di medicina in via di laurearsi, ma con grossi problemi comportamentali, e Liesbeth
(diciassette), studentessa delle superiori.
La relativa stabilità dei Krull viene
incrinata dall’arrivo del cugino Hans, coetaneo di Joseph, che dice di essere
fuggito dalla Germania per motivi politici, ma che fondamentalmente è uno
scroccone, bugiardo e meschino. Che prende la vita sottogamba, che seduce
subito l’ingenua Lisabeth. Che cambia versione ogni dieci pagine sui motivi
della sua fuga. Che cerca contatti con i locali, ma solo per poter scroccare
qualcosa (come farà abilmente con il futuro suocero di Joseph).
Questo già precario equilibrio viene
completamente distrutto dalla morte di una ragazza, figlia di una vagabonda
locale. Morte non naturale, così che, ai disagi sociali delle convivenze, si
aggiungono, a poco a poco, sospetti ed indagini di polizia. Tra l’altro, una
polizia descritta in modo molto caricaturale, che se ci fosse Maigret farebbe
un salto mortale di disappunto. Ma non trovandosi il colpevole, ed essendo come
detto la polizia inutile, è “il popolo” che decide di additare i Krull come
responsabili, anche se non c’è nessuna prova concreta.
Certo Joseph è un po’ strano (introverso,
guardone, spesso con prostitute, mai a corteggiare ragazze). Certo Hans è
dirompente, straripante, ironico, seducente. Ma non servono prove, che il
popolo ha decretato l’ostracismo. Quindi, neanche i marinai entrano nel
bistrot, le mura vengono riempite da scritte offensive, si lanciano sassi alle
finestre. La maestria di Simenon lo porta a far montare da un lato un clima
d’odio insostenibile, dall’altra continuare a seguire le sbruffonate di Hans.
Tanto che anche il mite Cornelius sbotta e vorrebbe cacciarlo. Tanto che Maria
gli chiede di fuggire addossandosi la colpa dell’omicidio, così da far tornare
la pace dai Krull.
Simenon non ci dice chi è il colpevole, a
lui interessa descrivere come l’odio faccia il suo corso. Che sarà tragico. Ma
che avrà un epilogo ironico (che ribadisce l’immutabilità del comportamento
umano) che si svolge anni dopo la vicenda, sul bordo del lago di Stresa, che
risolve alcuni interrogativi, ma non quello dell’identità dell’assassino.
La scrittura di Simenon è sempre solida,
sempre piena di dialoghi, con cui spesso riesce a costruire storie anche
attraverso silenzi ed omissioni. Ma siamo alla fine degli anni Trenta, Simenon
ha girato a lungo l’Europa e il mondo, sta vedendo derive che presto
deflagreranno. Non può quindi esimersi dal ribadire la necessità di convivenze
pacifiche tra diversi, sottolineando i pericoli di un comportamento differente.
Ma non è, come si potrebbe pensare, un
pensiero isolato nel mondo di Simenon. Non pochi i momenti in cui compaiono
tematiche simili. Cito a memoria “Maigret in Olanda” o “L’assassino”, dove il
diverso, gli immigrati, i non integrati, vengono prima isolati, poi
colpevolizzati, fino a renderne impossibile una vita civile. Senza nessuna
prova: è il popolo che monta le sue accuse, trova i suoi colpevoli e cerca,
anche se fortunatamente non sempre trova, di farsi giustizia da sé. Col che
Simenon dimostra che anche se non si schiera, ha una sua visione del mondo.
Dove |
Protagonisti |
Altri interpreti |
Durata |
Tempo |
Cittadina francese non indicata |
Hans
Krull, tedesco, senza occupazione, celibe sui 25
anni |
Joseph
Krull, cugino francese di Hans, studente in
medicina, sui 25 anni Liesbeth
Krull, sorella di Joseph, liceale, 17 anno Cornélius
Krull, cestaio, padre dei precedenti Maria
Krull, la madre Pipi
e sua figlia Sidonie, vagabondi |
Circa
un mese |
Epoca
contemporanea alla scrittura, precedente la guerra |
Continuando nell’opera di contrapposizione,
visto che tutti sappiamo il rapporto tra Simenon e le donne, ecco allora che vi
porgo tre donne con citazioni di diverso peso, ma che a me sono servite molto
nelle parti che riguardano il tempo ed il suo scorrere.
Cominciamo con quella che viene più da
lontano nel tempo Sibilla Aleramo che nel suo “Una donna” ci porge
alcune riflessioni sul ruolo della donna e sul suo sentire.
“Ero forse pervenuta al sofisma di tante
donne che conciliano l’amore dei figli con la menzogna maritale? Il mio spirito
si raffigurava un avvenire di viltà felice fra le gioie materne e gli amplessi
dell’amante?” (71)
“Scrivendo, la mia impotenza a tradurre …
l’oscuro mondo interiore mi dava spesso una sofferenza acuta.” (106)
“Come mai tutte quelle intellettuali non
comprendevano che la donna non può giustificare il suo intervento nel campo già
troppo folto della letteratura e dell’arte, se non con opere che portino
fortemente la sua propria impronta?” (123)
“Il ridicolo è il maggior dissolvente d’ogni
spirito d’obbedienza.” (161)
Ci avviciniamo al presente con Anna Banti e “Noi credevamo”, con la forza dell’ultima riflessioni sui
nostri sforzi di ormai cinquanta anni fa:
“Brutta
storia accorgersi di avere un cuore, da giovane non mi accorgevo neppure di
avere un corpo.” (63)
“Inventando
di scompartire il tempo in mesi e settimane, l’uomo ha agito come il naufrago
che si misura avaramente il poco biscotto e l’acqua della borraccia. Così,
sbocconcellando la vita a porzioni di ventiquattr’ore, noi ci lusinghiamo di
durare eterni.” (83)
“Ma
io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta
dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo…”
(344)
Finiamo con Luisa Adorno che nel suo “Arco di luminara” ci ammonisce sulla confidenza verso i timidi
che in realtà sono manipolatori, ma soprattutto ci ricorda che stiamo
crescendo, ahi non sapete quanto:
“Tu
piuttosto, attenta ai timidi. Non ti lasciare intenerire, sono arrivata alla
conclusione che timido è colui che vorrebbe sopraffare gli altri.” (103)
“Questa
di veder sparire a uno a uno chi è stato testimone dei nostri giovani anni è la
condanna di chi ha vita più lunga.” (173)
Come vedete anche dalla difficoltà di mandare mail, stiamo nel ritiro estivo con una rete internet ridotto all’osso. Ma a tutto serve per ricaricare le batterie, stare in contatto con le persone che ci vogliono ed a cui vogliamo bene. Eppur tuttavia, non ci dimentichiamo di nessun ed a tutti mando un abbraccio.
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