domenica 10 agosto 2025

Estate alla Simenon - 10 agosto 2025

Torniamo come sempre e con periodicità alle letture del grande scrittore belga, ricordando e ringraziando il mio amico Roberto di un articolo e di un libro dedicato a Simenon di sicuro interesse (mio). Qui torniamo come sempre ai romanzi duri, scritti nel periodo 1938-39. Romanzi con qualche punta di esoticità (dovuta ai ricordi dei viaggi dell’autore) e qualche alto e basso di scrittura. Comunque, almeno questi, tutti sopra media, con una puntata verso l’alto del primo, letto ormai alla fine dello scorso anno (e si, ho un po’ rallentato la lettura simenonina).

Georges Simenon “I superstiti del Télémaque” Repubblica Simenon II 17 euro 9,90

[A: 10/07/2023 – I: 18/11/2024 – T: 19/11/2024] - &&&& 

[tit. or.: Les rescapés du Télémaque; ling. or.: francese; pagine: 185; anno 1938]

Dicevo nella fine delle precedenti trame che la metà degli anni Trenta è stata caratterizzata per Simenon da molti viaggi, anche lunghi, e dai relativi reportage, ma anche da grossi ritardi tra la scrittura dei suoi libri e la loro pubblicazione in volume, anche dovuta al cambio di editore avvenuto in quegli anni.

Così, tra un viaggio e l’altro, a fine ’35, in dicembre tiene una conferenza a Parigi, nella Sala Playel dal significativo titolo “L’avventura è morta”, poi si trasferisce in montagna, nell’Alta Savoia dove scrive “L’assassino”. Per riprendersi dai viaggi, poi, nel ’36 prima passa lunghi mesi nel sud della Francia, dove a Anthéor, su di una collina non distante da Cannes, scrive “Senza via di scampo”. Spostandosi poi nella sua amata Porquerolles dove si impegna a lungo per uno dei suoi testi più lunghi, “Il testamento Donadieu”.

Ma i romanzi duri hanno poco successo, quindi a metà dell’anno torna nella periferia di Parigi, a Neuilly, dove mette mano ad un grosso numero di nuove inchieste del commissario Maigret. Come d’uso, però, nell’ultima parte dell’anno, la famiglia Simenon si trasferisce in montagna. Questa volta siamo a Igls, nel Tirolo austriaco (praticamente a Innsbruck), dove compone questo nuovo romanzo duro, che vedrà la luce da Gallimard solo nel marzo del 1938.

In una delle poche prefazioni presenti nei suoi romanzi, è poi lo stesso Simenon che confessa come spesso i suoi romanzi siano un contrappasso rispetto al luogo in cui vengono scritti. Così è stato per il cupo e nebbioso “Faubourg” scritto nella solare Papeete. Altrettanto succede con questi “superstiti”, un romanzo che si svolge per la maggior parte dell’azione in luoghi di mare. Principalmente nella cittadina e nel porto di Fécamp, che tutti sanno essere affacciato sulla Manica, con piccole puntate a Le Havre e a Rouen.

È un testo strano, nell’economia dei non-Maigret. Dove c’è una piccola storia poliziesca, con morto e ricerca del colpevole, immersa in una grande saga familiare e marittima, nella quale, in particolare, l’autore ha interesse a seguire i comportamenti e le azioni dei due principali protagonisti, i gemelli Charles e Pierre Canut.

La storia di contorno è abbastanza intrigante. Nel 1906 (trent’anni prima) la nave “Télémaque” fa naufragio a largo di Rio de Janeiro. Dopo diversi giorni di ricerca, viene ritrovata una barca con cinque uomini a bordo: quattro vivi ed un morto. Morto con le vene tagliate. Suicidio? Omicidio dei sopravvissuti? Fatto sta che i quattro sono vivi perché hanno bevuto il sangue del morto. Ed il morto era il giovane Canut che lasciava a Fécamp la moglie che poco tempo dopo partorisce due gemelli.

La vedova, comunque, dà fuori di testa, maledicendo i quattro, e contando con gioia i tempi della loro morte. Nel presente dell’azione rimane in vita solo uno, l’anziano Emile Février, che all’inizio del romanzo viene trovato morto, accoltellato, nella sua abitazione. È abbastanza logico che, dati gli odii familiari, ed alcune prove indiziarie, venga ritenuto colpevole uno dei due gemelli, Pierre. Il capitano di pescherecci, benvoluto da tutta la città.

In questo quadro, l’interesse di Simenon è indagare sulla psicologia dei due gemelli, sulle loro azioni, sui loro comportamenti. Ma anche sul contesto sociale che contrappone uomini di mare e uomini di città.

Per il suo scopo, allora, l’autore ci fa seguire Charles, l’altro gemello, che, convinto dell’innocenza di Pierre, si mette in testa di scoprire come siano realmente andati i fatti. È così che scopriamo le due facce dei gemelli stessi. Che Pierre è quello di facciata, ma anche quello più debole. Mentre Charles è quello nell’ombra, e tuttavia la mente della coppia.

Charles è cagionevole di salute, si accontenta di un oscuro lavoro alle ferrovie, e di fare una corte molto lasca a Babette, una servetta della taverna locale. Ma è anche quello risoluto. Quello che ha fatto studiare Pierre, costringendolo sia a prendere il brevetto da capitano, sia a prendere il mare al comando dei battelli. Pierre si sa muovere in quei contesti, ma quando viene accusato non è capace di difendersi. Senza i suggerimenti di Charles, rimane un muto fantoccio che rischia di essere condannato anche se nessuno crede alla sua colpevolezza.

Seguiamo così Charles nelle sue peregrinazioni tra Fécamp, Rouen e Le Havre, seguendo false piste e viaggi senza un vero e proprio perché. E seguendo i suoi pensieri, e quasi la sua voglia di dimostrare che non solo nell’ombra si sa muovere. Accumula indizi, capisce che Gaston, un giovane scapestrato, possa essere coinvolto. E si mette a pedinare la matura Emma, amante di Gaston e forse anche del vecchio Emile. Alla fine, capisce tutto quello che è successo, ma mentre torna a Fécamp, la polizia, che lui aveva imbeccato, arriva alla conclusione. E quando Charles arriva a casa, Pierre è stato liberato, e tutta la città tributa omaggi al fratello.

Charles tornerà nel lato poco in luce della vita, riprenderà a far la corte a Babette, ha fatto tanto, ma nessuno gli rende merito, e la vita ricomincia così come all’inizio del romanzo. Un libro basato sulle possibilità, sull’inadeguatezza, sui contrasti (forte, ad esempio, lo spaesamento di Charles nelle aule giudiziarie). Sulla presenza sempre di due facce della stessa medaglia, una lucida ed una opaca. Gli attori non lo sapranno mai, noi, lettori esterni, si.

La penna di Simenon scivola piacevolmente tra le descrizioni, le azioni, i dialoghi, con quel modo tipico di portare avanti un discorso, accennato, per poi riprenderlo in presa diretta, magari con altri esiti. Con la sua scrittura pulita e diligente, l’autore ci porta a Fécamp, nei vari momenti e nei modi della vita cittadina. Vediamo la città svegliarsi, vediamo la tenue luce invernale far capolino dalla terra e poi l’opaco sole calare oltre il mare. Vediamo le moglie dei marinai nell’attesa del ritorno dei pescherecci, e poi affrettarsi verso il porto. Sentiamo sulla nostra pelle le gocce d’acqua salmastra mescolarsi alle gocce di pioggia, e penetrare fin dentro le nostre anime.

Un romanzo d’ambiente, triste e dolente come spesso nella penna del grande scrittore. Un affresco di provincia e delle sue minute e quotidiane avventure. Una bella lettura.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Fécamp, Rouen, Le Havre

Charles Canut, impiegato alle ferrovie, celibe, 33 anni

Pierre Canut, gemello di Charles, capitano di un peschereccio

Laurence Canut, madre dei gemelli

Emma, fiamminga, proprietaria di un bar, 45 anni circa

Gaston Paumelle, giovane scapestrato il cui padre era uno sei superstiti del Télémaque, 20 anni

Emile Février, vecchio marinaio, superstite del Télémaque, 66 anni

Babette, fidanzata di Charles Canut, servetta.

Una settimana circa

Epoca contemporanea alla scrittura

 

Georges Simenon “Il sospettato” Repubblica Simenon II 2 euro 9,90

[A: 27/03/2023 – I: 14/02/2025 – T: 16/02/2025] - &&& 

[tit. or.: Le suspect; ling. or.: francese; pagine: 142; anno 1938]

Torniamo ad occuparci degli scritti di Simenon nel periodo del suo maggior sforzo per affrancarsi (senza riuscirci) da Maigret e dar vita a romanzi “duri” (come vengono definiti in Francia), sotto la spinta della fucina degli autori di Gallimard, e con il confronto costante con il suo amico, al tempo, André Gide.

Siamo nel 1937, Simenon ha passato gli anni precedenti tra la scrittura d’amore e odio per Maigret, ed alcuni viaggi intorno al mondo, le cui esperienze riverserà in articoli e scritture varie. Ha iniziato l’anno a Poquerolles, l’isola di fronte a Marsiglia, spesso e volentieri suo buon rifugio (con moglie e governante-amante). Lì, tra febbraio e maggio, scrive un Maigret e due romanzi. Poi per l’estate, si sposta sul Lago Maggiore in Italia, dove, nell’hotel Verbano, sull’isola dei Pescatori, scrive “Corte d’Assise”. Ma dopo l’estate torna nella periferia parigina, e si installa nel boulevard Richard-Wallace a Neuilly-sur-Seine. Ed è qui che a settembre concepisce questo romanzo che scrive (e che si legge) tutto d’un fiato.

Li manda tutti a Gallimard, che, come sappiamo, ha i propri modi di concepire il lancio dei suoi scrittori. Motivo per cui questo, benché posteriore nella scrittura, è il primo ad essere pubblicato nel maggio del 1938.

Un romanzo per certi versi atipico: c’è tensione, ci sono situazioni che si susseguono senza pause, ma non ci sono omicidi (anche se ci possono essere delle morti), non ci sono reali misteri. C’è un uomo, la sua coscienza, un’atmosfera di tensione. E la capacità di Simenon di farci entrare subito nel vivo del problema, per poi spiegarci in corsa, quale sia il problema.

In effetti, tutto sembra cominciare in modo anodino. C’è un uomo, Pierre Chave, che vive con moglie e figlio in periferia di Bruxelles, fa il direttore di scena e tuttofare in un teatro di periferia. L’arrivo di un suo sodale francese ci fa subito capire altro. Pierre è un anarchico, fuggito dalla Francia per aver disertato l’esercito. Scrive sui giornali anarchici, portando avanti le sue ferme idee di libertà, mantenendo contatti con i suoi compagni parigini.

Ma Pierre è un teorico, e nuove leve anarchiche (ma forse anche infiltrate) portano il suo gruppo allo sbando, alla decisione di azioni dimostrative, di attentati contro obiettivi militari (una fabbrica di produzione di aerei). Coinvolgendo il suo piccolo protetto Robert in un’azione potenzialmente suicida.

Pierre allora decide di precipitarsi a Parigi per fermare la deriva del gruppo. Rischia grosso, può essere arrestato. Ma soprattutto non sa dove siano i suoi compagni, quale sia il reale obiettivo, e non sa soprattutto come fermarli. È comunque un uomo di principi, e sa che l’attentato potrebbe provocare molti morti tra gli operai della fabbrica.

È questo che seguiamo. Il percorso di Pierre, i suoi ragionamenti, la scoperta che il gruppo, sotto la spinta dei turpi slavi che sano venuti a proporre le azioni drastiche, lo ritiene un delatore. È lui il sospettato. Dalla polizia francese che lo sospetta come possibile autore dell’attentato e dagli anarchici che lo sospettano di tradimento.

È un uomo solo, che alla fine trova Robert e i cattivi ed ingaggia con loro una battaglia di idee. Sulle quali non potrà vincere (almeno verso i suoi ex). Ma non demorde, che a Pierre interessa evitare morti inutili. Scoprendo che c’è un solo mezzo per farlo. Ci riuscirà? O verrà anche qui sconfitto? In fondo, si troverà comunque solo. Forse arrestato, o forse di ritorno dalla moglie in un mondo che tuttavia continua a rifiutare.

La bravura di Simenon è quella di porci questi dilemmi morali, senza entrare nella spirale politica di discorsi anarchici o libertari (in fondo credo che sia un dibattito in cui difficilmente potrebbe dire un suo parere asettico e/o illuminante). Ci pone invece sempre di fronte all’uomo ed alle sue decisioni. Decisioni di vita. Decisioni di varcare quella linea d’ombra conradiana che pervade tutti i suoi scritti. E l’uomo (non in senso di genere) non è solo Pierre.

L’umanità è nella moglie che si interroga sulla giustezza del suo (del loro) amore che forse ha attenuato lo spirito ribelle di Pierre. È nell’amico che riesce a prendere sempre decisioni sbagliate, mettendo in pericoli amici ma anche potenziali nemici. È nel poliziotto belga che frequentando la casa di Pierre si immedesima nel mondo quotidiano dell’anarchico.

Ed ovviamente è in Pierre: fino a dove si deve spingere? Fino a dove la sua vita vale più di quelli dei possibili operai morti? Pierre, fermo oppositore di qualsiasi tipo di violenza, dovrà decidere se usare la violenza per fermare altra violenza. Pierre soffre nel vedere che il mondo è fatto male e vorrebbe porvi rimedio, ma sa che il terrorismo come metodo di lotta politica è una strada senza uscita.

L’altro forte punto di positività della scrittura è nell’ambientazione, nella descrizione dei luoghi. Tutti descritti al meglio dalla sua penna: il teatro dove lavora Pierre, la casetta di Schaerbeek dove vivono Pierre e Marie, ma soprattutto tutti i bistrot, belgi e francesi, teatri di varie scene del romanzo. E tutti gli elementi di contorno che sapientemente dosa nel corso della vicenda: la pioggia gelida che bagna fino al midollo, il tabacco delle sigarette di Pierre e della pipa del poliziotto, il sudore che gronda dalla fronte dei sospetti. Tutti piccoli tocchi di un grande scrittore che sa come e dove ambientare i suoi romanzi.

E benché non sappia condividere le idee di Pierre, riesce a farcelo vivere dipingendogli in fondo agli occhi un luminoso momento di speranza. Portandoci in poche sapienti pagine in una descrizione di un momento di vita che avanza senza fronzoli ma ponendoci, delicatamente, la sua domanda di fondo, quella che forse lo aveva portato a cominciare a scrivere questo testo: si deve sempre lottare per quello in cui si crede

Un ultimo aspetto curioso è poi legato al romanzo: per iniziativa di Simenon, nel 1943, il manoscritto originale fu messo all’asta devolvendo il ricavato a beneficio dei prigionieri di guerra.

“Fin da piccolo, non aveva mai potuto evitare di fare una sciocchezza quando capitava l’occasione.” (26)

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Schaerbeek (Bruxelles), Courbevoie, Puteaux

Pierre Chave, francese, stabilitosi a Schaerbeek. Direttore di scena teatrale, sposato, un figlio piccolo, membro di un gruppo anarchico

Marie, sposa di Pierre

Robert, giovane anarchico, galoppino di un giornale parigino

K…, anarchico d’origine slava, 30 anni

Meulemans, commissario di polizia belga

Tre o quattro giorni circa

Epoca contemporanea alla scrittura

 

Georges Simenon “Turista da banane” Repubblica Simenon II 18 euro 9,90

[A: 14/07/2023 – I: 06/06/2025 – T: 08/06/2025] - &&&  e ½

[tit. or.: Touriste de bananes ou Le dimanches de Tahiti; ling. or.: francese; pagine: 189; anno 1938]

Come detto nell’introduzione al precedente romanzo, siamo nel periodo di odio verso Maigret e tentativo di dar vita ad una sua idea di letteratura. Non è il caso, quindi, che in questi romanzi la tensione si presenti in forme diverse, e, laddove ci siano dei morti, questi non siano il centro della trama, ma uno degli accidenti.

Va inoltre detto che, leggendone io in cronologia di pubblicazione, mi ritrovi a volte a tornare sui miei passi. Perché Gallimard che cura le edizioni di Simenon ha i suoi tempi tecnici di uscita. Ed infatti, questo romanzo leggermente atipico, è scritto prima del precedente, ad inizio dell’estate del ’37, quando la famiglia Simenon era tutta riunita nella villa “Les Tamaris” sull’isola di Porquerolles, dove, l’8 di giugno finisce di scriverne (e notate che esattamente ottantotto anni dopo nello stesso giorno, io finisca di leggerne).

Pur essendo poi un periodo fecondo, non tutte le uscite del periodo hanno la stessa valenza letteraria, se pensate ad esempio che poco prima di questo aveva terminato uno che per me è nella ristretta cerchia dell’élite della sua produzione (“L’uomo che guardava passare i treni”). Inoltre, questo è una specie di romanzo ibrido: da un lato cerca una profondità come nell’epopea di Popinga, dall’altra si lega a quel giro del mondo di cui molto rimase nei suoi appunti. Ricordiamo, infatti, che dal dicembre ’34 al maggio ’35 Simenon passa 155 giorni “per fare il giro del mondo”. In una ridda di notizie locali che riverserà in almeno sei libri “Touriste de bananes” (di cui stiamo parlando), “Quartier Nègre” (“Quartiere Negro”, ambientato a Panama), “Long cours” (“Il Cargo”, in Colombia e Papeete), “Ceux de la soif” (“Gli assetati”, alle Galapagos), “L'Aîné des Ferchaux” (“Il primogenito dei Ferchaux”, anche qui con un passaggio in Colombia), “Le Passager clandestin” (“Passeggero clandestino”, in un cargo durante la traversata da Panama a Tahiti).

Dicevo ibrido, che questo è l’unico romanzo non di Maigret in cui ritorna un personaggio di un libro precedente, però spostato in un diverso contesto. Perché qui ritroviamo Oscar Donadieu detto Kiki, il giovane rampollo quindicenne che avevamo incontrato nel “Testamento Donadieu”. E Simenon usa anche un rimando trasversale per farci capire quanto le due vicende siano legate: il sottotitolo del romanzo è “Le domeniche di Tahiti”. Ricordandovi che il balzacchiano testamento era diviso in tre parti: le domeniche di La Rochelle, le domeniche di Saint-Raphaël e le domeniche di Parigi.

Segnato da tutta quella vicenda, in particolare dalle morti e dai suicidi finali, passati diversi anni, troviamo Kiki che cerca di allontanarsi sempre più da quella vicenda, sperando, immaginando, che mettere miglia e miglia tra sé e La Rochelle, possa permettergli di cambiare la propria vita.

Quindi si imbarca sul cargo “l’Île-de-Ré”, per trasferirsi nella Polinesia francese, che si immagina, e come lui tanti, un luogo vergine, dove vivere a contatto con la natura, lasciando in patria tutti i propri problemi. Ma ben sappiamo che se non si comprende (e Oscar non lo fa) quale sia la vera ragione della voglia di fuggire, soprattutto quando i motivi derivano da difficoltà interiori, i  problemi che vogliamo lasciare, emigreranno con noi.

La narrazione è divisa in varie sezioni, anche se scorre tra le pagine con la solita facilità di scrittura di Simenon. Quella facilità che gli permette spesso di saltare i passaggi logici e le descrizioni puntuali. Si accostano dialoghi diversi, si affastellano descrizioni di luoghi, ed ecco che, come per magia, il lettore ricostruisce la trama, e segue le vicende nella sua testa in maniera molto più coerente del testo. Se mi si consente un paragone, è come se scrivesse una sceneggiatura sommaria, e noi, leggendone, la trasferissimo in un continuum da film.

All’inizio siamo sul cargo, dove vediamo Oscar scontrarsi, psicologicamente e fisicamente, con diverse realtà. Lui, benestante in disgrazia che deve ora stare attento ad ogni franco che spende, vede il contrasto tra i passeggeri di prima e di seconda classe (che Simenon descrive con veloci tratti di penna, volando tra tavole imbandite e serate danzanti). Oscar non fa amicizie (vorrebbe parlare con il missionario, ma riesce solo a giocarci a scacchi, vorrebbe intrattenersi con il telegrafista, ma riesce a scambiarci due parole solo all’arresto del comandante Lagre), pensando appunto di arrivare nella natura, e vivere con i rigogliosi frutti locali.

Mentre affrontano due parole su Lagre, su cui torneremo, Oscar viene anche edotto del ruolo che probabilmente andrà a ricoprire, e da cui deriva il titolo. È il telegrafista che gli spiega: “… «turista da banane». … È una espressione che usiamo noi, sulle navi, per indicare quelli che partono per le isole con l’idea di vivere a contatto con la natura, lontano dal mondo, in un posto dove i soldi non servono e ci si può nutrire di banane e noci di cocco… Di tipi così se ne incontrano a ogni traversata… Hanno in tasca giusto quanto basta per arrivare laggiù… Cercheranno una capanna abbandonata dagli indigeni, dopodiché, in capo a qualche mese anemici e ammalati, si presenteranno alla polizia o al consolato per farsi rimpatriare…” (17)

L’altro elemento che serve a Simenon per rappresentare il contraltare immediato dell’isola è il comandante Ferdinand Lagre, uomo apparentemente integerrimo, con famiglia in Francia, che lì sulle isole si invaghisce di Tamatéa, una delle tante donne libere dell’isola, che passano il tempo “di fiore in fiore”. Lagre non ne capisce la mentalità, e quando Tamatéa si accompagna anche con un altro marinaio, Lagre lo uccide.

Quindi abbiamo i due mondi che arrivano a Tahiti. Oscar che cerca la natura, Lagre che deve essere processato. Ma i giudici e gli avvocati sono gli stessi francesi che in altre vesti (quelle dei dissoluti espatriati) Oscar incontra nei bar e negli hotel. Mentre Simenon non disdegna di colpire anche i locali, che per folklore indossano strass e paillettes e suonano ukulele, per poi, finita la festa, indossare le vesti normali.

Oscar si scontra così con gli ubriaconi tristi e dissoluti e le donne di facili virtù (anche se Simenon qui riesce a non biasimare le “escort” locali, anche perché credo ne abbia approfittato alquanto). Lui che era partito in quarta con gli slogan interiori basta con i soldi, basta con i doveri sociali, basta con le facciate di convenienza, se ne ritrova invischiato. Vuole fuggire, ma è preso dalla trappola di Tahiti.

Alla fine, benché diversi nell’esito, i destini di Lagre e di Oscar sono simili: per propria malposta rettitudine il primo, per naufragio dei propri ideali il secondo, andranno miseramente a fondo, lasciando che a sopravvivere siano gli ubriaconi, gli affaristi, gli sfruttatori, le facili donnine. Insomma, tutta la possibile schiera di opportunisti che riempiono l’isola, ma anche tutto il resto del mondo.

Mi piace ricordare un passaggio, forse marginale, in cui con pochi tratti Simenon ci rende vivida la rappresentazione di uno dei tanti uomini “cattivi” dell’isola. Un albergatore maleducato che, per parlar male degli immigrati cinesi, dice che non solo puzzano di aglio ma puzzano … di cinese. Oppure, parlando in vecchio depravato, ci dice che l’unico suo interesse era contare il numero dei figli che aveva seminato nell’isola.

L’ultimo elemento che va ricordato è l’uso delle descrizioni atmosferiche. Come quando ci parla delle mattine parigine, o dei desolati pomeriggi del “plat pays”. La descrizione reiterata del caldo soffocante e della pioggia impietosa che flagellano l’isola sono un’ulteriore riprova dell’impossibilità, per un esterno, di inserirsi nel tessuto isolano. Sono due mondi distanti e chi ne cerca la sintesi non può che finirne schiacciato.

“Al giorno d’oggi il mondo cambia … Non c’è quasi più niente di sicuro … alla fine c’è sempre la pensione, vale a dire la certezza che, qualunque cosa succeda, si potrà concludere decentemente la propria esistenza.” (123) [meditate …]

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

A bordo del cargo « l’Île-de-Ré », durante la traversata da Marsiglia a Tahiti. Poi Tahiti

Oscar Donadieu detto Kiki, figlio cadetto della famiglia Donadieu (vedi romanzo relativo), celibe, 25 anni.

Ferdinand Lagre, comandante della nave “l’Ile-d’Oléron”

Tamatéa, tahitiana, escort di Papeete

Qualche mese

Epoca contemporanea alla scrittura

 

Georges Simenon “Le sorelle Lacroix” Repubblica Simenon II 28 euro 9,90

[A: 25/09/2023 – I: 24/06/2025 – T: 25/06/2025] - &&&  

[tit. or.: Les sœurs Lacroix; ling. or.: francese; pagine: 167; anno 1938]

Dopo aver passato anni turbolenti intorno al mondo, forieri di molti scritti “non romanzi”, ma anche di molti spunti per i suoi romanzi, il 1937 è un anno di spostamenti tra diverse case, tra soggiorni di piacere e ipotesi di costruzione di una dimora più stabile. Ovviamente in ogni spostamento, non manca mai la scrittura, che non lo abbandona mai.

Così passa parte dell’estate sull’Isola dei Pescatori, nel Lago Maggiore (dove scrive “Corte d’assise”), poi a settembre torna in quella che per ora è la casa di famiglia a Neuilly (dove completa “Il sospetto”). Si concede un autunno in Calvados, a Port-en-Bassin dove concepisce e scrive “La Marie del porto”, in modo per lui inusuale: redige la maggior parte del testo in luoghi vicini a dove si svolge l’azione descritta. Poi si sposta nel centro della Francia, a Saint-Thibault-sur-Loire dove scrive questo testo, ma avendo ancora negli occhi le immagini del Calvados, non a caso, infatti, l’azione si svolge a Bayeux.

Ed infatti è il clima familiare del lungo soggiorno nel Calvados, che ispira alcuni romanzi dove forte è la tensione psicologica all’interno della famiglia. Sempre ricordando che Simenon non ebbe un’infanzia facile o felice, oppresso dal sentimento di mancanza dovuto alla morte del padre ed alla forte ed ossessiva personalità della madre. Un ricordo che qui si riflette nel modo interno alla famiglia Lacroix di chiamarsi: come nella famiglia Simenon, i figli chiamano i genitori “madre” e “padre” anziché “mamma” e “papà”.

Quindi, questo Balzac senza la sua lunghezza, questo Tolstoj con poco amore, mette in scena un potente dramma familiare, dove il ruolo centrale lo prendono le due sorelle Lacroix, Poldine e Mathilde. Non sappiamo la loro infanzia, ma di certo, da quello che vediamo in questa maturità vicina all’anzianità, non depone certo né per un ambiente sereno, né per rapporti di pacifica fratellanza.

Simenon ci immerge subito a metà del guado, fa scorrere un’ottantina di pagine in cui sale la tensione, senza che se ne capiscono realmente i motivi, poi si scatena e lancia i suoi strali contro questo perbenismo campagnolo. Mathilde Lacroix sposa un pittore simpatico ma squattrinato, Emmanuel, da cui ha un figlio, Jacques. Nella casa di famiglia (che i Lacroix hanno una buona e solida posizione economica), vive anche la sorella Poldine. Nel bovarysmo della provincia francese, Emmanuel e Poldine diventano amanti. E qui nasce il dramma: Mathilde li scopre e Poldine rimane incinta di Sophie. Poldine fa un matrimonio riparatore con un personaggio che non sarà mai presente nel dramma. Intanto Mathilde intima a Emmanuel di non uscire mai dalla soffitta dove dipinge, se non per mangiare e dormire. E di non parlarle più. Nonostante ciò, due anni dopo lei partorisce Geneviéve.

Questa è quindi la foto in cui ci fa immergere Simenon: le due sorelle che si guardano in cagnesco, magari facendosi piccoli dispetti, Emmanuel rinchiuso in soffitta, muto e solitario, Jacques e Sophie che hanno la sola mira di andarsene al più presto, e Geneviéve che introietta tutti i mali del mondo, e comincia a deperire per consunzione (non trova motivi per vivere, se non nella preghiera).

Il clima claustrofobico ci viene rimandato da piccole frasi, da gesti, da pasti consumati in silenzio, da preghiere che si innalzano mute e inascoltate. Con tutta una rete di piccoli dissapori, come il tentativo (di chi? Forse di più di uno), di avvelenare la famiglia a poco a poco. Ovvio che non potrà andare avanti all’infinito. Raggiunta la sua colma misura, Emmanuel si impicca, lasciando tutti i suoi averi alla figlia piccola. Jacques e Sophie si sposano per uscire dal clima familiare.

E Geneviéve continua a deperire, non cammina più, non si alza più dal letto, dove, in punto di morte, ammonisce mamma e zia: “quando me ne sarò andata, rimarrete sole”. Ed infatti, alla fine, lei morta, le due sorelle rimarranno sole, avvolte nel loro odio reciproco, prigioniere di questo odio che le unisce e le divide.

Simenon scrive un romanzo fortemente psicologico (che deve molto ad alcune atmosfere mutuate da letture o notizie di Freud), ma che costruisce come un giallo. Fa montare la tensione, scopre i dettagli con lentezza, ci fa capire chi siano i colpevoli, ma anche che la loro punizione è in questa terra, in quel modo di non poter vivere separate, ma soprattutto di fare di tutto per rendere impossibile la vita all’altra sorella.

Si nota anche, ma solo per i palati fini e per chi pensa all’opera dell’autore nel suo complesso, la fatica di Simenon stesso a continuare la sua routine familiare, laddove si va allontanando sempre più dalla moglie Tigy, pur non potendo, non volendo rompere (tanto che l’anno successivo nascere il loro primogenito Marc). Se non ci fosse stata la guerra, forse la rottura sarebbe avvenuta prima. Ma i tempi bui si avvicinano, e Simenon, per ora, si accontenta di trasferire su carta tutte le sue paure.

 

Dove

Protagonisti

Altri interpreti

Durata

Tempo

Bayeux

Il ruolo principale è doppio, per le sorelle Lacroix:

Léopoldine, detta Poldine, vedova di Roland Desborniaux, una figlia

Mathilde, la sorella minore, sposata, due figli

Entrambe d’età matura.

Emmanuel Vernes, pittore, marito di Mathilde, d’età matura

Jacques Vernes, apprendista notaio, 22 anni

Geneviève Vernes, 17 anni

Sophie Desborniaux, 20 anni

Circa 6 mesi

Epoca contemporanea alla scrittura, precedente la guerra

 

Georges Simenon “La casa dei Krull” Repubblica Simenon II 5 euro 9,90

[A: 14/04/2023 – I: 23/07/2025 – T: 25/07/2025] - &&&  

[tit. or.: Chez Krull; ling. or.: francese; pagine: 208; anno 1939]

Ricordando sempre che c’è un notevole divario temporale tra la scrittura di Simenon e la pubblicazione presso Gallimard, non ci stupiamo se questo romanzo in realtà viene terminato nel luglio dell’anno precedente. Tra l’altro in un momento di relativa stabilità di vita (almeno di case, visto che la sua vita fu solo apparentemente stabile negli anni Trenta). Per cui tra il novembre del 1937, quando termina di scrivere delle sorelle Lacroix ed il luglio del 1938 quando mette il punto finale alla casa dei Krull, si occupa in partica solo di acquisti immobiliari e di spostamenti.

Compra infatti a Nieul-sur-Mer (nella Charente-Inférieure) una grande casa familiare, che necessita sia loro di sistemazione che un cospicuo tempo per lo spostamento dei mobili. Finisce così di rimanere nella sua abbastanza amata La Rochelle. Dove la famiglia Simenon alloggia in rue Jeanne d'Albert. Qui, dedicandosi molto alla sua scrittura veloce, compone un gran numero di novelle. E qui termina questa nuova saga familiare, anche qui con un forte accento sul lato psicologico dei rapporti umani. Ma anche sulle difficoltà di integrazione degli immigrati (come lui spesso si è sentito nel corso della sua vita).

Intanto, cominciamo il percorso del testo con due rimandi. Agli inizi degli anni Trenta, Simenon tentò la strada di un romanzo con immagini, dove scrisse il testo ed una fotografa lo corredò con 104 fotografia. La fotografa si chiamava Germaine Krull, profuga polacca, una delle più talentuose fotografe della prima metà del secolo scorso. Non solo, ma nel 1932, uno dei personaggi del libro “Il passeggero del ‘Polarlys’”, ex-avvocato e fuggiasco, si chiamava Peter Krull. Deve essere per questi ricordi che rimangono in testa, che quando dovette battezzare una famiglia inserita in un contesto ostile, riprende il cognome. E dà vita a questa lunga ballata presso la famiglia Krull.

Una ballata che, al fondo, è un lungo grido di dolore rivolto all’odio verso il diverso. Facendo anche una specie di cross-over, visto che, oltre all’aspetto esterno, all’interno del nucleo familiare si innescano litigi e gelosie che ricordano alla lontana il precedente libro scritto dal nostro (“Le sorelle Lacroix”, per l’appunto).

In una cittadina non identificata (e questo è un po’ strano per Simenon) si è trasferita una famiglia tedesca, i Krull. Hanno aperto una bottega-rivendita di liquori. Ma non si sono mai integrati con la comunità locale. Tanto che la bottega è frequentata praticamente solo dai marinai di passaggio sulle chiatte che attraversano la campagna scendendo di chiusa in chiusa lungo il fiume (quella dei canali e delle chiuse è un’altra delle fisse topografiche di Simenon).

I Krull sono composti da Cornelius, il padre, accondiscendente, schivo, che cerca di smussare tutti punti di attrito. Da Maria, la madre, il motore della famiglia, colei che manda avanti la bottega e che deve avere per forza contatti con i locali, senza alcun successo. Poi ci sono i figli: Anna (trent'anni), cameriera di un negozio di alimentari in una città vicina ed aiutante della madre, Joseph (venticinque anni), uno studente di medicina in via di laurearsi, ma con grossi problemi comportamentali, e Liesbeth (diciassette), studentessa delle superiori.

La relativa stabilità dei Krull viene incrinata dall’arrivo del cugino Hans, coetaneo di Joseph, che dice di essere fuggito dalla Germania per motivi politici, ma che fondamentalmente è uno scroccone, bugiardo e meschino. Che prende la vita sottogamba, che seduce subito l’ingenua Lisabeth. Che cambia versione ogni dieci pagine sui motivi della sua fuga. Che cerca contatti con i locali, ma solo per poter scroccare qualcosa (come farà abilmente con il futuro suocero di Joseph).

Questo già precario equilibrio viene completamente distrutto dalla morte di una ragazza, figlia di una vagabonda locale. Morte non naturale, così che, ai disagi sociali delle convivenze, si aggiungono, a poco a poco, sospetti ed indagini di polizia. Tra l’altro, una polizia descritta in modo molto caricaturale, che se ci fosse Maigret farebbe un salto mortale di disappunto. Ma non trovandosi il colpevole, ed essendo come detto la polizia inutile, è “il popolo” che decide di additare i Krull come responsabili, anche se non c’è nessuna prova concreta.

Certo Joseph è un po’ strano (introverso, guardone, spesso con prostitute, mai a corteggiare ragazze). Certo Hans è dirompente, straripante, ironico, seducente. Ma non servono prove, che il popolo ha decretato l’ostracismo. Quindi, neanche i marinai entrano nel bistrot, le mura vengono riempite da scritte offensive, si lanciano sassi alle finestre. La maestria di Simenon lo porta a far montare da un lato un clima d’odio insostenibile, dall’altra continuare a seguire le sbruffonate di Hans. Tanto che anche il mite Cornelius sbotta e vorrebbe cacciarlo. Tanto che Maria gli chiede di fuggire addossandosi la colpa dell’omicidio, così da far tornare la pace dai Krull.

Simenon non ci dice chi è il colpevole, a lui interessa descrivere come l’odio faccia il suo corso. Che sarà tragico. Ma che avrà un epilogo ironico (che ribadisce l’immutabilità del comportamento umano) che si svolge anni dopo la vicenda, sul bordo del lago di Stresa, che risolve alcuni interrogativi, ma non quello dell’identità dell’assassino.

La scrittura di Simenon è sempre solida, sempre piena di dialoghi, con cui spesso riesce a costruire storie anche attraverso silenzi ed omissioni. Ma siamo alla fine degli anni Trenta, Simenon ha girato a lungo l’Europa e il mondo, sta vedendo derive che presto deflagreranno. Non può quindi esimersi dal ribadire la necessità di convivenze pacifiche tra diversi, sottolineando i pericoli di un comportamento differente.

Ma non è, come si potrebbe pensare, un pensiero isolato nel mondo di Simenon. Non pochi i momenti in cui compaiono tematiche simili. Cito a memoria “Maigret in Olanda” o “L’assassino”, dove il diverso, gli immigrati, i non integrati, vengono prima isolati, poi colpevolizzati, fino a renderne impossibile una vita civile. Senza nessuna prova: è il popolo che monta le sue accuse, trova i suoi colpevoli e cerca, anche se fortunatamente non sempre trova, di farsi giustizia da sé. Col che Simenon dimostra che anche se non si schiera, ha una sua visione del mondo.

 

Dove

Protagonisti

Altri interpreti

Durata

Tempo

Cittadina francese non indicata

Hans Krull, tedesco, senza occupazione, celibe sui 25 anni

Joseph Krull, cugino francese di Hans, studente in medicina, sui 25 anni

Liesbeth Krull, sorella di Joseph, liceale, 17 anno

Cornélius Krull, cestaio, padre dei precedenti

Maria Krull, la madre

Pipi e sua figlia Sidonie, vagabondi

Circa un mese

Epoca contemporanea alla scrittura, precedente la guerra

 

Continuando nell’opera di contrapposizione, visto che tutti sappiamo il rapporto tra Simenon e le donne, ecco allora che vi porgo tre donne con citazioni di diverso peso, ma che a me sono servite molto nelle parti che riguardano il tempo ed il suo scorrere.

Cominciamo con quella che viene più da lontano nel tempo Sibilla Aleramo che nel suo “Una donna” ci porge alcune riflessioni sul ruolo della donna e sul suo sentire.

“Ero forse pervenuta al sofisma di tante donne che conciliano l’amore dei figli con la menzogna maritale? Il mio spirito si raffigurava un avvenire di viltà felice fra le gioie materne e gli amplessi dell’amante?” (71)

“Scrivendo, la mia impotenza a tradurre … l’oscuro mondo interiore mi dava spesso una sofferenza acuta.” (106)

“Come mai tutte quelle intellettuali non comprendevano che la donna non può giustificare il suo intervento nel campo già troppo folto della letteratura e dell’arte, se non con opere che portino fortemente la sua propria impronta?” (123)

“Il ridicolo è il maggior dissolvente d’ogni spirito d’obbedienza.” (161)

Ci avviciniamo al presente con Anna Banti e “Noi credevamo”, con la forza dell’ultima riflessioni sui nostri sforzi di ormai cinquanta anni fa:

“Brutta storia accorgersi di avere un cuore, da giovane non mi accorgevo neppure di avere un corpo.” (63)

“Inventando di scompartire il tempo in mesi e settimane, l’uomo ha agito come il naufrago che si misura avaramente il poco biscotto e l’acqua della borraccia. Così, sbocconcellando la vita a porzioni di ventiquattr’ore, noi ci lusinghiamo di durare eterni.” (83)

“Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo…” (344)

Finiamo con Luisa Adorno che nel suo “Arco di luminara” ci ammonisce sulla confidenza verso i timidi che in realtà sono manipolatori, ma soprattutto ci ricorda che stiamo crescendo, ahi non sapete quanto:

“Tu piuttosto, attenta ai timidi. Non ti lasciare intenerire, sono arrivata alla conclusione che timido è colui che vorrebbe sopraffare gli altri.” (103)

“Questa di veder sparire a uno a uno chi è stato testimone dei nostri giovani anni è la condanna di chi ha vita più lunga.” (173)

Come vedete anche dalla difficoltà di mandare mail, stiamo nel ritiro estivo con una rete internet ridotto all’osso. Ma a tutto serve per ricaricare le batterie, stare in contatto con le persone che ci vogliono ed a cui vogliamo bene. Eppur tuttavia, non ci dimentichiamo di nessun ed a tutti mando un abbraccio.

 

Nessun commento:

Posta un commento