Lorenza Gentile “Tutto il bello che ci
aspetta” Feltrinelli s.p. (Regalo Feltrinelli)
[A: 07/05/2025 – I: 11/05/2025 – T: 12/05/2025]
&&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 312; anno:
2024]
Qui,
pur mantenendo il tono generale, nonché qualche uscita condivisibile,
l’impianto globale è un po’ più scontato e prevedibile. Forse anche dovuto al
tributo che l’autrice stessa confessa di aver rivolto a qualche ashram
pugliese, dove, se ben interpretiamo le parole, deve aver trascorso del tempo
giovanile.
Qui
seguiamo la storia di Selene, una giovane trentacinquenne che, fermatasi un
momento a pensare alla sua vita, si rende conto che non ha fatto nulla di
quello che voleva fare, e quando invece l’ha fatto il risultato è andato da
male a catastrofe. Certo, non ha un affetto stabile, pur tuttavia gestisce un
ristorante, cosa che confessa di aver sognato da sempre. Tuttavia, il suo
“Nuvola” non decolla, anzi è sull’orlo del fallimento. Nessuna recensione
positiva, clienti che non ritornano, e tante altre piccole cose che non vanno
(mutui in scadenza, banche che non finanziano). In questi casi cosa si fa?
Ci
si arma di santa pazienza, si affrontano i problemi uno per volta, con l’idea
guida di dove vogliamo arrivare. Oppure si scappa. Indovinate cosa fa Selene?
Con l’illusione che tornare al punto di partenza le avrebbe permesso di
riavvolgere il filo della sua vita, per poi srotolarlo magari in una diversa
direzione. Qui entriamo nel modo di affrontare la vita, e certo un romanzo
leggero non permette disquisizioni ampie. Fatto sta che, da qui in poi, per
quello che vediamo in presa diretta, Selene riesce a fare tutto quello che non
si dovrebbe fare, se si vuole cambiare il senso delle proprie cose.
Tornata
nella Puglia della sua infanzia, tra un lamento e l’altro su tutte le cose
perdute, a spizzichi e bocconi, ricostruiamo la sua storia. Intanto ritrova,
anche se malata (ma lei non lo sa) la sua vecchia tata Flora, che pensa bene e
con giusta ragione di insegnarle (o ricordarle) tutte quelle ricette
territoriali che potrebbero fare la fortuna di un ristorante non modaiolo ma
concreto. E trova persone che la aiutano senza voler nulla in cambio. Si tratta
di buon uso delle giuste maniere.
L’altro
elemento, che è poi la spina dorsale del racconto, è il modo in cui da bimba la
sua famiglia si era trasferita da Milano in quel di Puglia. C’è uno strano
rapporto tra i genitori, libertari entrambi e dediti alla ricerca di una vita
rispettosa dell’ambiente. In base a non si sa quali decisioni, è il padre,
molto addentro nella spiritualità indiana, che convince (obbliga) la famiglia a
trasferirsi in un ashram. Per non andare sino in India, va bene pure uno dei
tanti che sorsero nelle Puglie (e nella Sicilia) il secolo scorso.
Così,
mentre non riesce ad affrontare il presente, Selene rinvanga quella vita, le
amicizie, i (forse) amori, i rapporti intrecciati ma mai portati in fondo. Ma
dopo alcuni anni, a fronte di una irrinunciabile proposta lavorativa, la madre
decide di tornare “alla civiltà”, prima a Milano con le figlie, e poi, queste
cresciute, con un prestigioso posto in America. Il padre invece prima rimane
nell’ashram, poi, finalmente diremo noi, se ne va per l’India ed altri posti
spirituali.
Riamane
Selene, che non si perita di aver perso i contatti con i ragazzi dell’ashram,
che cerca (anche) di ricostruire un rapporto con la sorella, che dovrebbe
superare l’amore-odio per il padre. Molto ricostruisce, molto ritrova,
soprattutto con l’aiuto delle poche parole di Flora, ma delle tante di qualche
“amica ritrovata”. Ed anche perché, finalmente, si fida del cuoco che ha
lasciato a Milano che, stravolgendo le idee moderniste (ma non condivise) di
Selene, sta facendo risorgere il ristorante.
Capendo
che a volte è necessario perdersi e sbagliare strada per trovare il coraggio di
seguire i propri sogni, sembra che finalmente Selene possa affrontare il bello
del futuro che tutto ci si aspetta. Ci sono molto rivoletti nella fluente
scrittura di Lorenza, anche se, oltre a questo tema su come affrontare il
proprio futuro, ci sono (possibili) discussioni sugli alternativi del secolo
scorso e su quanto abbiano portato non dico di male, ma di incoerenza di vivere
nel nostro oggi, permettendo che i sogni di base fossero occupati dagli emuli
di Berlusconi.
Un
solo piccolo appunto di cross-lettura, dove a pagina 14, pensando al ristorante
dei suoi sogni, Selene immagina “un tavolo unico in condivisione, tovaglie a
quadretti, colori vivaci”. Esattamente il ristornate che mette in piedi la
cuoca Katharina Schweitzer uscita dalla penna gialla di Brigitte Glaser. Un
incrocio che mi ha divertito.
“Non siamo eterni, sai? Alla mia età
cominci a pensarci. Bisogna approfittare di ogni momento.” (103)
Nadia Terranova “Quello che so di te”
Guanda s.p. (Regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2025 – I: 16/05/2025 – T: 19/05/2025]
&&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 261; anno:
2025]
Di Nadia Terranova ho letto spesso, a suo
tempo, gli articoli su “Repubblica” e, come tutti i giornalisti, ha di sicuro
una penna spigliata. Tanto che ora, ho letto, cura una rivista letteraria edita
la Linkiesta. Non avevo invece mai letto nulla di romanzesco per cui ho
approfittato della vicinanza con la cinquina del Premio Strega (anche su consiglio
della mia amica libraia) per avvicinarmi a questo scritto.
Una scritto che mi è piaciuto il giusto, con
alcuni punti però in cui mi era difficile seguire la scrittura. Sono un lettore
basic, per cui salti, rimandi, pensieri incasinati, a volte mi frenano nella
lettura e nell’empatia verso lo scritto. Uno scritto che pensavo fosse un
memoir familiare, mentre alla fine è qualcosa di leggermente più complesso. Si
indagano i momenti familiari, le storie mitologiche di parenti sconosciuti, ma
questi si intrecciano con il presente della scrittrice.
Nadia sente infatti la necessità di
approfondire la storia della bisnonna Venera che la mitologia familiare vuole
fosse internata in una struttura psichiatrica (il Mandalari di Messina) nel
1928. Una ricerca che si intreccia con il presente di Nadia, da poco madre, con
la paura di essere colpita dalla stessa tara della famiglia, magari andando
fuori di testa. Una paura che, credo da esterno, molte madri abbiano avuto nei
primi momenti di condivisione di una nuova vita.
Nadia si attiva come un investigatore
privato da giallo doc, per cercare le tracce della bisnonna. La Mitologia
Familiare le riportava che, incinta della terza figlia, un giorno al circo cade
per le scalette e si procura un aborto, dando alla luce una bambina morta. Un
lutto che colpisce Venera, che si chiude in un mutismo straniante. Tanto che il
marito ne chiede e ottiene il ricovero per un paio di settimane al Mandalari,
all’epoca dei fatti l’ospedale psichiatrico di Messina. Ospedale da cui esce
mutigna, ma capace di badare alla famiglia, nonché di procreare altri bambini
sani.
Per seguire le tracce di Nadia, cerca negli
Archivi, cerca di parlare non con chi c’era che sono tutti morti, ma con chi ha
preso il bastone degli anni successivi. E trova. Trova documenti, schede di
ricovero, diagnosi. Tutto un castello di carta che smentisce la Mitologia.
Venera non aveva avuto nessun aborto né spontaneo né indotto. Era di sicuro
silente, ma con punte di isterismo, si direbbe ora, che all’epoca non si
distingueva bene l’espressione psichica delle persone in disagio.
Il tutto condito da un altro elemento della
Mitologia Familiare, questo certamente vero, ma foriero di conseguenze
imprevedibili. Il mito del marzo nero della famiglia, laddove nel mese di marzo avvenivano tutte le disavventure per i
componenti del clan. E la realtà che molte persone della famiglia stessa, per
cause naturali o per sfortune ambientali, trovavano la morte nel corso del loro
trentottesimo anno.
Uno degli elementi che mi hanno meno
coinvolto (per mia incapacità) è il peso ed il ruolo dei sogni di Nadia. Sogni
che la portano spesso nei luoghi di Venera. Sogni che fanno da premonizione a
lei, mettendola in ansia: deve ricostruire il “vero” passato di Venera, solo
così riuscirà, secondo lei, ad essere serena con sua figlia ed a preservarla
dalle ipotetiche tare familiari.
Tutto poi si condensa, anche, in un viaggio
a Messina alla ricerca di quelle risposte che probabilmente la attendono. Alla
fine del viaggio fisico e di quello mentale. Solo così potrà trovare la forza
di essere sé stessa e di dare un senso alla vita, sua e della figlia.
Fatte quindi le tare sulla scrittura
femminile che a volte non riesco a seguire, pur nell’individuazione della
bravura di Nadia nel passare, tra i vari capitoli, attraverso diversi registri
espressivi: il lirismo, i passaggi umoristici e quelli grotteschi, il poco
compreso scivolamento onirico. Tutto molto rigoroso, anche quando, seppur di
lato, non può che introdurre gli uomini della Mitologia: il granatiere marito
di Venera, il padre di Nadia ed il patrigno, nonché suo marito e padre della
piccola Luna.
Non stupisce poi, conoscendo i retroterra
culturali dell’autrice, che vengano fuori accenni delle sue letture preferite,
brani, nascosti o palesi, dei suoi libri totem. Vediamo attraversare le pagine
Anne Sexton e Clarice Lispector, sino a brani poetici di Marina Cvetaeva. Un
elemento singolare che ha stuzzicato le mie fantasie letterarie è inoltre
l’accenno alle opere uscite nell’anno manicomiale di Venera, il 1928. Come
dimenticare i due grandi libri sulla diversità: “Orlando” di Virginia Woolf e
“Il pozzo della solitudine” di Marguerite Radclyffe Hall. O i dirompenti
“L’amante di Lady Chatterley” di D.H. Lawrence o “Nadja” di André Breton. Non
sono citati da Nadia, ma io ve li indico, che sono due caposaldi della
letteratura poliziesca me tanto cara:
l’hard-boiled “Il bacio della violenza” di Dashiell Hammett ed il giallo di
ragionamento “La fine dei Green” di S.S. Van Dine.
Ma stiamo divagando troppo. Torniamo a
Nadia, a Venera, a Messina, a Mandalari, e a tutte le storie di un libro di
buon livello, che non vincerà lo Strega, ma che si fa leggere.
“Tante cose strane ci sembrano giuste,
mentre le facciamo.” (51)
Sofia Assante “La mia ultima storia per te”
Mondadori s.p. (Regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2025 – I: 21/05/2025 – T: 23/05/2025]
&&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 381; anno:
2025]
Avevo un dubbio, leggendo il nome
dell’autrice, Sofia Assante che però ho messo da parte durante tutta la
lettura. Solo a libro finito ho fatto delle ricerche che hanno confermato
quanto immaginavo. Sofia è una delle due figlie del compianto Ernesto Assante.
Questo pur non modificando in nulla il giudizio sul romanzo, mi ha dato quel
piccolo brivido di piacere nel ritrovare elementi di una storia che, pur da
lontano, mi è sempre piaciuta. Ovvio, in breve e senza tornarci sopra, la
musica ed il modo di Ernesto di parlarne.
Ma qui si parla di un romanzo, e di una
scrittrice che, pur con qualche ombra, magari figlia dell’inerzia giovanile,
mostra una buona padronanza della scrittura, una luminosa idea della materia di
cui vuole narrare, nonché una brillante intuizione per dare un tocco al finale
inaspettato e, così come proposto, molto più intrigante di quanto avessi
pensato mentre ne leggevo per arrivare al punto.
Come dice in un’intervista la stessa
autrice, partendo dalla lettura di un breve racconto di Raymond Carver (“Dì
alle donne che andiamo”), Sofia sviluppa l’idea di costruire la sua trama
sull’inconoscibilità. Cioè sulla pratica impossibilità di conoscere il nostro
prossimo, foss’anche la persona che amiamo e con la quale condividiamo tutto,
pensieri, parole ed opere. Non vi parlo del testo di Carver (che se non lo
conoscete, vi invito a cercarlo). Ma vi dico che partendo da quello, e unendolo
a questo scritto, a me veniva in mente un altro testo sulla non conoscenza: “Il
senso della fine” di Julian Barnes, di cui ho molto parlato, e che vi invito a
ritrovare.
Qui, tra feedback e ritorni al presente, si
narra la storia di Andrea Taroni, e del suo rapporto con Elena Alfieri della
Scala. Per una serie di motivi di presenze e di traslochi, le due famiglie si
trovano vicine di condominio. I Taroni sono i proprietari della trattoria “Da
Amilcare”, in onore del nonno di Andrea. Sono la borghesia del commercio, ma
c’è solo il padre che tira avanti la baracca, mentre Andrea studia accudito
dalla zia Mimì (uno dei personaggi meglio riusciti).
I nuovi vicini sono ricchi, aristocratici e
dediti a lavori che lasciano lor molto tempo libero. Gli Alfieri sono quattro:
papà Gregorio, colto ma forse un po’ distaccato dalla realtà, mamma Clara, una
sempre attenta agli altri e molto preparate in arte, e le due figlie, la grande
Violante, distante e antipatichella, e la piccola Elettra che svilupperà una
grande amicizia con Andrea.
Per molta parte del tema centrale vediamo
nascere e crescere l’amicizia e il coinvolgimento tra i due, che forse potrebbe
sbocciare in amore, se un maledetto Natale, con Andrea ospite degli Alfieri in
montagna, non succedesse il fatto. Clara ha un incidente di macchina e muore.
Elettra trova degli scritti che forse aprono mondi nuovi alla loro visione
della vita e degli avvenimenti. Fatto sta che il lutto non può che rompere
tutto quel fragile equilibrio.
Veniamo così all’inizio del romanzo, passati
dieci anni, Andrea sta finendo un dottorato di semeiotica a New York, ha un
buon rapporto con un sua coetanea, Jenny, ed ha, apparentemente, messo il
vecchio mondo alle spalle. Ma una
telefonata di Elettra mette tutto di nuovo in ballo. Sono dieci anni che non si
sentono, ma Andrea non resiste al richiamo dell’amicizia.
Il ritorno a Roma è costellato da molti
avvenimenti, la morte di Gregorio, i rivolgimenti di casa Taroni, ma
soprattutto da due fatti dirompenti: la scoperta, improbabile ma possibile,
dopo dieci anni che Clara aveva un amante, ed un’attrazione sempre più forte
tra Andrea ed Elettra. Il tutto condito da un fatto che non avevo citato per
lasciar correre la vostra mente. Andrea da sempre scrive racconti e brevi
storie. E le dedica solo ad Elettra, promettendole che, quando scriverà
l’ultima, riuscirà anche a dedicargliela.
Che poi è questa che stiamo leggendo, che è
lo stesso Andrea a dircelo in un punto del testo che poteva passare
inosservato. Ed allora, tutto qui? Certo i nodi vengono al pettine, si sa
tutto, si capisce molto. Ma resterebbe un romanzetto, senza l’epilogo per mano
di Marta Taroni, la figlia di Andrea, che è un pezzo di bravura che mi ha fatto
risollevare le incerte sorti del testo.
Come detto all’inizio, oltre le riflessioni
sulla Roma ed i suoi abitanti, sull’amore e sull’amicizia, Sofia ci porta nei
territori inesplorati dell’inconoscibilità dell’altro. Come in Barnes,
scopriamo quanto i silenzi possano cambiare lo svolgimento della nostra vita.
Scopriamo, oppure ci viene di nuovo in mente, che a volte, per andare avanti
bisogna tornare indietro.
Due ultime perle mi servono per chiudere la
trama. Tra pagina 343 e 345, riprendendo il senso della frase che riporto,
Elettra parla degli artisti romani degli anni Ottanta, riportando i due episodi
di Ungaretti e Schifano e di Franco Angeli e Jack Kerouac che avevo appreso
leggendo l’interessante libro di Andrea Pomella (“Vite nell’oro e nel blu”).
Due episodi di cui parlo in quella trama, e che vi invito a leggere nel libro
di Pomella.
L’altra viene da un’intervista a Sofia sul
suo libro e la scrittura. Che finisce ricordando una bellissima tesi di Kurt
Vonnegut (un autore da me sempre amato): l’unica vera missione dell’artista (in
senso esteso, chiunque faccia una professione verso un pubblico) è di far
sentire le persone almeno un po’ contente di essere vive. Quando poi gli
chiedevano conti di un elenco di questi artisti, lui ne circoscriveva la
risposta ad uno solo: i Beatles. Un aneddoto che entra poco con il testo,
forse, ma che sottolinea la mia sintonia con Sofia.
“Mi aveva preparato alle case dei ricchi
… occhio agli Schifano: se non hanno un quadro di Schifano, non sono veri
ricchi.” (34)
Roberta Recchia “Tutta la vita che resta”
Rizzoli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2025 – I: 30/05/2025 – T:
31/05/2025] &&&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 399; anno:
2024]
Un’altra new entry di libri appena usciti,
questa dovuta al solerte suggerimento della libraia di viale Eritrea del
negozio ex-Arion ora Feltrinelli. Non ero convintissimo, perché c’era qualcosa
nelle motivazioni all’acquisto che mi lasciava perplesso. Alla fine, curiosità
vince su tutto. Anche perché è un libro che, per ragioni editoriali varie, è
uscito prima in traduzione all’estero e solo più tardi in Italia.
Ho così incontrato, sulla carta, la
cinquantenne Roberta, ex lavoratrice in industria, poi, per scelta, partecipa e
vince un concorso per l’insegnamento, per cui segue la sua passione, dove
tuttora insegna, riprendendosi il tempo per scrivere (che non aveva mai
abbandonato). Dopo aver esplorato la dimensione breve, si lancia nel romanzo
confezionando questo libro, che, alla fine, mi è piaciuto più di quanto mi
aspettassi.
Intanto, è ambientato a Roma, e questo già
ne fa un plus. Poi, è anche calato nella storia, che la vicenda si svolge agli
inizi degli anni Ottanta. E Roberta riesce, abbastanza bene, a calarsi e
calarci in quelle atmosfere. Un po’ pesanti, laddove si vanno a subire gli
ultimi colpi di coda dei tentativi eversivi come il coincidente attentato della
stazione di Bologna. Ma anche la vita della borghesia del commercio, con
l’acquisto delle case estive sul litorale laziale. E poi quella della Roma
degradata, del piccolo spaccio, della microcriminalità. Insomma, uno spaccato
della vita dell’epoca, con tanti rimandi a chi quegli anni li ha vissuti nel
pieno della crescente maturità.
Una delle idee interessanti del romanzo è
quella di inanellare diversi tipi di romanzo nel corso dell’evoluzione della
trama. Inizia con una sorta di romanzo storico e d’ambiente per narrare le
vicende giovanili di Marisa che culmineranno con il matrimonio con Stelio. C’è
un giallo che percorre due terzi del romanzo. C’è un litchick di borgata nel
prendersi e lasciarsi tra Miriam e Leo. C’è una forte sezione psicanalitica
nell’andare a fondo nelle paure e nelle riflessioni di Miriam e di Marisa. C’è
il romanzo generazionale, con le contrapposizioni tra Letizia e le figlie Emma
e Marisa, tra Emma ed i figli Donato e Miriam, tra Marisa ed i figli Ettore e
Betta.
La parte meno convincente è quando si agisce
cross-censo, che sembra poco credibile lo scoppio di un colpo di fulmine tra
Miriam e Leo, senza che i contorni delle loro vite non ne condizionino le
azioni. Viene detto, ma praticamente si finge siano rose e fiori.
Comunque, per fare ordine, cominciamo
vedendo la giovinezza di Marisa, la delusione del suo primo amore (che se ne
fugge in Svizzera quando lei rimane in cinta), il lavoro presso il negozio del
padre, l’arrivo in negozio del commesso Stelvio Ansaldo e la nascita di un
amore che, pur provato dai casi della vita, resisterà sempre.
Facendo un salto temporale, arriviamo
all’agosto dell’80, con gli Ansaldo che comprano una casa al mare, dove vanno
con la figlia più piccola (che comunque ha sedici anni), mentre il maggiore è
diventato un bravo pianista, vive in giro per il mondo, ed incidentalmente è
gay. Per quell’estate viene in visita anche la cugina Miriam, che studia in un
collegio in Svizzera, e che sembra un po’ imbranata. Non faccio spoiler, che è
un elemento centrale e noto del romanzo. In quell’estate, Miriam e Betta sono assalite
e stuprate da un branco del litorale laziale.
Betta muore mentre Miriam si salva a stento,
ma, fuggendo dalla spiaggia, nessuno sa che lei era presente, e che ha subito
la stessa onta. Da qui comincia la parte poliziesca e sociale. Ci chiediamo, ed
a lungo, chi siano i cattivi ragazzi, ma intanto vediamo la discesa agli inferi
di Miriam, che non riesce a dimenticare ed affonda i cattivi pensieri in tutte
le droghe possibili.
In questa discesa, lei che, passati due
anni, vive ormai a Roma, incontra Leo, un piccolo spacciatore. Com’è, come non
è tra i due nasce una simpatia, ben nascosta, soprattutto da Miriam che, ed è
ovvio, non sopporta essere toccata. I due sono accuditi dal fratello
transessuale di Leo, Pietro detto Corallina. Una persona che dimostra una
sensibilità fuori dal comune (o forse non usuale per gli abitanti di San
Basilio). Questa è la parte meno coinvolgente, dove vediamo le scaramucce tra
Leo e Miriam, nonché l’agnizione di Leo ed il suo tentativo di trovare traccia
di quanto successo nella vacanza dell’80.
Quello che sembra poco credibile è che dopo
due anni ci sia chi ricorda particolari e dettagli infinitesimali di quanto
successo. Tuttavia, gli sforzi di Leo non sono vani: salva Miriam da un
possibile suicidio, riesce a tirar fuori Marisa dall’apatia post-mortem di
Betta, in modo che Marisa e Stelvio siano di nuovo uniti, che Marisa ritrovi un
buon rapporto con la sorella Emma (nelle more ci sono tutti i discorsi delle
dinamiche familiari che tralascio), ma soprattutto che Marisa mandi finalmente
a quel paese l’insopportabile madre Letizia. Inoltre, e qui la nostra brava
Roberta deve fare molti salti mortali, riesce a fornire alla magistratura le
prove per risolvere il caso delle cugine Ansaldo.
Quel che accade dopo è di gradevole e veloce
lettura, per cui non ne parlo. Quello che rimane è una frase di Marisa alla sua
storica ed ormai molto anziana amica, suor Bertilla. Una frase che ruota sul
fatto che noi siamo quello che siamo perché abbiamo con noi la speranza. Ed è
con questo in testa e con la speranza che i prossimi lavori della scrittrice
siano altrettanto gradevoli che chiudo questa trama.
Isabel Allende “Il mio nome è Emilia del
Valle” Feltrinelli euro 22 (in realtà scontato a 9,90 euro)
[A: 20/05/2025 – I: 04/06/2025 – T: 05/06/2025]
- &&
e ½
[tit. or.: Mi nombre es Emilia del Valle;
ling. or.: spagnolo; pagine: 315; anno 2025]
Un nuovo libro di Isabel, preso grazie ad
Alessandra nel mese compleannico, subito letto ed inserito nelle letture dei
libri “attuali”, piuttosto che nella lettura filologica degli scritti della
scrittrice cilena (dico cilena, che del Cile è a tutti gli effetti, anche se
nasce in Perù, ed ottiene nel 1988 la cittadinanza americana, per gli ovvi
problemi che avrebbe in patria).
Un nuovo libro che, però, qualche piccola
delusione o disillusione me l’ha creata. La più grande discende dall’impatto
del titolo. Ora, se tu ti trovi davanti una Emilia del Valle, ed hai letto
(quasi) tutti i libri della Allende, ti immagini un collegamento immediato con la
famiglia del Valle de “La Casa degli Spiriti”. Alla fine, forse qualcosa c’è ma
più in senso trasversale che diretto. Visto che Clara, la protagonista del
primo libro della scrittrice, nasce nel 1899, potrebbe essere legata ad Emilia,
che nasce nel 1866, avendo quindi 33 anni alla nascita di Clara. Ma i genitori
di Clara si chiamano Severo e Nivea, anche se sappiamo che Severo è imparentato
con Paulina del Valle, che incontriamo qui, ma che già conosciamo dal
precedente “Ritratto in seppia”, dove è presente come personaggio principale
Aurora che qui incontriamo in un cammeo.
Insomma, ci sono i collegamenti tra molti
“del Valle”, anche se mi aspettavo qualcosa di più esplicito. D’altra parte,
Isabel disse in un’intervista che lei “è” nei suoi personaggi, così che credo
quindi sia presente, in maniera multiforme, in tutti i personaggi della
famiglia del Valle. Di modo che, unendoli come in un puzzle, alla fine avremmo,
in controluce, l’autoritratto in scrittura che in quarant’anni di libri ci
consegna Isabel.
Anche qui, l’attenzione è posta molto sul
lato femminile della vita, con alcuni uomini di contorno, spesso utili per la
loro bontà, o per il fatto di mantenersi di lato. Niente a che vedere con il
manesco Esteban Trueba, che spero tutti voi ricordiate. Il secondo carattere,
distintivo da sempre, è inserire la vicenda in un contesto storico,
specialmente se si può far risaltare qualche carattere cileno, e se si può
parlar male di qualche carattere nordamericano. Così qui, che tutta la vicenda
centrale e significativa del testo, si svolge durante la guerra civile del
salnitro, che insanguinò il Cile nel 1891.
La storia è narrata comunque in prima persona
da Emilia del Valle Claro Welsh. Figlia di Molly Welsh, immigrata irlandese,
devota, destinata a diventare suora, ma sedotta dal bellimbusto Gonzalo Andrés
del Valle. Molly non prende i voti, partorisce Emilia, e si sposa con Pedro
Claro, uno dei tanti uomini buoni delle storie di Isabel. Emilia cresce nella
San Francisco dei poveri, tra i libri di “Papo” Claro, sviluppando presto la
voglia di scrivere. Cosa che farà per i “dime novel”, usando uno pseudonimo maschile.
La voglia e la perseveranza la portano a
chiedere ed ottenere di essere inserita nell’organico del giornale “Daily
Examiner”, dove si troverà a fare da seconda al cronista di nera Eric Whelan.
Con il quale otterrà di andare a seguire la guerra civile cilena del 1891. Un
fatto di cronaca reale, dove i nostri due giornalisti si divisero i compiti:
Emilia segue i lealisti legati al presidente José Manuel Balmaceda. Eric gli
insorti, legati alla Marina Militare di Jorge Montt. Una guerra legata molto
alle diverse visioni del potere degli aristocratici cileni, ma anche alle
miniere di salnitro, che una fazione voleva concedere agli americani e l’altra
agli inglesi.
C’è una lunga parte del testo che parla della
guerra e dei suoi orrori. È funzionale al testo, certo, ma forse un po’ lunga.
Risente ovviamente del clima di guerra di questi anni (come non pensare, seppur
in modo traslato, all’Ucraina o a Gaza?), ma serve anche a fare un collegamento
con quanto avverrà in Cile ottant’anni dopo, con l’avvento di Pinochet. Pur
essendo giornalista ed americana, Emilia, avendo parlato con il presidente,
viene considerata “nemica”, torturata e quasi uccisa. Salvata solo
dall’intervento di Eric, che finalmente, ed in maniera “da fulmine a ciel
sereno”, si dichiara ad Emilia, così che per i due si prospetta un futuro
insieme.
Non prima però che Emilia vada a provare, nel
profondo sud cileno, una fazenda ereditata dal padre biologico. Non serve a
molto, se non a curare le ferite interne di Emilia, a rafforzarne la volontà di
scrivere, come vediamo in questo testo in prima persona, nonché di proseguire
la vita con il suo sposo di rosso pelo Eric. Un’apertura che potrebbe preludere
a future nuove scritture, magari che facciano un riassunto articolato di tutte
le storie dei del Valle.
Tuttavia, lo scritto di Isabel è segnato da
tutta un’altra serie di elementi che sono tipici della scrittura della nostra.
Non si parla solo di odio verso la guerra, di odio verso le dittature e verso
tutte le società non democratiche. Si parla del ruolo delle donne, del
femminismo ante-litteram sia di mamma Molly che della nostra Emilia. Che ad
esempio si concede qualche gioia del sesso ben prima di arrivare alle nozze
(che neanche erano tanto sospirate). E che si permette di fare qualche battuta
sul fatto che non è un mandato assoluto che le donne devono fare figli ed
accudire tutti i maschi della casa. Ovvio che la bravura della nostra
scrittrice fa in modo che non ci sia solo Emilia ad incarnare tutte queste
facce femminili. C’è anche Paulina, burbera e distante, ma che ha un profilo
talmente non compromesso che non verrà toccata né dai lealisti perdenti né dai
ribelli vincitori. O c’è la barelliera Angelita, che presta soccorso a tutti i
feriti, che i feriti e i moribondi sono solo e soltanto uomini.
C’è tutta Isabel Allende in questa storia di
ricerca della propria identità, di scoperta dell’appartenenza alla propria
terra e di comprensione del legame che si ha con le proprie radici. Non solo,
ma anche l’altro grande tema dell’influenza della Storia con la nostra vita
quotidiana. Purtroppo, la lunghezza eccessiva della parte bellica, e la non
risoluzione di alcuni elementi di connessione tra questo e gli altri suoi
libri, non permettono a questa saga della resilienza femminile di raggiungere
un più alto premio in giudizio.
Ultima annotazione, da pettegolezzo puro:
questo come tutti i libri di Isabel Allende, ha avuto inizio nella scrittura
l’8 di gennaio, data in cui cominciò a scrivere il suo primo libro.
Inizia l’estate agostana e io vi ripropongo le letture del mese di maggio, tante ma non il massimo di quest’anno. Guidate dalla mia amata islandese, Auđur Ava Ólafsdóttir, e per il resto tutto abbastanza contenuto tra le due e le tre preferenze (quindici su diciassette).
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Gabriela Cabezón
Cámara |
Las aventuras de la China Iron |
Random House |
s.p. |
2 |
2 |
Florencia Etcheves |
La Virgen en tus ojos |
Booket |
13 |
3 |
3 |
Clive Cussler
& Russell Blake |
Le
isole della morte |
TEA |
9,90 |
2 |
4 |
Joël Dicker |
La catastrofica
visita allo zoo |
La
Nave di Teseo |
s.p.
|
2,5 |
5 |
Auđur Ava Ólafsdóttir |
Miss
Islanda |
Einaudi |
11,50 |
4 |
6 |
Alessandro Robecchi |
Il tallone da
Killer |
Sellerio |
s.p. |
3 |
7 |
Lorenza Gentile |
Tutto il bello
che ci aspetta |
Feltrinelli |
s.p. |
2,5 |
8 |
Alessia Gazzola |
Questione di Costanza |
TEA |
5 |
2 |
9 |
Paulo Coelho |
Undici
minuti |
Repubblica
Latinoamericana |
9,90 |
2 |
10 |
Nadia Terranova |
Quello che so di
te |
Guanda |
s.p.
|
2,5 |
11 |
Cristina
Cassar Scalia |
Il
re del gelato |
Einaudi |
16
|
3 |
12 |
James Blish |
Guerra
al Grande Nulla |
Mondadori |
6,99 |
2 |
13 |
Sofia Assante |
La mia ultima
storia per te |
Mondadori |
s.p.
|
3 |
14 |
Andrea Franco |
L’odore
della rivoluzione |
Mondadori |
5,90 |
2 |
15 |
Furukawa Hideo |
Tokyo
Soundtrack |
Corriere
Giappone |
8,90 |
2 |
16 |
Rosa Teruzzi |
La
giostra delle spie |
Sonzogno |
16
|
2 |
17 |
Roberta Recchia |
Tutta
la vita che resta |
Rizzoli |
s.p.
|
3,5 |
Per il noto contrappasso, mettiamo in finale due citazioni “al maschile”. La prima di Joseph Conrad, tratto da quell’immenso capolavoro de “La linea d'ombra: una confessione” (e dedicato al mio amico Renato):
“La strada sarebbe stata lunga. Sono lunghe
tutte le strade che conducono a ciò che il cuore brama. Ma questa strada
l’occhio della mia mente la poteva vedere su una carta, tracciata
professionalmente, con tutte le sue complicazioni e difficoltà, eppure a suo
modo sufficientemente semplice. O si è marinaio, o non lo si è. E di esserlo io
non avevo dubbi” (67)
Il secondo relativo alla descrizione del
libro tratta da “La storia di Don
Giovanni raccontata da Alessandro Baricco”: “Vita pazza … di un uomo che
amava troppo le donne per volerne una sola” (quarta di copertina)
Allora, terminata l’Islanda, passata la Val d’Aosta, ci resta davanti del tempo per riposarci, per pensare, per programmare. Tutto nei nostri ritiri estivi. Da cui vi mando un abbraccio.
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