domenica 3 agosto 2025

Estate al femminile - 03 agosto 2025

So di essere politicamente scorretto, ma avendo una trama di scrittrici ed essendo questa la bella stagione, mi sembra che il titolo ci possa stare. Tra l’altro con un parallelo alla settimana scorsa (lì c’erano quattro donne ed un uomo, qui abbiamo quattro scrittrici italiane ed una cilena). Con una sufficienza piena tendente all’ottimo dei regali di Alessandra (con i libri di Nadia Terranova, Sofia Assante e Roberta Recchia), e con una buona resa sia del regalo feltrinelliano di Lorenza Gentile e sia del suggerimento verso Isabel Allende, da cui, però mi aspettavo qualcosa di più.

Lorenza Gentile “Tutto il bello che ci aspetta” Feltrinelli s.p. (Regalo Feltrinelli)

[A: 07/05/2025 – I: 11/05/2025 – T: 12/05/2025] && e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 312; anno: 2024]

Come ogni anno, dato il mio super status di acquirente Feltrinelli, l’esimia casa editrice nonché catena di librerie, mi omaggia con un libro della sua collana “Universale Economica”. Lo scorso anno fu il libro di Consolo, mentre quest’anno si sono orientati verso questa leggera trama di Lorenza Gentile. Una “under 40” di cui avevo letto già qualcosa, rimarcandone la scrittura scorrevole, ma con qualche elemento di rilassamento e riflessione che in ogni caso erano godibili.

Qui, pur mantenendo il tono generale, nonché qualche uscita condivisibile, l’impianto globale è un po’ più scontato e prevedibile. Forse anche dovuto al tributo che l’autrice stessa confessa di aver rivolto a qualche ashram pugliese, dove, se ben interpretiamo le parole, deve aver trascorso del tempo giovanile.

Qui seguiamo la storia di Selene, una giovane trentacinquenne che, fermatasi un momento a pensare alla sua vita, si rende conto che non ha fatto nulla di quello che voleva fare, e quando invece l’ha fatto il risultato è andato da male a catastrofe. Certo, non ha un affetto stabile, pur tuttavia gestisce un ristorante, cosa che confessa di aver sognato da sempre. Tuttavia, il suo “Nuvola” non decolla, anzi è sull’orlo del fallimento. Nessuna recensione positiva, clienti che non ritornano, e tante altre piccole cose che non vanno (mutui in scadenza, banche che non finanziano). In questi casi cosa si fa?

Ci si arma di santa pazienza, si affrontano i problemi uno per volta, con l’idea guida di dove vogliamo arrivare. Oppure si scappa. Indovinate cosa fa Selene? Con l’illusione che tornare al punto di partenza le avrebbe permesso di riavvolgere il filo della sua vita, per poi srotolarlo magari in una diversa direzione. Qui entriamo nel modo di affrontare la vita, e certo un romanzo leggero non permette disquisizioni ampie. Fatto sta che, da qui in poi, per quello che vediamo in presa diretta, Selene riesce a fare tutto quello che non si dovrebbe fare, se si vuole cambiare il senso delle proprie cose.

Tornata nella Puglia della sua infanzia, tra un lamento e l’altro su tutte le cose perdute, a spizzichi e bocconi, ricostruiamo la sua storia. Intanto ritrova, anche se malata (ma lei non lo sa) la sua vecchia tata Flora, che pensa bene e con giusta ragione di insegnarle (o ricordarle) tutte quelle ricette territoriali che potrebbero fare la fortuna di un ristorante non modaiolo ma concreto. E trova persone che la aiutano senza voler nulla in cambio. Si tratta di buon uso delle giuste maniere.

L’altro elemento, che è poi la spina dorsale del racconto, è il modo in cui da bimba la sua famiglia si era trasferita da Milano in quel di Puglia. C’è uno strano rapporto tra i genitori, libertari entrambi e dediti alla ricerca di una vita rispettosa dell’ambiente. In base a non si sa quali decisioni, è il padre, molto addentro nella spiritualità indiana, che convince (obbliga) la famiglia a trasferirsi in un ashram. Per non andare sino in India, va bene pure uno dei tanti che sorsero nelle Puglie (e nella Sicilia) il secolo scorso.

Così, mentre non riesce ad affrontare il presente, Selene rinvanga quella vita, le amicizie, i (forse) amori, i rapporti intrecciati ma mai portati in fondo. Ma dopo alcuni anni, a fronte di una irrinunciabile proposta lavorativa, la madre decide di tornare “alla civiltà”, prima a Milano con le figlie, e poi, queste cresciute, con un prestigioso posto in America. Il padre invece prima rimane nell’ashram, poi, finalmente diremo noi, se ne va per l’India ed altri posti spirituali.

Riamane Selene, che non si perita di aver perso i contatti con i ragazzi dell’ashram, che cerca (anche) di ricostruire un rapporto con la sorella, che dovrebbe superare l’amore-odio per il padre. Molto ricostruisce, molto ritrova, soprattutto con l’aiuto delle poche parole di Flora, ma delle tante di qualche “amica ritrovata”. Ed anche perché, finalmente, si fida del cuoco che ha lasciato a Milano che, stravolgendo le idee moderniste (ma non condivise) di Selene, sta facendo risorgere il ristorante.

Capendo che a volte è necessario perdersi e sbagliare strada per trovare il coraggio di seguire i propri sogni, sembra che finalmente Selene possa affrontare il bello del futuro che tutto ci si aspetta. Ci sono molto rivoletti nella fluente scrittura di Lorenza, anche se, oltre a questo tema su come affrontare il proprio futuro, ci sono (possibili) discussioni sugli alternativi del secolo scorso e su quanto abbiano portato non dico di male, ma di incoerenza di vivere nel nostro oggi, permettendo che i sogni di base fossero occupati dagli emuli di Berlusconi.

Un solo piccolo appunto di cross-lettura, dove a pagina 14, pensando al ristorante dei suoi sogni, Selene immagina “un tavolo unico in condivisione, tovaglie a quadretti, colori vivaci”. Esattamente il ristornate che mette in piedi la cuoca Katharina Schweitzer uscita dalla penna gialla di Brigitte Glaser. Un incrocio che mi ha divertito.

“Non siamo eterni, sai? Alla mia età cominci a pensarci. Bisogna approfittare di ogni momento.” (103)

Nadia Terranova “Quello che so di te” Guanda s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2025 – I: 16/05/2025 – T: 19/05/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 261; anno: 2025]

Di Nadia Terranova ho letto spesso, a suo tempo, gli articoli su “Repubblica” e, come tutti i giornalisti, ha di sicuro una penna spigliata. Tanto che ora, ho letto, cura una rivista letteraria edita la Linkiesta. Non avevo invece mai letto nulla di romanzesco per cui ho approfittato della vicinanza con la cinquina del Premio Strega (anche su consiglio della mia amica libraia) per avvicinarmi a questo scritto.

Una scritto che mi è piaciuto il giusto, con alcuni punti però in cui mi era difficile seguire la scrittura. Sono un lettore basic, per cui salti, rimandi, pensieri incasinati, a volte mi frenano nella lettura e nell’empatia verso lo scritto. Uno scritto che pensavo fosse un memoir familiare, mentre alla fine è qualcosa di leggermente più complesso. Si indagano i momenti familiari, le storie mitologiche di parenti sconosciuti, ma questi si intrecciano con il presente della scrittrice.

Nadia sente infatti la necessità di approfondire la storia della bisnonna Venera che la mitologia familiare vuole fosse internata in una struttura psichiatrica (il Mandalari di Messina) nel 1928. Una ricerca che si intreccia con il presente di Nadia, da poco madre, con la paura di essere colpita dalla stessa tara della famiglia, magari andando fuori di testa. Una paura che, credo da esterno, molte madri abbiano avuto nei primi momenti di condivisione di una nuova vita.

Nadia si attiva come un investigatore privato da giallo doc, per cercare le tracce della bisnonna. La Mitologia Familiare le riportava che, incinta della terza figlia, un giorno al circo cade per le scalette e si procura un aborto, dando alla luce una bambina morta. Un lutto che colpisce Venera, che si chiude in un mutismo straniante. Tanto che il marito ne chiede e ottiene il ricovero per un paio di settimane al Mandalari, all’epoca dei fatti l’ospedale psichiatrico di Messina. Ospedale da cui esce mutigna, ma capace di badare alla famiglia, nonché di procreare altri bambini sani.

Per seguire le tracce di Nadia, cerca negli Archivi, cerca di parlare non con chi c’era che sono tutti morti, ma con chi ha preso il bastone degli anni successivi. E trova. Trova documenti, schede di ricovero, diagnosi. Tutto un castello di carta che smentisce la Mitologia. Venera non aveva avuto nessun aborto né spontaneo né indotto. Era di sicuro silente, ma con punte di isterismo, si direbbe ora, che all’epoca non si distingueva bene l’espressione psichica delle persone in disagio.

Il tutto condito da un altro elemento della Mitologia Familiare, questo certamente vero, ma foriero di conseguenze imprevedibili. Il mito del marzo nero della famiglia, laddove nel mese di  marzo avvenivano tutte le disavventure per i componenti del clan. E la realtà che molte persone della famiglia stessa, per cause naturali o per sfortune ambientali, trovavano la morte nel corso del loro trentottesimo anno.

Uno degli elementi che mi hanno meno coinvolto (per mia incapacità) è il peso ed il ruolo dei sogni di Nadia. Sogni che la portano spesso nei luoghi di Venera. Sogni che fanno da premonizione a lei, mettendola in ansia: deve ricostruire il “vero” passato di Venera, solo così riuscirà, secondo lei, ad essere serena con sua figlia ed a preservarla dalle ipotetiche tare familiari.

Tutto poi si condensa, anche, in un viaggio a Messina alla ricerca di quelle risposte che probabilmente la attendono. Alla fine del viaggio fisico e di quello mentale. Solo così potrà trovare la forza di essere sé stessa e di dare un senso alla vita, sua e della figlia.

Fatte quindi le tare sulla scrittura femminile che a volte non riesco a seguire, pur nell’individuazione della bravura di Nadia nel passare, tra i vari capitoli, attraverso diversi registri espressivi: il lirismo, i passaggi umoristici e quelli grotteschi, il poco compreso scivolamento onirico. Tutto molto rigoroso, anche quando, seppur di lato, non può che introdurre gli uomini della Mitologia: il granatiere marito di Venera, il padre di Nadia ed il patrigno, nonché suo marito e padre della piccola Luna.

Non stupisce poi, conoscendo i retroterra culturali dell’autrice, che vengano fuori accenni delle sue letture preferite, brani, nascosti o palesi, dei suoi libri totem. Vediamo attraversare le pagine Anne Sexton e Clarice Lispector, sino a brani poetici di Marina Cvetaeva. Un elemento singolare che ha stuzzicato le mie fantasie letterarie è inoltre l’accenno alle opere uscite nell’anno manicomiale di Venera, il 1928. Come dimenticare i due grandi libri sulla diversità: “Orlando” di Virginia Woolf e “Il pozzo della solitudine” di Marguerite Radclyffe Hall. O i dirompenti “L’amante di Lady Chatterley” di D.H. Lawrence o “Nadja” di André Breton. Non sono citati da Nadia, ma io ve li indico, che sono due caposaldi della letteratura poliziesca  me tanto cara: l’hard-boiled “Il bacio della violenza” di Dashiell Hammett ed il giallo di ragionamento “La fine dei Green” di S.S. Van Dine.

Ma stiamo divagando troppo. Torniamo a Nadia, a Venera, a Messina, a Mandalari, e a tutte le storie di un libro di buon livello, che non vincerà lo Strega, ma che si fa leggere.

“Tante cose strane ci sembrano giuste, mentre le facciamo.” (51)

Sofia Assante “La mia ultima storia per te” Mondadori s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2025 – I: 21/05/2025 – T: 23/05/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 381; anno: 2025]

Avevo un dubbio, leggendo il nome dell’autrice, Sofia Assante che però ho messo da parte durante tutta la lettura. Solo a libro finito ho fatto delle ricerche che hanno confermato quanto immaginavo. Sofia è una delle due figlie del compianto Ernesto Assante. Questo pur non modificando in nulla il giudizio sul romanzo, mi ha dato quel piccolo brivido di piacere nel ritrovare elementi di una storia che, pur da lontano, mi è sempre piaciuta. Ovvio, in breve e senza tornarci sopra, la musica ed il modo di Ernesto di parlarne.

Ma qui si parla di un romanzo, e di una scrittrice che, pur con qualche ombra, magari figlia dell’inerzia giovanile, mostra una buona padronanza della scrittura, una luminosa idea della materia di cui vuole narrare, nonché una brillante intuizione per dare un tocco al finale inaspettato e, così come proposto, molto più intrigante di quanto avessi pensato mentre ne leggevo per arrivare al punto.

Come dice in un’intervista la stessa autrice, partendo dalla lettura di un breve racconto di Raymond Carver (“Dì alle donne che andiamo”), Sofia sviluppa l’idea di costruire la sua trama sull’inconoscibilità. Cioè sulla pratica impossibilità di conoscere il nostro prossimo, foss’anche la persona che amiamo e con la quale condividiamo tutto, pensieri, parole ed opere. Non vi parlo del testo di Carver (che se non lo conoscete, vi invito a cercarlo). Ma vi dico che partendo da quello, e unendolo a questo scritto, a me veniva in mente un altro testo sulla non conoscenza: “Il senso della fine” di Julian Barnes, di cui ho molto parlato, e che vi invito a ritrovare.

Qui, tra feedback e ritorni al presente, si narra la storia di Andrea Taroni, e del suo rapporto con Elena Alfieri della Scala. Per una serie di motivi di presenze e di traslochi, le due famiglie si trovano vicine di condominio. I Taroni sono i proprietari della trattoria “Da Amilcare”, in onore del nonno di Andrea. Sono la borghesia del commercio, ma c’è solo il padre che tira avanti la baracca, mentre Andrea studia accudito dalla zia Mimì (uno dei personaggi meglio riusciti).

I nuovi vicini sono ricchi, aristocratici e dediti a lavori che lasciano lor molto tempo libero. Gli Alfieri sono quattro: papà Gregorio, colto ma forse un po’ distaccato dalla realtà, mamma Clara, una sempre attenta agli altri e molto preparate in arte, e le due figlie, la grande Violante, distante e antipatichella, e la piccola Elettra che svilupperà una grande amicizia con Andrea.

Per molta parte del tema centrale vediamo nascere e crescere l’amicizia e il coinvolgimento tra i due, che forse potrebbe sbocciare in amore, se un maledetto Natale, con Andrea ospite degli Alfieri in montagna, non succedesse il fatto. Clara ha un incidente di macchina e muore. Elettra trova degli scritti che forse aprono mondi nuovi alla loro visione della vita e degli avvenimenti. Fatto sta che il lutto non può che rompere tutto quel fragile equilibrio.

Veniamo così all’inizio del romanzo, passati dieci anni, Andrea sta finendo un dottorato di semeiotica a New York, ha un buon rapporto con un sua coetanea, Jenny, ed ha, apparentemente, messo il vecchio mondo alle spalle. Ma  una telefonata di Elettra mette tutto di nuovo in ballo. Sono dieci anni che non si sentono, ma Andrea non resiste al richiamo dell’amicizia.

Il ritorno a Roma è costellato da molti avvenimenti, la morte di Gregorio, i rivolgimenti di casa Taroni, ma soprattutto da due fatti dirompenti: la scoperta, improbabile ma possibile, dopo dieci anni che Clara aveva un amante, ed un’attrazione sempre più forte tra Andrea ed Elettra. Il tutto condito da un fatto che non avevo citato per lasciar correre la vostra mente. Andrea da sempre scrive racconti e brevi storie. E le dedica solo ad Elettra, promettendole che, quando scriverà l’ultima, riuscirà anche a dedicargliela.

Che poi è questa che stiamo leggendo, che è lo stesso Andrea a dircelo in un punto del testo che poteva passare inosservato. Ed allora, tutto qui? Certo i nodi vengono al pettine, si sa tutto, si capisce molto. Ma resterebbe un romanzetto, senza l’epilogo per mano di Marta Taroni, la figlia di Andrea, che è un pezzo di bravura che mi ha fatto risollevare le incerte sorti del testo.

Come detto all’inizio, oltre le riflessioni sulla Roma ed i suoi abitanti, sull’amore e sull’amicizia, Sofia ci porta nei territori inesplorati dell’inconoscibilità dell’altro. Come in Barnes, scopriamo quanto i silenzi possano cambiare lo svolgimento della nostra vita. Scopriamo, oppure ci viene di nuovo in mente, che a volte, per andare avanti bisogna tornare indietro.

Due ultime perle mi servono per chiudere la trama. Tra pagina 343 e 345, riprendendo il senso della frase che riporto, Elettra parla degli artisti romani degli anni Ottanta, riportando i due episodi di Ungaretti e Schifano e di Franco Angeli e Jack Kerouac che avevo appreso leggendo l’interessante libro di Andrea Pomella (“Vite nell’oro e nel blu”). Due episodi di cui parlo in quella trama, e che vi invito a leggere nel libro di Pomella.

L’altra viene da un’intervista a Sofia sul suo libro e la scrittura. Che finisce ricordando una bellissima tesi di Kurt Vonnegut (un autore da me sempre amato): l’unica vera missione dell’artista (in senso esteso, chiunque faccia una professione verso un pubblico) è di far sentire le persone almeno un po’ contente di essere vive. Quando poi gli chiedevano conti di un elenco di questi artisti, lui ne circoscriveva la risposta ad uno solo: i Beatles. Un aneddoto che entra poco con il testo, forse, ma che sottolinea la mia sintonia con Sofia.

“Mi aveva preparato alle case dei ricchi … occhio agli Schifano: se non hanno un quadro di Schifano, non sono veri ricchi.” (34)

Roberta Recchia “Tutta la vita che resta” Rizzoli s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2025 – I: 30/05/2025 – T: 31/05/2025] &&& e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 399; anno: 2024]

Un’altra new entry di libri appena usciti, questa dovuta al solerte suggerimento della libraia di viale Eritrea del negozio ex-Arion ora Feltrinelli. Non ero convintissimo, perché c’era qualcosa nelle motivazioni all’acquisto che mi lasciava perplesso. Alla fine, curiosità vince su tutto. Anche perché è un libro che, per ragioni editoriali varie, è uscito prima in traduzione all’estero e solo più tardi in Italia.

Ho così incontrato, sulla carta, la cinquantenne Roberta, ex lavoratrice in industria, poi, per scelta, partecipa e vince un concorso per l’insegnamento, per cui segue la sua passione, dove tuttora insegna, riprendendosi il tempo per scrivere (che non aveva mai abbandonato). Dopo aver esplorato la dimensione breve, si lancia nel romanzo confezionando questo libro, che, alla fine, mi è piaciuto più di quanto mi aspettassi.

Intanto, è ambientato a Roma, e questo già ne fa un plus. Poi, è anche calato nella storia, che la vicenda si svolge agli inizi degli anni Ottanta. E Roberta riesce, abbastanza bene, a calarsi e calarci in quelle atmosfere. Un po’ pesanti, laddove si vanno a subire gli ultimi colpi di coda dei tentativi eversivi come il coincidente attentato della stazione di Bologna. Ma anche la vita della borghesia del commercio, con l’acquisto delle case estive sul litorale laziale. E poi quella della Roma degradata, del piccolo spaccio, della microcriminalità. Insomma, uno spaccato della vita dell’epoca, con tanti rimandi a chi quegli anni li ha vissuti nel pieno della crescente maturità.

Una delle idee interessanti del romanzo è quella di inanellare diversi tipi di romanzo nel corso dell’evoluzione della trama. Inizia con una sorta di romanzo storico e d’ambiente per narrare le vicende giovanili di Marisa che culmineranno con il matrimonio con Stelio. C’è un giallo che percorre due terzi del romanzo. C’è un litchick di borgata nel prendersi e lasciarsi tra Miriam e Leo. C’è una forte sezione psicanalitica nell’andare a fondo nelle paure e nelle riflessioni di Miriam e di Marisa. C’è il romanzo generazionale, con le contrapposizioni tra Letizia e le figlie Emma e Marisa, tra Emma ed i figli Donato e Miriam, tra Marisa ed i figli Ettore e Betta.

La parte meno convincente è quando si agisce cross-censo, che sembra poco credibile lo scoppio di un colpo di fulmine tra Miriam e Leo, senza che i contorni delle loro vite non ne condizionino le azioni. Viene detto, ma praticamente si finge siano rose e fiori.

Comunque, per fare ordine, cominciamo vedendo la giovinezza di Marisa, la delusione del suo primo amore (che se ne fugge in Svizzera quando lei rimane in cinta), il lavoro presso il negozio del padre, l’arrivo in negozio del commesso Stelvio Ansaldo e la nascita di un amore che, pur provato dai casi della vita, resisterà sempre.

Facendo un salto temporale, arriviamo all’agosto dell’80, con gli Ansaldo che comprano una casa al mare, dove vanno con la figlia più piccola (che comunque ha sedici anni), mentre il maggiore è diventato un bravo pianista, vive in giro per il mondo, ed incidentalmente è gay. Per quell’estate viene in visita anche la cugina Miriam, che studia in un collegio in Svizzera, e che sembra un po’ imbranata. Non faccio spoiler, che è un elemento centrale e noto del romanzo. In quell’estate, Miriam e Betta sono assalite e stuprate da un branco del litorale laziale.

Betta muore mentre Miriam si salva a stento, ma, fuggendo dalla spiaggia, nessuno sa che lei era presente, e che ha subito la stessa onta. Da qui comincia la parte poliziesca e sociale. Ci chiediamo, ed a lungo, chi siano i cattivi ragazzi, ma intanto vediamo la discesa agli inferi di Miriam, che non riesce a dimenticare ed affonda i cattivi pensieri in tutte le droghe possibili.

In questa discesa, lei che, passati due anni, vive ormai a Roma, incontra Leo, un piccolo spacciatore. Com’è, come non è tra i due nasce una simpatia, ben nascosta, soprattutto da Miriam che, ed è ovvio, non sopporta essere toccata. I due sono accuditi dal fratello transessuale di Leo, Pietro detto Corallina. Una persona che dimostra una sensibilità fuori dal comune (o forse non usuale per gli abitanti di San Basilio). Questa è la parte meno coinvolgente, dove vediamo le scaramucce tra Leo e Miriam, nonché l’agnizione di Leo ed il suo tentativo di trovare traccia di quanto successo nella vacanza dell’80.

Quello che sembra poco credibile è che dopo due anni ci sia chi ricorda particolari e dettagli infinitesimali di quanto successo. Tuttavia, gli sforzi di Leo non sono vani: salva Miriam da un possibile suicidio, riesce a tirar fuori Marisa dall’apatia post-mortem di Betta, in modo che Marisa e Stelvio siano di nuovo uniti, che Marisa ritrovi un buon rapporto con la sorella Emma (nelle more ci sono tutti i discorsi delle dinamiche familiari che tralascio), ma soprattutto che Marisa mandi finalmente a quel paese l’insopportabile madre Letizia. Inoltre, e qui la nostra brava Roberta deve fare molti salti mortali, riesce a fornire alla magistratura le prove per risolvere il caso delle cugine Ansaldo.

Quel che accade dopo è di gradevole e veloce lettura, per cui non ne parlo. Quello che rimane è una frase di Marisa alla sua storica ed ormai molto anziana amica, suor Bertilla. Una frase che ruota sul fatto che noi siamo quello che siamo perché abbiamo con noi la speranza. Ed è con questo in testa e con la speranza che i prossimi lavori della scrittrice siano altrettanto gradevoli che chiudo questa trama.

Isabel Allende “Il mio nome è Emilia del Valle” Feltrinelli euro 22 (in realtà scontato a 9,90 euro)

[A: 20/05/2025 – I: 04/06/2025 – T: 05/06/2025] - && e ½     

[tit. or.: Mi nombre es Emilia del Valle; ling. or.: spagnolo; pagine: 315; anno 2025]

Un nuovo libro di Isabel, preso grazie ad Alessandra nel mese compleannico, subito letto ed inserito nelle letture dei libri “attuali”, piuttosto che nella lettura filologica degli scritti della scrittrice cilena (dico cilena, che del Cile è a tutti gli effetti, anche se nasce in Perù, ed ottiene nel 1988 la cittadinanza americana, per gli ovvi problemi che avrebbe in patria).

Un nuovo libro che, però, qualche piccola delusione o disillusione me l’ha creata. La più grande discende dall’impatto del titolo. Ora, se tu ti trovi davanti una Emilia del Valle, ed hai letto (quasi) tutti i libri della Allende, ti immagini un collegamento immediato con la famiglia del Valle de “La Casa degli Spiriti”. Alla fine, forse qualcosa c’è ma più in senso trasversale che diretto. Visto che Clara, la protagonista del primo libro della scrittrice, nasce nel 1899, potrebbe essere legata ad Emilia, che nasce nel 1866, avendo quindi 33 anni alla nascita di Clara. Ma i genitori di Clara si chiamano Severo e Nivea, anche se sappiamo che Severo è imparentato con Paulina del Valle, che incontriamo qui, ma che già conosciamo dal precedente “Ritratto in seppia”, dove è presente come personaggio principale Aurora che qui incontriamo in un cammeo.

Insomma, ci sono i collegamenti tra molti “del Valle”, anche se mi aspettavo qualcosa di più esplicito. D’altra parte, Isabel disse in un’intervista che lei “è” nei suoi personaggi, così che credo quindi sia presente, in maniera multiforme, in tutti i personaggi della famiglia del Valle. Di modo che, unendoli come in un puzzle, alla fine avremmo, in controluce, l’autoritratto in scrittura che in quarant’anni di libri ci consegna Isabel.

Anche qui, l’attenzione è posta molto sul lato femminile della vita, con alcuni uomini di contorno, spesso utili per la loro bontà, o per il fatto di mantenersi di lato. Niente a che vedere con il manesco Esteban Trueba, che spero tutti voi ricordiate. Il secondo carattere, distintivo da sempre, è inserire la vicenda in un contesto storico, specialmente se si può far risaltare qualche carattere cileno, e se si può parlar male di qualche carattere nordamericano. Così qui, che tutta la vicenda centrale e significativa del testo, si svolge durante la guerra civile del salnitro, che insanguinò il Cile nel 1891.

La storia è narrata comunque in prima persona da Emilia del Valle Claro Welsh. Figlia di Molly Welsh, immigrata irlandese, devota, destinata a diventare suora, ma sedotta dal bellimbusto Gonzalo Andrés del Valle. Molly non prende i voti, partorisce Emilia, e si sposa con Pedro Claro, uno dei tanti uomini buoni delle storie di Isabel. Emilia cresce nella San Francisco dei poveri, tra i libri di “Papo” Claro, sviluppando presto la voglia di scrivere. Cosa che farà per i “dime novel”, usando uno pseudonimo maschile.

La voglia e la perseveranza la portano a chiedere ed ottenere di essere inserita nell’organico del giornale “Daily Examiner”, dove si troverà a fare da seconda al cronista di nera Eric Whelan. Con il quale otterrà di andare a seguire la guerra civile cilena del 1891. Un fatto di cronaca reale, dove i nostri due giornalisti si divisero i compiti: Emilia segue i lealisti legati al presidente José Manuel Balmaceda. Eric gli insorti, legati alla Marina Militare di Jorge Montt. Una guerra legata molto alle diverse visioni del potere degli aristocratici cileni, ma anche alle miniere di salnitro, che una fazione voleva concedere agli americani e l’altra agli inglesi.

C’è una lunga parte del testo che parla della guerra e dei suoi orrori. È funzionale al testo, certo, ma forse un po’ lunga. Risente ovviamente del clima di guerra di questi anni (come non pensare, seppur in modo traslato, all’Ucraina o a Gaza?), ma serve anche a fare un collegamento con quanto avverrà in Cile ottant’anni dopo, con l’avvento di Pinochet. Pur essendo giornalista ed americana, Emilia, avendo parlato con il presidente, viene considerata “nemica”, torturata e quasi uccisa. Salvata solo dall’intervento di Eric, che finalmente, ed in maniera “da fulmine a ciel sereno”, si dichiara ad Emilia, così che per i due si prospetta un futuro insieme.

Non prima però che Emilia vada a provare, nel profondo sud cileno, una fazenda ereditata dal padre biologico. Non serve a molto, se non a curare le ferite interne di Emilia, a rafforzarne la volontà di scrivere, come vediamo in questo testo in prima persona, nonché di proseguire la vita con il suo sposo di rosso pelo Eric. Un’apertura che potrebbe preludere a future nuove scritture, magari che facciano un riassunto articolato di tutte le storie dei del Valle.

Tuttavia, lo scritto di Isabel è segnato da tutta un’altra serie di elementi che sono tipici della scrittura della nostra. Non si parla solo di odio verso la guerra, di odio verso le dittature e verso tutte le società non democratiche. Si parla del ruolo delle donne, del femminismo ante-litteram sia di mamma Molly che della nostra Emilia. Che ad esempio si concede qualche gioia del sesso ben prima di arrivare alle nozze (che neanche erano tanto sospirate). E che si permette di fare qualche battuta sul fatto che non è un mandato assoluto che le donne devono fare figli ed accudire tutti i maschi della casa. Ovvio che la bravura della nostra scrittrice fa in modo che non ci sia solo Emilia ad incarnare tutte queste facce femminili. C’è anche Paulina, burbera e distante, ma che ha un profilo talmente non compromesso che non verrà toccata né dai lealisti perdenti né dai ribelli vincitori. O c’è la barelliera Angelita, che presta soccorso a tutti i feriti, che i feriti e i moribondi sono solo e soltanto uomini.

C’è tutta Isabel Allende in questa storia di ricerca della propria identità, di scoperta dell’appartenenza alla propria terra e di comprensione del legame che si ha con le proprie radici. Non solo, ma anche l’altro grande tema dell’influenza della Storia con la nostra vita quotidiana. Purtroppo, la lunghezza eccessiva della parte bellica, e la non risoluzione di alcuni elementi di connessione tra questo e gli altri suoi libri, non permettono a questa saga della resilienza femminile di raggiungere un più alto premio in giudizio.

Ultima annotazione, da pettegolezzo puro: questo come tutti i libri di Isabel Allende, ha avuto inizio nella scrittura l’8 di gennaio, data in cui cominciò a scrivere il suo primo libro.

Inizia l’estate agostana e io vi ripropongo le letture del mese di maggio, tante ma non il massimo di quest’anno. Guidate dalla mia amata islandese, Auđur Ava Ólafsdóttir, e per il resto tutto abbastanza contenuto tra le due e le tre preferenze (quindici su diciassette).

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Gabriela Cabezón Cámara

Las aventuras de la China Iron

Random House

s.p.

2

2

Florencia Etcheves

La Virgen en tus ojos

Booket

13

3

3

Clive Cussler & Russell Blake

Le isole della morte

TEA

9,90

2

4

Joël Dicker

La catastrofica visita allo zoo

La Nave di Teseo

s.p.

2,5

5

Auđur Ava Ólafsdóttir

Miss Islanda

Einaudi

11,50

4

6

Alessandro Robecchi

Il tallone da Killer

Sellerio

s.p.

3

7

Lorenza Gentile

Tutto il bello che ci aspetta

Feltrinelli

s.p.

2,5

8

Alessia Gazzola

Questione di Costanza

TEA

5

2

9

Paulo Coelho

Undici minuti

Repubblica Latinoamericana

9,90

2

10

Nadia Terranova

Quello che so di te

Guanda

s.p.

2,5

11

Cristina Cassar Scalia

Il re del gelato

Einaudi

16

3

12

James Blish

Guerra al Grande Nulla

Mondadori

6,99

2

13

Sofia Assante

La mia ultima storia per te

Mondadori

s.p.

3

14

Andrea Franco

L’odore della rivoluzione

Mondadori

5,90

2

15

Furukawa Hideo

Tokyo Soundtrack

Corriere Giappone

8,90

2

16

Rosa Teruzzi

La giostra delle spie

Sonzogno

16

2

17

Roberta Recchia

Tutta la vita che resta

Rizzoli

s.p.

3,5

Per il noto contrappasso, mettiamo in finale due citazioni “al maschile”. La prima di Joseph Conrad, tratto da quell’immenso capolavoro de “La linea d'ombra: una confessione” (e dedicato al mio amico Renato):

“La strada sarebbe stata lunga. Sono lunghe tutte le strade che conducono a ciò che il cuore brama. Ma questa strada l’occhio della mia mente la poteva vedere su una carta, tracciata professionalmente, con tutte le sue complicazioni e difficoltà, eppure a suo modo sufficientemente semplice. O si è marinaio, o non lo si è. E di esserlo io non avevo dubbi” (67)

Il secondo relativo alla descrizione del libro tratta da “La storia di Don Giovanni raccontata da Alessandro Baricco”: “Vita pazza … di un uomo che amava troppo le donne per volerne una sola” (quarta di copertina)

Allora, terminata l’Islanda, passata la Val d’Aosta, ci resta davanti del tempo per riposarci, per pensare, per programmare. Tutto nei nostri ritiri estivi. Da cui vi mando un abbraccio.

Nessun commento:

Posta un commento