Questa settimana ci occupiamo di scrittura
al femminile con cinque scrittrici di cinque lingue diverse. In testa, e con
distacco, un altro ottimo libro dell’islandese Auđur Ava Ólafsdóttir. Sul podio
a pari merito, con delle buone prove di scrittura l’italiana Chiara Valerio e
la francese Anne-Laure Bondoux. In coda, con prove alternanti, di interesse lo
spagnolo dell’argentina Gabriela Cabezón Cámara e l’inglese della
cino-americana Lisa See.
Gabriela Cabezón Cámara “Las
aventuras de la China Iron” Random House s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 25/04/2025
– I: 30/04/2025 – T: 02/05/2025] - &&
[tit.
or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 185;
anno 2017]
Come
spero abbiate in mente, quando visito un paese dalla lingua nota, cerco di
trovare qualche libro, in genere non troppo vecchio, per stare più in contatto
con la visita. Non avendo molte informazioni sulla letteratura argentina
attuale, mi sono affidato, in prima battuta, alle discussioni online su alcuni
siti internazionali di letteratura. Dalla rosa di nomi proposta, l’unico libro disponibile
presso la bellissima libreria “El Ateneo” era questo “Las aventuras de la China
Iron” di Gabriela Cabezón Cámara.
Abbastanza
semplice in lettura, almeno fino a pagina 130, dove cominciano a comparire
alcune pagine bianche. Il libro si legge ugualmente, pur saltando alcuni passi.
Fortunatamente, l’ottima casa editrice Random House Argentina, cui ho posto il
problema, mi ha inviato il libro in formato PDF, così che ho potuto integrare
agevolmente la lettura.
Intanto,
va detto che Gabriela Cabezón Cámara è una giornalista ben nota in patria per
le sue posizioni femministe ed in difesa di tutte le donne, nonché attivista
del mondo LGBT. Quasi sessantenne ha scritto solo quattro romanzi, e qualche
racconto, privilegiando in genere il giornalismo, l’esposizione pratica e
visibile delle sue idee, nonché tutte le iniziative in favore delle donne, come
la fondazione del movimento di tutela femminile “Non una di meno”.
La
scrittura, abbastanza di facile lettura nei momenti descrittivi, si impenna nei
momenti lirici, facendomi diverse volte fermare per ricorrere a traduzioni
esplicative di piccoli passaggi. Ma nel complesso è un libro potente,
probabilmente molto di rottura in patria, e di certo ben visto nel continente
americano, laddove arrivo tra i finalisti dell’International Booker Prize nel
2020.
L’adesione
e vicinanza al mondo letterario argentino deriva da una osservazione
dell’autrice che è stata poi l’elemento scatenante del progetto-libro. In
Argentina, uno dei pilastri storici della scrittura è la cosiddetta
“gauchesca”, nata in contrapposizione all’imperialismo letterario europeo e che
è basata sull'usare il linguaggio dei gaucho e riflettere la loro
mentalità. Leggendo di questi libri, Gabriela si rende conto che mai viene
espresso o messo in luce il punto di vista delle donne. Decide quindi di
prendere il massimo esemplare di questa letteratura, il “Martin Fierro” di José
Hernandez, facendone quasi una riscrittura in termini femminili.
Intanto,
l’io narrante è una donna. Ma non una donna qualsiasi. Una donna che, dopo
essere stata abusata e maltrattata in tenerissima età, viene vinta per
scommessa da Martin Fierro, divenendone la moglie. Dopo avergli dato due figli,
mentre Martin lascia il paesello per servire il paese come soldato, lei fugge
accompagnata dal solo cane Estreya. E da qui cominciano le sue peripezie
gauchiste.
Che
iniziano anche dal nome. Nel “Martin Fierro”, la sposa di Martin viene indicata
come “la China”, che significa ragazza, donna. La narratrice quindi quando le
chiedono come si chiama risponde China, ma, come si dice nel capitolo 4 “La
China no es un nombre”. Così che lei si autonomina Josephine Star Iron.
Joséphine come omaggio e riferimento all’autore del “Martin Fierro”, Josè
Hernandez. Star riferendosi alla sua cagna Estreya e Iron nella trasposizione
in inglese del nome del marito (Fierro à Iron à Ferro).
Veniamo
così alle avventure vere e proprie della gaucha del titolo. Che nella sua fuga
incontra una donna inglese, Elizabeth, alla ricerca del marito, argentino e
probabilmente soldato insieme a Martin. Sono loro due, Liz e China che
attraversano tutto il romanzo, con molte piccole avventure e disavventure,
tutte in qualche modo con una visione femminile di quel mondo maschile.
Intanto,
già la tripartizione del testo usa i tre capitoli con nomi che i gaucho
conoscono bene, ma rovesciandone caratteristiche e sensibilità. Epitomi della
scrittura di Hernandez sono il deserto, il forte, l’entroterra. Nel deserto si
rispecchiava l’immobilità del destino dei gaucho, mentre qui Liz e China
attraversano il deserto, costruiscono il loro sodalizio ed arrivano ad uscirne.
Per arrivare appunto al forte, non più elemento di cameratismo ma ribaltamento
delle idee del gaucho che ne mostrano la limitatezza. Ed infine l’entroterra,
la patria del gaucho, che China reinventa, dedicandola al potere del desiderio,
verso un’armonia globale, dove loro, Liz, China e gli altri “devono vedersi”
(cioè esistere nel loro modo di essere), ma loro, gli altri “no nos van a ver”
(loro non ci vedranno). Il messaggio forte che Gabriela vuol fare uscire da
queste pagine.
Ma,
in breve, cosa succede nell’anti gauchista romanzo? Nella prima parte c’è la
conoscenza che abbiamo della China, di Liz, del perché stanno viaggiando, e nel
come. L’aiuto che dà loro Rosario, un conduttore di muli, dove il nome,
generalmente è usato per le donne, mentre qui il maschio Rosario viene spesso
chiamato Rosa, e vestito anche in abiti femminili. Assistiamo anche alla
conquista amorosa della China da parte dell’inglese Liz, con la duplice valenza
sia di affermare una completa libertà, come da posizioni storiche di Gabriela,
sia adombrando il colonialismo inglese che in certe fasi storiche ha oppresso
il continente, lasciando quella ferita aperta che è ancora la diatriba
Falkland/Malvinas.
Poi
si arriva al forte, dove al comando c’è un generale inflessibile che non a caso
si chiama Josè Hernandez (ed avete subito capito il riferimento). Nel forte
Josè raduna un forte numero di gaucho nel tentativo di civilizzarli, di
trasformarli da bruti abitanti delle pampas in cittadini utili. Peccato che
vengano utilizzate forme coercitive talmente brutali, che il rischio è di
radicalizzare il gaucho nella parte “incivile”. Poi, cercando com’è ovvio il
bruto Josè di assalire sessualmente Liz, che viene salvata dalla China
travestita da uomo. Così che alle nostre eroine non resta che fuggire
nell’entroterra.
Dove
finalmente trovano i rispettivi mariti, trovano un mondo di libertà ed armonia
con la natura, dove sono abolite tutte le distinzioni: sociali, intellettuali e
di genere. Non c’è proprietà privata, non ci sono famiglie chiuse. Tutti sono
uguali nei diritti e nei doveri: uomini, donne, e tutte le altre possibili
identità. In questo mondo idilliaco, si esaltano le parole di Gabriela e la sua
visione LGBT del mondo, nonché ulteriori ironie sui gaucho.
Martin
Fierro si traveste da donna ed ha una relazione con un uomo, Liz e la China si
amano e si lasciano, ed alla fine la China trova un nuovo amante, decidendo di
cambiare il suo nome in Tararira, sancendo definitivamente il passaggio dalla
mitologia dei gaucho ad altro. Che il nome, in spagnolo, è sinonimo (anche) di
svitato, di persona “pazzariella”, ma è anche il nome di un pesce, il pesce
lupo. Nota etologica dedicata a mio cugino: il tararira depone le uova in acque
poco profonde ed è il maschio che se ne cura e fa da guardia.
Per
tornare al testo, anche il suo nuovo nome è programmatico, portando la China a
diventare una piccola leader della comunità, al fine di guidarla in luoghi
inaccessibili agli altri, dove nessuno li potrà vedere.
Come
avete capito, è un libro fortemente a tesi, con qualche forzatura dove la
struttura deve arrivare a dimostrare l’assunto della scrittrice. Ma di certo è
un lavoro pensato a lungo e realizzato con fine capacità. Pieno di rimandi,
pieno anche di poesie, come il Martin Fierro, spesso usate in modo ironico,
cosa che Hernandez non fa né avrebbe mai fatto.
Forse
questi, che per un argentino sono punti interessanti, ci portano ai limiti, per
noi al di qua dell’oceano, di questa operazione. Forse conoscendo la
letteratura gauchesca, ed avendo letto, almeno, “Martin Fierro” e “Don Segundo
Sombra” di Ricardo Güiraldes, ne avremmo capito ed apprezzato meglio. Nei
limiti a noi concessi, un’operazione curiosa che lascia lo spazio ad
approfondimenti futuri, ma che nello specifico si barcamena in un limbo di
piacere mediano.
Auđur Ava Ólafsdóttir “Miss Islanda”
Einaudi euro 11,50
[A: 14/07/2021 – I: 07/05/2025 – T:
08/05/2025] &&&&
--
[tit. or.: Ungfrú Ísland; ling. or.: islandese; pagine: 196; anno
2018]
Auđur Ava
Ólafsdóttir è una scrittrice
di cui ho letto molto, che ritengo sia un esempio fulgido di scrittura e di
rappresentazione, visiva e corale, di quel paese che amo, nonostante tutti i
suoi difetti. Anche qui, la cosa migliore e fulgida è proprio la
rappresentazione della realtà islandese in un determinato momento storico.
Purtroppo, l’urgenza di mandare quel forte messaggio che, in fondo, non molto è
cambiato in sessanta anni, rende la trama a volte un po’ lenta, quasi
inconcludente direi. Così che anche i personaggi che potrebbero avere un buon
spessore, attraversano momenti di stanchezza.
Tanto che io, aspettandomi qualche colpo di
coda, alla fine mi vedo costretto ad abbondare in segni meno. Non c’è uno
scatto finale. Certo, molti suoi romanzi scivolano in finali aperti o quasi da
scritture minimaliste. A volte è un bene, che noi lettori si prosegue la trama
nella mente, e a volte non lo è, che si vorrebbe un’empatia maggiore con i
personaggi per accompagnarli oltre la pagina. Cosa che con Hekla non succede.
Ovviamente parlo di Hekla la protagonista, e non l’omonimo vulcano famoso per l’eruzione
spettacolare del 1947.
Però, prima di entrare nella trama, semplice
ed in un certo senso priva di acuti, sarebbe bene riflettere sul messaggio che
percorre le pagine del libro. Ora, noi che visitiamo l’Islanda attuale ne
vediamo gli aspetti libertari, di condivisione, di uguaglianza, di rispetto. La
nostra scrittrice ci manda qui, invece, due messaggi. Innanzi tutto, non è
stato sempre così, e per arrivare qui ci sono voluti, come diceva Churchill,
“sangue, sudore e lacrime”. Ed in secondo luogo, abbiamo realmente abbattuto tutti
gli steccati che vediamo nel testo. Sia in patria, che in tutto il resto del
mondo.
Allora, poniamoci concordemente al testo, in
quell’anno mirabilis che fu il 1963. Ricordo di passaggio che uscì il primo LP
dei Beatles, Paolo VI venne eletto Papa, Martin Luther King organizza una
gigantesca manifestazione antirazzista (quella di “I have a dream”), viene
ucciso John Fitzgerald Kennedy. In Italia ci fu il terribile disastro del
Vajont (due giorni prima della nascita di Alessandra). Mentre in Islanda, nel
novembre cominciò una potentissima eruzione vulcanica che portò alla formazione
dell’isola di Surtsey (nota di colore: l’eruzione cominciò il 14 novembre 1963
e terminò il 5 giugno 1967!).
Tanti avvenimenti che ne fanno un anno
epocale. Un anno che sarà cruciale anche per Hekla, e per il suo amico gay DJ
Johnson. E prima di seguirne le tracce, mettiamo alcuni puntini sulle “i”. La
legge che dichiarava illegale l’omosessualità venne abolita in Islanda nel
1940. Nel 1980 viene eletta per la prima volta una donna come presidente
dell’Islanda (carica cui fu rieletta altre tre volte, decidendo di ritirarsi
nel 1996). E nello stesso 1996 viene promulgata la legge che sancisce la
possibilità di unioni civili anche per gli omosessuali. Infine, sarà nel 2009
che viene eletta prima ministra Jóhanna Sigurðardóttir, donna e omosessuale.
La nostra Hekla è però solo donna. Ma ha un
grande difetto, o forse due. È bella e scrive bene. Proprio per la scrittura
decide di lasciare Dalir (poco ridente posto al nordest dell’isola) per tentare
la sorte nella capitale. Ha già pubblicato qualcosa, ma usando uno pseudonimo
maschile. E nella capitale si troverà ad affrontare tutti gli stereotipi del
razzismo verso le donne.
Essendo bella più volte le propongono di
partecipare al concorso di Miss Islanda. Che rifiuta. Ma per vivere si adatta a
fare la cameriera, ovviamente con una paga inferiore agli uomini.
Poiché il corpo vuole anche la sua parte, ha
una buona intesa sessuale con un bibliotecario che cerca di sfondare nella
letteratura. Intesa che naufraga primo perché Hekla non ha alcuna intenzione di
sfornare bambini e timballi. E secondo perché scrivendo meglio e con più
successo dell’amante, questo si sente frustrato ed incapace di accettare di
essere messo in secondo piano.
L’unica persona con cui Hekla si trova in
sintonia è con DJ Johnson, il gay cui piace confezionare vestiti, che non
riesce ad avere storie lunghe, che si imbarca su navi improbabili per avere
soldi sia per vivere che per cercare di fuggire all’estero, dove pensa la vita
sia diversa. I nostri troveranno il modo di andarsene in Danimarca, ma,
accorgendosi che, con alcune differenze, la vita è sempre ugualmente ostica,
dovranno accettare dei compromessi per seguire le loro aspirazioni di vita.
Auđur è bravissima a condurci per mano in
questo labirinto di ipocrisie del mondo del ’63, usando mirabilmente i
dialoghi, di Hekla, di Dj Johnson, ed in controluce le digressioni della donna
sconfitta, di Ísey, che invece subisce il ruolo di moglie e madre, e ci
irretisce con dei monologhi di una tristezza lancinante.
Come ed altrettanto in modo forte, l’autrice
riesce a tirar fuori nell’amante di Hekla la meschinità di chi non accetta di
essere un poeta mediocre, di chi non accetta la superiorità della propria donna
in campo lavorativo e intellettuale. Perché Hekla sa scrivere, sa che vuole un
futuro diverso da Ísey, sa che la scrittura la può rendere libera.
C’è una frase che il capocameriere rivolge ad
Hekla illuminante come summa della grettezza umana di quel periodo (e forse non
solo di quello): “Il mondo non è come vorresti che fosse. Sei una donna.
Fattene una ragione”.
Il punto debole di tutta la trama è qui che
nasce. Hekla non se ne fa una ragione, ma non esterna mai questa ricerca di
“una stanza tutta per sé”. Per non entrare in conflitto, per non sentirsi
isolata nella diversità. Anche se poi isolata lo è sempre. Manca questo scatto,
e nello stile dell’autrice ci avviamo ad un finale che ci serve solo per
riflettere e pensare cosa succederà dopo a Hekla, a DJ Johnson, a Ísey. Ci
lascia la palle del futuro di quel ’63 fondante.
E noi siamo qui, sessanta anni dopo, a
chiederci non che fine ha fatto Hekla, ma che fine ha fatto tutto quel nostro
futuro di allora.
Chiara
Valerio “La fila alle poste” Sellerio euro 16 (in realtà, scontato a 15,20
euro)
A: 15/07/2025
– I: 03/08/2025 – T: 05/08/2025] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 366; anno: 2025]
Una
specie di seguito improprio di “Chi dice e chi tace” che ribadisce la vena
poetica di Chiara Valerio, la sua bella scrittura, e le idee che il testo ci
suscita. Un seguito improprio che, pur avendo unità di luogo e di personaggi,
se non di tempo, con il precedente, e pur facendo seguire le azioni che gli
stessi muovevano nel primo testo, in realtà cerca di aprire altri fronti alla
discussione che l’autrice vuole suscitare nei lettori.
Unità
di luogo, che siamo ancora s Scauri, teatro principe delle vicende e luogo del
cuore di Chiara. Unità di personaggio, che oltre alla protagonista, l’avvocata
Leo Russo, c’è il marito Luigi, le due figlie, Mara che era stata l’ultima
compagna di Vittoria, Filomena e Mimmo e l’avvocato che era stato il marito di
Vittoria e Rebecca, una degli antichi amori di Vittoria. Ed ovviamente,
evocata, pensata e nominata, c’è anche Vittoria, pur se morta nel libro
precedente. Per il tempo, invece, c’è la prosecuzione, visto che ora siamo nel
1992, tre anni dopo i fatti narrati nel primo libro.
La
sensibilità di Chiara mescola ad arte realtà e finzione, facendoci seguire, in
una bio-fiction trasposta, i pensieri di Lea e la sua agnizione verso il suo sé
stesso. Dall’altro, inserendo elementi realmente fittizi che servono ad
inserire momenti di riflessione nella trama. Che, nella sua linearità è
decisamente semplice.
Se
da un lato seguiamo i percorsi mentali di Lea (ma anche qualche percorso
fisico), dall’altra si inserisce la morte della piccola Agata, forse (o forse
sicuramente) uccisa dalla madre, la sparizione di chili di vongole poste a
spurgare a mare, le vicende, complicate e segrete, delle suore di Scauri. Il
tutto condito da reiterati momenti relativi al titolo. Siamo nel ’92, non si
usa ancora la rete con tutti i suoi benefici ed i suoi guasti. Quindi, per le
bollette, le raccomandate, i pacchi, si va a fare la fila alla posta. E lì,
soprattutto nei paesi, si parla e si sparla.
Come
nel primo libro, quelli che realmente sono al centro della scena sono Scauri e
Vittoria. La cittadina come teatro delle azioni, punto di coagulo delle
attività e dei pensieri di tutti, unificando solitudine e collettività. Lea, ma
non solo, è in realtà sola, con i suoi pensieri, con il suo percorso di
comprensione delle sue pulsioni. E del suo rapporto con Vittoria. Mai
esplicitato, nel primo libro, sempre sotteso, e qui sempre pensato, e mai
agito, visto che non c’è più Vittoria. Ma agito di rimando, come quando bacia
furiosamente la prima amante di Vittoria, solo per sentire la bocca della forse
amata attraverso una bocca realmente baciata.
Poi
c’è la sottotraccia che fa da contraltare al romanzo. La morte della bambina un
po’ ritardata, di cui è accusata, forse a ragione, la madre (parliamo di
Cogne?). Lì, mentre deve decidere se assumere le difese del padre della morta,
combattuta tra la giustizia di un avvocato ed il sentimento di ripulsa verso un
essere veramente poco empatico, si sviluppa una sorta di giallo cittadino.
Colpevole, innocente, e l’arma del delitto, e a chi conviene. Sempre con grandi
discussioni alle fila della posta. Usando la sua relatività matematica, Chiara
ci fa ragionare sulla verità, che non è mai definitiva. Come ci dimostra il
regalo postumo che le arriva da Vittoria, tre anni dopo la morte, che rimescola
le carte, e le idee di Lea.
Come
detto poi ci sono le vongole che spariscono, le suore di provincia, sempre un
po’ sulla bocca di tutti, ed altre attività di contorno. Chiara riesce ad
imbastire un romanzo corale pur se Lea è sempre al centro della scena,
raccontandoci tutto attraverso le sue parole. Alla fine, è una lunga cavalcata
che ci parla d’amore in molte e differenti forme. Ma ci parla anche del dolore,
lasciandoci un’immagine viva della vita di provincia, ed un ritratto di Lea che
si va sempre più precisando ed arricchendo.
Tuttavia,
non coinvolge come il precedente, forse perché ha in mente qualcosa, mentre nel
primo la penna fluiva sulla carta con facilità. Anche se con tanta lentezza, ma
di questo devo ringraziare la scrittrice che ci ricorda, in maniera indiretta,
che dobbiamo frenare la nostra vita frenetica. Non solo, ma che alla fine,
l’unico insegnamento vero dalla vita, dalla letteratura, è quello della terza
frase che riporto sotto.
Io
lo capii a cinquant’anni, ma non lo scordo più.
“Compivo
quarantatré anni e … sarei stata costretta a dirmi che il tempo scorreva perché
persone che c’erano state non c’erano più.” (12)
“Esistono
cose che non possiamo permetterci di dire? , tra te e me?” (90)
“Magari
uno potesse insegnare qualcosa a qualcuno, si può solo sperare che qualcuno
impari, prenda qualcosa da ciò che dici e ne faccia buon uso.” (313)
“Tutti
gli animali fanno l’amore ma solo gli esseri umani possono parlarne. Per fare
l’amore non c’è niente da imparare, basta essere vivi, a parlare d’amore invece
s’impara.” (337)
Anne-Laure
Bondoux “Attraverseremo le bufere” E/O euro 19,50 (in realtà, scontato a 18,55
euro)
[A: 15/07/2025 – I: 10/08/2025 – T:
11/08/2025] - &&&
[tit. or.: Nous
traverserons des orages; ling. or.: francese; pagine: 488; anno 2023]
Anne-Laure Bondoux, poco più che cinquantenne
francese, dopo aver scritto per anni libri dedicati al mondo giovanile (tra
l’altro con un discreto successo) un paio di anni fa scrive una potente saga
familiare, di certo partita con un occhio al suo pubblico di riferimento, ma
poi si è allargata con un taglio che merita una lettura da chiunque abbia
interesse alle belle lettere.
È in effetti un romanzo corale che spazia dal
1914 al 2022, coinvolgendo tutte le generazioni della famiglia Balaguère. Una
famiglia, all’inizio della storia, radicata nel Morvan, regione collinare al
centro della Francia, praticamente quasi a metà strada tra Lione e Parigi.
L’idea della scrittrice è di legare la storia della piccola famiglia, con la
Storia di questi cento anni. Così sceglie, con una decisione per me opinabile,
che i corsivi intra-temporali mi lasciano sempre un po’ di prurito sulle dita,
di intervallare la narrazione con elementi narrativi esterni. Che danno conto
del passare del tempo, legandolo ai grandi avvenimenti mondiali. Le due Guerre
mondiali, la guerra d’Algeria, che tanto ha significato per il mondo francese,
le rivolte sociali (anche se il Sessantotto praticamente si ignora),
l’insorgere dell’AIDS, il disastro di Chernobyl, la caduta del Muro di Berlino,
le torri gemelle (questo tento per citare i punti maggiori della Storia).
Sul versante interno, seguiamo le vicende dei
maschi della famiglia, tutti (o quasi) con uno sfogo verso la violenza, come se
l’avessero nel loro DNA. Tutti, anche, con la caratteristica di avere un nome
legato alle piante: Charme (cioè Carpino, una pianta della famiglia delle
Betulle), Aloe (questo non ha bisogno di traduzione), Olivier (cioè olivo),
Saul (cioè salice). Ci sarebbe anche il capostipite, Cytisie, il cui nome
italiano sarebbe “maggiociondolo” o, se seguiamo le poesie pascoliane,
“avorniello”. In tutto ciò, non sono riuscito a trovare una traduzione di
pianta per Anzême. Ma se la saga Balaguère è al maschile, sono le donne che si
avvicendano sul palco della storia che forniscono la forza invisibile che tiene
tutto in piedi, che ama e si ribella, che dà e toglie la forza. Ci sono quindi Clairette,
Gaby, Mona, Christiane, Ariane, Sidonie.
Come detto, il racconto comincia nel 1914,
dove vediamo la famiglia Balaguère agli albori. C’è il rude pater familias
Cytisie, c’è il primogenito Anzême e c’è il cadetto Marty (giovane, irruento,
istintivo). Anzême sposa Clairette ma parte subito militare. A casa Clairette
cede alle lusinghe di Marty, ma una volta scoperti, in una colluttazione (ecco
il lato violento della famiglia), il padre uccide accidentalmente Marty. Anzême,
tornato invalido dalla guerra, trova Clairette incinta, e lei, imbrogliando le
date, lo convince della paternità di Charme (che ovvio è figlio a Marty).
Qui si conclude la prima parte della storia,
prima che si avvii la seconda (ci sono tante cose, io vado per caposaldi miei),
dove vediamo Charme crescere, passare tempi felici a Parigi, sposarsi con Gaby
e poi partire per il militare. Ai due nasce Aloe, timido ed introverso,
bullizzato dai figli della vicina Mona. Quando Jean, figlio di Mona,
accidentalmente spara un colpo di pistola, polverizzando la rotula di Charme,
ed incolpandone senza possibilità di appello Aloe, tutto crolla. Charme non
perdonerà mai Aloe, Gaby fugge la campagna che non ha mai amato, e Mona
consolerà Charme ma non Aloe. Il cui unico aiuto arriverà da Gerard, il maestro
di scuola, che lo guida e lo sostiene.
Questa seconda parte chiusa, ci spostiamo a
seguire la crescita di Aloe, la sua partenza per la guerra in Algeria, il
ritorno con la dolce Christiane che lo vuole in sposo. Lei per sfuggire alle
pretese di sposalizi di interesse che aveva il padre-macellaio, lui per
nascondere la sua omosessualità. Cosa che Christiane comprende ben presto, ma
che vince due volte restando incinta. Non vi parlo di Veronique, che ci porta
fuori tema, ma c’è Olivier che nasce. Noi però seguiamo il precorso di Aloe,
che lo porta ben presto a lasciare la famiglia ed andare a vivere a Parigi con
Karl, il suo amante.
La quarta e quinta parte del libro sono al
fine incentrate su Olivier, che tra l’altro sarebbe l’io narrante. La prima
narra della sua infanzia, lo studio, la crescita, il trasferimento a Parigi a
casa del padre e di Karl, l’amore per Ariane, il sodalizio con Terence, fino
alla crisi: durante la tragedia di Chernobyl, Terence gli dice che si è messo
con Ariane, e Olivier lascia tutto e tutti. Scuola, amici, vivendo alla
giornata dopo che Aloe e Karl sono morti di AIDS.
La quinta ed ultima parte ci narra di Olivier
della sua vita sbandata, della musica, poi del piccolo rinsavimento che lo
porta all’insegnamento, al nuovo incontro con Sidonie, la sorella di Ariane.
Che prima gli dice che i due sono sposati, poi lo cerca alla morte di Ariane.
Lì ci saranno altre agnizioni, altre violenze, altri amori ed altri abbandoni.
Ci saranno altre morti ed una nascita, quella di una nuova pianta, Saule. Che
noi non vediamo mai, ma a cui Olivier ha dedicato tutto il libro per raccontargli
la storia della loro famiglia, ed aspettarlo (probabilmente) sull’aia della
case di Morvan.
Una bella saga in fondo. Dove si parla di
amicizia, di amore, di tradimenti, delle guerre personali e delle guerre
pubbliche, dei segreti che sono a lungo taciuti e poi, di colpo svelati, non
possono che portare scompigli in tutte le persone coinvolte. Dove, come si è
detto, si parla anche dei grandi temi. Detto tutto ciò, il modo generale è
forse un po’ troppo didattico, immagino retaggio delle scritture “young adults”
della scrittrice.
Così il giudizio non lievita oltre una buona
ricezione di lettura, perché, e 1questo dobbiamo pur dirlo, le vicende narrate
si concatenano bene e non si vede l’ora di leggere cosa succede nei vari spazi
temporali.
“In quei quattro anni, lontano dalle
agitazioni, leggo centonovanta tre libri (ho la lista a tua disposizione,
Saule).” (305) [193 in 4 anni! , io negli ultimi 4 anni ne ho letti 847, e ho
anche la lista]
Lisa
See “Fiore di Neve e il ventaglio segreto” Repubblica Voci d’Oriente 20 euro
9,90
[A: 04/08/2025 – I: 22/08/2025 – T: 24/08/2025]
- &&
[tit. or.: Snow Flower and the Secret Fan; ling. or.: inglese; pagine: 350; anno 2005]
Ultimo
libro della collana “Voci d’Oriente” pubblicata da Repubblica, con un volume
dedicato alla letteratura cinese (così si dice in copertina). Peccato che qui
Repubblica sia scivolata molto, trascinando in basso un libro che, nelle
premesse e nelle intenzioni avrebbe meritato una maggiore considerazione.
Perché
mi sembra un modo di prendere un po’ in giro il lettore, inserire, nella
programmazione di una collana che si intitola “Voci d’Oriente”, un libro che,
seppur dedicato ad alcuni interessanti aspetti della cultura cinese, è stato
scritto, una ventina d’anni fa, da una professionista della penna americana,
pur se di origini cinesi. Non solo, ma il libro, se fosse coerente, dovrebbe
essere stato scritto in cinese. Mentre la traduzione che qui vediamo è
dall’americano.
Poiché
sembra che nessuno abbia rilevato queste piccole difficoltà per inserirsi in
una trama che avrebbe dovuto essere cinese, veniamo allora al libro ed al suo
contesto. Un libro che si svolge principalmente nella regione di Hunan (che
ricordo di passaggio è la regione dove nel 1893 nacque Mao Zedong), dove vive
il popolo Yao. Un popolo molto “chiuso”, in cui vigeva una società matriarcale,
ma quando si inserisce nel contesto cinese, viene sottomesso dall’etnia locale,
che invece, come tradizione cinese, è patriarcale.
È in
questo contesto, che però la scrittrice non affronta mai direttamente, che
nasce la storia narrata da Giglio Bianco (“Lily” nell’originale, non si capisce
perché “bianco” o 百合 in cinese). Una donna che nasce il 5 giugno
del 1824, ma che ci narrerà la sua storia ormai vicina agli ottanta anni nel
1903. Una storia in cui, in pratica, compaiono solo donne. Il tentativo della
scrittrice è di farci entrare nel mondo della prima metà dell’Ottocento, con
tutte le sottomissione che una donna doveva avere nella cultura contadina. Ma
anche, seppur meno riuscito, farci vedere la possibilità di una “sorellanza”
che unisca e solidifichi i legami femminili.
Questi
tentativi vengono identificati in due eventi locali cruciali: il laotong ed il
nu shu. Il primo è un patto volontario di parentela acquisita, dove due ragazze
si legano per la vita, diventando sorelle esclusive ed aiutandosi
reciprocamente. Il secondo è una scrittura sillabica (quindi differente dal
cinese tradizionale che è “logografico”, cioè ogni carattere rappresenta una
parte o una parola intera), scritta dall’alto in basso, usando linee, spazi e
puntini che, a prima vista, potrebbero sembrare ricami. Era una scrittura
soltanto femminile, usata appunto dalle donne Yao per comunicare tra loro senza
venire scoperte dai maschi locali. Ed era talmente un ricamo che veniva spesso
scambiato per un ricamo, tanto da essere sovente scritto o, appunto, ricamato
nelle pieghe dei tradizionali ventagli cinesi.
In
questo ambiente Lily viene messa in contatto con Fiore di Neve (“Snow Flower” o
雪花 in cinese), e le due condivideranno tutta una
vita, a partire dai sei anni. È importante l’inizio del loro “laotong”, che
coincide con la cerimonia della bendatura dei piedi. Sappiamo praticamente
tutti che, per bellezza, alle bambine venivano fasciati i piedi in modo che non
si sviluppassero, e rendessero l’andatura femminile come quella di un fiore di
loto che si muove al vento. Era tuttavia una pratica dolorosissima ed a volte
anche mortale (rischi concreti di setticemia), ma se ne cercate in rete,
troverete descrizioni migliori di quelle che posso fare io rispetto ad una
pratica che solo a parlarne vengono i brividi.
Per
comunicare Lily e Snow usano il nu shu, essenzialmente scritto nei ventagli che
periodicamente si scambiano. Per tutta la loro vita nessun uomo capirà cosa si
andassero dicendo. Lily viene da un ambiente non agiato ma moderatamente
benestante di contadini, Snow appartiene ad una famiglia che vanta mandarini ed
altre presenze altolocate nelle cerchia del potere. Ma la bellezza dei piedi di
Lily la porta verso un matrimonio che la innalza di stato, mentre Snow, dopo
che la sua famiglia cade in rovina al cambio di regime centrale, è destinata a
scendere di rango, sposando poi un macellaio, una delle professioni più odiate
in tutta la Cina.
Il
libro segue il percorso dalla bocca di Lily, che vediamo simpatica ed empatica
all’inizio, ma poi diventare sempre più dura, man mano che scala la società,
fino a diventare un pilastro (femminile) locale, quando, morta la suocera,
diventa “Lady Lu”, la più alta espressione locale. Fortunata anche dal fatto di
aver messo al mondo 3 figli maschi. Snow invece cade sempre più in basso,
partorisce molti figli morti, ed è sovente malmenata dal marito. Dopo aver
vissuto insieme tragici momenti epocali della zona (la rivolta dei Taiping),
comprendendo che Lily ormai ha un suo ruolo alto in società, Snow pensa di fare
un passo indietro.
Una
decisione che non riesce a far comprendere interamente a Lily, usando parole
che possono essere lette in vario modo, e facendo nascere un’incomprensione che
avvelenerà gli ultimi anni della vita di Snow. Qui vediamo il ribaltamento dei
ruoli, con una Lily sempre più antipatica ed una Snow travolta da avvenimenti
più grandi di lei. Solo alla morte di Snow, verso i quarant’anni, Lily capisce
tutto il percorso della sua laotong, e passerà gli ultimi quarant’anni della
sua vita a cercare un ammenda per i suoi errori.
È un
romanzo d’amore e d’amicizia (belle le piccole scene di intimità tra Lily e
Snow), che cerca anche di illustrarci la sofferenza di quasi duecento anni fa,
delle donne sempre ma della popolazione tutta. Una sofferenza che attraversa il
dolore fisico tremendo della fasciatura dei piedi, ed il dolore psicologico dei
matrimoni combinati e dell’impossibilità delle donne di crescere culturalmente.
Ma anche la sofferenza generale fi un periodo di turbolenza, che però Lisa See
non esplora a fondo, non riuscendoci a comunicare i termini dei contrasti. Una
parte centrale del libro, infatti, si svolge durante la rivolta dei Taiping,
una guerra civile che sconvolse la Cina per quasi quindici anni provocando pare
trenta milioni di morti.
Insomma,
un libro con qualche spunto interessante, soprattutto se da quello si va ad
approfondire altrove. Ma che non riesce a decollare. Ricordo solo di leggere
attentamente la prima frase che riporto: illuminante!
“Le
Tre Obbedienze (redatte da Confucio e dedicate alle donne): da bambina,
obbedisci al padre; una volta sposata, obbedisci al marito; da vedova,
obbedisci a tuo figlio.” (35)
“Non
si sfugge agli effetti del tempo.” (335)
“La
tragedia di invecchiare tanto è che si vedono morire troppe persone.” (342)
Nell’ambito
delle citazioni di ritorno, per la nota alternanza, prendiamo alcune frasi del
grande giallista italiano Giorgio
Scerbanenco che mi fece riflettere
con alcune frasi prese da uno dei suoi libri meno noti, “La sabbia non ricorda”:
“Lei sapeva che cosa erano i pensieri
fissi, le ossessioni, le angosce, perciò lo comprendeva. Non si fugge da
qualche cosa che abbiamo dentro di noi.” (53)
“Egli si ravviò i corti capelli … mentre
guardava lei, pensando oscuramente a come aveva fatto a stare tanto tempo senza
vederla, poi, sempre oscuramente, capì che in tutto quel tempo che ne era stato
lontano aveva sofferto, anche se non sapeva di soffrire, anche se credeva di
soffrire per altre ragioni e invece l’unica ragione della sua torpida
scontentezza, in tutto quel tempo passato senza di lei, era stata proprio lei.”
(106)
“Gli dispiaceva lasciarla così, ma forse
non c’è modo di lasciarsi migliore di un altro: sono tutti peggiori.” (168)
Finita la stagione estiva, ci si prepara alle giornate che si accorciano, alla fine (tra un mese) dell’ora legale, magari (e si spera presto) in nuovi convivi amicali. E perché no, ad ipotizzare con i nostri amici viaggiatori, ad altre e nuove mete da esplorare. Per ora un grande abbraccio.