lunedì 29 settembre 2025

Donne nel mondo - 28 settembre 2025

Alla fine di una bella estate, da un lato, avendo riorganizzato qualche indirizzario riesco ad inserire nuovi lettori, con la solita personale preghiera. Se vi stufate o non siete interessati, basta una mail e vi rimuovo da questa lista. Non ovviamente da tutte le altre.

Questa settimana ci occupiamo di scrittura al femminile con cinque scrittrici di cinque lingue diverse. In testa, e con distacco, un altro ottimo libro dell’islandese Auđur Ava Ólafsdóttir. Sul podio a pari merito, con delle buone prove di scrittura l’italiana Chiara Valerio e la francese Anne-Laure Bondoux. In coda, con prove alternanti, di interesse lo spagnolo dell’argentina Gabriela Cabezón Cámara e l’inglese della cino-americana Lisa See.

Gabriela Cabezón Cámara “Las aventuras de la China Iron” Random House s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 25/04/2025 – I: 30/04/2025 – T: 02/05/2025] - &&   

[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 185; anno 2017]

Come spero abbiate in mente, quando visito un paese dalla lingua nota, cerco di trovare qualche libro, in genere non troppo vecchio, per stare più in contatto con la visita. Non avendo molte informazioni sulla letteratura argentina attuale, mi sono affidato, in prima battuta, alle discussioni online su alcuni siti internazionali di letteratura. Dalla rosa di nomi proposta, l’unico libro disponibile presso la bellissima libreria “El Ateneo” era questo “Las aventuras de la China Iron” di Gabriela Cabezón Cámara.

Abbastanza semplice in lettura, almeno fino a pagina 130, dove cominciano a comparire alcune pagine bianche. Il libro si legge ugualmente, pur saltando alcuni passi. Fortunatamente, l’ottima casa editrice Random House Argentina, cui ho posto il problema, mi ha inviato il libro in formato PDF, così che ho potuto integrare agevolmente la lettura.

Intanto, va detto che Gabriela Cabezón Cámara è una giornalista ben nota in patria per le sue posizioni femministe ed in difesa di tutte le donne, nonché attivista del mondo LGBT. Quasi sessantenne ha scritto solo quattro romanzi, e qualche racconto, privilegiando in genere il giornalismo, l’esposizione pratica e visibile delle sue idee, nonché tutte le iniziative in favore delle donne, come la fondazione del movimento di tutela femminile “Non una di meno”.

La scrittura, abbastanza di facile lettura nei momenti descrittivi, si impenna nei momenti lirici, facendomi diverse volte fermare per ricorrere a traduzioni esplicative di piccoli passaggi. Ma nel complesso è un libro potente, probabilmente molto di rottura in patria, e di certo ben visto nel continente americano, laddove arrivo tra i finalisti dell’International Booker Prize nel 2020.

L’adesione e vicinanza al mondo letterario argentino deriva da una osservazione dell’autrice che è stata poi l’elemento scatenante del progetto-libro. In Argentina, uno dei pilastri storici della scrittura è la cosiddetta “gauchesca”, nata in contrapposizione all’imperialismo letterario europeo e che è basata sull'usare il linguaggio dei gaucho e riflettere la loro mentalità. Leggendo di questi libri, Gabriela si rende conto che mai viene espresso o messo in luce il punto di vista delle donne. Decide quindi di prendere il massimo esemplare di questa letteratura, il “Martin Fierro” di José Hernandez, facendone quasi una riscrittura in termini femminili.

Intanto, l’io narrante è una donna. Ma non una donna qualsiasi. Una donna che, dopo essere stata abusata e maltrattata in tenerissima età, viene vinta per scommessa da Martin Fierro, divenendone la moglie. Dopo avergli dato due figli, mentre Martin lascia il paesello per servire il paese come soldato, lei fugge accompagnata dal solo cane Estreya. E da qui cominciano le sue peripezie gauchiste.

Che iniziano anche dal nome. Nel “Martin Fierro”, la sposa di Martin viene indicata come “la China”, che significa ragazza, donna. La narratrice quindi quando le chiedono come si chiama risponde China, ma, come si dice nel capitolo 4 “La China no es un nombre”. Così che lei si autonomina Josephine Star Iron. Joséphine come omaggio e riferimento all’autore del “Martin Fierro”, Josè Hernandez. Star riferendosi alla sua cagna Estreya e Iron nella trasposizione in inglese del nome del marito (Fierro à Iron à Ferro).

Veniamo così alle avventure vere e proprie della gaucha del titolo. Che nella sua fuga incontra una donna inglese, Elizabeth, alla ricerca del marito, argentino e probabilmente soldato insieme a Martin. Sono loro due, Liz e China che attraversano tutto il romanzo, con molte piccole avventure e disavventure, tutte in qualche modo con una visione femminile di quel mondo maschile.

Intanto, già la tripartizione del testo usa i tre capitoli con nomi che i gaucho conoscono bene, ma rovesciandone caratteristiche e sensibilità. Epitomi della scrittura di Hernandez sono il deserto, il forte, l’entroterra. Nel deserto si rispecchiava l’immobilità del destino dei gaucho, mentre qui Liz e China attraversano il deserto, costruiscono il loro sodalizio ed arrivano ad uscirne. Per arrivare appunto al forte, non più elemento di cameratismo ma ribaltamento delle idee del gaucho che ne mostrano la limitatezza. Ed infine l’entroterra, la patria del gaucho, che China reinventa, dedicandola al potere del desiderio, verso un’armonia globale, dove loro, Liz, China e gli altri “devono vedersi” (cioè esistere nel loro modo di essere), ma loro, gli altri “no nos van a ver” (loro non ci vedranno). Il messaggio forte che Gabriela vuol fare uscire da queste pagine.

Ma, in breve, cosa succede nell’anti gauchista romanzo? Nella prima parte c’è la conoscenza che abbiamo della China, di Liz, del perché stanno viaggiando, e nel come. L’aiuto che dà loro Rosario, un conduttore di muli, dove il nome, generalmente è usato per le donne, mentre qui il maschio Rosario viene spesso chiamato Rosa, e vestito anche in abiti femminili. Assistiamo anche alla conquista amorosa della China da parte dell’inglese Liz, con la duplice valenza sia di affermare una completa libertà, come da posizioni storiche di Gabriela, sia adombrando il colonialismo inglese che in certe fasi storiche ha oppresso il continente, lasciando quella ferita aperta che è ancora la diatriba Falkland/Malvinas.

Poi si arriva al forte, dove al comando c’è un generale inflessibile che non a caso si chiama Josè Hernandez (ed avete subito capito il riferimento). Nel forte Josè raduna un forte numero di gaucho nel tentativo di civilizzarli, di trasformarli da bruti abitanti delle pampas in cittadini utili. Peccato che vengano utilizzate forme coercitive talmente brutali, che il rischio è di radicalizzare il gaucho nella parte “incivile”. Poi, cercando com’è ovvio il bruto Josè di assalire sessualmente Liz, che viene salvata dalla China travestita da uomo. Così che alle nostre eroine non resta che fuggire nell’entroterra.

Dove finalmente trovano i rispettivi mariti, trovano un mondo di libertà ed armonia con la natura, dove sono abolite tutte le distinzioni: sociali, intellettuali e di genere. Non c’è proprietà privata, non ci sono famiglie chiuse. Tutti sono uguali nei diritti e nei doveri: uomini, donne, e tutte le altre possibili identità. In questo mondo idilliaco, si esaltano le parole di Gabriela e la sua visione LGBT del mondo, nonché ulteriori ironie sui gaucho.

Martin Fierro si traveste da donna ed ha una relazione con un uomo, Liz e la China si amano e si lasciano, ed alla fine la China trova un nuovo amante, decidendo di cambiare il suo nome in Tararira, sancendo definitivamente il passaggio dalla mitologia dei gaucho ad altro. Che il nome, in spagnolo, è sinonimo (anche) di svitato, di persona “pazzariella”, ma è anche il nome di un pesce, il pesce lupo. Nota etologica dedicata a mio cugino: il tararira depone le uova in acque poco profonde ed è il maschio che se ne cura e fa da guardia.

Per tornare al testo, anche il suo nuovo nome è programmatico, portando la China a diventare una piccola leader della comunità, al fine di guidarla in luoghi inaccessibili agli altri, dove nessuno li potrà vedere.

Come avete capito, è un libro fortemente a tesi, con qualche forzatura dove la struttura deve arrivare a dimostrare l’assunto della scrittrice. Ma di certo è un lavoro pensato a lungo e realizzato con fine capacità. Pieno di rimandi, pieno anche di poesie, come il Martin Fierro, spesso usate in modo ironico, cosa che Hernandez non fa né avrebbe mai fatto.

Forse questi, che per un argentino sono punti interessanti, ci portano ai limiti, per noi al di qua dell’oceano, di questa operazione. Forse conoscendo la letteratura gauchesca, ed avendo letto, almeno, “Martin Fierro” e “Don Segundo Sombra” di Ricardo Güiraldes, ne avremmo capito ed apprezzato meglio. Nei limiti a noi concessi, un’operazione curiosa che lascia lo spazio ad approfondimenti futuri, ma che nello specifico si barcamena in un limbo di piacere mediano.

Auđur Ava Ólafsdóttir “Miss Islanda” Einaudi euro 11,50

[A: 14/07/2021 – I: 07/05/2025 – T: 08/05/2025] &&&& --  

[tit. or.: Ungfrú Ísland; ling. or.: islandese; pagine: 196; anno 2018]

Auđur Ava Ólafsdóttir è una scrittrice di cui ho letto molto, che ritengo sia un esempio fulgido di scrittura e di rappresentazione, visiva e corale, di quel paese che amo, nonostante tutti i suoi difetti. Anche qui, la cosa migliore e fulgida è proprio la rappresentazione della realtà islandese in un determinato momento storico. Purtroppo, l’urgenza di mandare quel forte messaggio che, in fondo, non molto è cambiato in sessanta anni, rende la trama a volte un po’ lenta, quasi inconcludente direi. Così che anche i personaggi che potrebbero avere un buon spessore, attraversano momenti di stanchezza.

Tanto che io, aspettandomi qualche colpo di coda, alla fine mi vedo costretto ad abbondare in segni meno. Non c’è uno scatto finale. Certo, molti suoi romanzi scivolano in finali aperti o quasi da scritture minimaliste. A volte è un bene, che noi lettori si prosegue la trama nella mente, e a volte non lo è, che si vorrebbe un’empatia maggiore con i personaggi per accompagnarli oltre la pagina. Cosa che con Hekla non succede. Ovviamente parlo di Hekla la protagonista, e non l’omonimo vulcano famoso per l’eruzione spettacolare del 1947.

Però, prima di entrare nella trama, semplice ed in un certo senso priva di acuti, sarebbe bene riflettere sul messaggio che percorre le pagine del libro. Ora, noi che visitiamo l’Islanda attuale ne vediamo gli aspetti libertari, di condivisione, di uguaglianza, di rispetto. La nostra scrittrice ci manda qui, invece, due messaggi. Innanzi tutto, non è stato sempre così, e per arrivare qui ci sono voluti, come diceva Churchill, “sangue, sudore e lacrime”. Ed in secondo luogo, abbiamo realmente abbattuto tutti gli steccati che vediamo nel testo. Sia in patria, che in tutto il resto del mondo.

Allora, poniamoci concordemente al testo, in quell’anno mirabilis che fu il 1963. Ricordo di passaggio che uscì il primo LP dei Beatles, Paolo VI venne eletto Papa, Martin Luther King organizza una gigantesca manifestazione antirazzista (quella di “I have a dream”), viene ucciso John Fitzgerald Kennedy. In Italia ci fu il terribile disastro del Vajont (due giorni prima della nascita di Alessandra). Mentre in Islanda, nel novembre cominciò una potentissima eruzione vulcanica che portò alla formazione dell’isola di Surtsey (nota di colore: l’eruzione cominciò il 14 novembre 1963 e terminò il 5 giugno 1967!).

Tanti avvenimenti che ne fanno un anno epocale. Un anno che sarà cruciale anche per Hekla, e per il suo amico gay DJ Johnson. E prima di seguirne le tracce, mettiamo alcuni puntini sulle “i”. La legge che dichiarava illegale l’omosessualità venne abolita in Islanda nel 1940. Nel 1980 viene eletta per la prima volta una donna come presidente dell’Islanda (carica cui fu rieletta altre tre volte, decidendo di ritirarsi nel 1996). E nello stesso 1996 viene promulgata la legge che sancisce la possibilità di unioni civili anche per gli omosessuali. Infine, sarà nel 2009 che viene eletta prima ministra Jóhanna Sigurðardóttir, donna e omosessuale.

La nostra Hekla è però solo donna. Ma ha un grande difetto, o forse due. È bella e scrive bene. Proprio per la scrittura decide di lasciare Dalir (poco ridente posto al nordest dell’isola) per tentare la sorte nella capitale. Ha già pubblicato qualcosa, ma usando uno pseudonimo maschile. E nella capitale si troverà ad affrontare tutti gli stereotipi del razzismo verso le donne.

Essendo bella più volte le propongono di partecipare al concorso di Miss Islanda. Che rifiuta. Ma per vivere si adatta a fare la cameriera, ovviamente con una paga inferiore agli uomini.

Poiché il corpo vuole anche la sua parte, ha una buona intesa sessuale con un bibliotecario che cerca di sfondare nella letteratura. Intesa che naufraga primo perché Hekla non ha alcuna intenzione di sfornare bambini e timballi. E secondo perché scrivendo meglio e con più successo dell’amante, questo si sente frustrato ed incapace di accettare di essere messo in secondo piano.

L’unica persona con cui Hekla si trova in sintonia è con DJ Johnson, il gay cui piace confezionare vestiti, che non riesce ad avere storie lunghe, che si imbarca su navi improbabili per avere soldi sia per vivere che per cercare di fuggire all’estero, dove pensa la vita sia diversa. I nostri troveranno il modo di andarsene in Danimarca, ma, accorgendosi che, con alcune differenze, la vita è sempre ugualmente ostica, dovranno accettare dei compromessi per seguire le loro aspirazioni di vita.

Auđur è bravissima a condurci per mano in questo labirinto di ipocrisie del mondo del ’63, usando mirabilmente i dialoghi, di Hekla, di Dj Johnson, ed in controluce le digressioni della donna sconfitta, di Ísey, che invece subisce il ruolo di moglie e madre, e ci irretisce con dei monologhi di una tristezza lancinante.

Come ed altrettanto in modo forte, l’autrice riesce a tirar fuori nell’amante di Hekla la meschinità di chi non accetta di essere un poeta mediocre, di chi non accetta la superiorità della propria donna in campo lavorativo e intellettuale. Perché Hekla sa scrivere, sa che vuole un futuro diverso da Ísey, sa che la scrittura la può rendere libera.

C’è una frase che il capocameriere rivolge ad Hekla illuminante come summa della grettezza umana di quel periodo (e forse non solo di quello): “Il mondo non è come vorresti che fosse. Sei una donna. Fattene una ragione”.

Il punto debole di tutta la trama è qui che nasce. Hekla non se ne fa una ragione, ma non esterna mai questa ricerca di “una stanza tutta per sé”. Per non entrare in conflitto, per non sentirsi isolata nella diversità. Anche se poi isolata lo è sempre. Manca questo scatto, e nello stile dell’autrice ci avviamo ad un finale che ci serve solo per riflettere e pensare cosa succederà dopo a Hekla, a DJ Johnson, a Ísey. Ci lascia la palle del futuro di quel ’63 fondante.

E noi siamo qui, sessanta anni dopo, a chiederci non che fine ha fatto Hekla, ma che fine ha fatto tutto quel nostro futuro di allora.

Chiara Valerio “La fila alle poste” Sellerio euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)

A: 15/07/2025 – I: 03/08/2025 – T: 05/08/2025] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 366; anno: 2025]

Una specie di seguito improprio di “Chi dice e chi tace” che ribadisce la vena poetica di Chiara Valerio, la sua bella scrittura, e le idee che il testo ci suscita. Un seguito improprio che, pur avendo unità di luogo e di personaggi, se non di tempo, con il precedente, e pur facendo seguire le azioni che gli stessi muovevano nel primo testo, in realtà cerca di aprire altri fronti alla discussione che l’autrice vuole suscitare nei lettori.

Unità di luogo, che siamo ancora s Scauri, teatro principe delle vicende e luogo del cuore di Chiara. Unità di personaggio, che oltre alla protagonista, l’avvocata Leo Russo, c’è il marito Luigi, le due figlie, Mara che era stata l’ultima compagna di Vittoria, Filomena e Mimmo e l’avvocato che era stato il marito di Vittoria e Rebecca, una degli antichi amori di Vittoria. Ed ovviamente, evocata, pensata e nominata, c’è anche Vittoria, pur se morta nel libro precedente. Per il tempo, invece, c’è la prosecuzione, visto che ora siamo nel 1992, tre anni dopo i fatti narrati nel primo libro.

La sensibilità di Chiara mescola ad arte realtà e finzione, facendoci seguire, in una bio-fiction trasposta, i pensieri di Lea e la sua agnizione verso il suo sé stesso. Dall’altro, inserendo elementi realmente fittizi che servono ad inserire momenti di riflessione nella trama. Che, nella sua linearità è decisamente semplice.

Se da un lato seguiamo i percorsi mentali di Lea (ma anche qualche percorso fisico), dall’altra si inserisce la morte della piccola Agata, forse (o forse sicuramente) uccisa dalla madre, la sparizione di chili di vongole poste a spurgare a mare, le vicende, complicate e segrete, delle suore di Scauri. Il tutto condito da reiterati momenti relativi al titolo. Siamo nel ’92, non si usa ancora la rete con tutti i suoi benefici ed i suoi guasti. Quindi, per le bollette, le raccomandate, i pacchi, si va a fare la fila alla posta. E lì, soprattutto nei paesi, si parla e si sparla.

Come nel primo libro, quelli che realmente sono al centro della scena sono Scauri e Vittoria. La cittadina come teatro delle azioni, punto di coagulo delle attività e dei pensieri di tutti, unificando solitudine e collettività. Lea, ma non solo, è in realtà sola, con i suoi pensieri, con il suo percorso di comprensione delle sue pulsioni. E del suo rapporto con Vittoria. Mai esplicitato, nel primo libro, sempre sotteso, e qui sempre pensato, e mai agito, visto che non c’è più Vittoria. Ma agito di rimando, come quando bacia furiosamente la prima amante di Vittoria, solo per sentire la bocca della forse amata attraverso una bocca realmente baciata.

Poi c’è la sottotraccia che fa da contraltare al romanzo. La morte della bambina un po’ ritardata, di cui è accusata, forse a ragione, la madre (parliamo di Cogne?). Lì, mentre deve decidere se assumere le difese del padre della morta, combattuta tra la giustizia di un avvocato ed il sentimento di ripulsa verso un essere veramente poco empatico, si sviluppa una sorta di giallo cittadino. Colpevole, innocente, e l’arma del delitto, e a chi conviene. Sempre con grandi discussioni alle fila della posta. Usando la sua relatività matematica, Chiara ci fa ragionare sulla verità, che non è mai definitiva. Come ci dimostra il regalo postumo che le arriva da Vittoria, tre anni dopo la morte, che rimescola le carte, e le idee di Lea.

Come detto poi ci sono le vongole che spariscono, le suore di provincia, sempre un po’ sulla bocca di tutti, ed altre attività di contorno. Chiara riesce ad imbastire un romanzo corale pur se Lea è sempre al centro della scena, raccontandoci tutto attraverso le sue parole. Alla fine, è una lunga cavalcata che ci parla d’amore in molte e differenti forme. Ma ci parla anche del dolore, lasciandoci un’immagine viva della vita di provincia, ed un ritratto di Lea che si va sempre più precisando ed arricchendo.

Tuttavia, non coinvolge come il precedente, forse perché ha in mente qualcosa, mentre nel primo la penna fluiva sulla carta con facilità. Anche se con tanta lentezza, ma di questo devo ringraziare la scrittrice che ci ricorda, in maniera indiretta, che dobbiamo frenare la nostra vita frenetica. Non solo, ma che alla fine, l’unico insegnamento vero dalla vita, dalla letteratura, è quello della terza frase che riporto sotto.

Io lo capii a cinquant’anni, ma non lo scordo più.

“Compivo quarantatré anni e … sarei stata costretta a dirmi che il tempo scorreva perché persone che c’erano state non c’erano più.” (12)

“Esistono cose che non possiamo permetterci di dire? , tra te e me?” (90)

“Magari uno potesse insegnare qualcosa a qualcuno, si può solo sperare che qualcuno impari, prenda qualcosa da ciò che dici e ne faccia buon uso.” (313)

“Tutti gli animali fanno l’amore ma solo gli esseri umani possono parlarne. Per fare l’amore non c’è niente da imparare, basta essere vivi, a parlare d’amore invece s’impara.” (337)

Anne-Laure Bondoux “Attraverseremo le bufere” E/O euro 19,50 (in realtà, scontato a 18,55 euro)

[A: 15/07/2025 – I: 10/08/2025 – T: 11/08/2025] - &&& 

[tit. or.: Nous traverserons des orages; ling. or.: francese; pagine: 488; anno 2023]

Anne-Laure Bondoux, poco più che cinquantenne francese, dopo aver scritto per anni libri dedicati al mondo giovanile (tra l’altro con un discreto successo) un paio di anni fa scrive una potente saga familiare, di certo partita con un occhio al suo pubblico di riferimento, ma poi si è allargata con un taglio che merita una lettura da chiunque abbia interesse alle belle lettere.

È in effetti un romanzo corale che spazia dal 1914 al 2022, coinvolgendo tutte le generazioni della famiglia Balaguère. Una famiglia, all’inizio della storia, radicata nel Morvan, regione collinare al centro della Francia, praticamente quasi a metà strada tra Lione e Parigi. L’idea della scrittrice è di legare la storia della piccola famiglia, con la Storia di questi cento anni. Così sceglie, con una decisione per me opinabile, che i corsivi intra-temporali mi lasciano sempre un po’ di prurito sulle dita, di intervallare la narrazione con elementi narrativi esterni. Che danno conto del passare del tempo, legandolo ai grandi avvenimenti mondiali. Le due Guerre mondiali, la guerra d’Algeria, che tanto ha significato per il mondo francese, le rivolte sociali (anche se il Sessantotto praticamente si ignora), l’insorgere dell’AIDS, il disastro di Chernobyl, la caduta del Muro di Berlino, le torri gemelle (questo tento per citare i punti maggiori della Storia).

Sul versante interno, seguiamo le vicende dei maschi della famiglia, tutti (o quasi) con uno sfogo verso la violenza, come se l’avessero nel loro DNA. Tutti, anche, con la caratteristica di avere un nome legato alle piante: Charme (cioè Carpino, una pianta della famiglia delle Betulle), Aloe (questo non ha bisogno di traduzione), Olivier (cioè olivo), Saul (cioè salice). Ci sarebbe anche il capostipite, Cytisie, il cui nome italiano sarebbe “maggiociondolo” o, se seguiamo le poesie pascoliane, “avorniello”. In tutto ciò, non sono riuscito a trovare una traduzione di pianta per Anzême. Ma se la saga Balaguère è al maschile, sono le donne che si avvicendano sul palco della storia che forniscono la forza invisibile che tiene tutto in piedi, che ama e si ribella, che dà e toglie la forza. Ci sono quindi Clairette, Gaby, Mona, Christiane, Ariane, Sidonie.

Come detto, il racconto comincia nel 1914, dove vediamo la famiglia Balaguère agli albori. C’è il rude pater familias Cytisie, c’è il primogenito Anzême e c’è il cadetto Marty (giovane, irruento, istintivo). Anzême sposa Clairette ma parte subito militare. A casa Clairette cede alle lusinghe di Marty, ma una volta scoperti, in una colluttazione (ecco il lato violento della famiglia), il padre uccide accidentalmente Marty. Anzême, tornato invalido dalla guerra, trova Clairette incinta, e lei, imbrogliando le date, lo convince della paternità di Charme (che ovvio è figlio a Marty).

Qui si conclude la prima parte della storia, prima che si avvii la seconda (ci sono tante cose, io vado per caposaldi miei), dove vediamo Charme crescere, passare tempi felici a Parigi, sposarsi con Gaby e poi partire per il militare. Ai due nasce Aloe, timido ed introverso, bullizzato dai figli della vicina Mona. Quando Jean, figlio di Mona, accidentalmente spara un colpo di pistola, polverizzando la rotula di Charme, ed incolpandone senza possibilità di appello Aloe, tutto crolla. Charme non perdonerà mai Aloe, Gaby fugge la campagna che non ha mai amato, e Mona consolerà Charme ma non Aloe. Il cui unico aiuto arriverà da Gerard, il maestro di scuola, che lo guida e lo sostiene.

Questa seconda parte chiusa, ci spostiamo a seguire la crescita di Aloe, la sua partenza per la guerra in Algeria, il ritorno con la dolce Christiane che lo vuole in sposo. Lei per sfuggire alle pretese di sposalizi di interesse che aveva il padre-macellaio, lui per nascondere la sua omosessualità. Cosa che Christiane comprende ben presto, ma che vince due volte restando incinta. Non vi parlo di Veronique, che ci porta fuori tema, ma c’è Olivier che nasce. Noi però seguiamo il precorso di Aloe, che lo porta ben presto a lasciare la famiglia ed andare a vivere a Parigi con Karl, il suo amante.

La quarta e quinta parte del libro sono al fine incentrate su Olivier, che tra l’altro sarebbe l’io narrante. La prima narra della sua infanzia, lo studio, la crescita, il trasferimento a Parigi a casa del padre e di Karl, l’amore per Ariane, il sodalizio con Terence, fino alla crisi: durante la tragedia di Chernobyl, Terence gli dice che si è messo con Ariane, e Olivier lascia tutto e tutti. Scuola, amici, vivendo alla giornata dopo che Aloe e Karl sono morti di AIDS.

La quinta ed ultima parte ci narra di Olivier della sua vita sbandata, della musica, poi del piccolo rinsavimento che lo porta all’insegnamento, al nuovo incontro con Sidonie, la sorella di Ariane. Che prima gli dice che i due sono sposati, poi lo cerca alla morte di Ariane. Lì ci saranno altre agnizioni, altre violenze, altri amori ed altri abbandoni. Ci saranno altre morti ed una nascita, quella di una nuova pianta, Saule. Che noi non vediamo mai, ma a cui Olivier ha dedicato tutto il libro per raccontargli la storia della loro famiglia, ed aspettarlo (probabilmente) sull’aia della case di Morvan.

Una bella saga in fondo. Dove si parla di amicizia, di amore, di tradimenti, delle guerre personali e delle guerre pubbliche, dei segreti che sono a lungo taciuti e poi, di colpo svelati, non possono che portare scompigli in tutte le persone coinvolte. Dove, come si è detto, si parla anche dei grandi temi. Detto tutto ciò, il modo generale è forse un po’ troppo didattico, immagino retaggio delle scritture “young adults” della scrittrice.

Così il giudizio non lievita oltre una buona ricezione di lettura, perché, e 1questo dobbiamo pur dirlo, le vicende narrate si concatenano bene e non si vede l’ora di leggere cosa succede nei vari spazi temporali.

“In quei quattro anni, lontano dalle agitazioni, leggo centonovanta tre libri (ho la lista a tua disposizione, Saule).” (305) [193 in 4 anni! , io negli ultimi 4 anni ne ho letti 847, e ho anche la lista]

Lisa See “Fiore di Neve e il ventaglio segreto” Repubblica Voci d’Oriente 20 euro 9,90

[A: 04/08/2025 – I: 22/08/2025 – T: 24/08/2025] - &&  

[tit. or.: Snow Flower and the Secret Fan; ling. or.: inglese; pagine: 350; anno 2005]

Ultimo libro della collana “Voci d’Oriente” pubblicata da Repubblica, con un volume dedicato alla letteratura cinese (così si dice in copertina). Peccato che qui Repubblica sia scivolata molto, trascinando in basso un libro che, nelle premesse e nelle intenzioni avrebbe meritato una maggiore considerazione.

Perché mi sembra un modo di prendere un po’ in giro il lettore, inserire, nella programmazione di una collana che si intitola “Voci d’Oriente”, un libro che, seppur dedicato ad alcuni interessanti aspetti della cultura cinese, è stato scritto, una ventina d’anni fa, da una professionista della penna americana, pur se di origini cinesi. Non solo, ma il libro, se fosse coerente, dovrebbe essere stato scritto in cinese. Mentre la traduzione che qui vediamo è dall’americano.

Poiché sembra che nessuno abbia rilevato queste piccole difficoltà per inserirsi in una trama che avrebbe dovuto essere cinese, veniamo allora al libro ed al suo contesto. Un libro che si svolge principalmente nella regione di Hunan (che ricordo di passaggio è la regione dove nel 1893 nacque Mao Zedong), dove vive il popolo Yao. Un popolo molto “chiuso”, in cui vigeva una società matriarcale, ma quando si inserisce nel contesto cinese, viene sottomesso dall’etnia locale, che invece, come tradizione cinese, è patriarcale.

È in questo contesto, che però la scrittrice non affronta mai direttamente, che nasce la storia narrata da Giglio Bianco (“Lily” nell’originale, non si capisce perché “bianco” o 百合 in cinese). Una donna che nasce il 5 giugno del 1824, ma che ci narrerà la sua storia ormai vicina agli ottanta anni nel 1903. Una storia in cui, in pratica, compaiono solo donne. Il tentativo della scrittrice è di farci entrare nel mondo della prima metà dell’Ottocento, con tutte le sottomissione che una donna doveva avere nella cultura contadina. Ma anche, seppur meno riuscito, farci vedere la possibilità di una “sorellanza” che unisca e solidifichi i legami femminili.

Questi tentativi vengono identificati in due eventi locali cruciali: il laotong ed il nu shu. Il primo è un patto volontario di parentela acquisita, dove due ragazze si legano per la vita, diventando sorelle esclusive ed aiutandosi reciprocamente. Il secondo è una scrittura sillabica (quindi differente dal cinese tradizionale che è “logografico”, cioè ogni carattere rappresenta una parte o una parola intera), scritta dall’alto in basso, usando linee, spazi e puntini che, a prima vista, potrebbero sembrare ricami. Era una scrittura soltanto femminile, usata appunto dalle donne Yao per comunicare tra loro senza venire scoperte dai maschi locali. Ed era talmente un ricamo che veniva spesso scambiato per un ricamo, tanto da essere sovente scritto o, appunto, ricamato nelle pieghe dei tradizionali ventagli cinesi.

In questo ambiente Lily viene messa in contatto con Fiore di Neve (“Snow Flower” o 雪花 in cinese), e le due condivideranno tutta una vita, a partire dai sei anni. È importante l’inizio del loro “laotong”, che coincide con la cerimonia della bendatura dei piedi. Sappiamo praticamente tutti che, per bellezza, alle bambine venivano fasciati i piedi in modo che non si sviluppassero, e rendessero l’andatura femminile come quella di un fiore di loto che si muove al vento. Era tuttavia una pratica dolorosissima ed a volte anche mortale (rischi concreti di setticemia), ma se ne cercate in rete, troverete descrizioni migliori di quelle che posso fare io rispetto ad una pratica che solo a parlarne vengono i brividi.

Per comunicare Lily e Snow usano il nu shu, essenzialmente scritto nei ventagli che periodicamente si scambiano. Per tutta la loro vita nessun uomo capirà cosa si andassero dicendo. Lily viene da un ambiente non agiato ma moderatamente benestante di contadini, Snow appartiene ad una famiglia che vanta mandarini ed altre presenze altolocate nelle cerchia del potere. Ma la bellezza dei piedi di Lily la porta verso un matrimonio che la innalza di stato, mentre Snow, dopo che la sua famiglia cade in rovina al cambio di regime centrale, è destinata a scendere di rango, sposando poi un macellaio, una delle professioni più odiate in tutta la Cina.

Il libro segue il percorso dalla bocca di Lily, che vediamo simpatica ed empatica all’inizio, ma poi diventare sempre più dura, man mano che scala la società, fino a diventare un pilastro (femminile) locale, quando, morta la suocera, diventa “Lady Lu”, la più alta espressione locale. Fortunata anche dal fatto di aver messo al mondo 3 figli maschi. Snow invece cade sempre più in basso, partorisce molti figli morti, ed è sovente malmenata dal marito. Dopo aver vissuto insieme tragici momenti epocali della zona (la rivolta dei Taiping), comprendendo che Lily ormai ha un suo ruolo alto in società, Snow pensa di fare un passo indietro.

Una decisione che non riesce a far comprendere interamente a Lily, usando parole che possono essere lette in vario modo, e facendo nascere un’incomprensione che avvelenerà gli ultimi anni della vita di Snow. Qui vediamo il ribaltamento dei ruoli, con una Lily sempre più antipatica ed una Snow travolta da avvenimenti più grandi di lei. Solo alla morte di Snow, verso i quarant’anni, Lily capisce tutto il percorso della sua laotong, e passerà gli ultimi quarant’anni della sua vita a cercare un ammenda per i suoi errori.

È un romanzo d’amore e d’amicizia (belle le piccole scene di intimità tra Lily e Snow), che cerca anche di illustrarci la sofferenza di quasi duecento anni fa, delle donne sempre ma della popolazione tutta. Una sofferenza che attraversa il dolore fisico tremendo della fasciatura dei piedi, ed il dolore psicologico dei matrimoni combinati e dell’impossibilità delle donne di crescere culturalmente. Ma anche la sofferenza generale fi un periodo di turbolenza, che però Lisa See non esplora a fondo, non riuscendoci a comunicare i termini dei contrasti. Una parte centrale del libro, infatti, si svolge durante la rivolta dei Taiping, una guerra civile che sconvolse la Cina per quasi quindici anni provocando pare trenta milioni di morti.

Insomma, un libro con qualche spunto interessante, soprattutto se da quello si va ad approfondire altrove. Ma che non riesce a decollare. Ricordo solo di leggere attentamente la prima frase che riporto: illuminante!

“Le Tre Obbedienze (redatte da Confucio e dedicate alle donne): da bambina, obbedisci al padre; una volta sposata, obbedisci al marito; da vedova, obbedisci a tuo figlio.” (35)

“Non si sfugge agli effetti del tempo.” (335)

“La tragedia di invecchiare tanto è che si vedono morire troppe persone.” (342)

Nell’ambito delle citazioni di ritorno, per la nota alternanza, prendiamo alcune frasi del grande giallista italiano Giorgio Scerbanenco che mi fece riflettere con alcune frasi prese da uno dei suoi libri meno noti, “La sabbia non ricorda”:

“Lei sapeva che cosa erano i pensieri fissi, le ossessioni, le angosce, perciò lo comprendeva. Non si fugge da qualche cosa che abbiamo dentro di noi.” (53)

“Egli si ravviò i corti capelli … mentre guardava lei, pensando oscuramente a come aveva fatto a stare tanto tempo senza vederla, poi, sempre oscuramente, capì che in tutto quel tempo che ne era stato lontano aveva sofferto, anche se non sapeva di soffrire, anche se credeva di soffrire per altre ragioni e invece l’unica ragione della sua torpida scontentezza, in tutto quel tempo passato senza di lei, era stata proprio lei.” (106)

“Gli dispiaceva lasciarla così, ma forse non c’è modo di lasciarsi migliore di un altro: sono tutti peggiori.” (168)

Finita la stagione estiva, ci si prepara alle giornate che si accorciano, alla fine (tra un mese) dell’ora legale, magari (e si spera presto) in nuovi convivi amicali. E perché no, ad ipotizzare con i nostri amici viaggiatori, ad altre e nuove mete da esplorare. Per ora un grande abbraccio.

domenica 21 settembre 2025

Quasi belle letture - 21 settembre 2025

Una settimana appena tornati da un lungo fine settimana marsigliese, riprendiamo con quattro belle letture ed una così così. La meno coinvolgente è stata per me una lettura di un vecchio scritto di Paulo Coelho, una scrittore che a me non ha mai convinto. Salendo dal buono verso l’ottimo abbiamo l’ultimo scritto di Antonio Pascale con il suo non romanzo su quanto succede nella vita. E poi due giapponesi “storici” il Nobel Kenzaburō Ōe con un quasi compendio della sua vita, nell’ora che volge al suo termine, ed il poco conosciuto (a me) Furukawa Hideo con un libro in cui tutto è finzione (e leggete la sua chiusa). In cima un indimenticabile Abraham Yehoshua, con parole che (come la scorsa settimana per il libro di Anna Foa) non possono che continuare a farci riflettere su di una situazione che non ha e non avrà sbocchi.

Paulo Coelho “Undici minuti” Repubblica Latinoamericana 15 euro 9,90

[A: 13/05/2020 – I: 14/05/2025 – T: 16/05/202] - &&   

[tit. or.: Onze minutos; ling. or.: portoghese; pagine: 253; anno 2003]

Non ho letto molto di Paulo Coelho, anzi direi che ho letto poco o nulla. C’è però un dato che risalta subito ai miei occhi, ogni volta che leggo la sua scrittura. Un fastidio, forse immotivato, ma persistente. Mi sembra sempre che lui faccia il professore, che si ponga sulla sua cattedra a dispensare il sapere in forma Bignami. Non arrivo a definirlo presupponente, ma di sicuro è un atteggiamento che a me irrita.  

Cosa che si ripropone, immancabilmente, anche in questo “Undici minuti”, in cui volendo farci partecipi dell’apologo dedicato ad una mercenaria del sesso, con il pretesto di utilizzare come base di scrittura un manoscritto altro, uno scritto non suo, si imbarca nell’inanellare una bella sfilza di stereotipi della cultura di massa. Dedicando tutto il libro a promuovere quell’atto tra due persone che, secondo una media mondiale, dovrebbe durare undici minuti.

Allora, girando intorno ad una possibile idea di storia, mettiamoci intorno tutta una serie di “hit” condite da una buona ed accattivante proprietà di linguaggio, ed ecco confezionato un buon prodotto. Ci mettiamo dentro “Pretty Woman”, la religione più diffusa tra i lettori di Coelho, un fondamentale nome di donna, condiamo tutto con un po’ di sesso, ma senza spingerci oltre il lecito, ed ecco un bel prodotto.

Coelho prova a narrarci la storia di Maria (uno dei nomi più diffusi al mondo), seguendola sin dalla prima infanzia che si dipana nel profondo Brasile. Maria è bella, ma anche decisamente impreparata alle vicissitudini della vita. Maria si innamora, e cerca il “grande amore”. Possiamo dire con certezza che verrà presto disillusa. In ogni caso cresce, matura, si fa un po’ di strada nella vita, trovando un suo spazio all’interno della società locale. Per una qualche festa, decide di passare del tempo a Rio de Janeiro. Ed ecco, la svolta.

Un sedicente manager, che la vede bella e la sente cantare intonata, le propone un contratto come cantante di samba in un locale di Ginevra. L’ingenua Maria accetta, così che la vediamo volare oltre oceano, passare dal caldo brasiliano alla fredda Svizzera. Diciamo che si muove sul filo del rasoio. Canta sì, ma il padrone del locale (probabilmente in combutta con il finto manager) fa di tutto per metterla in difficoltà. Lei si licenzia.

Secondo colpo di svolta. Mentre cerca di capire come portare avanti la sua vita, ha un fortuito incontro con un arabo, che finisce ovviamente a letto. Lei pensa ad un rapporto occasionale. L’arabo è invece incrollabile nel voler pagare le sue prestazioni. Ecco che, da un giorno all’altro, Maria si trova a fare la prostituta. Entra nel giro di un bordello gestito da Milan, che diventa quasi un suo padre putativo, che la protegge e le spiega il mestiere.

Maria fa grandi progressi, diventa quasi più una escort che una mercenaria del sesso. Cerca anche di “acculturarsi”, entrando in gran confidenza con Heidi, bibliotecaria stramba che le spiega molto sul sesso (tra cui l’uso del clitoride e l’esistenza del “punto G”). Ovvio che  ci deve essere una nuova svolta, che arriva quando, uscendo da un bar, un avventore la ferma e le fa una strana proposta. Si chiama Ralf, è un pittore, ma ha perso il fuoco dell’arte. Ralf le chiede se le va di fare la modella per lui.

Nasce così un lungo tira e molla tra sesso virtuale, sesso parlato, dipinti iniziati, sedute di lavoro, scazzi ed altri momenti per condire le pagine. Fino a che Maria non trova il modo di scardinare la secca in cui si era arenato Ralf. E solo a quel punto, dopo pagine e pagine di rimandi, i due faranno l’amore. Cioè faranno sesso amandosi, uno dei momenti sublimi della vita. A questo punto Maria capisce che finalmente può tronare in Brasile avendo raggiunto lo scopo per cui era partita. Tuttavia, l’aereo fa scalo a Parigi, dove, con mossa birichina, Ralf (capite le sue intenzioni) l’aveva preceduta. E la sorprende in aeroporto con la frase “Parigi ci sarà sempre”.

Cosa succederà dopo dipende dalla vostra sensibilità e da quella di Coelho. Lui ne narra, noi immaginiamo l’esistenza di quel finale ma anche di tante possibili varianti.

In questo breve volo intorno al testo, ho ripreso molti dei punti iniziali. Manca la religione, che relego in due punti. Uno esplicito, quando nell’introduzione dedica il libro ad un casuale incontro a Lourdes, sottolineando una cosa che, se sottolineata, vuole dire che spesso viene messa in discussione. Cioè l’onestà dell’artista. La seconda quando, nell’arco dei suoi excursus sessuali, si arriva ad ipotizzare una sacralità del gesto sessuale, che a me pare un tantino stirata. Sono solo d’accordo che l’amore è un sentimento sacro, per il resto discutiamone.

Vorrei infine concludere con quella frase del finale su Parigi, che Ralf cita come proveniente da Casablanca. Purtroppo, la frase è leggermente diverse, che Humphrey dice “Avremo sempre Parigi”, che a Parigi lui e Ingrid si erano amati, ed ora, nel destino che li allontanerà per sempre, ci sarà il ricordo di Parigi a far tornare alla mente i bei momenti del loro amore. Un’accezione della frase che mi sembra leggermente diversa da quella che intona Ralf, visto che lui e Maria non sono mai stati (ancora) insieme a Parigi.

Comunque, per me la miglior frase su Parigi è quella di Audrey Hepburn in “Sabrina” quando dice “Parigi è sempre una bella idea”, facendocene capire il fascino eterno e la sua atmosfera magica e dedicata all’amore.

Mentre per me la più bella frase d’amore è sempre quella di Humphrey, ma in un altro punto del film, quando, pur amandosi, lui convince che l’unica cosa che Ingrid deve fare è partire, e le dice “Se quell'aereo decolla e tu non sei con lui, te ne pentirai. Forse non oggi, forse non domani, ma presto e per il resto della tua vita”.

Casablanca batte Coelho 1 a 0.

“Benché lui ignori totalmente la sua importanza nella mia vita … voglio che sia molto felice.” (139)

“Chi è innamorato sta sempre facendo l’amore, anche quando non lo fa.” (159)

Furukawa Hideo “Tokyo Soundtrack” Corriere Giappone 4 euro 8,90

[A: 22/05/2021 – I: 24/05/2025 – T: 28/05/2025] - &&&

[tit. or.: サウンドトラック Saundotorakku; ling. or.: giapponese; pagine: 759; anno 2003]

Furukawa Hideo è uno scrittore ormai verso i sessanta, atipico ma significativo nel panorama della letteratura giapponese. Da sempre amante delle lettere, della musica e del cinema, inserisce tutte queste sue passioni nella scrittura, dove ammette candidamente che il suo idolo è Murakami Haruki. E solo per questo, a me già piace. Devo dire, comunque, che ho faticato non poco a leggere questo grande volume, che alla fine, è pensandoci sopra, ho rivalutato rispetto ad un’iniziale gradimento limitato. Copre molti temi, mette molta carne al fuoco, ha, infine, uno stile completamente anti-Haruki, ma se inseriamo il testo nel suo contesto, non possiamo che apprezzarne alcuni tratti tipici.

Intanto, cominciamo invece con il disprezzare le modalità italiche di inserire notizie inutili nei titoli originali. Perché Hideo ha chiamato il testo “Colonna Sonora”, e quel Tokyo aggiunto anodinamente non porta nessun elemento di maggior positività al testo, se non ricordare al lettore che stiamo leggendo un testo giapponese.

Un testo che, scritto nel 2003, viene ambientato da Hideo nel 2009, in modo da poterci mostrare quello che potrebbe diventare il suo (nostro) mondo. E se poi ne leggiamo con il senno di venti anni dopo, vediamo anche quante profezie (o meglio anticipazioni) si siano avverate. Come non riconoscere a Hideo di aver già pensato un mondo che si avvia alla tropicalità (cambiamenti climatici), dove si perde l’identità personale (cambiamenti di genere), dove aumenta in modo incontrollabile l’ondata xenofoba (cambiamento degli atteggiamenti verso gli immigrati). Insomma, tutta una serie di motivi che ne fanno un libro interessante da leggere pur nella sua non facile lettura (e scusate il bisticcio).

Intanto, per semplificare il nostro approccio, vediamo subito che abbiamo cinque protagonista in tutta la vicenda. Ci sono Touta e Hitsujiko, due ragazzi che si salvano da un naufragio su di un’isola deserta, che vengono “salvati” e fatti adottare (si pensava fossero parenti, ma in realtà non lo sono, ed il modo in cui si salvano e vivono i primi anni della loro vita, è un piccolo “romanzo nel romanzo”). Hitsujiko trova una famiglia che poi la porta a vivere a Tokyo, mentre lui è irrequieto e ribelle ed a Tokyo ci andrà da solo, molto più avanti.

Ed è appunto Tokyo il protagonista numero tre, una città distopica e ostile, dove sorgono a dismisura baraccopoli, dove c’è grande violenza e poca empatia, ma che comunque Hideo riesce a dipingere benissimo, ed io, con Touta e Hitsujiko mi vedo passeggiare per Shibuya, per Harajuku e per Akihabara. Dove magari riesco ad incontrare il/la protagonista numero quattro, Lena. Un lui o una lei (non si sa realmente il suo gender) che nata in quartiere di immigrazione mediorientale, si aggira per la città dove cerca di vendicare il suo amico corvo (il quinto protagonista) cui hanno ucciso la compagna.

In una storia che poco o nulla ha di occidentale, possiamo riconoscere tre filoni molto giapponesi nella narrazione. Il primo è l’identità dei tre protagonisti umani, che, se fossimo un po’ più addentro al mondo nipponico, potremo associare con alcuni “emblemi” molto caratteristici. Touta è sicuramente la reincarnazione nel XXI secolo di un samurai in cerca di un sé stesso padrone. Mentre Hitsujiko potrebbe farsi vedere come una “Sailor Moon” in versione anarchica mentre Leni si potrebbe identificare in “Ranma ½” (spero sappiate chi siano questi due manga, uno forse noto, con le guerriere Sailor che cercano di salvare il mondo, così come la nostra eroina cerca di distruggerlo attraverso la danza; mentre Ranma ½ è una strana figura senza identità sessuale, che ragazzi e ragazze bramano di avere come partner di vita).

Anche se mai esplicitamente come in Haruki, la colonna sonora è il filo rosso che porta avanti tutto il testo, con Touta che non riesce a comprendere la musica preferendo il silenzio e Hitsujiko che con la musica (e la danza) scatena la sua ribellione. E, ripetendomi ma chiudendo il cerchio, gli innumerevoli filoni narrativi che porta avanti Hideo come appunto le migrazioni in un mondo globalizzato, i cambiamenti climatici, l’identità di genere, partono, si intrecciano, poi di colpo si interrompono, portandoci ad un finale aperto che è anche uno dei momenti migliori nell’economia della lettura.

Non è facile, ma forse neanche utile, seguire una trama in una colonna sonora che andrebbe seguita per il suo modularsi nel tempo. C’è il naufragio nell’isola deserta, la sopravvivenza dei due bambini non parenti, il “salvataggio” da parte dell’esercito, l’adozione, la separazione dei due, ed il loro diverso avvicinamento alla capitale. C’è la descrizione della capitale distopica ed ostile, dove Hitsujiko si integra nel sistema scolastico, e fonda una banda di danzatrici, novelle “Sailor Moon”, che con la danza portano scompiglio e distruzione. Mentre Touta vi arriva solitario, ma forte delle sue capacità, anche di aggregare intorno a sé il popolo degli “Out” della città. Gli irregolari, gli immigrati, gli stranieri. Là dove si incrocia con le vicende di Lena e della sua vendetta verso i corvicidi. Possiamo quasi farne una sintesi, pensando come ad una gigantesca “linea d’ombra” conradiana che i nostri protagonisti attraversano per andare alla scoperta della propria identità.

Hideo ci ricorda, già venti anni fa, l’impazzimento delle stagioni, dove le cicale cantano a marzo e l’estate si fa torrida sempre più di anno in anno, con i conseguenti disagi che ne derivano, portando spesso a momenti di isteria collettiva. Un sentimento di difficile traduzione con un termine secco, derivante da quello che in inglese si chiama “in-between”, un momento tra due stati, una soglia da attraversare, dove non si hanno punti fermi, e ci si confronta con una pluralità sessuale e comportamentale, che ancora oggi, vent’anni dopo, non sappiamo gestire.

In questa Tokyo attuale ma finta, l’odio verso il diverso si trasforma in violenza (ed ancora oggi ne parliamo e ne vediamo le brutte propaggini e i possibili sviluppi). C’è ovviamente un unico modo (forse due, ma vediamo) per affrontare la necessità del cambiamento, per dar vita ad una rivolta salvifica. Ed è l’amore, l’eros, l’unione dei corpi che danno vita ad una colonna sonora che non potrà essere distrutta. Che alla fine sono una forma dell’arte come lotta al sistema (questo il secondo modo di affrontare e spingere verso i cambiamenti).

Alla fine di tutta “la chanson de Roland” dei nostri protagonisti, che partono uniti, si perdono ed alla fine si ritrovano, il finale aperto, come detto ci spinge a pensare che si può andare, di nuovo uniti, alla conquista del nuovo mondo. Sperando di trovarne uno adeguato ma diverso dalle vecchie utopie alle Huxley o alla Orwell.

Non sempre le idee di Hideo si trasformano in momenti letterari che riescono a portarci tutto quanto l’autore stesso vuole comunicare. Ma le intenzioni e le possibili conseguenze mi portano a considerarlo un libro degno di essere letto, pur nella difficoltà di lunghezza e diversità di collocazione spaziale.

Vorrei concludere citando lo stesso Hideo che, in un’intervista relativa ad un suo libro, rispose: “Voi direte che tutto ciò è solo finzione. E io non lo negherò. Ma di cosa è fatto il mondo, secondo voi, se non di finzione?”. Credo non ci sia altro da dire.

Abraham Yehoshua “Il terzo tempio” Einaudi s.p. (prestito di Alessandra)

[A: 03/06/2025 – I: 21/06/2025 – T: 22/06/2025] - &&&&

[titolo: המקדש השלישי - Hamakdash Hashlishi; lingua: ebraico; pagine: 87; anno: 2022]

In gioventù, e soprattutto nello scorso secolo, ho letto assai del grande scrittore israeliano Avraham Gabriel "Boolie" Yehoshua (che nella letteratura italiana è riportato come Abraham B. Yehoshua). Poi, nel periodo iniziato con le tracce delle mie letture, lessi all’inizio delle trame il suo primo libro (“L’amante”). Ora, esattamente due anni dopo la sua morte, ne leggo questo ultimo, quasi una testimonianza epigrafica di tutto il suo pensiero ed il suo modo di vivere.

Yehoshua ha sempre e costantemente, insieme ai suoi sodali Amos Oz e David Grossman, cercato di ipotizzare un mondo israeliano pacificato, un mondo di pace. Un mondo in cui, se ci fosse ancora oggi, sia lui che Amos, avrebbero difficoltà a far sentire la loro voce. Tutti loro hanno sempre lavorato per una “soluzione dei due stati”. Ma qui, lo scrittore fa un passo avanti, augurandosi la nascita di una nazione unica che potesse ospitare tutte le comunità, religiose e laiche.

In questo testo, la sua abilità è creare un simbolismo metaforico che dura per tutto il testo. Per cui, seguendo una storia che ha un suo svolgimento autonomo, alla fine, se ne ripercorrono i tratti salienti alla luce della possibile lettura politica (oltre che religiosa). La sola difficoltà (a parte i riferimenti ebraici, fortunatamente risolti da un utilissimo glossario) è la forma scelta della forma espressiva. Lui la battezza “Novella in forma di dialogo”, ma in effetti è un piccolo testo teatrale (che vedrei bene rappresentato in questi periodi di turbolenza).

Il nodo è la testimonianza di una donna, Esther Azoulay, figlia di un ebreo marocchino e di una cristiana convertita. Alla morte del padre, viene presa sotto le ali della formazione religiosa dal rabbino Modiano. Che in realtà, se ne invaghisce morbosamente (pur non oltrepassando i confini della liceità), tanto da essere scosso quando le si innamora, ricambiata, di un ebreo iraniano, David Mashiah. Il rabbino escogita allora uno stratagemma per impedire le nozze. Pur essendo già ebrea, poiché la madre, convertita, è ebrea a tutti gli effetti, il rabbino la convince a doversi convertire a sua volta.

Irretita da Modiano, Esther acconsente, ma a questo punto, per le leggi religiose, non può più sposare David, essendo questi figlio di esponenti della casta sacerdotale. Qui ci si addentra molto nei termini religiosi, che seguo con grande difficoltà. Fatto sta che ora con questa testimonianza Esther vuole ottenere due risultati. Una testimonianza che presenta al rabbino Nissim Shoshani, capo del tribunale degli “agunot”.

Il primo è bloccare la nomina di Modiano a capo rabbino degli ebrei di Parigi, in favore del capo di Nissim. In questo modo, se il capo diventa rabbino capo a Parigi, Nissim fa un salto di carriera in Israele. Il secondo è presentare, come progetto di riscatto rispetto a questa situazione bloccata e bloccante, l’ipotesi di costruire il Terzo tempio, che deve essere eretto a Gerusalemme dopo l’avvento del Messia ebraico, non sul luogo che i musulmani chiamano al Haram al Sharif (Il nobile santuario) e gli ebrei Har ha-Bait (Monte del tempio) e dove sorge la moschea Al Aqsa, ma più modestamente nella vicinanza del Monte degli Ulivi, tra la Tomba di Assalonne e la valle della Geenna.

Una proposta, la seconda, spiazzante e molto politica: non una prevaricazione, ma trovare il modo di convivere tutti nelle proprie diversità.

Tra interruzioni, riprese, discorsi e timori, la novella va avanti, finendo, senza risolverci il dilemma rabbinico, con un’immagine molto quotidiana: il rabbino protagonista, prima di andare a casa, va al mercato per comperare frutta e verdura.

La metafora quadro del testo è la critica all’ebraismo religioso, portato a governare un paese suppostamente democratico, e, per la sua intransigenza, non atto a portare a termine il suo mandato. La sotto-metafora è quel messaggio di pace e di speranza verso una convivenza, in Israele ma anche ovunque nel mondo, senza prevaricazioni reciproche.

Per capire meglio poi alcuni passaggi, il tribunale di Nissim è deputato alle dispute intorno alle “agunot”. Un termine che letteralmente significa “ancoraggi”, ma che indica la situazione di quelle donne che, per qualche motivo, non riescono a raggiungere lo statuto di divorziate. Tipico esempio, una donna sposata con militare che risulta disperso in combattimento. Ma il messaggio di Yehoshua va oltre questo primo livello, che “agunà” (il singolare di agunot) è il titolo della prima novella scritta da Shmuel Yosef Agnon, israeliano premio Nobel per la letteratura nel 1966.

Profondo conoscitore di tutte le letterature, abbiamo anche abbastanza scopertamente due riferimenti alla letteratura italiana. Il Manzoni dei “Promessi Sposi”, visto che il matrimonio di Esther e David “non s'ha da fare, né domani né mai”. Ed il Dante Alighieri dell’episodio di Paolo e Francesca, quando Esther confessa di essersi innamorata di David studiando insieme a lui (“galeotto fu il libro e chi lo scrisse”).

Ancora più simbolici sono i nomi dei promessi. Esther è infatti un caposaldo della Bibbia ebraica (colei che difende gli ebrei dal nemico e li salva), ma con il tempo è diventata anche paladina delle “agunot”, cui sono dedicati i giorni di digiuno che precedono la festa di Purim. Lo sposo promesso, poi, fa di cognome Mashiah, cioè Messia, e di nome David, l’eponimo re di Israele da cui discenderà il Messia (doppia citazione).

Poi c’è il rabbino Shoshani il cui nome rimanda ad un filosofo ebreo leggendario, Monsieur Chouchani, che scompare misteriosamente in Uruguay nel 1968. Non manca anche un segnale politico-religioso quando Esther, per illustrare il suo progetto di Terzo Tempio, toglie dal muro le foto di Ovadia Yosef e Abraham Isaac Kook. Il primo fondatore del partito ultraortodosso Shas negli anni Ottanta, il secondo di un movimento sionista religioso degli anni Trenta.

Infine, l’immagine finale del rabbino al mercato riprende pari pari un testo poetico di Yehuda Amichai, considerato da molti il più grande poeta israeliano moderno, che usa quell’immagine come rappresentazione della redenzione di Gerusalemme.

Volendo fare quindi un sunto dei sunti, attraverso dialoghi ben orchestrati che affrontano, direttamente o velatamente, i temi fondanti dell’ebraismo, come il messianesimo, l’identità ebraica, le regole, i precetti e il loro rapporto con le cose umane: amore, eros, gelosia, voglia di felicità, Yehoshua ci proietta la sua visione sul futuro destino d’Israele, laddove la donna che cade in una trappola rappresenta la trappola in cui è caduto il popolo d’Israele, che ne potrà uscire soltanto trovando una “Soluzione”, che magari sparigli il campo come la soluzione proposta da Esther.

Un libro densamente difficile, ma che letto in questi giorni fa sicuramente riflettere sulla presenza di voci diverse dall’omologazione trumpiana. Speriamo bene in un futuro diverso.

Kenzaburō Ōe “La foresta d'acqua” Corriere Giappone 9 euro 8,90

[A: 05/07/2021 – I: 29/06/2025 – T: 02/07/2025] - &&& e ½

[tit. or.: Suishi 水死; ling. or.: giapponese; pagine: 478; anno 2001]

Pur se abbastanza vasta è la mia lettura di scrittori giapponesi, non avevo mai letto nulla di Kenzaburō Ōe, pur avendo lui ricevuto, nel 1994, il Premio Nobel per la letteratura. Devo dire che con questo libro, pieno di tante cose, è come se avessi letto un compendio di tutte le opere dell’autore. Un libro difficile, forse non sempre riuscito al massimo, ma che, in molte maniere, contiene Ōe, la sua poetica e le sue idee sulla scrittura e sul mondo.

È anche un libro profondamente giapponese. C’è sempre una grande calma nel rapportarsi all’altro, si parla (tantissimo), si usano immagini che rimandano ad immagini e pensieri altri, sembra quasi che si attraversi la vita senza far rumore. Anche se poi, quando si arriva a tirare la corda oltre un certo limite, quando si va oltre, può scattare molta violenza, contro gli altri, ma anche contro di sé. Una delle cose che più mi aveva affascinato nei miei primi approccio con il Giappone, ad esempio, era il tipo di protesta inscenato da Folco Maraini (il padre di Dacia, grande orientalista) che, internato in Giappone dopo l’8 settembre in quanto l’Italia era diventata nemica, per protestare contro il modo che non riteneva urbano di essere trattati, lui e la sua famiglia, si recise una falange del mignolo della mano sinistra. La sua, non quella del cattivo giapponese. Questo illustra, anche se non spiega, alcuni significati del suicidio rituale praticato dai giapponesi.

Per iniziare ad entrare nello spirito del testo, cominciamo con l’usuale critica e domanda sul titolo. “Suishi” in giapponese sta per annegamento, motivo che ricorre come un filo rosso attraverso tutto il testo (e vedremo perché). Ora, “La foresta d’acqua” fa di sicuro riferimento ad un certo passo del testo, immerso in mille altre parole. Ma soprattutto può far riferimento a due termini: la foresta, usata dall’autore come simbolo della dipartita (“Non hai preparato … a salire su nella foresta” è una poesia della madre che rimprovera il figlio di non aver al momento preparato il nipote all’evenienza della morte) e l’acqua che ritorna per il motivo principale per cui l’autore sta scrivendo questo testo.

Che è un testo “watakushi shosetsu”, termine giapponese che indica un tipo di letteratura, sorta all’inizio del XX secolo, dove l’autore come io narrante tratta di riflesso i suoi personali avvenimenti come fossero le avventure personali del protagonista. In pratica, ora verrebbe etichettata come “autofiction”.

Abbiamo quindi l’io narrante, il protagonista Kogito Chōkō (uso la traslitterazione più nota, dopo aver visto scritto questo stesso nome in cento modi diversi) che è una sorta di alter-ego di Kenzaburō. Tra l’altro, compare anche in altri scritti del nostro. L’idea di base del libro è che Kogito, scrittore abbastanza affermato avviatosi alla settantina, voglia scrivere un libro che ha sempre rimandato di affrontare, un libro che dovrebbe intitolarsi (capite subito il perché del titolo originale) “Il romanzo dell’annegamento”, e che narra le vicende del padre di Kogito, annegato nel 1945, poco prima della fine della Seconda Guerra Mondiale. Ha sempre rimandato la scrittura, mancandogli alcuni elementi, che solo ora, sua sorella Asa gli può fornire, portandogli una valigia rossa, che la madre aveva lasciato come eredità solo che gli fosse consegnata dieci anni dopo la morte della madre stessa.

Kogito allora torna nella valle della sua giovinezza, dove vive tuttora la sorella, e nella casa avita riceve la valigia, e con l’ausilio del lascito immagina di scrivere il famoso romanzo. Da qui, tuttavia, si dipanano mille rivoli narrativi che prima ingarbugliano e poi, forse, alla fine, danno un senso al testo, anche se ad ogni passo dobbiamo fare sforzi immani di ricostruzioni e di collegamenti.

Per ora facciamo una prima pausa, che anche Kenzaburō soffrì della morte del padre, che avvenne per infarto nel 1944. Padre cui l’autore aveva già parlato in due libri. Uno inedito in Italia (“Padre, dove stai andando?”), il secondo (“Il giorno in cui lui mi asciugherà le lacrime”, uscito in Italia come uno dei quattro testi inserito in “Insegnaci a superare la nostra pazzia”).

Poi ci si può immettere nel flusso narrativo e nei suoi tanti aspetti. Il contenuto della valigia non porta nessun elemento nuovo, tanto che lo scrittore decide di abbandonare il progetto. E qui alcune digressioni interessanti sullo scrivere e sulla mancanza di scrittura. Nella campagna poi, la sorella gli presenta un gruppo teatrale, gestito da un bravo regista (Anai Masao) e da un’attrice emergente (Unaiko), che intende mettere su uno spettacolo teatrale che sia il compendio di tutti gli scritti di Kogito. Ciò permette a Kenzaburō di intrappolare nel tessuto narrativo testi che ha scritto lui ma che nel testo vengono attribuiti a Kogito. Si citano così di passaggio uno dei primi testi “Aghwee il mostro celeste” oppure il molto noto “M/T e la storia delle meraviglie della foresta” (conosciuto in italiano con il titolo di “Gli anni della nostalgia”). Con molti intrecci di metaletteratura. Il maestro e mentore di Anai viene indicato con il nome di Hanawa Goro, che non è altro che il protagonista del libro di Kenzaburō “Il bambino scambiato”. Infine, parlando de “La vergine eterna”, Kogito e Anai mettono in discussione tutta la poetica di Kenzaburō.

Ma Kogito non scrive il libro sull’annegamento del padre, il progetto teatrale fallisce, rimanendo solo un legame forte, foriero di nuove scritture con Unaiko. Anche perché (introduzione di un nuovo tema) Unaiko riesce non a riconciliare ma almeno a far convivere Kogito con il di lui figlio autistico Akari, che, potente conoscitore di musica, sarà responsabile delle musiche degli eventuali testi teatrali che usciranno dalla collaborazione.

Questo è l’ulteriore filone, il rapporto padre – figlio in presenza dell’autismo del figlio. Difficile rapporto che ricalca quello reale, avendo Kenzaburō un figlio autistico, Ikari, che fa il musicista. Ed in questa parte c’è molto del privato di Kenzaburō, quello che riuscì a riportare nel libro “Un’esperienza personale”.

Il successivo e penultimo filone porta in primo piano Unaiko che, sganciatasi da Anai, convince Kogito a riproporre in teatro una sceneggiatura di un film scritto da lui ma mai finito, “La madre di Meisuke sul campo di battaglia”, pieno di tanti spunti, ma che fondamentalmente si incerta sul vissuto di Unaiko e dello stupro da lei subito da parte dello zio, ora persona molto influente a livello governativo. Uno zio tanto influente che riesce a bloccare la produzione, producendo un grande scontro tra Unaiko, lo zio, Kogito, ed un personaggio che arriva verso la fine, il vecchio Dalō, una volta aiutante del padre di Kogito. Però questa parte permette a Kenzaburō-Kogito di parlare a lungo della violenza sulle donne, cosa di cui non si può non ringraziare l’autore (che apre anche piccoli scorci nella vita giapponese meno nota).

L’ultima parte è dedicata a Dalō, ed alle confessioni che fa a Kogito, ribaltando tutte le prospettive private dell’autore (che non vi svelo). Ma soprattutto nella parte pubblica del padre, di tutta la prosopopea ultranazionalista del padre e dei suoi amici. Scopre in fondo che si trattava tutto di un complotto per uccidere l’imperatore prima che cedesse al nemico. Il padre però ha un momento di “rinsavimento”, fuggendo con la barca dagli altri ufficiali. Però c’è tempesta, la barca si rivolta, il padre muore. Dalō fa capire che erano tutte scelte del padre, anche quella di non farlo salire sulla barca.

Tutta questa scrittura porta Kogito a capire che non riesce a scrivere dell’annegamento, e che quindi non riuscirà ascrivere altro. Kenzaburō scrive questo testo a 74 anni e non produrrà più nulla di nuovo sino alla morte, nel 2023 a 88 anni.

Non è un libro semplice da leggere e interpretare. Soprattutto, per apprezzarne le sfumature, c’è bisogna di un grosso sforzo di collegamenti tra lo scritto e le altre opere di Kenzaburō, nonché con il quotidiano giapponese, nei vari momenti della sua storia. Dalla Seconda Guerra mondiale ad oggi.

Un potente esercizio di metaletteratura, non solo pieno degli spunti che ho citato, ma anche di tanti altri (ricordo al volo poesie di T. S. Elliot e Rimbaud, o citazioni da “Il ramo d’oro” di Frazer), per creare un mondo che è quello delle pagine, ma che è anche quello nella testa di Kenzaburō. Non raggiunge le più alte vette solo perché alla fine, il troppo legame con il Giappone non riesce ad essere risolto e comunicato (sarebbe stato necessario un forte corredo di note esplicative?).

“Un particolare che ho notato man mano che passano gli anni e si invecchia è che si viene pervasi sempre più dal desiderio di sistemare la cose nel miglior modo possibile, senza lasciare niente di irrisolto. Ed è inevitabile, in questa fase, pensare con molta frequenza alla morte.” (33)

“La lista dei miei amici e conoscenti che purtroppo non fanno più parte di questo mondo va allungandosi di giorno in giorno.” (251)

Antonio Pascale “Cose umane” Einaudi euro 19 (in realtà, scontato a 18,05 euro)

[A: 15/07/2025 – I: 28/07/2025 – T: 30/07/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 214; anno: 2025]

Ho letto diverse espressioni letterarie di Pascale, trovandole sempre di un buon livello di interesse e di curiosità. Ricordo in particolare quei racconti dedicati a Caserta, letti ormai tanto tempo fa. Anche in questa prova, confermo il mio giudizio positivo: qui al solito compare un alter ego che è Pascale ma anche no, dove si parla di tanto, ma non è né un romanzo né un racconto né altro. Sono duecento pagine un po’ a briglia sciolta, laddove seguiamo il protagonista in uno spaccato della sua vita.

Sappiamo (o meglio, sapremo) a tratti della sua vita prima dell’inizio del testo, e accompagniamo Tonino (così nella finzione) per un tratto di strada. E poi… Come si dice, l’autore esaurisce il suo compito, e noi ci portiamo dentro le riflessioni che ci ha suscitato. Se ci è riuscito, allora il libro è un buon libro.

Tonino, che si avvicina ai sessant’anni (Pascale è nato il 22 gennaio del ’66), lavora a Roma ad un Ministero (Pascale è ispettore agrario presso il Ministero delle Politiche Agricole), collabora a giornali, ha scritto testi, libri, spettacoli, ha realizzato istallazioni artistiche con il suo grande e passato amore, Caterina, ed ha una figlia da generazione Z, Susanna. Ma soprattutto ha ancora un padre ed una madre novantenni, che vivono ancora a Caserta.

Sono proprio i genitori anziani a farlo riflettere; in un estate senza tante prospettive, potrebbe dedicare loro qualche fine settimana in più, perché, in fondo, non avranno molto da vivere. Così comincia un periodo da pendolare sui treni, un viaggio lento che stimola pensieri, bilanci sulla propria vita, considerazioni sui genitori che invecchiano, e meraviglie sulla figlia che cresce (si sta laureando…).

Questa riflessione sulla famiglia, lo porta (ci porta) a riflettere come noi italiani, ma anche in  generale in quasi tutto il mondo occidentale, siamo passati da un periodo di miseria, fame, malnutrizione e lavoro nei campi (visto che siamo nel nord della Campania, dove solo con un trattore si poteva alleggerire il lavoro e ci si poteva permettere di studiare), ad un mondo di abbondanza, dove quasi tutto è permesso, avendo i soldi per comprarlo, per mettersi in mostro, anche senza nessun contenuto reale.

Pascale battezza questa “rivoluzione” come il passaggio dal paese di Pinocchio al mondo di MasterChef. Un’idea che, da sola, vale tutto il viaggio del libro.

Da questa idea partono concatenazioni di suggerimenti, possibili nuove uscite artistiche, colloqui telefonici con Susanna, che lo riporta sempre con i piedi per terra, e con lei si riflette anche di Intelligenza Artificiale ed altre avanguardie tecnologiche.

Ma i ritorni più ravvicinati nelle strade dell’infanzia, consentono anche di ripercorrere antiche amicizie, personaggi che si stampano nella memoria, come il sensitivo Domenico. E soprattutto i genitori. La madre che si alza solo per bisogno, che vuole mangiare sempre prima (si avviano ad una cena alle 18:30, da paura), che chiude le finestre e si butta sotto le coperte. Inoltre, si avvia anche verso una qualche forma di dimenticanza senile (più demenza che Alzheimer). Il padre che cerca di arginarla, che si adatta, e che, aprendo un ricordo dolce e triste nella mia memoria, è un patito de “La Settimana Enigmistica” (un bel pensiero, mamma).

Così, in un flusso di parole, fuori dalle gabbie di inutili romanzi (“scrivere romanzi è da coglioni”), seguiamo Tonino e le sue storie. Appunto genitori che invecchiano, giovani che sognano, amori che iniziano, che si evolvono, che non maturano, che a volte finiscono ed a volte no. E senza parlarne più di tanto (nessun spoiler) un’interessante galleria di personaggi, descritti con la solita abilità da Pascale. Sono teneri, meschini, sono violenti, spesso vulnerabili. In una parola sono persone vere.

Non possiamo che salutare la massa di parole che abbiamo condiviso con Pascale, riflettendo sul messaggio trasversale che le unisce. Quale saranno, al termine del nostro viaggio, le cose che saranno degne di essere ricordate?

Mi sembra una domanda che consente l’apertura di un flusso di parole che non si può contenere qui. Ci sarà modo di tornarci. Ringraziando, per ora, Pascale dei suoi pensieri in treno.

“Uno vive tutta la vita in un modo e poi alla fine scopre che era in un altro modo.” (184)

E dopo tanto scritto al maschile, mi siano consentite alcune citazioni al femminile dagli scritti di Patricia Cornwell.

Cominciamo da “Predatore”: “È una regola, una loro vecchia usanza: non lasciar mai tramontare il sole sulla tua ira, non salire in macchina o in aereo arrabbiati, non uscire neanche di casa. … Sanno con quanta velocità e casualità può succedere una tragedia.” (241)

Continuando con “Il libro dei morti”: “I rapporti tra due persone cambiano di giorno in giorno” (45) e “Non credo che ci sia una ragione logica, lineare, per ciò che diventiamo, per quello che facciamo” (163)

Per poi finire con “Key Scarpetta”: “Era una donna organizzatissima. Non gettava mai nulla che potesse essere importante e aveva un posto per tutto. Se appendevo la camicia a una sedia, la metteva nell’armadio. Non avevo ancora finito di mangiare che i piatti erano già nella lavastoviglie. Odiava il disordine. Non sopportava di vedere le cose fuori posto.” (158)

Ragioni personali non mi danno modo di parlare dell’ultimo viaggio, riponendo i trascorsi e cominciando a pensare a come e quando ci sarà il prossimo (sempre che si riuscirà ad uscire da queste sabbie mobili). Quindi, solo un caldo e grande abbraccio.