Angelo
Del Boca “Nella notte ci guidano le stelle” Repubblica Resistenza 25 euro 7,90
[A: 09/10/2020
– I: 30/03/2025 – T: 31/03/2025] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 204; anno: 2015]
Angelo Del Boca è uno degli esimi scrittori storici di cui
si sente parlare e di cui non avevo letto nulla. Certo, è ben più noto,
rispetto a questo libro dedicato alla Resistenza, per i suoi scritti africani,
sulla Libia e sull’Etiopia. Ed in particolare, per tutte le pagine dedicate ad
elencare e descrivere i crimini commessi dall’esercito italiano in quei paesi
(esemplare il libro “Italiani brava gente?”). Ma era stato, prima che
storico, anche scrittore di saggistica, giornalista e vicino alla politica.
Tant’è che negli anni ’60 si iscrive al PSIUP, poi diventa cronista per “Il
Giorno”, fino a lasciare giornale e socialisti nel 1981 all’avvento di Bettino
Craxi. E già un buon punto.
Per
venire al libro ed all’autore “nel” libro, questo è l’ultimo volume pubblicato
dei libri sulla Resistenza dell’esimia collana, ma non l’ultimo che leggo né
tanto meno l’ultimo per gradimento. È un libro in un certo senso complesso, che
pone una domanda fondamentale e di non facile risposta. A parte le motivazioni
ideologiche (che ovviamente portano a decisioni e comportamenti marcati da
altro), molte e variegate furono le adesioni e le partecipazioni alla
Resistenza. Ed in particolare mi riferisco a coloro che nei tempi della Guerra
erano tra i venti ed i venticinque anni.
C’è
stato chi, esente dal servizio militare per motivi familiari, ha da subito
aderito a movimenti antifascisti alla luce di ciò che vedeva tutti i giorni (e
penso a mio zio). C’è chi, militare intorno all’8 settembre, butta alle ortiche
la divisa, torna clandestino ai suoi luoghi e si unisce alla lotta partigiana
(e penso a mio padre).
Del
Boca ci racconta un percorso diverso, anche molto difficile, ma di certo anche
esemplare del periodo. Lui nasce a Novara nel maggio del ’25, per cui dopo
l’armistizio è poco più che diciottenne. Data la forte presenza fascista al
Nord, Angelo viene costretto ad arruolarsi nell’esercito della Repubblica di
Salò, sotto la minaccia di deportare il padre in Germania. Fa un addestramento
i Germania, poi viene mandato nelle brigate alpine intorno a Piacenza. Lì
resiste da maggio ad ottobre, assistendo, impotente, a molte scene di trucida
barbarie.
E
nell’ottobre, approfittando di una congiuntura militare, insieme ad una decina
di altri soldati, diserta e cerca di raggiungere le Brigate Partigiane. Proprio
in quei giorni, comincia a scrivere suoi appunti, pensieri e qualche
avvenimento, su piccoli fogli di carta che costituiranno l’ossatura di questo
diario. Un diario che copre pochi mesi, dall’inverno del ’44 alla primavera del
’45, ma che pongono appunto quel problema di cui volevo narrare.
Del
Boca, arruolato a forza, diserta (ed è quindi ancora un diverso modo di lottare
il fascismo). Ma prima deve superare un periodo di forte crisi e di pericolo
personale. Era un militare RSI e come tale aveva partecipato ad azioni militari
nella zona di Bobbio (PC). Una volta presentatosi ad una delle Brigate
Garibaldi, il responsabile politico è incerto se accettarlo (sapendone la buona
fede) o comunque condannarlo per le azioni intraprese. Solo l’incontro con
Italo Londei, uno dei responsabili locali delle brigate di Giustizia e Libertà,
consentirà a Del Boca di essere scagionato dalle accuse di collaborazionismo,
potendo quindi mettere a disposizione della lotta partigiana le sue conoscenze
militari.
Il
testo, molto trasversale nelle parole, non entra nel vivo delle azioni, data la
paura di poter essere catturato, e quindi che ci fossero nello scritto accenni
a luoghi e persone che quelle descrizioni avrebbero messo in pericolo. Si parla
molto di sensazioni, si descrive e bene l’ambiente appenninico in cui si
muovevano, le paure delle imboscate, la fame, la solidarietà contadina. Ed
anche, ovvio per un quasi ventenne, la presenza femminile, con sguardi e a
volte timidi baci.
Fortunatamente,
dopo che l’autore riprende in mano tutta quella materia, vi aggiunge
un’appendice, intitolata “Settanta anni dopo”, la quale, invece, entra nei
dettagli, entra nei momenti difficili, fa nomi e cognomi, di buoni e di
cattivi. Ed è lì in quelle pagine, da pagina 168 a pagina 170, che vediamo la
descrizione della brutalità fascista che termina in una uccisione immotivata.
Una brutalità che sarà l’ultima goccia per far traboccare il vaso della rivolta
nel giovane Angelo.
Venendo
dallo storico Del Boca, all’inizio mi aspettavo di più. Non nella scrittura,
che è di ottima fattura, ma di partecipazione agli avvenimenti. Grazie
all’appendice, il testo, alla fine, risale molte posizioni. Anche se un suo
posto lo aveva fin dalle prime pagine, ma per altri motivi. Quando descrive la
lunga marcia (credo una cinquantina di impervi chilometri) per spostarsi da
Bobbio a Torriglia. Se ve ne domandate il motivo, la risposta sta nella storia
della mia famiglia, ed in particolare della mia ligure nonna Bianca.
“Noi
… eravamo ragazzi senza un passato di cui andare fieri e, anzi, uscivamo a
fatica dal fascismo. Non è che avessimo grandi ideali, ma qualche convinzione
sì, e precisamente, in ordine d’importanza: 1) non morire; 2) tornare a casa,
dalla nostra famiglia; 3) sparare a tedeschi e fascisti. L’importante era
vivere.” (180)
Primo
Levi “Se non ora, quando?” Repubblica Resistenza 1 euro 7,90
[A: 13/05/2020
– I: 12/06/2025 – T: 14/06/2025] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 347; anno: 1982]
Non
penso ci sia bisogno di spiegare chi sia stato Primo Levi, testimone degli
sterminii degli ebrei nei campi di concentramento ed autore di un libro-memoria
che tutti dovrebbero leggere (“Se questo è un uomo”). Qui però ci occupiamo di
letteratura resistenziale, ed in quest’ambito Levi ha prodotto un solo romanzo
che, appunto, in modo traslato, riporta esperienze di quei momenti, anche
allargandone il campo.
È
un romanzo, dicevo, seppur basato su presupposti veridici, facendo convergere
due ricordi. Uno citato nel libro di Levi “La tregua” (quello che racconta del
lungo ritorno a casa una volta liberato dal campo di Auschwitz) dove, parlando
mentre aspettano un treno, viene narrato l’episodio di un gruppo di giovani
sionisti partigiani che, smesse le armi, cerca di raggiungere la Palestina.
L’altro riguarda i racconti di un amico di Levi era addetto ai centri di
accoglienza profughi nella Milano liberata dopo il maggio del ’45.
Da
questa messe di informazioni, Levi tira fuori il racconto di una banda
picareschi composta da ebrei polacchi e russi che combatte la sua guerra
partigiana. E lo narra in un lungo memoriale che parte dal luglio ’43 per
arrivare all’agosto del ’45. Un insieme di persone, di diversa tipologia ed
estrazione sociale, che seguiamo (anche grazie alla bellissima mappa posto ad
inizio libro) da quando comincia ad aggregarsi a Brjansk nella cosiddetta
Russia Bianca per tutto il percorso che li porterà, dopo aver attraversato
Bielorussia, Ucraina, Polonia, Germania ed Austria, nella Milano del primo
dopoguerra.
La
banda nasce da i due sbandati che incontriamo nel primo capitolo, che
solidarizzano per necessità, anche se forse non diventeranno mai amici. Sono
due facce di una medaglia che forse Levi stesso avrebbe voluto per sé. C’è
Mendel, il maturo orologiaio, che vede la polvere accumularsi sull’orologio
della storia, con la grossa possibilità che fermi le lancette. Ha visto morire
moglie e parenti ed amici vari, non ha più molto se non la sua identità
ebraica. Con la quale fa i conti per andare avanti. Incontrando per primo il
giovane Leonid, un po’ timido, un po’ intellettuale. Uno che dice poco di sé,
che forse si fa grossi castelli mentali, ma che, colpito dalla guerra e dai
lutti, poco riesce a vedere di una possibile costruzione del futuro.
I
due danno il là a tutta questa serie di vicissitudini, che ad un certo punto il
terzo elemento prospettico della proiezione di Levi sul romanzo, il comandante
Gedele, sintetizza con la frase: “E quand’anche io pensi a me, che cosa sono
io? E se non ora, quando?”. È una citazione del testo ebraico Pirké Avoth (noto
in italiano come “Le massime dei Padri”), una raccolta di detti scritti tra il
360 a.C. ed il 70 d.C. e contenuta nel Talmud. Una frase che nei commentari
ufficiali viene interpretata come: le cose non si sistemano da sole, la vita,
una e soltanto tua, bisogna costruirsela qui ed ora; quindi, raccogli i pezzi
di te stesso e datti da fare.
Così
appunto come si danno da fare Mendel e Leonid, che si aggregano prima alla
banda di Dov, dove Leonid ha una storia con Line. Ma Dov è ferito ed anche
anziano, quindi poco propositivo. I nostri, ormai una decina, si uniscono a
Gedele che invece è un capo molto riconosciuto ed amato. Che li porta verso
azioni avventate (tipo deragliamento di treni) ma che non li abbandona mai.
Così, oltre ai due che seguiamo dall’inizio, veniamo a contatto di tutti i
maggiori componenti della banda, ognuno con alle spalle una sua storia. Come
spesso accade (e questo ritorna anche nei racconti della mia mitologia
familiare) c’è gente allegra ma anche feroce. C’è chi è riuscito a fuggire da
un lager, e chi ha disertato dall’Armata Rossa, ci sono donne (che anche loro
fecero la guerra) e c’è finanche un cristiano che si aggrega agli ebrei
(permettendo a Levi delle piccole digressioni sul rispetto reciproco).
Come
in tutti i racconti corali, vedremo anche le dinamiche di gruppo che si
scateneranno. Verso l’interno e verso l’esterno. Chi non vincerà la gelosia. La
presenza dirompente delle donne, che avranno un loro posto precipuo in ogni
avvenimento. Sia nelle rotture (tra Mendel e Leonid) sia negli avvicinamenti, e
sfoceranno, in un finale forse straniante ma voluto fortemente da Levi, con la
nascita di un bambino. Quasi a voler indicare nella nascita la volontà di
proseguire un intento di vita. Dopo tante morti ed uccisioni, laddove il mantra
di Levi e della banda di Gedele era “Meglio cadere liberi da combattenti che
vivere sotto il potere degli assassini”, una volta liberati, la nuova vita, che
si spera li porterà verso la Terra Promessa, deve essere foriera di speranza.
Levi,
che scrive questo testo quasi trent’anni dopo gli avvenimenti, ce ne mostra la
crudezza, e ci indica una speranza. Purtroppo una speranza che lui poteva avere
alla fine della guerra, ma che lì, nell’inizio degli anni Ottanta, cominciava a
vacillare grandemente. Israele già non era quella terra promessa benefica e
pacificata. Il mondo stesso continuava a correre verso baratri non più
risalibili. Tanto che pochi anni dopo, forse per un mancamento dell’età, forse
per una volontà di cancellare tutto, Primo cade dalle scale e muore.
Ci
lascia questi libri. “Se questo è un uomo” molto letto e giustamente. Questo
molto citato e forse poco letto, che a chi lo legge, induce una riflessione
potente. Sia sul fatto che gli ebrei non erano fin d’allora solo carne da
macello (e ne vediamo le propaggini ora), sia che si sarebbe dovuto convergere
verso un mondo di pace e fraternità. Da cui, purtroppo, siamo ancora molto
lontani. Leggete infatti l’ultima citazione. Bella e mai attuata.
“L’Italia
stessa è favola … come si può condensare nella stessa immagine il Vesuvio e le
gondole, Pompei e la Fiat, il teatro della Scala e … Mussolini.” (51)
“Noi
combatteremo fino alla fine della guerra, perché crediamo che fare la guerra
sia una brutta cosa, ma che uccidere i nazisti sia la cosa più giusta che si
possa fare oggi sulla faccia della Terra; e poi andremo in Palestina, e
cercheremo di costruirci la casa che abbiamo perduta, e di ricominciare a
vivere come vive tutta l’altra gente.” (200)
“Il
sangue non si paga col sangue. Il sangue si paga con la giustizia.” (291)
Miriam
Mafai “Pane nero” Repubblica Resistenza 7 euro 7,90
[A: 30/06/2020
– I: 25/06/2025 – T: 27/06/2025] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno: 1987]
Miriam
Mafai è di certo un nome della mia costellazione familiare, mio padre suo
coetaneo e spesso con lei a discutere sin dai tempi dell’Unità e delle
divergenze sulla primavera ungherese prima e su quella di Praga poi. Ma anche
per i sodalizi pittorici con la scuola romana (quella di via Cavour fondata dal
padre Mario). Per mio conto, poi, ne seguii l’ascesa giornalistica ai tempi
della fondazione di Repubblica.
Qui,
tornando indietro nel tempo, Miriam fa un’operazione interessante e molto
attuale: dopo aver intervistato un grande numero di donne sui rispettivi
comportamenti durante la Seconda Guerra mondiale, ne tira fuori un libro,
datato se vogliamo, ma di grande interesse ed impatto, che presenta, senza
nessun infingimento, cosa fecero al tempo le donne, come venivano trattate e
come cercarono, senza trovarne molta, una possibile evoluzione. Con un finale
che, ogni volta che lo rileggo, mi riporta alla mente il bellissimo film di
Paola Cortellesi “C’è ancora domani”.
Il
pane nero del titolo è quello scadente, fatto con avanzi di farina, quando
c’era, che si era costretti a mangiare durante la guerra. Ed è mangiando pane
nero che Miriam ci porta attraverso tre tappe fondamentali, e quanto ne
attraversarono nel tempo. L’entrata in guerra il 10 giugno 1940, la caduta del
fascismo il 23 luglio 1943 e la fine della guerra il 25 aprile 1945. Proprio
navigando tra queste boe temporali, vediamo, ci si mostra, il ruolo e le
attività che le donne intrapresero nel tempo.
Diciamo
che il punto d’ingresso possiamo farlo risalire ad un articolo della rivista
“Critica Fascista” degli anni Trenta: “Io non auspico … un ritorno alla
schiavitù femminile ma soltanto … un freno alla esagerata libertà di cui godono
oggidì le donne: fra i due sessi non può esistere parità di diritti perché c’è
squilibrio di doveri e la natura stessa ha dato alla donna compiti e funzioni
diversi da quelli che ha dato all’uomo. Tornino dunque le donne … al loro posto
e non prendano atteggiamenti e non usurpino mansioni che non si addicono al
loro sesso, ed anche la famiglia ne guadagnerà.” (35-36)
Ecco,
questo è quello che non faranno le donne dopo la svolta della prima boa. Italia
in guerra, mentre tutti pensano una breve e veloce cavalcata, sappiamo che fu
assai diverso. Mafai ci fa quindi vedere come le donne, con gli uomini al
fronte, devono prenderne il posto nelle fabbriche, spesso con mansioni
analoghe, sempre con stipendi inferiori (e sappiamo anche che è una costante
ancora e tuttora vigente). Ma non solo, le donne devono combattere anche la
lunga battaglia contro la fame, laddove anche il cibo comincia a scarseggiare.
Alla
svolta della seconda boa, molte donne (e tra queste metto in prima fila dei
ricordi le donne della mia famiglia materna) fanno scelte coraggiose: alla
caduta del fascismo, e dopo l’8 settembre, comincia la guerra civile, e molte
donne si impegnano (anche) in questa lotta, al minimo come staffette, ma spesso
anche come combattenti armate. Miriam, così come sua sorella Stefania, furono
staffette partigiane, così come zia Toja. E portatrici di armi alle formazioni
combattenti furono anche zia Nenne e zia Nanna. E non nomino tutte le altre che
sarebbe un altro libro. mentre Miriam ricorda Cesarina, staffetta tra Modena e
Bologna, e Rosa e Laura.
L’ultimo
atto, dopo il 25 aprile, è forse il più triste, quello che più ci riporta alla
realtà. Che per la vittoria sfilavano i maschi combattenti, mentre le donne,
pur avendolo fatto, erano costrette a rimanere nella folla. È il prezzo della
Liberazione. Duro prezzo da pagare, duro per chi vuole (e purtroppo riesce) a
far tornare (quasi) tutto come prima. Le nostre donne avrebbero certo detto che
in fondo era stato bello. Che Carla, Marisa o Lucia erano state lì, sullo
stesso piano di tutti, condividendone i rischi, e spesso la sorte di torture e
morte. La scrittrice riesce a rappresentarci anche questo passo, e lo fa con
tutto il dolore che anche noi proviamo.
La
capacità narrativa viene anche messa al servizio di “altre donne”, che eran
presenti su tutti i lati del fronte, a volte anche lì in prima linea, a volte a
rimanere ancorate ai propri mestieri. Come la sarta Biki che per tutta la
guerra continuò a produrre abiti (per chi non sa o non ricorda la stilista Biki
fu la sarta che “inventò” le mise di Maria Callas). Come la repubblichina Lela
comandante delle ausiliarie di Salò. E come Claretta Petacci, l’amante di
Mussolini, devota sino a condividerne volontariamente la tragica fine.
È
un libro corale, dove, come ho cercato di tratteggiare, vengono narrate, con un
piglio giornalistico che non verrà mai meno, diverse storie, per intrecciare
anche quel parallelismo tra storia e Storia di sempre indubbio interesse.
Forse, l’unico limite che blocca alla fine il testo, è però questa
frammentarietà, che non consente di individuare da subito un disegno unitario.
Oltre
però a quanto detto sopra, ci sono altre tre punti personali che mi hanno preso
nel corso del testo. Uno è la citazione che porto in finale, e che mi ricorda
l’aiuto, piccolo ma fatto di cuore, che ho dato al mio amico Luciano nella
redazione del libro dedicato all’affondamento del Santa Lucia, il postale delle
isole Ponziane. Il secondo, quando, nel citare il film del periodo di guerra,
mi ricorda un film che adoravo quando avevo dieci anni: “Il sergente York” con
Gary Cooper.
Infine,
Miriam riporta che, com’è ovvio, durante la guerra ci sia stato un calo delle
nascite, che però dal ’46 subisce una brusca impennata. Ed allora come non
ricordare i miei sette cugini nati prime del ’50!
“Lunedì
26 luglio 1943. A Ventotene … scarseggiavano i viveri … Due giorni prima un
piroscafo era stato affondato, al largo; per ventiquattr’ore il mare aveva
restituito cadaveri.” (124) [il Santa Lucia!]
Mario
Tobino “Il clandestino” Repubblica Resistenza 8 euro 7,90
[A: 13/06/2020
– I: 10/09/2025 – T: 12/09/2025] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 459; anno: 1962]
Mario
Tobino è stato un valente uomo poliedrico dello scorso secolo, fondamentalmente
dedito agli aiuti al prossimo, esplicò questa sua indole come valente
psichiatra. Tuttavia essendo anche molto portato alle Lettere, farà in modo di
riversare molte delle sue esperienze in alcuni fondamentali libri. Tra cui il
bellissimo ed intenso florilegio di racconti riuniti nel libro “Per le antiche
scale”. Toscano doc (nasce a Viareggio), dopo aver fatto l’ufficiale medico in
Libia, nel ’42 torna in Italia, e dal settembre ’43 farà parte attiva della
Resistenza. Poi, finita la guerra, tornerà a curare i suoi malati.
Qui,
Tobino rievoco le sue attività nella Resistenza, anche se con ruoli marginali,
ma soprattutto per fare in modo di rendere omaggio a chi partecipò e cadde
nella lotta di liberazione. Per prima cosa, al fine di fare un po’ di veli
sulle vicende, chiama Medusa la città di Viareggio teatro della maggior parte
delle vicende. E lui si ritaglia il ruolo di medico al ritorno dalla Libia, in
seguito ad una pur lieve ferita, presentandosi con il nome di Anselmo, lo
stesso nome che userà come voce narrante in “Per le antiche scale”.
Le
corpose vicende prendono il via alle 22:43 del 25 luglio ’43, quando la radio
annuncia l’arresto di Mussolini e la fine del ventennio fascista. Seguiamo i 45
intensi giorni che separano quel luglio dall’8 settembre. E seguiamo quello che
accade dopo, in un città, come Viareggio, che era sopra quella cintura che
divideva in due l’Italia, che aspettava l’avanzata degli alleati e nel
frattempo dove tenere a bada, non sempre riuscendoci, i ritorni di fiamma
fascisti.
A
fronte delle prime notizie di quel luglio, i giovani del paese, e qualche
illuminato, si palesano, prendono in un certo senso le redini della città allo
sbando, per poi mettere in piedi una specie di ente di coordinamento, indicato
con il nome di “Clandestino”, che servirà a tenere dritta la barra verso il
futuro. Ed è così che vedremo scivolare nelle pieghe della storia il figlio
dell’ottico Summonti, detto il prete rosso, Rosa, l’ingegner Mosca, il
Professor Duchen, l’operaio dei cantieri navali Adriatico, l’irresoluto
scrittore Marino, il muratore Lieto, l’irriducibile Asdrubale (che era da
sempre un sovversivo e da sempre ingaggiava feroci battaglie a suon di pugni
con i fascisti locali),il Mosca, finanche il benestante Rodrigo che diverrà
l’esperto logistico mettendo a disposizioni le strutture familiari.
C’è
ovviamente il medico reduce dalla Libia Anselmo (l’alter ego dell’autore), che
farà un lungo percorso interiore (lui appunto militare in malattia), per finire
ad essere il “diplomatico” e l’autista del clandestino, nonché uno dei primi a
prendere in mano le armi.
A
questo nucleo diremmo “duro e puro” si aggiunsero poi strada facendo altre
figure. In particolare, notiamo le gesta dell’Ammiraglio Umberto Saverio, radiato
dalla Regia Marina per aver osato prendere la parola contro le scellerate
scelte militari fasciste, coadiuvato nelle sue imprese Nelly, la sua amante.
Vediamo,
seguiamo la narrazione del percorso di maturazione del gruppo, soprattutto nei
45 giorni. Vedremo il ritorno dei fascisti, sia con elementi da operetta, come
il Badaloni, che, nominato responsabile di Viareggio, comincia ad espropriare
le case “peggio di un comunista”. Ma sia con elementi di forte connotazione
reazionaria, come il Malfatti, come Oscar e come il Rindi, sulla cui esecuzione
di chiuderà il romanzo.
Non
senza aver visto il Clandestino in opera, andar sui monti, programmare e poi
eseguire un attentato ai cantieri navali, venir arrestati, rilasciati,
arrestati di nuovo, alcuni fuggono, altri si uniscono alle Brigate Partigiane,
altri ancora presi in flagrante verranno uccisi o deportati.
Ma
il romanzo corale di Tobino è un fiume in piena, dove si alternano momenti di
azione a momenti di riflessione e di confronto. Ad esempio all’inizio, quando i
membri fondatori del Clandestino si dicono comunisti, anzi marxisti –
leninisti, anche se non hanno mai letto direttamente né Marx né Lenin. Perché,
come dicono nelle discussioni ben riprese dall’autore, il comunismo per loro è
“la fiducia negli uomini, il bene vittorioso sul male”. Evito accuratamente
ogni commento o riferimento all’attualità.
Tobino
riesce a descriverci l’inizio della lotta armata, i primi passi dei partigiani,
e lo fa (anche) con una narrazione ironica che in ogni caso riesce a farci
conoscere i modi della nascita dei legami tra i giovani avviati alla lotta ed
alla clandestinità. Una via comune all’azione, da cui nasce l’amicizia e
dall’amicizia si arriva all’unità del gruppo, dove ci si avvia al sacrificio
piuttosto che imboccare la strada del tradimento.
Ci
sono tanti punti forti nel testo, ma ovvio che ognuno si fissa su quelli che
suonano per lui. Per me due suonano forte. Il giovane che la notte del 25
luglio trova la forza ed il coraggio di salire su di una panchina ed arringare
la folla viareggina, dicendo del fascismo e dei fascisti quello che tutti
sapevano ma che tacevano (come dice Tobino e non solo, in quei venti anni tutti
erano fascisti).
L’altro
punto è un’affermazione di Adriatico che ad un certo punto chiosa il loro
agire: “Il male è radicato nel mondo, è impossibile levarlo, però è tanto bello
e consolatore combattere per il bene”. Come non essere d’accordo. Come non
capire i nostri genitori che lo pensarono e lo agirono. Come non ricordare
quanto noi stessi, pur con modi e strumenti diversi, abbiamo pensato di poter
fare. E magari pensiamo o facciamo ancora.
Tobino
ci insegna che c’è sempre speranza. E pur nella non linearità di alcune scelte
letterarie, si fa leggere e ci manda messaggi che non possiamo ignorare.
Ada
Gobetti “Diario partigiano” Repubblica Resistenza 18 euro 7,90
[A: 17/08/2020
– I: 20/11/2025 – T: 23/11/2025] &&&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 428; anno: 1956]
Ada
Prospero nasce a Torino nel 1902, sposa Piero Gobetti nel 1923 e due anni dopo
nasce il figlio Paolo. Nel 1926, debilitato dalle botte presa da manipoli
fascisti, Piero prova ad andare a Parigi per curarsi. Senza forze e
cardiopatico, morirà in seguito ad una bronchite nel 1926. Ada, si trova ad
affrontare gli anni ’20 e ’30 in condizioni economiche non agiate, ma lavora
come insegnante ed è aiutata dalle famiglie e dagli amici. Nel ’37 sposa un
tecnico dell’EIAR (l’antenata della RAI), Ettore Marchesini, fratello delle
signorine Marchesini frequentate dai Gobetti sin dalla gioventù, e
collaboratrici con loro alle iniziative editoriali.
Dopo
la guerra, di cui parleremo più avanti, si adopera attivamente sul fronte
femminile e su quello dell’emancipazione. Pur mai rinnegando la base liberale,
su cui aveva fondato il sodalizio con Piero, negli anni ’50 aderisce al Partito
Comunista. Continua a lavorare con passione e abnegazioni con i giovani (forte
anche il suo sodalizio con Gianni Rodari), poi dopo un infarto ed a seguito di
un’emorragia muore nel 1968.
Viene
sempre indicata e ricordata come Ada Gobetti, qui, come ritengo giusto, a parte
chiamarla Ada, è bene sia omaggiata con il suo nome completo: Ada Prospero
Gobetti Marchesini.
Veniamo
allora allo scritto, che ripercorre il “cuore duro” della lotta partigiana,
dall’8 settembre 1943 al maggio 1945. Queste pagine derivano dai diari che Ada
scriveva durante la guerra, redatti con criptiche frasi proto-inglesi, di modo
che ne fosse difficile capire il senso. Ne fece poi una prima redazione nel
’49, al fine di non scordare le modalità di cifratura. Lette in bozza da
Benedetto Croce, fu da lui spronata a farne una pubblicazione autonoma. Cosa
che avvenne nel 1956, con una felice e sintetica prefazione di Italo Calvino.
Anticipo
subito il mio felice giudizio sulla scrittura, molto partecipativa, e sul filo
narrativo. Quello che forse servirebbe ora, a distanza da quegli avvenimenti,
magari un corredo di note, che magari molti, se non tutti, ricordano Duccio
Galimberti, non molti magari sanno di Paolo Braccini. Ma la bellezza della
scrittura l’ho trovata maggiormente nella capacità di Ada di alternare una
narrazione vivida degli avvenimenti di quei due anni, alla soggettività del
momento vissuto come madre. Il figlio Paolo, nato dall’amato Piero, ha diciotto
anni, e partecipa, in pieno, a molte azioni resistenziali, contro i tedeschi e
contro i repubblichini di Salò.
Ada,
dal canto suo, entra da subito nei coordinamenti delle attività del Partito
d’azione, cui confluirà la quasi totalità del movimento di Giustizia e Libertà.
Non solo, è anche parte attiva di molte organizzazioni femminili (i GDD –
Gruppi di Difesa delle donne, il Movimento femminile Giustizia e Libertà).
Laddove, e fin dalle prime azioni del dopo 8 settembre, rivendicava una
completa parità nelle azioni. Non solo i trasporti (di armi, di ordini, di
stampa clandestina), ma partecipazione attiva agli assalti, e quindi alle
difese.
Con
l’andamento diaristico che è la cifra del romanzo, seguiamo le varie vicende,
dal 10 settembre, in cui si vedono sfilare i tedeschi per Torino, prima che la
città venga consegnata loro, a tutte le varie azioni: il sabotaggio del ponte
ferroviario, i primi caduti, la resistenza in val Germanasca. Fino ai momenti
più tragici, quando i caduti sono ormai gli amici, ma quando ogni morto
partigiano è una ferita che non si rimarginerà mai, che quel viso di ragazzo
impiccato rimarrà sempre nei cuori e negli occhi.
Alcune
delle pagine più belle sono rivolte a narrarci l’attraversamento del Passo
dell’Orso per andare a cercare una unione militare clandestina con i maquis
francesi. Un’intesa difficile, che porterà poco sul piano militare, molto sul
piano umano. E con questo anche altri momenti meno tesi, quasi aneddotici, come
la lunga lotta del figlio Paolo per convincere una pecora a venire con loro in
montagna. Pecora che aveva capito quale sarebbe stata la sua fine.
Nelle
parole di Ada Gobetti rinasce il ricordo (sempre presente nella mia famiglia)
di quell’Italia che non si piegò mai al Fascismo, o che, quando sarebbe
servito, rialzò la testa per non abbassarla più. Fino a quell’aprile del ’45,
tutti gioiosi e esultanti, ma con la mente che tornava a Paolo Braccini
(fucilato il 5 aprile ’44), Sandro Delmastro (ucciso nella stessa data mentre
tentava di fuggire), Paolo Diena (ucciso nell’ottobre ’44 vicino ad un ospedale
dove aveva portato un ferito), Duccio Galimberti (morto per le torture nel
dicembre ’44), molti e molte non potevano che essere solidali con la fidanza di
Delmastro, Ester Valabrega, di cui Ada riporta l’impossibilità di gioire e di
festeggiare.
Questo,
come altri sono i momenti toccanti. Ritornando a quell’impiccato, si domanda
Ada come facessero a fiorire le violette nel prato. Ed è anche toccante la
descrizione delle dieci donne che, a guerra finita, dopo una lunga riunione
organizzativa, decidono di restare insieme per la notte. Ripercorrendo quindi
anche tutti quei sentieri di amicizia che pervadono molto del testo. Gli amici
che condividono un concetto di moralità che va al di là del momento presente.
Gli amici che, nonostante tutto, non ti abbandonano in battaglia. Un’amicizia
che rimarrà nei nomi che ci riporta Ada, anche se lei è la prima che si domanda
se la solidarietà di tutti quegli anni avrebbe resistito alla pace. Una domanda
di una lucidità estrema.
Noi,
nel piccolo dei nostri ricordi, più che ai vicini, pensiamo, anche, a quelli
che ci furono, e che, per narrazione, sappiamo aver fatto. Come a ricordare ed
a sottolineare le parole di Churchill “mai così tanti dovettero così tanto a
così pochi”.
Non
ho volutamente percorso i due anni con Ada, che le giovani generazioni devono
leggerne e le vecchie ripassarle. Ho preferito, se ci sono riuscito, dare
qualche avviso sui motivi della necessità di questo scritto e sulla necessità
delle cose che vi sono narrate.
Voglio
finire con un’ultima considerazione, a mo’ di ironica chiusa. A pagina 102, la
scrittrice parla del figlio del suo amico Giorgio, nato durante il periodo
badogliano, con l’amico che dice: “Mio figlio è nato durante il Fascismo: ma è
vissuto soltanto cinquanta giorni in schiavitù.” Ovvio che la mente va a mio
cugino Paolo, nato il 31 maggio del ’46 che prendevamo in giro essendo l’unico
cugino nato nella monarchia. E comunque Zap, ci manchi ancora, a nome mio e di
tutti i cugini.
Volendo
rilassare un’atmosfera abbastanza tesa dovuta a tutti questi non facili ricordi
di avvenimenti di solo ottant’anni fa (ma che se ne leggete in controluce,
possano adattarsi alle mille guerre di oggi), mi accingo ad un lungo florilegio
di citazioni, tratte da romanzi spesso gialli, a volte storici, sempre
avventurosi.
Comincio
con l’unica donna, la spagnola Matilde
Asensi ed il suo “L’ultimo Catone”:
“Lo
avevo pregato di calmarsi e di non preoccuparsi tanto per una persona che
evidentemente non prendeva sul serio la propria salute.” (218) [dedicato a
tutti gli ipocondriaci]
“Perché
mi sono andato ad innamorare di una suora, con tutte le belle donne che c’erano
ad Alessandria?” (381)
“La
conoscenza della bellezza è … il primo gradino verso la comprensione di ciò che
è buono.” (450)
Passiamo ad un giallista di trame storiche
italiano, Alfredo Colitto ed il suo “I discepoli del fuoco”:
“Quando
prendi una decisione, controlla sempre di non averla presa per paura di
qualcosa. La paura è una pessima consigliera.” (101) [sottolineo e condivido]
“-
Anche tu mi credi un egoista? … - Diciamo che avete la tendenza a vedere i
problemi degli altri solo in relazione ai vostri.” (293)
Saltiamo ora in Svezia, con Jens Lapidus e “La traiettoria della
neve”;
“Cercò
di regolare l’acqua [della doccia] alla giusta temperatura. Chissà perché, si
trovò a pensare, è così difficile regolare l’acqua al calore giusto. Prima
troppo calda, poi basta un nanomillimetro a sinistra e diventa troppo fredda.”
(156) [un’esperienza che faccio tutti i giorni sotto la doccia]
Spostiamoci
di poco verso la Norvegia, con Jo Nesbø e “Il
pettirosso”:
“Come sempre, quando la sua vita privata
diventava troppo problematica … si era rifugiato nel lavoro.” (345) [ricordi di
gioventù]
Finiamo allora con il maestro
dell’avventura, il grande Clive Cussler ed un pensiero tratto da “I Predatori” scritto con Jack du Brul:
“Affrontare un nemico significa affrontare
sé stessi. Vincerlo rafforza il proprio io.” (369)
Tre settimane e cominceranno i grandi festeggiamenti natalizi. Noi si approfitta per finire gli incontri amichevoli e le feste dei giovani, che si sa dalla fine di novembre a gennaio è tutto un augurio. Pensiamo anche ai viaggi, ma non abbiamo situazioni semplici (pochi incastri, costi che stanno lievitando, ed altre spiacevoli amenità). Allora stringiamoci in un grande abbraccio.