domenica 30 novembre 2025

Dopo ottanta anni ... - 30 novembre 2025

Siamo ancora lì, a leggere e commentare gli scritti che ci riportano alle pagine dolorose che, però, hanno contribuito a creare questo nostro paese. Pagine da meditare sperando che servano a farci e fare riflettere su come evitare di distruggere, questo ed anche altri paesi e mondi (non vi elenco tutte le guerre in atto, ma ne sapete certo). Tutte scritture più che sufficienti, da Angelo Del Boca a Primo Levo, da Miriam Mafai a Mario Tobino, per terminare con una scrittura che per me si è elevata, seppur di poco, sulle altre: quella di Ada Prospero Marchesini Gobetti.

Angelo Del Boca “Nella notte ci guidano le stelle” Repubblica Resistenza 25 euro 7,90

[A: 09/10/2020 – I: 30/03/2025 – T: 31/03/2025] &&&     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 204; anno: 2015]

Angelo Del Boca è uno degli esimi scrittori storici di cui si sente parlare e di cui non avevo letto nulla. Certo, è ben più noto, rispetto a questo libro dedicato alla Resistenza, per i suoi scritti africani, sulla Libia e sull’Etiopia. Ed in particolare, per tutte le pagine dedicate ad elencare e descrivere i crimini commessi dall’esercito italiano in quei paesi (esemplare il libro “Italiani brava gente?”). Ma era stato, prima che storico, anche scrittore di saggistica, giornalista e vicino alla politica. Tant’è che negli anni ’60 si iscrive al PSIUP, poi diventa cronista per “Il Giorno”, fino a lasciare giornale e socialisti nel 1981 all’avvento di Bettino Craxi. E già un buon punto.

Per venire al libro ed all’autore “nel” libro, questo è l’ultimo volume pubblicato dei libri sulla Resistenza dell’esimia collana, ma non l’ultimo che leggo né tanto meno l’ultimo per gradimento. È un libro in un certo senso complesso, che pone una domanda fondamentale e di non facile risposta. A parte le motivazioni ideologiche (che ovviamente portano a decisioni e comportamenti marcati da altro), molte e variegate furono le adesioni e le partecipazioni alla Resistenza. Ed in particolare mi riferisco a coloro che nei tempi della Guerra erano tra i venti ed i venticinque anni.

C’è stato chi, esente dal servizio militare per motivi familiari, ha da subito aderito a movimenti antifascisti alla luce di ciò che vedeva tutti i giorni (e penso a mio zio). C’è chi, militare intorno all’8 settembre, butta alle ortiche la divisa, torna clandestino ai suoi luoghi e si unisce alla lotta partigiana (e penso a mio padre).

Del Boca ci racconta un percorso diverso, anche molto difficile, ma di certo anche esemplare del periodo. Lui nasce a Novara nel maggio del ’25, per cui dopo l’armistizio è poco più che diciottenne. Data la forte presenza fascista al Nord, Angelo viene costretto ad arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò, sotto la minaccia di deportare il padre in Germania. Fa un addestramento i Germania, poi viene mandato nelle brigate alpine intorno a Piacenza. Lì resiste da maggio ad ottobre, assistendo, impotente, a molte scene di trucida barbarie.

E nell’ottobre, approfittando di una congiuntura militare, insieme ad una decina di altri soldati, diserta e cerca di raggiungere le Brigate Partigiane. Proprio in quei giorni, comincia a scrivere suoi appunti, pensieri e qualche avvenimento, su piccoli fogli di carta che costituiranno l’ossatura di questo diario. Un diario che copre pochi mesi, dall’inverno del ’44 alla primavera del ’45, ma che pongono appunto quel problema di cui volevo narrare.

Del Boca, arruolato a forza, diserta (ed è quindi ancora un diverso modo di lottare il fascismo). Ma prima deve superare un periodo di forte crisi e di pericolo personale. Era un militare RSI e come tale aveva partecipato ad azioni militari nella zona di Bobbio (PC). Una volta presentatosi ad una delle Brigate Garibaldi, il responsabile politico è incerto se accettarlo (sapendone la buona fede) o comunque condannarlo per le azioni intraprese. Solo l’incontro con Italo Londei, uno dei responsabili locali delle brigate di Giustizia e Libertà, consentirà a Del Boca di essere scagionato dalle accuse di collaborazionismo, potendo quindi mettere a disposizione della lotta partigiana le sue conoscenze militari.

Il testo, molto trasversale nelle parole, non entra nel vivo delle azioni, data la paura di poter essere catturato, e quindi che ci fossero nello scritto accenni a luoghi e persone che quelle descrizioni avrebbero messo in pericolo. Si parla molto di sensazioni, si descrive e bene l’ambiente appenninico in cui si muovevano, le paure delle imboscate, la fame, la solidarietà contadina. Ed anche, ovvio per un quasi ventenne, la presenza femminile, con sguardi e a volte timidi baci.

Fortunatamente, dopo che l’autore riprende in mano tutta quella materia, vi aggiunge un’appendice, intitolata “Settanta anni dopo”, la quale, invece, entra nei dettagli, entra nei momenti difficili, fa nomi e cognomi, di buoni e di cattivi. Ed è lì in quelle pagine, da pagina 168 a pagina 170, che vediamo la descrizione della brutalità fascista che termina in una uccisione immotivata. Una brutalità che sarà l’ultima goccia per far traboccare il vaso della rivolta nel giovane Angelo.

Venendo dallo storico Del Boca, all’inizio mi aspettavo di più. Non nella scrittura, che è di ottima fattura, ma di partecipazione agli avvenimenti. Grazie all’appendice, il testo, alla fine, risale molte posizioni. Anche se un suo posto lo aveva fin dalle prime pagine, ma per altri motivi. Quando descrive la lunga marcia (credo una cinquantina di impervi chilometri) per spostarsi da Bobbio a Torriglia. Se ve ne domandate il motivo, la risposta sta nella storia della mia famiglia, ed in particolare della mia ligure nonna Bianca.

“Noi … eravamo ragazzi senza un passato di cui andare fieri e, anzi, uscivamo a fatica dal fascismo. Non è che avessimo grandi ideali, ma qualche convinzione sì, e precisamente, in ordine d’importanza: 1) non morire; 2) tornare a casa, dalla nostra famiglia; 3) sparare a tedeschi e fascisti. L’importante era vivere.” (180)

Primo Levi “Se non ora, quando?” Repubblica Resistenza 1 euro 7,90

[A: 13/05/2020 – I: 12/06/2025 – T: 14/06/2025] &&&      

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 347; anno: 1982]

Non penso ci sia bisogno di spiegare chi sia stato Primo Levi, testimone degli sterminii degli ebrei nei campi di concentramento ed autore di un libro-memoria che tutti dovrebbero leggere (“Se questo è un uomo”). Qui però ci occupiamo di letteratura resistenziale, ed in quest’ambito Levi ha prodotto un solo romanzo che, appunto, in modo traslato, riporta esperienze di quei momenti, anche allargandone il campo.

È un romanzo, dicevo, seppur basato su presupposti veridici, facendo convergere due ricordi. Uno citato nel libro di Levi “La tregua” (quello che racconta del lungo ritorno a casa una volta liberato dal campo di Auschwitz) dove, parlando mentre aspettano un treno, viene narrato l’episodio di un gruppo di giovani sionisti partigiani che, smesse le armi, cerca di raggiungere la Palestina. L’altro riguarda i racconti di un amico di Levi era addetto ai centri di accoglienza profughi nella Milano liberata dopo il maggio del ’45.

Da questa messe di informazioni, Levi tira fuori il racconto di una banda picareschi composta da ebrei polacchi e russi che combatte la sua guerra partigiana. E lo narra in un lungo memoriale che parte dal luglio ’43 per arrivare all’agosto del ’45. Un insieme di persone, di diversa tipologia ed estrazione sociale, che seguiamo (anche grazie alla bellissima mappa posto ad inizio libro) da quando comincia ad aggregarsi a Brjansk nella cosiddetta Russia Bianca per tutto il percorso che li porterà, dopo aver attraversato Bielorussia, Ucraina, Polonia, Germania ed Austria, nella Milano del primo dopoguerra.

La banda nasce da i due sbandati che incontriamo nel primo capitolo, che solidarizzano per necessità, anche se forse non diventeranno mai amici. Sono due facce di una medaglia che forse Levi stesso avrebbe voluto per sé. C’è Mendel, il maturo orologiaio, che vede la polvere accumularsi sull’orologio della storia, con la grossa possibilità che fermi le lancette. Ha visto morire moglie e parenti ed amici vari, non ha più molto se non la sua identità ebraica. Con la quale fa i conti per andare avanti. Incontrando per primo il giovane Leonid, un po’ timido, un po’ intellettuale. Uno che dice poco di sé, che forse si fa grossi castelli mentali, ma che, colpito dalla guerra e dai lutti, poco riesce a vedere di una possibile costruzione del futuro.

I due danno il là a tutta questa serie di vicissitudini, che ad un certo punto il terzo elemento prospettico della proiezione di Levi sul romanzo, il comandante Gedele, sintetizza con la frase: “E quand’anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?”. È una citazione del testo ebraico Pirké Avoth (noto in italiano come “Le massime dei Padri”), una raccolta di detti scritti tra il 360 a.C. ed il 70 d.C. e contenuta nel Talmud. Una frase che nei commentari ufficiali viene interpretata come: le cose non si sistemano da sole, la vita, una e soltanto tua, bisogna costruirsela qui ed ora; quindi, raccogli i pezzi di te stesso e datti da fare.

Così appunto come si danno da fare Mendel e Leonid, che si aggregano prima alla banda di Dov, dove Leonid ha una storia con Line. Ma Dov è ferito ed anche anziano, quindi poco propositivo. I nostri, ormai una decina, si uniscono a Gedele che invece è un capo molto riconosciuto ed amato. Che li porta verso azioni avventate (tipo deragliamento di treni) ma che non li abbandona mai. Così, oltre ai due che seguiamo dall’inizio, veniamo a contatto di tutti i maggiori componenti della banda, ognuno con alle spalle una sua storia. Come spesso accade (e questo ritorna anche nei racconti della mia mitologia familiare) c’è gente allegra ma anche feroce. C’è chi è riuscito a fuggire da un lager, e chi ha disertato dall’Armata Rossa, ci sono donne (che anche loro fecero la guerra) e c’è finanche un cristiano che si aggrega agli ebrei (permettendo a Levi delle piccole digressioni sul rispetto reciproco).

Come in tutti i racconti corali, vedremo anche le dinamiche di gruppo che si scateneranno. Verso l’interno e verso l’esterno. Chi non vincerà la gelosia. La presenza dirompente delle donne, che avranno un loro posto precipuo in ogni avvenimento. Sia nelle rotture (tra Mendel e Leonid) sia negli avvicinamenti, e sfoceranno, in un finale forse straniante ma voluto fortemente da Levi, con la nascita di un bambino. Quasi a voler indicare nella nascita la volontà di proseguire un intento di vita. Dopo tante morti ed uccisioni, laddove il mantra di Levi e della banda di Gedele era “Meglio cadere liberi da combattenti che vivere sotto il potere degli assassini”, una volta liberati, la nuova vita, che si spera li porterà verso la Terra Promessa, deve essere foriera di speranza.

Levi, che scrive questo testo quasi trent’anni dopo gli avvenimenti, ce ne mostra la crudezza, e ci indica una speranza. Purtroppo una speranza che lui poteva avere alla fine della guerra, ma che lì, nell’inizio degli anni Ottanta, cominciava a vacillare grandemente. Israele già non era quella terra promessa benefica e pacificata. Il mondo stesso continuava a correre verso baratri non più risalibili. Tanto che pochi anni dopo, forse per un mancamento dell’età, forse per una volontà di cancellare tutto, Primo cade dalle scale e muore.

Ci lascia questi libri. “Se questo è un uomo” molto letto e giustamente. Questo molto citato e forse poco letto, che a chi lo legge, induce una riflessione potente. Sia sul fatto che gli ebrei non erano fin d’allora solo carne da macello (e ne vediamo le propaggini ora), sia che si sarebbe dovuto convergere verso un mondo di pace e fraternità. Da cui, purtroppo, siamo ancora molto lontani. Leggete infatti l’ultima citazione. Bella e mai attuata.

“L’Italia stessa è favola … come si può condensare nella stessa immagine il Vesuvio e le gondole, Pompei e la Fiat, il teatro della Scala e … Mussolini.” (51)

“Noi combatteremo fino alla fine della guerra, perché crediamo che fare la guerra sia una brutta cosa, ma che uccidere i nazisti sia la cosa più giusta che si possa fare oggi sulla faccia della Terra; e poi andremo in Palestina, e cercheremo di costruirci la casa che abbiamo perduta, e di ricominciare a vivere come vive tutta l’altra gente.” (200)

“Il sangue non si paga col sangue. Il sangue si paga con la giustizia.” (291)

Miriam Mafai “Pane nero” Repubblica Resistenza 7 euro 7,90

[A: 30/06/2020 – I: 25/06/2025 – T: 27/06/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno: 1987]

Miriam Mafai è di certo un nome della mia costellazione familiare, mio padre suo coetaneo e spesso con lei a discutere sin dai tempi dell’Unità e delle divergenze sulla primavera ungherese prima e su quella di Praga poi. Ma anche per i sodalizi pittorici con la scuola romana (quella di via Cavour fondata dal padre Mario). Per mio conto, poi, ne seguii l’ascesa giornalistica ai tempi della fondazione di Repubblica.

Qui, tornando indietro nel tempo, Miriam fa un’operazione interessante e molto attuale: dopo aver intervistato un grande numero di donne sui rispettivi comportamenti durante la Seconda Guerra mondiale, ne tira fuori un libro, datato se vogliamo, ma di grande interesse ed impatto, che presenta, senza nessun infingimento, cosa fecero al tempo le donne, come venivano trattate e come cercarono, senza trovarne molta, una possibile evoluzione. Con un finale che, ogni volta che lo rileggo, mi riporta alla mente il bellissimo film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”.

Il pane nero del titolo è quello scadente, fatto con avanzi di farina, quando c’era, che si era costretti a mangiare durante la guerra. Ed è mangiando pane nero che Miriam ci porta attraverso tre tappe fondamentali, e quanto ne attraversarono nel tempo. L’entrata in guerra il 10 giugno 1940, la caduta del fascismo il 23 luglio 1943 e la fine della guerra il 25 aprile 1945. Proprio navigando tra queste boe temporali, vediamo, ci si mostra, il ruolo e le attività che le donne intrapresero nel tempo.

Diciamo che il punto d’ingresso possiamo farlo risalire ad un articolo della rivista “Critica Fascista” degli anni Trenta: “Io non auspico … un ritorno alla schiavitù femminile ma soltanto … un freno alla esagerata libertà di cui godono oggidì le donne: fra i due sessi non può esistere parità di diritti perché c’è squilibrio di doveri e la natura stessa ha dato alla donna compiti e funzioni diversi da quelli che ha dato all’uomo. Tornino dunque le donne … al loro posto e non prendano atteggiamenti e non usurpino mansioni che non si addicono al loro sesso, ed anche la famiglia ne guadagnerà.” (35-36)

Ecco, questo è quello che non faranno le donne dopo la svolta della prima boa. Italia in guerra, mentre tutti pensano una breve e veloce cavalcata, sappiamo che fu assai diverso. Mafai ci fa quindi vedere come le donne, con gli uomini al fronte, devono prenderne il posto nelle fabbriche, spesso con mansioni analoghe, sempre con stipendi inferiori (e sappiamo anche che è una costante ancora e tuttora vigente). Ma non solo, le donne devono combattere anche la lunga battaglia contro la fame, laddove anche il cibo comincia a scarseggiare.

Alla svolta della seconda boa, molte donne (e tra queste metto in prima fila dei ricordi le donne della mia famiglia materna) fanno scelte coraggiose: alla caduta del fascismo, e dopo l’8 settembre, comincia la guerra civile, e molte donne si impegnano (anche) in questa lotta, al minimo come staffette, ma spesso anche come combattenti armate. Miriam, così come sua sorella Stefania, furono staffette partigiane, così come zia Toja. E portatrici di armi alle formazioni combattenti furono anche zia Nenne e zia Nanna. E non nomino tutte le altre che sarebbe un altro libro. mentre Miriam ricorda Cesarina, staffetta tra Modena e Bologna, e Rosa e Laura.

L’ultimo atto, dopo il 25 aprile, è forse il più triste, quello che più ci riporta alla realtà. Che per la vittoria sfilavano i maschi combattenti, mentre le donne, pur avendolo fatto, erano costrette a rimanere nella folla. È il prezzo della Liberazione. Duro prezzo da pagare, duro per chi vuole (e purtroppo riesce) a far tornare (quasi) tutto come prima. Le nostre donne avrebbero certo detto che in fondo era stato bello. Che Carla, Marisa o Lucia erano state lì, sullo stesso piano di tutti, condividendone i rischi, e spesso la sorte di torture e morte. La scrittrice riesce a rappresentarci anche questo passo, e lo fa con tutto il dolore che anche noi proviamo.

La capacità narrativa viene anche messa al servizio di “altre donne”, che eran presenti su tutti i lati del fronte, a volte anche lì in prima linea, a volte a rimanere ancorate ai propri mestieri. Come la sarta Biki che per tutta la guerra continuò a produrre abiti (per chi non sa o non ricorda la stilista Biki fu la sarta che “inventò” le mise di Maria Callas). Come la repubblichina Lela comandante delle ausiliarie di Salò. E come Claretta Petacci, l’amante di Mussolini, devota sino a condividerne volontariamente la tragica fine.

È un libro corale, dove, come ho cercato di tratteggiare, vengono narrate, con un piglio giornalistico che non verrà mai meno, diverse storie, per intrecciare anche quel parallelismo tra storia e Storia di sempre indubbio interesse. Forse, l’unico limite che blocca alla fine il testo, è però questa frammentarietà, che non consente di individuare da subito un disegno unitario.

Oltre però a quanto detto sopra, ci sono altre tre punti personali che mi hanno preso nel corso del testo. Uno è la citazione che porto in finale, e che mi ricorda l’aiuto, piccolo ma fatto di cuore, che ho dato al mio amico Luciano nella redazione del libro dedicato all’affondamento del Santa Lucia, il postale delle isole Ponziane. Il secondo, quando, nel citare il film del periodo di guerra, mi ricorda un film che adoravo quando avevo dieci anni: “Il sergente York” con Gary Cooper.

Infine, Miriam riporta che, com’è ovvio, durante la guerra ci sia stato un calo delle nascite, che però dal ’46 subisce una brusca impennata. Ed allora come non ricordare i miei sette cugini nati prime del ’50!

“Lunedì 26 luglio 1943. A Ventotene … scarseggiavano i viveri … Due giorni prima un piroscafo era stato affondato, al largo; per ventiquattr’ore il mare aveva restituito cadaveri.” (124) [il Santa Lucia!]

Mario Tobino “Il clandestino” Repubblica Resistenza 8 euro 7,90

[A: 13/06/2020 – I: 10/09/2025 – T: 12/09/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 459; anno: 1962]

Mario Tobino è stato un valente uomo poliedrico dello scorso secolo, fondamentalmente dedito agli aiuti al prossimo, esplicò questa sua indole come valente psichiatra. Tuttavia essendo anche molto portato alle Lettere, farà in modo di riversare molte delle sue esperienze in alcuni fondamentali libri. Tra cui il bellissimo ed intenso florilegio di racconti riuniti nel libro “Per le antiche scale”. Toscano doc (nasce a Viareggio), dopo aver fatto l’ufficiale medico in Libia, nel ’42 torna in Italia, e dal settembre ’43 farà parte attiva della Resistenza. Poi, finita la guerra, tornerà a curare i suoi malati.

Qui, Tobino rievoco le sue attività nella Resistenza, anche se con ruoli marginali, ma soprattutto per fare in modo di rendere omaggio a chi partecipò e cadde nella lotta di liberazione. Per prima cosa, al fine di fare un po’ di veli sulle vicende, chiama Medusa la città di Viareggio teatro della maggior parte delle vicende. E lui si ritaglia il ruolo di medico al ritorno dalla Libia, in seguito ad una pur lieve ferita, presentandosi con il nome di Anselmo, lo stesso nome che userà come voce narrante in “Per le antiche scale”.

Le corpose vicende prendono il via alle 22:43 del 25 luglio ’43, quando la radio annuncia l’arresto di Mussolini e la fine del ventennio fascista. Seguiamo i 45 intensi giorni che separano quel luglio dall’8 settembre. E seguiamo quello che accade dopo, in un città, come Viareggio, che era sopra quella cintura che divideva in due l’Italia, che aspettava l’avanzata degli alleati e nel frattempo dove tenere a bada, non sempre riuscendoci, i ritorni di fiamma fascisti.

A fronte delle prime notizie di quel luglio, i giovani del paese, e qualche illuminato, si palesano, prendono in un certo senso le redini della città allo sbando, per poi mettere in piedi una specie di ente di coordinamento, indicato con il nome di “Clandestino”, che servirà a tenere dritta la barra verso il futuro. Ed è così che vedremo scivolare nelle pieghe della storia il figlio dell’ottico Summonti, detto il prete rosso, Rosa, l’ingegner Mosca, il Professor Duchen, l’operaio dei cantieri navali Adriatico, l’irresoluto scrittore Marino, il muratore Lieto, l’irriducibile Asdrubale (che era da sempre un sovversivo e da sempre ingaggiava feroci battaglie a suon di pugni con i fascisti locali),il Mosca, finanche il benestante Rodrigo che diverrà l’esperto logistico mettendo a disposizioni le strutture familiari.

C’è ovviamente il medico reduce dalla Libia Anselmo (l’alter ego dell’autore), che farà un lungo percorso interiore (lui appunto militare in malattia), per finire ad essere il “diplomatico” e l’autista del clandestino, nonché uno dei primi a prendere in mano le armi.

A questo nucleo diremmo “duro e puro” si aggiunsero poi strada facendo altre figure. In particolare, notiamo le gesta dell’Ammiraglio Umberto Saverio, radiato dalla Regia Marina per aver osato prendere la parola contro le scellerate scelte militari fasciste, coadiuvato nelle sue imprese Nelly, la sua amante.

Vediamo, seguiamo la narrazione del percorso di maturazione del gruppo, soprattutto nei 45 giorni. Vedremo il ritorno dei fascisti, sia con elementi da operetta, come il Badaloni, che, nominato responsabile di Viareggio, comincia ad espropriare le case “peggio di un comunista”. Ma sia con elementi di forte connotazione reazionaria, come il Malfatti, come Oscar e come il Rindi, sulla cui esecuzione di chiuderà il romanzo.

Non senza aver visto il Clandestino in opera, andar sui monti, programmare e poi eseguire un attentato ai cantieri navali, venir arrestati, rilasciati, arrestati di nuovo, alcuni fuggono, altri si uniscono alle Brigate Partigiane, altri ancora presi in flagrante verranno uccisi o deportati.

Ma il romanzo corale di Tobino è un fiume in piena, dove si alternano momenti di azione a momenti di riflessione e di confronto. Ad esempio all’inizio, quando i membri fondatori del Clandestino si dicono comunisti, anzi marxisti – leninisti, anche se non hanno mai letto direttamente né Marx né Lenin. Perché, come dicono nelle discussioni ben riprese dall’autore, il comunismo per loro è “la fiducia negli uomini, il bene vittorioso sul male”. Evito accuratamente ogni commento o riferimento all’attualità.

Tobino riesce a descriverci l’inizio della lotta armata, i primi passi dei partigiani, e lo fa (anche) con una narrazione ironica che in ogni caso riesce a farci conoscere i modi della nascita dei legami tra i giovani avviati alla lotta ed alla clandestinità. Una via comune all’azione, da cui nasce l’amicizia e dall’amicizia si arriva all’unità del gruppo, dove ci si avvia al sacrificio piuttosto che imboccare la strada del tradimento.

Ci sono tanti punti forti nel testo, ma ovvio che ognuno si fissa su quelli che suonano per lui. Per me due suonano forte. Il giovane che la notte del 25 luglio trova la forza ed il coraggio di salire su di una panchina ed arringare la folla viareggina, dicendo del fascismo e dei fascisti quello che tutti sapevano ma che tacevano (come dice Tobino e non solo, in quei venti anni tutti erano fascisti).

L’altro punto è un’affermazione di Adriatico che ad un certo punto chiosa il loro agire: “Il male è radicato nel mondo, è impossibile levarlo, però è tanto bello e consolatore combattere per il bene”. Come non essere d’accordo. Come non capire i nostri genitori che lo pensarono e lo agirono. Come non ricordare quanto noi stessi, pur con modi e strumenti diversi, abbiamo pensato di poter fare. E magari pensiamo o facciamo ancora.

Tobino ci insegna che c’è sempre speranza. E pur nella non linearità di alcune scelte letterarie, si fa leggere e ci manda messaggi che non possiamo ignorare.

Ada Gobetti “Diario partigiano” Repubblica Resistenza 18 euro 7,90

[A: 17/08/2020 – I: 20/11/2025 – T: 23/11/2025] &&& e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 428; anno: 1956]

Ada Prospero nasce a Torino nel 1902, sposa Piero Gobetti nel 1923 e due anni dopo nasce il figlio Paolo. Nel 1926, debilitato dalle botte presa da manipoli fascisti, Piero prova ad andare a Parigi per curarsi. Senza forze e cardiopatico, morirà in seguito ad una bronchite nel 1926. Ada, si trova ad affrontare gli anni ’20 e ’30 in condizioni economiche non agiate, ma lavora come insegnante ed è aiutata dalle famiglie e dagli amici. Nel ’37 sposa un tecnico dell’EIAR (l’antenata della RAI), Ettore Marchesini, fratello delle signorine Marchesini frequentate dai Gobetti sin dalla gioventù, e collaboratrici con loro alle iniziative editoriali.

Dopo la guerra, di cui parleremo più avanti, si adopera attivamente sul fronte femminile e su quello dell’emancipazione. Pur mai rinnegando la base liberale, su cui aveva fondato il sodalizio con Piero, negli anni ’50 aderisce al Partito Comunista. Continua a lavorare con passione e abnegazioni con i giovani (forte anche il suo sodalizio con Gianni Rodari), poi dopo un infarto ed a seguito di un’emorragia muore nel 1968.

Viene sempre indicata e ricordata come Ada Gobetti, qui, come ritengo giusto, a parte chiamarla Ada, è bene sia omaggiata con il suo nome completo: Ada Prospero Gobetti Marchesini.

Veniamo allora allo scritto, che ripercorre il “cuore duro” della lotta partigiana, dall’8 settembre 1943 al maggio 1945. Queste pagine derivano dai diari che Ada scriveva durante la guerra, redatti con criptiche frasi proto-inglesi, di modo che ne fosse difficile capire il senso. Ne fece poi una prima redazione nel ’49, al fine di non scordare le modalità di cifratura. Lette in bozza da Benedetto Croce, fu da lui spronata a farne una pubblicazione autonoma. Cosa che avvenne nel 1956, con una felice e sintetica prefazione di Italo Calvino.

Anticipo subito il mio felice giudizio sulla scrittura, molto partecipativa, e sul filo narrativo. Quello che forse servirebbe ora, a distanza da quegli avvenimenti, magari un corredo di note, che magari molti, se non tutti, ricordano Duccio Galimberti, non molti magari sanno di Paolo Braccini. Ma la bellezza della scrittura l’ho trovata maggiormente nella capacità di Ada di alternare una narrazione vivida degli avvenimenti di quei due anni, alla soggettività del momento vissuto come madre. Il figlio Paolo, nato dall’amato Piero, ha diciotto anni, e partecipa, in pieno, a molte azioni resistenziali, contro i tedeschi e contro i repubblichini di Salò.

Ada, dal canto suo, entra da subito nei coordinamenti delle attività del Partito d’azione, cui confluirà la quasi totalità del movimento di Giustizia e Libertà. Non solo, è anche parte attiva di molte organizzazioni femminili (i GDD – Gruppi di Difesa delle donne, il Movimento femminile Giustizia e Libertà). Laddove, e fin dalle prime azioni del dopo 8 settembre, rivendicava una completa parità nelle azioni. Non solo i trasporti (di armi, di ordini, di stampa clandestina), ma partecipazione attiva agli assalti, e quindi alle difese.

Con l’andamento diaristico che è la cifra del romanzo, seguiamo le varie vicende, dal 10 settembre, in cui si vedono sfilare i tedeschi per Torino, prima che la città venga consegnata loro, a tutte le varie azioni: il sabotaggio del ponte ferroviario, i primi caduti, la resistenza in val Germanasca. Fino ai momenti più tragici, quando i caduti sono ormai gli amici, ma quando ogni morto partigiano è una ferita che non si rimarginerà mai, che quel viso di ragazzo impiccato rimarrà sempre nei cuori e negli occhi.

Alcune delle pagine più belle sono rivolte a narrarci l’attraversamento del Passo dell’Orso per andare a cercare una unione militare clandestina con i maquis francesi. Un’intesa difficile, che porterà poco sul piano militare, molto sul piano umano. E con questo anche altri momenti meno tesi, quasi aneddotici, come la lunga lotta del figlio Paolo per convincere una pecora a venire con loro in montagna. Pecora che aveva capito quale sarebbe stata la sua fine.

Nelle parole di Ada Gobetti rinasce il ricordo (sempre presente nella mia famiglia) di quell’Italia che non si piegò mai al Fascismo, o che, quando sarebbe servito, rialzò la testa per non abbassarla più. Fino a quell’aprile del ’45, tutti gioiosi e esultanti, ma con la mente che tornava a Paolo Braccini (fucilato il 5 aprile ’44), Sandro Delmastro (ucciso nella stessa data mentre tentava di fuggire), Paolo Diena (ucciso nell’ottobre ’44 vicino ad un ospedale dove aveva portato un ferito), Duccio Galimberti (morto per le torture nel dicembre ’44), molti e molte non potevano che essere solidali con la fidanza di Delmastro, Ester Valabrega, di cui Ada riporta l’impossibilità di gioire e di festeggiare.

Questo, come altri sono i momenti toccanti. Ritornando a quell’impiccato, si domanda Ada come facessero a fiorire le violette nel prato. Ed è anche toccante la descrizione delle dieci donne che, a guerra finita, dopo una lunga riunione organizzativa, decidono di restare insieme per la notte. Ripercorrendo quindi anche tutti quei sentieri di amicizia che pervadono molto del testo. Gli amici che condividono un concetto di moralità che va al di là del momento presente. Gli amici che, nonostante tutto, non ti abbandonano in battaglia. Un’amicizia che rimarrà nei nomi che ci riporta Ada, anche se lei è la prima che si domanda se la solidarietà di tutti quegli anni avrebbe resistito alla pace. Una domanda di una lucidità estrema.

Noi, nel piccolo dei nostri ricordi, più che ai vicini, pensiamo, anche, a quelli che ci furono, e che, per narrazione, sappiamo aver fatto. Come a ricordare ed a sottolineare le parole di Churchill “mai così tanti dovettero così tanto a così pochi”.

Non ho volutamente percorso i due anni con Ada, che le giovani generazioni devono leggerne e le vecchie ripassarle. Ho preferito, se ci sono riuscito, dare qualche avviso sui motivi della necessità di questo scritto e sulla necessità delle cose che vi sono narrate.

Voglio finire con un’ultima considerazione, a mo’ di ironica chiusa. A pagina 102, la scrittrice parla del figlio del suo amico Giorgio, nato durante il periodo badogliano, con l’amico che dice: “Mio figlio è nato durante il Fascismo: ma è vissuto soltanto cinquanta giorni in schiavitù.” Ovvio che la mente va a mio cugino Paolo, nato il 31 maggio del ’46 che prendevamo in giro essendo l’unico cugino nato nella monarchia. E comunque Zap, ci manchi ancora, a nome mio e di tutti i cugini.

Volendo rilassare un’atmosfera abbastanza tesa dovuta a tutti questi non facili ricordi di avvenimenti di solo ottant’anni fa (ma che se ne leggete in controluce, possano adattarsi alle mille guerre di oggi), mi accingo ad un lungo florilegio di citazioni, tratte da romanzi spesso gialli, a volte storici, sempre avventurosi.

Comincio con l’unica donna, la spagnola Matilde Asensi ed il suo “L’ultimo Catone”:

“Lo avevo pregato di calmarsi e di non preoccuparsi tanto per una persona che evidentemente non prendeva sul serio la propria salute.” (218) [dedicato a tutti gli ipocondriaci]

“Perché mi sono andato ad innamorare di una suora, con tutte le belle donne che c’erano ad Alessandria?” (381)

“La conoscenza della bellezza è … il primo gradino verso la comprensione di ciò che è buono.” (450)

Passiamo ad un giallista di trame storiche italiano, Alfredo Colitto ed il suo “I discepoli del fuoco”:

“Quando prendi una decisione, controlla sempre di non averla presa per paura di qualcosa. La paura è una pessima consigliera.” (101) [sottolineo e condivido]

“- Anche tu mi credi un egoista? … - Diciamo che avete la tendenza a vedere i problemi degli altri solo in relazione ai vostri.” (293)

Saltiamo ora in Svezia, con Jens Lapidus e “La traiettoria della neve”;

“Cercò di regolare l’acqua [della doccia] alla giusta temperatura. Chissà perché, si trovò a pensare, è così difficile regolare l’acqua al calore giusto. Prima troppo calda, poi basta un nanomillimetro a sinistra e diventa troppo fredda.” (156) [un’esperienza che faccio tutti i giorni sotto la doccia]

Spostiamoci di poco verso la Norvegia, con Jo Nesbø e “Il pettirosso”:

“Come sempre, quando la sua vita privata diventava troppo problematica … si era rifugiato nel lavoro.” (345) [ricordi di gioventù]

Finiamo allora con il maestro dell’avventura, il grande Clive Cussler ed un pensiero tratto da “I Predatori” scritto con Jack du Brul:

“Affrontare un nemico significa affrontare sé stessi. Vincerlo rafforza il proprio io.” (369)

Tre settimane e cominceranno i grandi festeggiamenti natalizi. Noi si approfitta per finire gli incontri amichevoli e le feste dei giovani, che si sa dalla fine di novembre a gennaio è tutto un augurio. Pensiamo anche ai viaggi, ma non abbiamo situazioni semplici (pochi incastri, costi che stanno lievitando, ed altre spiacevoli amenità). Allora stringiamoci in un grande abbraccio.

domenica 23 novembre 2025

Scrittura al femminile - 23 novembre 2025

Anche questa volta, come spesso capita nelle ultime settimane, torniamo alle scritture femminili. Due buone riuscite italiane, una di scrittura attualissima in linea con la recente tendenza a confrontarsi con le grandi saghe familiari (l’interessante Milena Palmintieri) ed una di qualche anno fa ma sempre attuale (Camilla Baresani). Le nostre si confrontano delle scritture molto diverse, ma non sempre altrettanto riuscite, sia dell’indonesiana Ayu Utami sia delle anglosassoni Nora Ephron e Nadine Gordimer. Spiace molto di quest’ultima che in questo che è uno degli ultimi suoi scritti non sono riuscito a trovare alcun coinvolgimento.

Ayu Utami “Le donne di Saman” Repubblica Voci d’Oriente 16 euro 9,90

[A: 15/07/2025 – I: 01/09/2025 – T: 02/09/2025] - &&   

[tit. or.: Saman; ling. or.: indonesiano; pagine: 205; anno 1998]

Come è facile immaginare, non è che abbia una grande visibilità della letteratura indonesiana, essendo Ayu Utami solo la seconda persona che incontro di quello spicchio di mondo (anche se guardando bene è assai strano visto che l’Indonesia sta nella top five della demografia mondiale). Incontrai tre anni fa Eka Kurniawan, interessante e promettente scrittore, che però non mi suscitò entusiasmi particolari. Ora è la volta di una scrittura al femminile, che sicuramente è stata stimolante per le modalità ed il contesto, ma che non ha preso molto il cuore e la pancia, rimanendo solo intellettualmente stimolante (e forse è un po’ poco).

Di certo, stimolante è stato andare alla ricerca di notizie su Ayu Utami, scrittrice e giornalista ormai verso la sessantina, ma che ha avuto un interessante sviluppo nel panorama locale. Da giovane, bella ed attraente, mentre studia lingue partecipa con discreto onore a concorsi di bellezza, per poi decidere che il giornalismo è il suo mestiere. Un giornalismo, tra l’altro, di opposizione al regime dittatoriale di Suharto, che negli anni Novanta chiuse una dopo l’altra tutte le testate su cui scriveva. Si prende allora una pausa, scrive questo primo libro, di grande rottura in un paese mussulmano, e lo pubblica poche settimane prima della destituzione del dittatore.

Prosegue comunque, in questi trent’anni di liberalizzazione, nel suo impegno, ora anche nelle radio locali, a favore dei diritti delle donne. Soprattutto impegnandosi, in prima persona e come promotrice, nella scrittura delle nuove leve di autori locali, tanto che ora viene considerata, lei e questo libro, come l’inizio di una tendenza letteraria denominata “Sastra Wangi” (che in indonesiano significa “letteratura profumata”) in cui giovani scrittrici affrontano temi controversi come la politica, la religione e la sessualità.

Veniamo allora a questo testo fondamentale, dove non si capisce (se non per le solite ragioni di mercato) per quale motivo al titolo originale, che parla solo di “Saman” viene aggiunto quel “le donne di”. Certo, si parla di donne, dei loro rapporti e del loro rapporto con Saman. È un accento femminile sulla vita locale, dove però è comunque Saman il punto che focalizza il testo. L’altra difficoltà di lettura è la mancanza, nel testo italiano, dell’originale suddivisione in capitoli, che avrebbe reso più intellegibile l’andamento della storia.

Una storia che salta avanti e indietro nel tempo, ballando tra il 1962 ed il 1996, di cui rimane traccia in alcune indicazioni temporali, che forse andavano pensate con una diversa indicazione. Ad esempio, si narra una storia indicando 28 maggio 1996 ore 10, poi ne parte un sottoprodotto, con l’indicazione febbraio 1993, per poi indicare in capo pagina ore 12 (e di primo acchito si fa difficoltà a ricostruire temporalmente le vicende, visto che, oltre alla forma normale, sono presenti elementi “magici” tipici della scrittura locale).

Avrete quindi capito che Ayu intreccia diverse storie, di non sempre facile interpretazione, mescolando il risveglio delle donne indonesiane con l’opposizione alle politiche del dittatore Suharto, attuate spesso da militari e bande a loro collegate, con descrizioni (reali) di distruzione di villaggi ed uccisione dei contadini, ad esempio per rubare le piantagioni di gomma, e convertirle magari in zone edificabili.

Volendo tornare al teso originale, dove ogni storia occupa un ben identificato capitolo, il nodo centrale è il rapporto tra Saman un ex-prete convertitosi alla lotta contro il regime, e quattro amiche, ex-compagne di scuola, che lo hanno incontrato e ne sono diventate amiche e sodali: Yasmin, avvocato, cattolica e sposata, Ciok, manager a Bali, Shakuntala, una ballerina dall’incerta identità sessuale, e Laila, una giornalista mussulmana.

Il primo capitolo è visto nell’ottica di Laila, che si innamora di Sihar, un uomo sposato, e che lei, vergine, aspetta a lungo, per poi, dopo 400 giorni di lontananza, invita ad un incontro in quel di New York, dove lui dovrebbe recarsi per una conferenza e lei per incontrare la sua amica Shakuntala. New York dove lei ha tutta l’intenzione di perdere la verginità.

Nel secondo facciamo la conoscenza con Saman, facendo anche un salto all’indietro agli anni Sessanta. Seguiamo Saman farsi prete, per poi entrare in contatto con la comunità locale, e con i contadini lottare contro il regime e la confisca delle terre. Ma i cattivi sono più forti, sterminano gli abitanti del villaggio, catturano Saman e lo torturano a lungo. Saranno Ciok e Yasmin a liberarlo e farlo fuggire in America. Nelle more del capitolo, Ayu introduce anche alcuni altri temi forti locali, come l’odio indonesiano verso la comunità cinese (odio poi sfruttato dal dittatore per sterminare migliaia di cinesi con il pretesto che fossero comunisti).

Il terzo capitolo è scritto nell’ottica di Shakuntala, che aiuta Laila a New York, capendo anche di esserne innamorata, con un amore che la spinge proprio ad aiutare Laila a ritrovare Sihar, fino a cercare di consolarla, quando si capisce come l’uomo sia veramente bastardo.

Nell’ultima parte è Saman direttamente che parla, della sua fuga aiutato da Yasmin, delle sue lotte in patria (c’è anche tutto un filone trasversale sull’invadenza delle compagnie americane ed altre lotte, ma sarebbe troppo lungo e confuso parlarne qui). Ma soprattutto tutta l’ultima parte è occupata dallo scambio di mail tra Saman e Yasmin, dopo che lei lo ha praticamente violentato (nel senso di aver fatto l’amore con lui non pienamente consenziente). Uno scambio molto erotico che penso abbia sconvolto la mentalità locale di trent’anni fa, dove in un crescendo di sensazioni, Saman cede (almeno su carta) alle insistenze di Yasmin.

Ripeto, i temi forti sono la lotta alla dittatura, la denuncia delle repressioni e delle torture inflitte dal regime agli oppositori, la corruzione a tutti i livelli (centrali e locali), ma soprattutto il riconoscimento dell’eros femminile, e la sua liberalizzazione. Cosa non certo facile nel paese mussulmano con più popolazione al mondo.

Purtroppo, come detto, la scrittura non rende il tutto facilmente interpretabile, e quando si fa fatica a collocare le azioni temporalmente, si perde l’entusiasmo della partecipazione alle vicende. Il tutto condito con quell’aura leggermente onirica, che avevo trovato anche nell’altro libro indonesiano, che non mi convince gran che.

Un solo piccolo appunto finale personale. La prima mail di Saman è datata 7 maggio 1994, che ovviamente ho notato per ovvie ragioni compleanniche, ma che mi ha anche ricordato che sei giorni prima, sul circuito di Imola, moriva il grande Ayrton Senna. Scherzi della memoria.

Milena Palminteri “Come l’arancio amaro” Bompiani euro 20 (in realtà, scontato a 19 euro)

[A: 01/09/2025 – I: 14/09/2025 – T: 16/09/2025] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 444; anno: 2024]

Romanzo d’esordio della siciliana Milena Palminteri che però vive da anni in Campania come conservatrice degli archivi notarili. Un esordio di buon livello, con alcune pecche verso il mio modo di vedere questo tipo di libri. Che è sempre riferito a quell’andar su e giù nel tempo, riportando uno dei due tempi dell’azione in corsivo. A me, questa narrazione binaria non piace, anche se mi rendo conto che possa avere una sua utilità per non “scoprire le carte”.

Il secondo punto dolente è che, con le dovute cautele, mi ricorda troppo il modo di scrivere e di presentare le storie di Isabel Allende, tanto che, in alcuni passaggi, sembra ripercorrere le strade di Pierre Menard (e tanti saluti a Borges).

Fatti questi distinguo, il punto forte di questa scrittura femminile è, fortunatamente ed ancora una volta, portare a protagoniste l’altra metà del cielo, anche qui oppressa e quasi soppressa dalla prima metà. La storia si ripartisce tra il 1924 (anno della nascita di mamma) ed il 1960 (anno privatamente doloroso). Il fulcro della narrazione è Carlotta, che, nel ’60, a fronte di una serie di notizie, e di ammissioni del caro zu’ Peppino, comincia ad interrogarsi sulla sua storia.

Che ovvio affonda le sue radici nel ’24 (anno della nascita di Carlotta) e nella presenza di due destini femminili ed una donna che agisce e crea tutto il castello di carte che stiamo leggendo.

Abbiamo allora Nardina, donna di buona famiglia, studiosa, e di buon livello, tanto che vorrebbe laurearsi (addirittura in fisica), ma per le vicende locali in quel di Sicilia (siamo sempre nella terra degli aranci) si ritrova “costretta” al ruolo di moglie. Costretta e poi imprigionata, che venne sposata solo per assicurare una prole alla casata, ma non riesce a rimanere incinta.

Di converso, abbiamo Sabedda, di povera famiglia, ma fiera e orgogliosa del proprio essere, anche lei alle prese con un futuro che vorrebbe suo, ma che non potrà esserlo, rimanendo incinta e senza mezzi per gestire una famiglia monca.

Ed ecco che interviene la terza donna, la madre di Sabedda, quella che fa le commissioni per tutto il paese di Sarraca (nome “inventato” ma che collegato ad una vicenda storica di cui si parla possiamo collegare all’odierna Sciacca). Perché Sabedda viene violentata dal barone Stefano e rimane incinta, mentre Nardina nulla. Ed ecco il colpo di genio: vendere in cambio di terre la piccola. Tutto sotto gli occhi di Peppino, che tutto sa.

Ci sono poi gli uomini, al contorno. C’è Carlo, il marito di Nardina, poco risoluto. C’è il barone Stefano lo stupratore. C’è Peppino l’avvocato. C’è Bartolo, il consenziente padre di Sabedda. E c’è don Calogero, legato alla Mafia e segretamente innamorato di Sabedda.

Comunque, il raggiro truffaldino viene fatto. Con una strana coda. In concomitanza con il parto, un dirigibile cade al largo di Sciacca. Ci sono militari e polizia fascista che controllano l’avvenimento. C’è don Calogero che deve fuggire, e prende in ostaggio Carlo per scappare in auto (che poche ce n’erano). Succede che per motivi che vi leggete l’auto sbanda, Carlo muore e Calogero fugge.

Abbiamo quindi Nardina che si ritrova sola con la figlia, Sabedda che si fa assumere come governante e diventa un punto fermo per Carlotta, Stefano che comincia a frequentare Nardina e si ritrova a trattare sua figlia come se fosse … sua figlia. Poi nel corso del tempo (ma si parla di anni) Calogero torna e convince Sabedda a fuggire con lui in America, Stefano muore ucciso non si sa da chi, muoiono tutti gli attori della vicenda, restando Peppino che invecchia e Carlotta che cresce con la rabbia addosso.

Venendo al presente del testo (il ’60), Carlotta non riesce  diventare avvocato (siamo nella Sicilia retrograda, ovvio), ma trova una carta misteriosa che apre uno spiraglio nel suo passato, a lei tuttora ignoto. E nelle more, torna a Sarraca un don Calogero invecchiato con una lettera a Carlotta di una certa … Elizabeth.

Gustatevi un buon finale che si svolgerà cinque anni dopo gli avvenimenti, con l’avvocatessa Carlotta Cangialosi a difendere con successo un’emula di Franca Viola.

Due cose per finire. Intanto l’arancio amaro è una pianta che serve a fare innesti. Lei produce frutti asprissimi, ma nell’innesto ne nascono dolci. Insomma, un inno alla vita laddove le avversità portano a frutti dolcissimi. Dalla selvatica Sabedda alla solare Carlotta.

Poi c’è la tragedia del dirigibile che, per una concatenazione di eventi, porta alla morte di Carlo ed a tutta una serie di conseguenze che avrete modo di scoprire leggendo. Ebbene, in effetti il dirigibile DR-1 Dixmude guidato dal comandante Du Plessis de Grénédan si inabissò, colpito da un fulmine, al largo di Sciacca il 21 dicembre. Peccato solo che era il 1923. Per quadratura di trama, Milena sposta la tragedia di un anno. Io mi domando, non era meglio spostare la trama di un anno, lasciando inalterato il fatto storico?

Comunque, a parte alcuni usi massivi del dialetto, ed altre piccole pecche citate, il libro è leggibile, ed alla fine ben posizionato tra le letture di riposo.

“Le aveva insegnato che la soluzione di un problema va cercata nelle ragioni della sua esistenza e non al di fuori di esso.” (163)

Nora Ephron “Il collo mi fa impazzire. Tormenti e beatitudini dell’essere donna” Feltrinelli s.p. (lasciato in eredità da zia Serenella)

[A: 01/10/2025 – I: 10/10/2025 – T: 11/10/2025] - &&     

[tit. or.: I feel bad about my neck and other thoughts on being a woman; ling. or.: inglese; pagine: 129; anno 2006]

Se avete amato i suoi film, non potete che leggere con un occhio di benevolenza questo affastellamento di sensazioni, diviso in brevi capitoli, dal piglio tipicamente “noriano”. Una divagazione sull’essere una donna, sottintendendo sempre (esplicitamente o meno) le domande private sul procedere dell’età. Diremmo meglio anche, sull’invecchiare in prossimità del traguardo finale che a tutti spetta.

Intanto, inizio con la mia solita campagna sui guasti delle traduzioni. La prima parte del titolo devo confermare è ben tradotta. Peccato che poi gli editor italiani abbiano voluto mettere un punto, andare a capo, inserire tormenti e beatitudini. Ma perché non lasciare una bella traduzione lineare come “Il collo mi fa impazzire e altri pensieri sull’essere donna”.

Facendo invece un po’ di storia, lessi il suo libro fondamentale (“Affari di cuore”) una decina di anni fa, quando Nora era già morta, e solo ora ho in mano, grazie all’eredità di zia Serenella (cosa che ho detto per questi primi 4 libri e che non ripeterò più per gli altri 46), questo volume che, come detto, raccoglie note sparse, pensieri e commenti ad alta voce, sempre espressi con quel filo d’ironia (come sappiamo dai suoi film).

Quindi qui abbiamo una serie di siparietti, che, pur redatti con intenti di leggerezza e comicità, non sempre raggiungono il loro scopo. Certo, Nora era anche una persona attenta alle parole, con cui sapeva giocare e quando serviva ferire. Per cui, ad esempio, i due intermezzi con i presidenti americani, laddove si cercava lievità, servono anche a togliersi qualche sassolino. Forse non quello con Bill (Clinton), dove vediamo soltanto i (gusti) prodromi di una crociata MeToo, ricordando Monica. Quanto quello con JFK, da tutti sempre osannato per le sue posizioni ed aperture, ma che Nora ci fa intravedere in tutte le (possibili) azioni dietro le quinte, magari lamentandosi (coccodrillescamente) di essere stata la sola a non subire avances dal Presidente.

Meglio senz’altro le tirate contro manie e atteggiamenti femminili, sia partendo dal titolo, e analizzando, crudelmente, quanto il collo sia un segno manifesto dell’invecchiamento. Un segno che non si può camuffare, laddove anche interventi estetici o simili, con botulini ed altre amenità, non possono nascondere l’avanzata dell’età. Un’avanzata temuta, odiata ma anche a volte attesa. Molta gente vi toglierà dal novero delle persone da “adulare” (termine eufemico che di certo comprendete), ma personalmente vi troverete a combattere con il progressivo avanzare della miopia, con conseguente ricerca (sempre infruttuosa) degli occhiali. A meno che, non siate come il sottoscritto che porta correzioni ottiche dall’età di sedici anni, e che quindi ora beneficia di un raddrizzamento del cristallino con parallelo disuso di lenti per le attività di prossimità (in special modo, la lettura).

Ci sono poi argomenti topici ricorrenti. Come la cucina, ovvio (tanto che poco dopo il libro dirigerà il bel film sulla vita di Julia Child, una paladina della cucina al femminile). Ma anche un gustoso siparietto sulle case newyorchesi in affitto, sulla casa che lei scegli ed in cui vuole abitare per anni dove alla fine dovrà rinunciare, quando gli affitti passano da 1000 a 10000 dollari al mese.

Comunque, il dato costante che Nora ribadisce è che, essendo consapevolmente regista, scrittrice, single, sposata, divorziata, di fondo è e non rinuncerà mai ad essere donna, e non smetterà mai di dirci che non si sente realizzata quando assume il ruolo di madre. Tornando quindi a riflettere sulla vanità della vita (ma quanto tempo si passa dal parrucchiere per degli inutili colpi di sole?), quando, velatamente, si pensa alla morte. Parola che si pronuncia con difficoltà e paura, anche quando si hanno “solo” 65 anni, come Nora al tempo di questa scrittura (anche se sa, ma non rivela, di avere una miodisplasia che la porterà via sei anni dopo).

Ripetendo con sua madre Phoebe, anche lei sceneggiatrice, che tutto è ispirazione, possiamo sottolineare che, alla fine di tutti i risvolti comici, quello che Nora Ephron esalta è l’imperfezione: nella moda, nel trucco, nelle case da abitare, in ogni momento della vita. E noi con lei riconosciamo la nostra profonda imperfezione, come socraticamente ribadiamo la nostra ignoranza. Non è un bel libro, né sempre riuscito, ma fornisce alcuni spunti di riflessioni (soprattutto su cos’è la vita e come la viviamo), per cui riprende qualche punticino, dopo averne persi molti sulla falsariga di una comicità che non sempre comprendo.

“All’età di cinquantacinque anni avrai un rotolo flaccido proprio sopra la vita anche se sei magra [o magro] come un chiodo.” (118)

Camilla Baresani “Il sale rosa dell’Himalaya” Bompiani s.p. (lasciato in eredità da zia Serenella)

A: 01/10/2025 – I: 03/11/2025 – T: 04/11/2025] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 179; anno: 2014]

Ecco un’altra scrittrice che non conoscevo né negli scritti né nella vita. Ho così scoperto Camilla Baresani una buona penna ed una donna che è stata compagna fino alla morte di Paolo Giaccio, indimenticato musicologo ed altro, che ricordo per la mitica avventura di “Mr. Fantasy” con Carlo Massarini. Inciso: la morte di Paolo avviene cinque anni dopo la scrittura del romanzo.

Ma qui si parla di Camilla, e di questo libro che inizia con ironia, prosegue sul crinale di un doppio registro, per approdare ad un finale crudo, reale e disperato. Non perché sia un noir, non perché ci siano morti, feriti o altri. Le ferite sono solo nell’animo, ma forse sono le più difficili da curare.

Devo dire, non avendo parametri di riferimento, che l’inizio mi era sembrato una sorta di parallelo alla Alice Basso: una trentenne in carriera sta organizzando una cena per invogliare un possibile cliente di una sua futura agenzia di comunicazioni a servirsi delle sue competenze. Per dare un tocco esotico alle vivande comprate da “Peck” (sì, avete capito, siamo a Milano), ci starebbe bene un tocco di sale rosa dell’Himalaya. Che è finito, che a quest’ora si trova solo alla Rinascente, che in mezz’ora si va e si viene in metro, anche se piove.

Peccato che, uscita di casa, tra cellulari che squillano, ombrelli che non si aprono, ballerine che si bagnano, la nostra Giada viene abbordata da uno straniero maleodorante, che, avendola vista in difficoltà, non trova di meglio che colpirla, e, aiutato da un suo compare, sequestrarla e portarla in una diroccata casupola di periferia. Quello che sembrava uno spaccato della Milano da bere, ora si trasforma in uno spaccato di un mondo di difficile connotazione. Dove seguiamo, bene o male, una doppia narrazione: Milano che cerca Giada e Giada che cerca di sopravvivere al sequestro.

Qui, Camilla dispiega tutte le sue arti di brava narratrice. Con la capacità di farci vedere Giada com’era e Giada come viene dipinta. Giada lavorava in una agenzia, ha una famiglia a Bergamo, un fratello che studia chimica. Giada non ha legami fissi, che ora pensava a ritagliarsi un ruolo nel mondo della comunicazione. Con tutti i mezzi, anche sottraendo clienti alla sua capa.

Ma in tutto questo, la sua scomparsa, e soprattutto la mancanza di motivi e di riscontri, consente illazioni e supposizioni, che creano una Giada inesistente. La sua capa, per cui prima Giada era il suo fiore all’occhiello, diventa astiosa per i possibili sgambetti. Il suo ex (ora solo amico) si domanda se rivedrà la montagna di euro che le ha prestato per la nuova avventura. Il cliente, che era rimasto scottato dalla possibile buca, si rivela un ben misero ciarlatano, che sì ha un’azienda ed una famiglia, ma che tutti capiscono possa essere un piccolo squalo senza denti. Anche la polizia ha i suoi dolori con Giada, che non riesce a cavare un ragno dal buco, con i giornali che cominciano ad incalzarla e stigmatizzarne la scarsa efficienza.

Quando si passa a Giada, i toni si fanno cupi. Lei è lì, in balia di Dimitru e Yon, due rumeni che non parlano italiano, che la tengono legata con un fil di ferro, che non le consentono di lavarsi o altro, sostenendola con il minimo indispensabili, e soprattutto non avendo altra attività che abusarne a turno. Vediamo Giada che all’inizio pensa in grande su quando verrà liberata e su come sfruttare la possibile popolarità. Poi pensare solo ad uscirne viva. Cosa che farà fuggendo dopo un mese di prigionia, approfittando di una distrazione dei suoi carcerieri.

Sembrerebbe tutto poter finire in bellezza, ma è qui che esce fuori l’idea forte della scrittrice: cosa succede al rapito, dopo? Soprattutto in un dopo che non ha elementi di gloria? Giada esce ferita nell’animo, e si accorge (dovrebbe almeno) che nessuno si comporta verso di lei con quegli atteggiamenti che sognava in prigionia. Tutti sembrano far leva sulle sue parti peggiori. E noi assistiamo a quello che potrebbe essere il vissuto di molti rapiti post rapimento. Mentre Giada riamane coscientemente isolata vediamo Camilla dipingere il nostro mondo attraverso alcune persone-stereotipali: il poliziotto che vuole solo mettersi in mostra durante le conferenze con la stampa laddove è pieno di giornalisti che si mettono a caccia della notizia solo quando questa si fa tautologia. Ma in fondo ci sono solo tante persone comuni che lottano senza esclusione di colpi solo per una comparsata televisiva.

La scrittrice, anche usando quel colpo di scena finale che ci aspettavamo da tempo ma che alla fine ci sorprende comunque, ci invita alla riflessione: viviamo in un mondo iperinformato che poi si rivela di un’attenzione nulla verso la vita delle persone.

Due sole chicche per chiudere in bellezza. L’azione comincia il 13 febbraio, che non solo è il compleanno di Georges Simenon, ma anche quello della mia amica Rosa. E poi, ad un certo punto Giada descrive il suo carceriere come “un relitto umano la cui faccia ricorda il crollo di una diga”. Che credo il mio caro cugino Carlo (e non solo lui) ricorderà subito come sia un verso di “Atlantide” di Francesco De Gregori.

Alla fine, quindi, si è rivelato un romanzo ben diverso da come mi sarei aspettato. Una bella scoperta di nicchia, non pienamente riuscita, ma interessante.

L’incompleto risultato finale lo trovo nella difficile interpretazione di come un sopravvissuto ad un rapimento come quello descritto, possa affrontare il resto della sua vita con la poco profondità che mostra Giada. In un certo senso, è molto più profonda la riflessione del piccolo amico di Giada alla festa di sconosciuti per la salvezza, che le ricorda come non si possa dimenticare il passato. Ma che per costruire il futuro è dalla sua metabolizzazione che dobbiamo partire.

Nadine Gordimer “Beethoven era per un sedicesimo nero” Feltrinelli s.p. (lasciato in eredità da zia Serenella)

[A: 01/10/2025 – I: 04/11/2025 – T: 05/11/2025] - &     

[tit. or.: Beethoven Was One-Sixteenth Black; ling. or.: inglese; pagine: 180; anno 2007]

Ho seguito in gioventù gli scritti del premio Nobel sudafricano, che hanno subito conquistato la mia stima ed i miei apprezzamenti. Devo però dire che, nella ripresa degli ultimi anni verso gli scritti dei tempi pochi anteriori alla morte di Nadine, sono rimasto un po’ deluso. Nei romanzi mi manca il coinvolgimento, i racconti sono piccole toccate, magari anche di classe, ma che non riescono a fare risuonare corde di interesse.

Non è da meno, questa raccolta, la penultima pubblicata in vita. Ci sono alcuni temi di fondo sempre presenti nella sua scrittura (il razzismo in tutte e due le direzioni, ed i rapporti d’amore tra le persone). C’è il lutto, in molte e svariate forme (e non sorprende in testi elaborati tra gli 80 e gli 85 anni). Poi ci sono gli altri, a volte quasi a riempitivo, e forse anche a mostrare culture e conoscenze, ma spesso con poco o nullo mordente.

Il più legato ai problemi sudafricani contemporanei è il primo, “Beethoven era per un sedicesimo nero” [Beethoven Was One-Sixteenth Black], dove un professore bianco cerca di capire se, il padre avendo vissuto nelle miniere di diamanti con i locali, possa avere una qualche percentuale di sangue nero. Per contrastare quel razzismo alla rovescia che ho ben visto nelle mie visite in loco. In seconda battuta c’è invece “Una donna frivola” [A Frivolous Woman] dove vediamo i pericoli che corre e fa correre una donna ebrea tedesca per scappare dalla Germania durante il nazismo. La terza variazione sul tema è “Madrelingua” [Mother Tongue] dove vediamo una giovane tedesca sposare un sudafricano, trasferirsi da lui, rimane emarginata non riuscendo a cogliere le espressioni gergali e gli accenni a momenti da lei non vissuti e ripercorsi dal marito e dalla sua cerchia di amici, uomini e donne.

Dalla parte del lutto e di alcune sue varianti abbiamo “Allesverloren”, titolo in afrikaans che vuol dire “tutto è perduto”, dove una donna per elaborare il suo lutto, cerca, trova e dialoga con un amante gay del marito morto. O come in “Un beneficiario” [A Beneficiary] dove per superare il lutto della perdita della madre, una giovane trova una lettera in cui si adombra una paternità diversa da quella che credeva e dove lei alla fine capisce che non è il DNA che determina i sentimenti. Trasversalmente, verso possibili lutti e/o sentimenti di morte, c’è “Procedure di sicurezza” [Safety Procedures], dove siamo in un aereo che potrebbe precipitare, ma siamo rassicurati da una passeggera che sono anni che cerca di uccidersi, non riuscendoci, essendo quindi sicura di salvarsi ancora.

Abbiamo qualche momento di compiacimenti culturali sia in “Sognando i morti“ [Dreaming of the Dead] dove Nadine immagina in sogno una conversazione su “politica e ideologia” con alcuni suoi amici morti (la scrittrice Susan Sontag, l’orientalista Edward Said e il giornalista Anthony Sampson) sia in “Gregor” [Gregor Revisited] dove, pensando a Kafka, seguiamo l’odissea di uno scarabeo intrappolato in un computer.

Ci sono poi due racconti che non mi hanno fatto proprio entrare in nessuna sintonia con le parole. Ne “La lunghezza della solitudine” [Tape Measure] seguiamo l’odissea di una tenia che tenta di sopravvivere in un ambiente ostile (uno stomaco umano), quasi a voler metaforicamente adombrare analoghe odissee di chi vive in un paese non suo (e per di più razzista). Mentre “Storia” [History] ci mostra un pappagallo che, chiudendo il ristorante dove vive da trent’anni, comincia a ripetere le parole apprese appunto trent’anni prima.

Infine c’è una specie di racconto triplo, che ha un titolo cumulativo, “Finali alternativi” [Alternative Endings], ed è alternato in tre racconti indicati come primo, secondo e terzo senso dove la stessa situazione (il rapporto tra uomo e donna, ed il tradimento di uno dei due) è mostrata con differenti possibili esiti: la vista (lui e lei sono esuli ungheresi, lei impara presto la lingua e fa carriera, lui resta chiuso nel suo mondo magiaro, lei vola alto, ha altri uomini e finisce per chiedere il divorzio), il suono (due musicisti, lui grande artista, lei che vive nella sua ombra e che capisce i tradimenti del marito al variare del suono del suo violoncello, in particolare quando, verso la maturità, tornerà al suono amorevole della gioventù), l’olfatto (dove è l’odore dell’uomo che rivela alla moglie, ed anzi ancor prima al loro cane, il tradimento di lui, anche se lei non farà nulla per smascherarlo).

Sono tutti temi non nuovi, solo la sensibilità della maturità della scrittrice ce ne presenta i tratti in maniera adeguata e comprensibile. Che tuttavia rimane di lettura faticosa e di poco coinvolgimento.

Nella speranza che il contraltare sia gradevole, vi presento allora alcune riflessioni al maschile. Le prime di Francesco Piccolo da “La separazione del maschio”:

“Non frequento le farmacie, per incuria e pigrizia, forse anche per una sostanziale fortuna… di solito, quando mi ammalo o soffro di un dolore fisico, aspetto che passi. Accetto il dolore e aspetto.” (28)

“Chissà come succede che due persone si scelgono.” (54)

“La sostanza di una convivenza lunga si basa sul talento di risolvere in tempi brevi ogni litigio, ogni problema…. La soluzione in tempi brevi comporta la capacità di aprire un baule e ficcarci dentro i conti che un giorno ti sembrerà di dover fare, e che confidi di non fare mai.” (130)

“Un tappo [di dentifricio] lasciato sul lavabo ogni giorno [è] … un segnale della crisi di un rapporto, dicono tutti. E forse hanno ragione. Ma c’è di più: non [è] un segnale, è un motivo … che può minare l’amore di una persona quanto sesso, comunicazione, emozione, complicità.” (133)

 “Me ne sono reso conto all’improvviso… io non ho mai lasciato nessuno. Mai. Tutte le storie che sono finite sono finite per volontà della persona con cui avevo una relazione… se qualcuno ha avuto dei buoni motivi per smettere di avere una relazione con me, la relazione è finita,  altrimenti, è continuata.” (140)

“Tutti gli amori … sono fatti di cose buone e cose cattive, di momenti belli, noiosi, sconfortanti, allegri, tristi. Sono fatti di tutto.” (188)

Le seconde invece vengono dal libro di Fabio Volo “Un posto al mondo”:

“Mi sentivo già innamorato, ma di innamorarsi sono capaci tutti, e a tutti può accadere. Amare una persona è un’altra cosa.” (39)

“Per viaggiare non ci vogliono i soldi. I soldi servono per fare le vacanze. Quando viaggi ti adatti e fai un po’ di tutto … e incontri un sacco di gente che ti aiuta.” (84)

“Ho imparato che il contrario dell’amore non è l’odio. L’odio è assenza d’amore, così come il buio è assenza di luce. L’opposto dell’amore è la paura.” (158)

“Io e lei condividiamo tutto ciò che abbiamo in comune e tutto ciò che ci va, il resto no. Se uno vuole cambiare va bene, ma nessuno dei due esercita pressioni sull’altro. Non è detto che stando sotto lo stesso tetto una famiglia si possa dichiarare unita.” (226)

“Ci amiamo ma ognuno di noi appartiene a sé stesso, per questo ci desideriamo.” (227)

Se lo avete saltato, vi invito a rileggere e pensare sulla prima frase di Fabio Volo. Non so voi miei lettori, ma per me è una riflessione importante. Come importante è concentrarsi sui prossimi giorni, sulle feste decembrine, dall’Assunta a Santa Lucia, dal Natale al Capodanno, pensando anche a quanto ci porterà il prossimo anno, pari ma non bisestile. Ed allora sentiti ma non soliti abbracci,