Ultima trama di questo tribolato,
complicato eppur per certi versi utile anno. Dopo due trame di gran pensiero,
finiamo con una zampata femminile. Al centro, due romanzi comunque interessanti
della sudamericana Allende. Ai lati, a far da contorno e da supporto un lontano
romanzo di Banana Yoshimoto ed un vicino romanzo della turca Aykol (che altri
vogliono giallo, ma che in lettura spiegherò le mie scelte).
Banana Yoshimoto “N.P.” Feltrinelli euro 7 (in realtà, scontato 5 euro)
[A: 16/05/2011 – I: 17/05/2012 – T: 18/05/2012]
[titolo: NP; lingua: giapponese; pagine: 165;
anno: 1991]
Ancora una prova altalenante
della Banana giapponese. Nel recupero della sua produzione, deciso perché,
tutto sommato, è gradevole leggere la sua scrittura lieve, questo romanzo, per
me, raggiunge uno dei punti più bassi. Infatti, mentre l’ultima lettura mi
aveva fatto venire alla mente immagini solari, questa storia, involuta e
riportata a cenni piuttosto che in una narrazione continuativa, mi lascia l’animo
cupo e poco soddisfatto. Intanto, è proprio la materia, il tessuto narrativo,
che non mi ha coinvolto. Banana stessa in realtà, nella postfazione finale,
descrive il suo come un momento di ricerca intorno alle problematiche dei
rapporti difficili, della morte, dell’incesto. Ed ha cercato di riportare
questa sua ricerca sulla carta. Solo che rimane lì, sulla carta, e non ti sale,
se non in poche immagini, in poche pennellate. Forse l’unica è la descrizione
di un giardino, con una luce pallida, che giustamente la stessa autrice
riferisce ai quadri dell’americano Andrew Wyeth (interessante nume della
pittura americana, definito “Pittore delle genti” per l’espressività delle
presenze nei suoi pur minimalisti quadri). Ma la storia, la storia, ahi come
rimane lontana. Tutto ruota intorno ai racconti di uno scrittore giapponese, Takase,
emigrato in America, e raccolti in un’unica uscita di 97 pezzi chiamata N.P. (e
poi qualcuno mi spiegherà perché il titolo originale sia senza punti al
contrario delle traduzioni). Dovevano essere 100 ma… Lo scrittore subito dopo
si suicida, e la moglie e i suoi due figli gemelli tornano in patria. Dove li
incontra Kazami la protagonista del romanzo, perché, allora diciassettenne, ha
una forte storia d’amore con Shoji che sta traducendo in giapponese i racconti
di Takase. Traduttore che, nel corso della traduzione di un fantomatico (ma
vero) 98° racconto si suicida anche lui. Anni dopo Kazami incontra i due
gemelli, innescando con loro un rapporto sul filo dell’amicizia con lei e sul
filo del (quasi) amore con lui. Ma lui è preso dal suo rapporto con la
squilibrata Sui, genius mali della vicenda. Che ha il racconto numero 99, dove
Takase, dopo tante eterodossie ricerca situazioni più ortodosse. Che scopriamo
(e da qui in poi la vicenda si intorcina e defluidifica) essere la protagonista
del racconto 98. Che racconta la storia del rapporto tra Sui e Takeoo. Che ci
viene poi rivelato essere Sui figlia illegittima di Takase, cosa che Takase
intuisce ma non sa. Che quindi ha un rapporto d’amore profondo con Otohiko, che
tuttavia dovrebbe essere il fratellastro. E la sorellastra Saki che non vede di
buon occhio Sui e che (forse) ha un debole per Kazami. E poi … Succedono altre
cose di cui non entriamo nel narrato (se a me non piace, potrebbe darsi che
queste linee di trama vi incuriosiscano e che a voi piaccia). Soprattutto sulla
domanda se si ritrovi o meno anche il racconto numero 100. Ma tutto rimane lì,
tra il sì e il no. Tra i momenti descrittivi di attimi di vita giapponese (buoni)
e le sensazioni cupe delle relazioni interpersonali tra i vari personaggi (no
buoni). Gli inizi degli anni Novanta non devono essere stati proficui per gli
autori a me cari. Così Banana, come De Luca di cui altrove ho parlato, in
quegli anni infilano una serie di prove che non mi hanno convinto. Rimane la certezza
che altrove è meglio, e la speranza che, lì dove non sono ancora arrivato, sia
della stessa pasta del meglio.
Isabel Allende “D’amore e ombra” Feltrinelli s.p. (regalo di
Rosa&Emilio)
[A: 13/05/2012 – I: 18/07/2012 – T: 21/07/2012]
[tit. or.: De amor y de
sombra; ling. or.: spagnolo; pagine: 244; anno 1984]
Sono moderatamente sicuro di aver
già letto questo libro in gioventù. Tuttavia, non trovandone traccia in nessuna
delle mie librerie personali (quelli reali ovviamente), l’ho ricomperato come regalo
dei miei amici, e, con sommo gaudio, riletto. Non ha la forza e l’impatto del
suo primo libro, quel forse ineguagliabile “Casa degli Spiriti”, ma è
leggibile, dosato nelle emozioni, e con quel tanto (o poco o comunque c’è) di
impatto sociale, che non può che essere piacevole leggerlo. E leggerlo anche in
controluce, cioè alla luce della vita della Allende, al suo esilio dopo
l’assassinio dello zio di secondo grado Salvador. Isabel da lontano continua a
parlare del “suo” Cile, facendoci fare un bel viaggio “border line”: non tutti
erano socialisti e rivoluzionari nei primi Anni Settanta, non tutti erano reazionari
negli ultimi Anni Settanta. Ci sono più cose tra la terra e il cielo, … mi sembra
dicesse qualche lontano cinese. In questo romanzo, quasi una favola calata
negli orrori cileni di quegli anni, assistiamo alla progressiva presa di
coscienza di Irene. Di famiglia alto-borghese, con un padre stralunato, ed una
madre irrimediabilmente persa nel suo mondo “anti-comunista”, una volta sparito
il padre (fuggito? morto? ucciso?), per vivere decide di affittare un piano
della villa di famiglia come ospizio per vecchi e di lavorare ad un giornale.
Intanto progredisce la sua relazione, fidanzata sin da bambina con Gustavo, ora
ufficiale dell’esercito ed assolutamente ed irrimediabilmente di lei innamorato.
L’altro corno della storia è Francisco, il più piccolo di tre fratelli di una
famiglia spagnola, fuggita dall’Europa ai tempi del generalissimo, con un padre
letterato ed anarchico ed una madre di una sensibilità che Isabel ci fa toccare
con pochi tratti ma che ti fa dire: dov’è che trovo una madre così? Francisco
(non trovando lavoro con la sua laurea in psicologia) da un lato fa il fotografo
per il giornale (dove conosce Irene) e dall’altro (memore dello spirito libertario
paterno) cerca di favorire piccole resistenze al regime del generale.
L’elemento catartico incomincia quando per il giornale Irene e Francesco vanno
a vedere una ragazza epilettica in odore di santeria. Qui si esaltano le
capacità narrative della Allende, che in lunghi incisi ci presenta e ci fa innamorare
della famiglia Ranquileo, e soprattutto della madre Digna. Assistono alla crisi
di Evangelina, che maltratta anche un tenente dei carabinieri. Da qui la
catastrofe: il tenente, giorni dopo, per vendicarsi di Evangelina la porta in
caserma, e, dopo averla violentata, la uccide e ne nasconde il corpo in una
miniera. Peccato che nella guarnigione del tenente ci sia il fratello di Evangelina
che non si rassegna, si ribella, e scatena una serie di eventi che portano Irene
e Francesco a scoprire la miniera, i resti di Evangelina, e di molta altra
gente. Aiutati da José, il fratello prete di Francisco, i due riescono a non
far mettere a tacere il tutto. Coinvolgono la Chiesa, stanno quasi per far punire
l’ignobile tenente (ed è ovvio la critica del parziale per il tutto). Peccato
che i militari siano sempre al potere, ed abbiano in mano la stampa e la
televisione. Per cui muore il fratello di Evangelina, muore l’unico testimone,
viene quasi uccisa Irene, che nel frattempo lascia Gustavo capendo e
concedendosi al buon Francesco. La vicenda è ben sotterrata, tanto che la madre
stessa di Irene se la prende con sconosciuti terroristi, piuttosto che con conosciuti
militari. Aiutati dalla rete organizzativa di Francisco e da un simpatico
parrucchiere gay, i due riusciranno a fuggire. E come Isabel quando nel ’75
scappa in Venezuela, dove rimane 13 anni, così i due, attraversando la
Cordigliera, hanno una sola parola da affermare: “Ritorneremo!”. Il romanzo è
forse un po’ troppo buonista in alcuni punti, e pieno di speranze nel finale,
cosa che tutti vorremmo ma che non sempre accade. O è accaduto in quelle terre
di dolore. Ricordo sempre di leggere le Irregolari di Carlotto sulle donne di
Plaza de Mayo, per capire quanto altro dolore ne uscì fuori. Ma Isabel scrive
bene, mi piace leggerne. E continuare a farlo.
“L’amore li avrebbe salvati dalla solitudine, la peggior condanna della
vecchiaia.” (122)
“Il padre era un viandante della vita, sempre in viaggio.” (126)
Isabel Allende “L’isola sotto il mare” Feltrinelli euro 10 (in realtà,
scontato 7,50 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 20/10/2012 – T: 30/10/2012]
[tit. or.: La
Isla bajo el mar; ling. or.: spagnolo; pagine: 426; anno 2009]
Molto indeciso se infilarlo tra i
romanzi storici (tipo la storyfiction alla Valdano) ed i romanzi tout court
(come il precedente tramato suo “D’amore e ombra”), intanto ne stilo un
commento sul testo e sul contenuto. È uno di quei romanzi che mi piacciono, in
un certo senso, a prescindere. Nel senso che sono in sintonia con la scrittura
e con la trama. Un grande affresco corale, che abbraccia 40 anni di storia
caraibica. Visto tra oggettività della scrittura e soggettività di un
personaggio. In particolare, seguiamo dal punto di vista storico gli ultimi
anni della dominazione francese su parte dell’isola che fu un dì Hispaniola,
poi Santo Domingo, e che ora noi conosciamo con il nome locale di Haiti (quello
usato dai nativi aruachi, sterminati dagli occupanti spagnoli). La Spagna ad un
certo punto, vende una parte dell’isola alla Francia. I nativi non esistono
più, e per manodopera si importano negri dall’Africa (soprattutto dalla
Guinea). Particolare la vicenda di quest’isola, la prima scoperta da Colombo, e
l’unica che ora non ha più nessun abitante nativo. Ora sono soltanto
discendenti di negri o di incroci con i bianchi usurpatori. Tanto che già nel
1770, epoca della vicenda, c’era una stratificazione di caste, tra bianchi,
mulatti, negri ed altre sfumature (non di grigio come va, purtroppo, di moda
ora). E quindi seguiamo la vicenda umana della schiava Teté, che ci guida in
soggettiva, dai balli infantili a tutte le tappe che la porteranno schiava,
abusata dal padrone, con figli sparsi per le terre, un amante negro, una
figlia-nuora, tanti nipoti, la libertà ed uno sposo, negro anche lui, per una
vecchiaia (ma la vicenda si conclude che Teté ha poco più di quaranta anni) da
spendere in Louisiana, verso una futura (dovranno passare ancora 50 anni) abolizione
della schiavitù. Sull’altro piatto della bilancia, invece, abbiamo un po’ più
di storia, anche se l’anima in oggettiva è quella di Toulouse Valmorain, che
sbarca sull’isola ventenne, richiamato dal padre malato. Quella para-nobiltà
francese, che viveva sui proventi dello sfruttamento di risorse (in questo caso
zucchero) e che sarà spazzata via (in patria) dalla Rivoluzione dell’89 (quella
del 1700, anche se notiamo ricorsi storici interessanti). Valmorain, seguace
volterriano in patria, subirà tutta una trasformazione dovendo sostituirsi al
padre morto. Prenderà schiavi (anche se cercherà maggiore umanità dei suoi
vicini), si prenderà per un po’ come amante Violette la quasi-bianca (la regina
delle cocotte di Le Cap), poi rivolgendo i suoi ardori su Teté, con cui avrà un
figlio che darà in adozione a Violette, e che farà la carriera militare in
Francia come il padre adottivo, marito di Violette. Poi si sposa una bella ma
scialba ispano-cubana, che gli darà il figlio maschio e poi morirà pazza nella
piantagione isolata. Ondate su ondate di schiavi non fanno altro, è ovvio, che
portare nuova carne per la rivolta alle condizioni sub-umane della colonia.
Abbiamo così il grande innesto tra la fiction e la story, quando arriva
l’ultimo contingente di guineani, con il gigante Gumbo che sarà l’unico grande
amore di Teté (e la figlia Rosette non sapremo mai se sia di Teté con Gumbo o
con il padrone). Scoppia la rivolta, e i bianchi della nostra storia riparano
in Louisiana, ancora per pochi anni colonia francese. Sino a quando, nel 1804,
il bisogno di contanti di Napoleone lo convinse a venderla agli americani. Ma
New Orleans rimarrà (ed in un certo senso lo è ancora) Nouvelle Orléans, con la
sua anima creola troppo radicata per essere estirpata. Seguiamo così le varie
vicende. Il tracollo dei Valmorain. La nuova ascesa di Violette, verso nuovi
trionfi, anche se come organizzatrice di balli più che di “bella del paese”. E
la definitiva sistemazione di Teté, una volta morto Gumbo, con il dolce
Zacharie. Seguiamo anche le vicende di Maurice, il primogenito dei Valmorain,
che si ribella al padre, sposando la causa dell’abolizionismo e sposando la quasi-sorella
Rosette. Ci saranno morti, lotte, tristezze. Ma tutte parti del grande affresco
che è la vita. E che la Allende sa maneggiare bene, facendoci veleggiare, senza
troppe difficoltà, tra storia e fantasia. A me piace questo stile, che mi
ricorda sempre quel bellissimo fil di Scola sulla Rivoluzione francese vista
dai non-protagonisti. Non tutto torna al suo posto, e c’è qualche momento di
stanchezza nella scrittura (dopo le prime 300 pagine). Ma vale il tempo dedicato
a leggerlo. E l’analisi dei problemi legati alla Haiti di allora è ben condotta
(tanto che il libro viene citato su Wikipedia nei capitoli sulla storia
dell’isola).
“L’amore ha parole mute più trasparenti del fiume.” (109)
“Si diedero come se fosse la prima e l’ultima volta … Probabilmente non
fecero nulla che non avessero fatto con altri, ma è molto diverso fare l’amore
amando.” (168)
“Non dava consigli, perché secondo la sua esperienza era una perdita di
tempo, ognuno commette i suoi errori e impara da sé.” (312)
Esmahan Aykol “Divorzio alla turca” Sellerio euro 14
[A: 16/09/2012 – I: 24/12/2012 – T: 26/12/2012]
[titolo: Scheidung auf
Türkisch; lingua: tedesco; pagine: 318; anno:
2011]
Terzo
episodio delle avventure della simpatica turco – tedesca Kati. Che per una
serie di motivi, di cui si parlerà più avanti, ritengo più corretto collocare
nell’ambito della narrativa in generale, piuttosto che nella narrativa di
genere. Intanto, come per i primi due episodi, devo sottolineare l’operazione
non proprio limpida della Sellerio. Ora, seppur è vero che anche l’autrice si
barcamena tra Berlino ed Istanbul, i suoi romanzi sono scritti prima in turco e
poi tradotti in tedesco. Con tutta la supervisione del caso, vista l’attitudine
della scrittrice. Ed in turco il titolo recitava “Șüpheli bir ölüm”, cioè “Una morte
sospetta”. Qui, come nei primi due libri, abbiamo la traduzione dal tedesco
della pur sempre ottima Emanuela Cervini. Forse qualcuno alla Sellerio aveva
comperato il pacchetto completo… Comunque tengo a rimarcare le mie divergenze
verso tutto ciò. Veniamo ora alla collocazione. Certo, c’è un morto, anzi una
morta. Ed è una morte sospetta, come dice giustamente il titolo originale. Che
Sani, la bella dipartita, era in via di divorzio dal rampollo di una delle top
famiglie di Istanbul. Ma intorno a questa morte altro si aggira e si narra.
Innanzi tutto, un nuovo sguardo, con simpatia e benevolenza, verso la Turchia e
la sua vita. Soprattutto nella caotica Istanbul, con i lavori sempre in corso
(mi ricordo ben qualcosa a me vicino), con la salita pedonale di İstiklal
Caddesi, il Tünel, i ponti sul Bosforo, i quartieri periferici, la vita
notturna di Beyoğlu, la zona glamour di Nişantaşı. Tutto questo andare e venire
intorno alla torre di Galata, dove la nostra Kati ha la sua libreria. Una
libreria atipica, l’unica di Istanbul dedicata ai romanzi gialli. In turco, ma
anche in altre lingue. Libreria dove Kati è aiutata dalla studentessa Palin (questa
volta un po’ in ombra), ma sopratutto dal suo convivente, il gay spagnolo Fofo,
suo vero alter-ego anche nelle indagini. Che partono perché la morta spesso
pranzava ad un tavolo vicino a loro. E la curiosità di Kati la spinge a
cercare, chiedere, domandare. Senza un vero perché, solo per sapere. Questa è
la parte più debole del romanzo, che non si capisce perché si debba rispondere
ad una persona che fa domande. Ma domanda dopo domanda, si aprono due bei
squarci di vita turca, con una terza ombra in sottofondo. L’ombra, diciamo
subito, è l’anelito turco ad entrare nella Comunità Europea. Motivo che vede
promulgare leggi, decreti (anche poco applicati), che vede celebrare in sordina
anche il Ramadan. Ma torniamo agli squarci. Il primo è sull’ambientalismo, che
Sani veniva da una regione devastata dalle industrie delle pelli. Da una
cittadina della Tracia (di cui anche se vi dicessi il nome, ce ne
dimenticheremo tutti subito) percorsa da un fiume una volta fonte di lavoro, ed
ora miseramente inquinato. Sani aveva messo in piedi una ONG (Turchia Verde,
che fantasia di nomi!), ed era entrata in collisione con il bel mondo
industriale. Sarà questo uno dei motivi della morte? Il secondo squarcio è sui
costumi sessuali e sul modo di trattare le donne. Mentre si accettano (anche se
obtorto collo) i gay stranieri (come Fofo), non si può parlare apertamente di
uomini turchi che preferiscono altri uomini (ma qualcuno si ricorda il
bellissimo “Bagno Turco” opera prima di Ferzan Özpetek?). E poi le donne. Che
non hanno (ancora) molti diritti. Che possono essere ripudiate senza dar loro
alimenti. Questo stava succedendo a Sani, che voleva riprendersi la sua vita,
prima con una sbandata col bel giovane cantante pop Sinan (ed anche qui, una
piccola puntata sul mondo notturno stambuliota), poi forse con… Ma questo non
si sa se sia vero o frutto di dicerie. Fatto sta che ben presto si viene a
sapere che la morte è naturale, solo che… Vi lascio qualche sospensione sul
(poco rilevante) mistero da sciogliere. Che ben più attente ed accorate sono le
pagine sulle donne e sul (questo sì rilevante) modo in cui vengono (mal)
trattate. Già Esmahan ne aveva parlato, e Kati ne riprende con altri esempi
(negativi e positivi). Qui la nostra simpatica libraria è sempre al centro
delle attenzioni, anche se questa volta lascia in disparte la sua di vita
sessuale, sia per l’ormai lasciato Selim, sia per il commissario o per … Ritengo,
e concludo, che sia ancora e sempre un buon manuale di vita turca, da sfogliare
per coglierne aspetti, altrimenti troppo lontani o sullo sfondo. Insomma, a me
la quarantenne Aykol diverte, con il suo tono leggero. Vediamo se uscirà altro
in futuro.
Si diceva
di un anno bisestile che ci lascia, purtroppo con qualche pezzo in meno, con
qualche viaggio non fatto e qualche lavoro accettato, fatto e non sempre
digerito. Ma anche con amore, affetti, amicizie rinsaldate. E forse con buone
prospettive per affrontare un anno dalle premesse impegnative. Se ne riparlerà