domenica 14 aprile 2013

Passioni - 14 aprile 2013


Le  mie, ovviamente, visto che dedichiamo questa settimana a numeri e viaggi (o libri di viaggi o viaggi con i libri). I numeri, venendo da De Luca che generalmente mi piace, mi hanno invece un po’ deluso. Mi sarei aspettato qualcosa di meglio dall’ormai onniscrivente Erri. I viaggi, beh certo, sono un poco strani. Ma il viaggio nei campionati del mondo attraverso gli anni e gli amori riconcilia con il calcio. Il viaggio balcanico di Rumiz riconcilia con la poesia. Ed il viaggio indocinese di Ruggeri riconcilia e ricuce il mio ultimo viaggio, dandone approvazione a sensazioni personali. E non è poco.
Erri De Luca “La doppia vita dei numeri” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 4,16 euro con Feltrinelli +)
[A: 01/12/2012 – I: 05/12/2012 – T: 05/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 69; anno: 2012]
La solita mania di comprare libri “a scatola chiusa” ha portato questo veloce libretto nella mia biblioteca. Una settantina di pagine, che si leggono in un battito d’ali. Soprattutto perché, e questo è il motivo di quanto detto all’inizio, non è un romanzo né un racconto, ma un breve testo teatrale. Sapevo, devo averlo letto da qualche parte, che De Luca si era dedicato anche a momenti teatrali, ma non avevo letto nulla né sulle realizzazioni né sui testi. Quindi, prima assoluta. E una prima da una doppia faccia. Dovendo dedicarsi al dialogo (una delle nervature maggiori di un certo modo di fare teatro) non può che lasciare da parte quel tratto di superiorità scritturale che infarcisce, fastidiosamente, molti suoi testi. Direi che questo è l’elemento positivo. La faccia meno convincente è la sensazione di poca completezza del tessuto narrativo. Facciamo un passo di lato per ora. Che il motivo dell’acquisto, in realtà, era la curiosità del titolo. Se si parla di numeri, eccomi in prima fila. Poi addirittura di una loro doppia vita, che a me parrebbe ne abbiano molte più di due. Numeri per contare, per elencare, per divinare, e molto altro (per me). Qui, anche numeri per narrare. Visto che il corpo centrale del testo è una tombola napoletana. Per chi ne fosse meno a conoscenza, la tombola napoletana è una tombola figurata. Anzi, figuratissima. Ogni numero ha una sua spiegazione simbolica (le carrozzelle, le gambe delle donne, il pazzo, e si potrebbe andare avanti per tutti e 90 i numeri). Tanto che, nelle tombolate di famiglia, spesso si usa solo dire la figura, che tutti sanno il numero di riferimento. E l’imbastitura della trama del testo vuole che, detti i numeri, e dette le figure, il “capogioco” (cioè chi tiene il tabellone ed estrae i numeri) tracci una storia sul filo dei numeri stessi. Inciso nell’inciso, un momento teatrale interessante potrebbe essere lasciare all’attore l’improvvisazione sulla storia che viene dai numeri. Fatto salvo il ritorno al tessuto narrato, visto che la storia che l’uomo del testo incrocia i numeri che estrae. La storia in sé è essenziale (e forse banale?). Fratello e sorella si ritrovano soli la notte di Capodanno. Di età avanzata, ma certo non anziani, sono rimasti soli. Morti i genitori, lui che sta sempre lontano da tutti, misogino e solitario. Lei che ha perso anche Italia, la domestica che ancora badava alla casa. E mentre fuori imperversano rumori e botti di Capodanno, i nostri un po’ si danno ai ricordi, un po’ alla tombola. Apparecchiando per quattro. Che alla tavola della magione avita si siederanno i fantasmi genitoriali. Invisibili a loro, ma non allo spettatore. Che gusta i controcanti tra le narrazioni dei vivi e le precisazioni dei fantasmi. Ma non c’è l’inventiva che ne tirò fuori De Filippo in alcune delle sue migliori commedie. Questi sono fantasmi veri e propri. Sono propri i genitori, con i loro ricordi e tutte le loro manie. Come sono pieni di manie la sorella, che sembra tenersi cura di tutti, ma che non trova mai niente per casa. O il fratello, solitario con vocazione all’isolamento. Che forse aspetta solo di ricongiungersi con i fantasmi. Si fa la tombola. Si dicono cose. E poi arriva mezzanotte, e tutto velocemente si scoglie. Insomma, alla fine il testo mi lascia insoddisfatto. Qualche idea qua e là, ma senza una grande prospettiva. Una storia nella storia attraverso la tombola, i ricordi (forse i rimpianti?). Ma niente di veramente avvincente, niente veramente da segnalare. Ci sono testi, anche teatrali (ricordo alcuni di Schmitt) che fin dalla lettura coinvolgono, dicono, fanno sentire. Qui, in realtà, non c’è molto sugo, non c’è molto che rimane, se non il solito attuale sentimento che De Luca ci vuole comunicare: si continua ad invecchiare e la fine è sempre più vicina dell’inizio. Se è solo questo, grazie tante, niente buoni consigli di lettura. Solo quel ricordo, ultimo, che lega i morti ai numeri della nostra vita. E che ce li fa venire in mente, come il 13 che mi ricorda mio padre. Ma non c’era bisogno di queste scarne paginette per ricordarmelo. Speriamo in meglio, Erri.
Fabio Stassi “È finito il nostro carnevale” Minimum fax euro 9 (in realtà, scontato 7,65 euro)
[A: 15/07/2012 – I: 05/12/2012 – T: 08/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 242; anno: 2011]
È il secondo libro di Stassi che leggo, avendo avuto anche sentore di un terzo che non ho ancora in libreria. Questo per dire che una componente del mondo dello scrittore è questa sorta di reality-fiction, in cui parte da momenti di realtà per costruire suoi impianti “fittizi”. Lo fu per la storia della partita a scacchi di Capablanca, lo è per questa storia dei mondiali di calcio, e penso lo sia nell’ultimo ballo di Charlot. Questa storia (come poi si raccorda bene nel post-romanzo, dove, in una conferenza che tenne due anni fa a Salvador de Bahia, Stassi parla della brasilianità della sua Sicilia) si snoda per quaranta anni, seguendo le alterne vicende dei mondiali di calcio, anzi seguendo quella che fu la “Coppa Rimet”. Che così si cominciò a chiamare dalla prima edizione uruguagia del 1930 sino alla sua conquista definitiva in quel di Messico nel 1970. Questa storia del football che potrebbe piacere anche a chi calcio poco ne capisce e poco se ne appassiona. Perché oltre le partite, che ne sono una componente interessante, ed ineludibile, c’è tutto il resto: la storia d’amore per l’inarrivabile Consuelo, iniziata a Parigi nella seconda metà degli anni Venti. Dove il nostro protagonista, il multietnico Rigoberto si aggira nel mondo degli artisti, mescolando Hemingway e Django Reinhardt, l’orafo-alchimista Valmont ed il poliziotto di carta Jules Maigret. E queste mescolanze continueranno per tutto il racconto, toccando Vinicius de Moraes e Jorge Amado, Ernesto Che Guevara e “un partigiano italiano”. Unendo i dolori per le guerre e le sconfitte, con quelle dei golpe sudamericani, imbastendo tutto con il filo del rimpianto per la perdita (inspiegata) della bella Consuelo, che cercherà in tutte le donne del mondo senza trovarla, lo scrittore ci fa seguire il sogno/follia di Rigoberto. Che Consuelo fece da modella per la vittoria alla base della Coppa dedicata ai Mondiali di Calcio da Jules Rimet nel 1928. Rigoberto, perdutamente innamorato ed avendola persa dopo la giornata di modella, da allora cercherà di rubare (o di riprendersi) la Coppa per stare per sempre con Consuelo. Nasce così il racconto parallelo dei mondiali di calcio dal 1930 in poi. L’Uruguay del capitano Nasazzi che sconfigge gli Argentini nel 1930. L’Italia fascista di Pozzo, trionfatrice nel ’34 a Roma e nel ’38 in Francia. E poi la guerra. Il dramma nazionale brasiliano della finale giocata al Maracanà nel 1950 contro gli uruguagi di Ghiggia e Schiaffino, comandati dal gigante Obdulio Varela, che misero in ginocchio una nazione (con tanto di suicidi, e di messa al bando della maglia della nazionale che verrà cambiata da bianca con colletto blu, all’attuale verde-oro di tanti successivi trionfi). La strana finale del ’54 in Svizzera tra i dopati tedeschi e gli spompati ungheresi di Puskas. La passeggiata brasiliana del ’58 in Svezia con la scoperta di un tale … Edson Arantes do Nascimento detto Pelè (ma soprattutto di quell’ala imperdibile che fu il claudicante Garrincha). Le mattanze del ’62 in Cile, con la gamba spezzata a Mora da parte dei cileni, i calcioni a Pelè, e l’uscita dal cilindro di Amarildo, che porta alla seconda vittoria. Poi nel ’64 c’è il colpo di stato in Brasile (patria ormai d’elezione di Rigoberto), e come dice Vinicius in una sua canzone “finì il nostro carnevale (accabò o nosso carnival)”. Il triste Brasile non vincerà nel ’66, anno della sconfitta coreana dell’Italia di Fabbri e dell’unico mondiale vinto dall’Inghilterra, anche se con un goal fantasma, convalidato dal guardialinee che solo lo vide. Rigoberto intanto era riuscito a trafugare la coppa, ma, sperduto nella città di Londra, la deve abbandonare tra i rifiuti dove un cane la trova. E per finire, l’apoteosi di Città del Messico, dove in semifinale sono presenti 3 squadre con almeno 2 vittorie (che, per chi non lo sapesse, la coppa sarebbe stata definitivamente vinta da chi avesse conquistato 3 allori). Da una parte Pelè trascina il Brasile sopra l’Uruguay, dall’altra l’inarrivabile 4-3 di Italia e Germania. La finale non ha storia, e la coppa andrà definitivamente in Brasile. Poi ci saranno altri Mondiali, ma Rigoberto non li segue più. Cerca e trova il modo di trafugarla, anche se i generali al potere diranno che fu rubata per questioni di droga e fusa (era d’oro). Per anni invece (e questa è la parte fiction che Stassi ci regala) sarà con Rigoberto, fino alla fine del mondo (e scoprirete anche perché). Una scrittura che concilia con il calcio anche i non appassionati, come ho detto, e che fa arditi (e simpatici) paralleli tra calcio, vita e rivoluzione (immenso il movimento calcistico brasiliano mutuato dalla guerriglia cubana). Un romanzo che dà la sua parte migliore proprio in queste narrazioni, lasciando un po’ delusi sul resto.
“Tra gli uomini c’era un rispetto, un trattarsi da pari a pari, qualunque fosse il loro stato. Dopo tanti viaggi, resta il comportamento più rivoluzionario che abbia conosciuto.” (94)
Paolo Rumiz “La cotogna di Istanbul” Feltrinelli euro 8,50
[A: 10/11/2012 – I: 18/12/2012 – T: 21/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 230; anno: 2010]
Con un po’ di difficoltà mi accingo a tramare questo libro. Difficoltà dovuta, principalmente, alla forma del testo, più che al testo stesso, che mi rende non facile parlarne, discuterne, approfondirne. Eppur il libro nasce sotto due buoni auspici. Da un lato l’autore, Paolo Rumiz, che spesso seguo dalle colonne di Repubblica, dove, di tempo in tempo, scrive di viaggi e di luoghi strampalati. Viaggi in bicicletta, viaggi in treno, paesi slavi e paesi turchi. Insomma, letture e motivi di lettura cui sapete sono sensibili. Dall’altro il suggeritore del libro stesso (vedete come in questo inizio di anno si moltiplicano gli omaggi a chi mi spinge a leggere qualcosa, mescolati qua e là a doverose critiche se la lettura non raggiunge i livelli di piacere sperati), il mio allegro amico di castello, che ringrazio per la curiosità sempre presente. Detto ciò, il libro si presenta in sottotitolo come una “Ballata per tre uomini e una donna riscritta per musica nuova”. E proprio di questo si tratta. Perché le 200 e più pagine sono una lunga, lunghissima poesia non rimata, cui serve andare spesso a capo per prendere il ritmo, per abbreviare una descrizione. Insomma per tenerci un po’ sospesi, che se lo riversassimo in romanzo, l’autore avrebbe dovuto spendere (inutili) pagine in (inutili) descrizioni. Così è tutto un po’ ellittico, ma anche un po’ favoloso. Cioè tende alla fiaba più che alla narrazione pura. E quasi come una fiaba si svolge appunto la storia del personaggio principale, quasi l’io narrante, che non è la mela cotogna, ma uno degli uomini. Seguiamo allora con la voce di Max, quello che incantava narrando, come viene a conoscere della bella Maša, la mela cotogna di Istanbul (e un giorno si ritornerà su questo frutto tanto caro alla mia mamma), come narravano i versi di una canzone d’amore dei luoghi. Luoghi difficili, per me che frequentai la vecchia Jugoslavia, ma che poco avrei voglia (ora) di ritornarvi. Che ho difficoltà a rapportarmi con gli slavi. Ma qui si parla di Maša, la bella di Sarajevo, innamorata di Vuk, che lo attende dopo che viene condannato per una stupida uccisione (ritorna la violenza del posto). Maša che sposa Duško, con cui ha due figlie, ma che, libero Vuk ritorna da lui per due settimane di passione. Poi Vuk muore nella guerra serbo-bosniaca. Ma Maša porterà sempre con sé questo suo amore. Anche quando incontrerà Max, anche quando lui se ne andrà per motivi vari (non vi sto mica narrando tutto). Anche quando si ammalerà e tornerà con Max. Mentre Duško riamane un eco sospeso nella lontana Mosca dove si è rifugiato. E Max avrà sempre Maša accanto, soprattutto nella lunga camminata di centinaia di chilometri che lo porterà dalla Bosnia ad Istanbul, sul filo dei ricordi e delle mele cotogne. Ma non sono importanti tante e solo le storie narrate. Sì anche, ma è il canto d’amore della ballata triste quello che mi ha colpito. Questo senso di appartenenza l’uno all’altra, anche e forse proprio per questo, al di là delle parole. Certo ammiro anche la capacità di Rumiz di sollevare tanti interrogativi: sulla guerra di Sarajevo, che rimane ancora una ferita dolorosa, sulle etnie locali, croati, serbi, bosniaci e bosniacchi (non è un vezzeggiativo, sono realmente due etnie diverse), kosovari e via discorrendo, ma anche sulla solidarietà, sugli interventi detti “umanitari”. E sollevando dubbi che forse un approfondimento questi posti lo meriterebbero.  Nonostante la mia difficoltà ad entrare nel modo narrativo, alla fine l’ho apprezzato, facendomi un po’ cullare. Dalle parole e dai ricordi. Alcune parti le ho trovate in calando. Non capisco Duško e le figlie. Ed a volte non capivo l’ostinazione di Maša. Capivo solo il canto d’amore intenso di Max, con o senza la presenza di Maša. Ma per essere una poesia di 230 pagine, supera ampiamente la prova della mia (scarsa) pazienza. E mi associo nel consigliarvelo, allegramente (ma non è una ballata triste? Qualcuno saprà).
“Ma dove vanno a finire le storie / che più nessuno ha tempo di narrare?” (173)
“Aveva già passato i sessant’anni / il tempo per avere dei nipoti / e in mente gli tornò che nonno Josef / … / aveva esattamente quell’età / quando gli raccontava nella sera / … / Sessanta, rifletté, certo, sessanta / dunque poteva essere nonno anche lui / forse per questo scopriva in se stesso / quell’arte del narrare che incantava / gli adulti come fossero bambini.” (178)
Corrado Ruggeri “Farfalle sul Mekong” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà scontato 6,45)
[A: 14/03/2013 – I: 16/03/2013 – T: 20/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 246; anno 1994]
E come recita il sottotiolo “Tra Thailandia e Vietnam”. Me ne aveva parlato una coordinatrice di Avventure nel Mondo, indicandolo come buon punto di partenza per capire qualcosa almeno di una parte dell’Indocina. Preparando il secondo viaggio nella regione in dodici mesi, ho pensato che valesse la pena portarlo come “libro di viaggio”. Ed, in effetti, ha avuto un suo ruolo nel farmi riflettere su questi luoghi. L’autore è giornalista, e si sente nello scrivere spigliato, accattivante e centrato su argomenti utili alla riflessione. Devo comunque dire, preliminarmente, che i venti anni trascorsi dalla prima stesura si sentono, soprattutto nella seconda parte, quella dedicata al Vietnam. Confesso (ahi che dolore) che il Vietnam ancora non è entrato nei miei girovaghi viaggi intorno al mondo, e questo è un peccato. Ma si capisce (e viene anche detto in una nota esplicita) che sia il modo di viaggiare in Vietnam che il Vietnam stesso sono cambiati e di molto in questi anni. Forse dovrei chiedere lumi a Nicoletta, mia amica massima esperta di viaggi in Vietnam. Quello che vedo, dalla scrittura di questa parte, è solo una dolenza, che di rimando mi rimbalzava quando giravo per la Cambogia, di un mondo devastato da cruenti lotte intestine. Si sente, nella presentazione dei personaggi, questa rottura tra i due mondi, tra l’ex-sud e l’ex-nord, tra i filo americani ed i filo russi. E con curiosità mi domando come sia diventato ora, a tanti anni di  distanza dalla fine delle ostilità. Ma facciamo un salto indietro, perché invece la prima parte, insomma l’inizio del viaggio di Corrado e della sua bella, ci porta in Thailandia. E la descrive con un’immutata capacità di collocarla fuori dal tempo, ma di rendercela vivace. L’autore gira per una specie di trekking tra le tribù del nord della Thailandia. Ed io lo vedo mentre vado a dorso di elefante, mentre scendo i torrenti su approssimative zattere di bambù, mentre dormo in capanne vicino ai villaggi di montagna. Poi fa un grande salto negli arcipelaghi delle Andamane. Qui è anche la parte più emozionante, quella che descrive le imprese turistiche di alcuni occidentali immigrati. Soprattutto in quelle di “Caveman”, quell’uomo delle grotte, che propugna un turismo che non colpisca la natura. E che coinvolge i nostri in un’avventura assai perigliosa con delle canoe alla ricerca di grotte incontaminate. Con un piccolo salto mentale, mi ritrovo con Federico ad addentrarmi nella grotta di Ko Lanta e, seppur senza quella sensazione di pericolo, ritrovo sensazioni di scoperta. Poi c’è il grande balzo in Vietnam, cui accennavo. Con i problemi logistici di venti anni fa, ora scomparsi. Ma con quel risonare, anche ora, dei campi di detenzione, dei sentieri nascosti, di odi e ripicche. Bisognerà andarci, prima o poi. Infine il ritorno alla città degli angeli, che questo è il nome locale di Bangkok (il nome della città fu coniato nel XVII secolo dal re Rama I, è il più lungo nome al mondo di una località, ma viene abbreviato, traslitterandolo in Krung Thep che significa appunto “Città degli angeli”). Ed anche qui mi ritrovo con Corrado a passeggiare nel caldo enorme e che toglie il fiato della grande capitale. Nel suo traffico soffocante, ma anche nel battello fluviale e nelle sue placide fermate lungo la Chao Phraya. Nella casa di Jim Thompson, l’agente della CIA che misteriosamente scompare. Negli aquiloni del parco reale (quelli che Stefano non è riuscito a trovare). Nella confusione che anima le stradine di Chinatown. Ed anche nella calma fuori del tempo dei grandi alberghi (certo non visti in questo viaggio, ma che mi rimandano a quando transitavo qui per lavoro). Meriterebbe un libro a parte tutta l’analisi del comportamento delle go-go girl e dei loro anfitrioni occidentali. Dell’uso loro del corpo e del turista. Ma meglio che in questo, ritrovo le immagini di Chiang Mai nei libri di Burdett di cui parlo altrove. Comunque chiudo il libro che sono ancora in Thailandia, e me lo porto dietro mentre proseguo il viaggio. Leggetelo, se siete andati o se pensate di andare nel Mekong!
“Viaggiare … è una scelta culturale: per questo si insiste a sottolineare la differenza tra turista e viaggiatore, due categorie di persone che difficilmente incrociano le loro rotte in giro per il mondo.” (115)
Ora ci stiamo mettendo sotto d’impegno a terminare quanto lasciato in sospeso prima di partire. Scatole, libri, CD, passaporti, foto, feste, nuovi viaggi. Quanto ci sarebbe e c’è da fare. Con la calma abituale del toro, rimbocco le maniche, e comincio. 

Nessun commento:

Posta un commento