domenica 7 aprile 2013

Misticanza - 07 aprile 2013


Dopo la tanta e gustosa verdura assaporata in Thailandia, dedico questa settimana ad un’insalata mista con sapori eterogenei e non sempre graditi. In tanto, porgo il benvenuto ai nuovi arrivati in questa mail list, dal nome misterioso e significativo (che non spiego). A voi spiego invece che metto qui le mie recensioni, indicando una mini-scheda per libro, includendo la data di entrata nella mia libreria, e le date di inizio e fine lettura. Comunque una settimana che segna alcuni ritorni: a Coe, dopo sei mesi dall’ultima lettura, a Rushdie, dopo anni da “I figli della mezzanotte”, a Banville, dopo 4 anni dall’acquisto senza essere ancora riuscito a leggere di “The sea”. E la scoperta di uno strano autore franco-tedesco, che tutto sommato è stato piacevole.
Jonathan Coe “La pioggia prima che cada” Feltrinelli euro 7,50
[A: 13/05/2012 – I: 28/11/2012 – T: 04/12/2012]
[titolo: The rain before it falls; lingua: inglese; pagine: 222; anno: 2007]
Sono passati sei mesi dalla lettura del precedente libro di Coe, che un po’ mi aveva riconciliato con questo scrittore, pieno di alti e bassi; o meglio di bassi sì, ma più che alti, altopiani, qualcosa di piacevole, seppur non eccellentissimo. Ricordo anche che in quell’occasione uno dei miei lettori ben mi sottolineava di questo. Andiamo allora avanti con la normale ambivalenza del buon Jonathan. Sono sempre dubbioso quando la voce narrante che usa è femminile, cioè quando i suoi romanzi ruotano intorno a personaggi femminili. Che non sempre (e questa è una polemica che porto appresso da tempo) il narratore uomo riesce ad entrare nella narrazione donna. Ci sono autori e situazioni che ci riescono e/o ci vanno vicini. Ma spesso (ed è vero anche il contrario quando è la donna ad usare voci maschili) il testo mostra la corda. Qui l’idea di fondo è ben sviluppata, anche se (ogni tanto) l’autore-narratrice sembrano incartarsi. Riporto l’idea di base: una donna vicina alla fine narra la storia della vita (sua e di chi le è intorno) ad una specie di nipotina, non vedente. Lo fa registrandola su cassette, e lo fa descrivendo ad Imogen, 20 fotografie che fermano momenti della vita trascorsa. Rosamund (la narratrice) muore lasciando questi nastri ad Imogen che è scomparsa, dando incarico alla nipote Gill di trovarla. Non riuscendo, Gill decide di sentire i nastri insieme alle figlie (tutti personaggi femminili). Ci troviamo così immersi nell’atmosfera della vita di Rosamund, con una strana infanzia, con una infatuazione per la cugina maggiore Beatrix, con la quale vive momenti da dodicenne esaltanti. Poi Rosamund cresce e si innamora della bella Rebecca, con la quale va a vivere insieme. Beatrix intanto va in giro per Inghilterra e Irlanda, lasciando mariti, prendendo compagni, e gestendo (male) la piccola Thea. Al seguito di un grande amore, decide di fuggire in Canada, lasciando Thea (non volente e non volendolo) a Rosamund e Rebecca. Trascorrono così due anni meravigliosi, fino al ritorno di Beatrix che si riprende Thea, mentre il dolore farà separare per sempre Rosamund e Rebecca. Della seconda spariscono le tracce, mentre Rosamund per anni ed anni porterà avanti il proprio dolore, fino ad essere consolata dalla pittrice Ruth. Intanto Thea, che tanto aveva portato di gioia e spensieratezza nella sua vita, cresce. E ripete gli errori della madre. Sposa persone improbabili. Mette al mondo Imogen, e non la sa gestire. Rosamund cerca ogni tanto di intervenire per portare “momenti positivi”, senza riuscirci. Fino al dramma: un pianto immotivato della treenne Imogen fa andare fuori di testa Thea, che la sbatacchia con tanta irruenza, da provocarle una lesione permanente, che renderà non-vedente la bambina. Thea è condannata a diversi anni di carcere. E le viene tolta la potestà di Imogen, che viene affidata ad una famiglia che la adotta. E che la fa, giustamente, sparire. Thea per anni non sembra interessarsi all’accaduto. È solo Rosamund che cerca di mantenere i contatti con Imogen, fino a che la famiglia adottante decide che è meglio troncare tutti i legami. E sparisce anche lei in Canada. Assistiamo ai rimpianti di Rosamund, a tutte le piccole cose che si accumulano in questo gineceo londinese. Ai pensieri di Gill che ascolta, che durante un ricordo dell’Alvernia di Rosamund, ripensa alla sua gita francese con il marito, invero poco felice e funestata dall’investimento di un uccello con la macchina (che avviene a pag. 27, ma che si capisce, se uno se lo ricorda solo a pag. 220). Dopo aver accompagnato quasi tutti i suoi cari alla tomba, e soprattutto l’amata Ruth, anche Rosamund si spegne. Mancando anche l’ultimo appuntamento con Thea, che, carica d’anni e di sventure, sembra aver messo la testa a partito. Anche se non si assolverà mai di tutte le colpe commesse. E se farà brillare una possibile connessione tra i sentimenti negativi di Gill e la storia di Imogen, di cui narra pezzi a Rosamund ignoti. Ecco, sembra proprio un elenco di possibilità mancate, di felicità sfiorate e mai raggiunte, che lascia una tristezza grande addosso. Con quei piccoli elementi di sorriso e di felicità, come quello del titolo, o della musica popolare francese o del clarino di Catherine la figlia di Gill. Ma non scatta mai oltre un certo limite. Non passa mai quel guado che farebbe sentire importante il testo. Un buon testo, con buoni coinvolgimenti. Di media lettura e gradimento, con quel tocco di ingegno della vita attraverso le foto che resta e forse va ripreso.
“Mi sembra importante … non sottovalutare mai quel che si prova nel sapersi indesiderati dalla propria madre. … Rendersene conto corrode il senso del proprio valore, e distrugge le fondamenta stesse del proprio essere. È molto difficile uscire incolumi da un’esperienza simile.” (58)
“Non si può descrivere la musica a parole.” (130)
“Col tempo, diventa così difficile distinguere le tue idee da ciò che puoi aver orecchiato da qualche altra parte.” (142)
Nicolas Barreau “Gli ingredienti segreti dell’amore” Feltrinelli euro 8
[A: 30/09/2012 – I: 12/12/2012 – T: 14/12/2012]
[titolo: Das Lächeln der Frauen; lingua: tedesco; pagine: 239; anno: 2010]
Nato in Francia da madre tedesca, il nostro bilingue imbastisce una storia che fa perno su di un … inglese (anche se poi si sviluppa in molte direzioni). All’inizio, essendomi ignoto il Barreau mi aveva decisamente spiazzato il nome francese dell’autore ed il titolo originale in tedesco. Scoperto il trucco, ho trovato tuttavia simpatico il modo di “essere” in Parigi, quasi da straniero nella propria terra (un po’ come Veit Heinichen e Trieste). Anche se poi ci si domanda perché i sorrisi delle donne diventino “ingredienti dell’amore” e perfino segreti. Mistero! Comunque senza tanti battage pubblicitari, Barreau ottiene un discreto successo internazionale con una storia delicata, che quasi ci fa tornare alle atmosfere leggere e simpatiche della Parigi di Amèlie (e non a caso i protagonisti hanno nomi in A: Aurélie e André). Ed anche l’idea di base ha un suo fascino, ed è ben svolta dall’autore. Poteva venirne fuori una cosa un po’ banale, invece, pur nell’assoluta normalità si fa seguire. La storia procede su due binari paralleli, alternando i punti di vista dei due protagonisti. Aurélie gestisce un piccolo ristorante parigino (dal nome storico che rimanda a quel ristorante vicino a Place d’Italie gestito negli anni ’70 da una cooperativa di operai e che proponeva e propone una cucina francese tradizionale), sta uscendo malconcia da una storia, cerca consolazione dalla sua amica Bernadette, ma la trova leggendo un libro di un ignoto scrittore inglese, dove il britannico protagonista, a valle di una serie di ironiche situazioni scontrandosi la sua flemma d’oltre manica con la giocosità parigina, si innamora di una ragazza che gestisce un ristorante che guarda caso è quello di Aurélie. E dove anche la descrizione della protagonista si adatta alla sua. Da questo punto in poi la nostra cercherà in tutti i modi di entrare in contatto con l’inglese, fallendo (e vedremo presto il motivo) miseramente ogni suo tentativo. André invece lavora in una piccola casa editrice, come editor, e, non riuscendo a trovare autori soddisfacenti la linea editoriale, in complicità con un suo sodale inglese, scrive un libro (quello di cui sopra), facendo finta sia la traduzione da un libro inglese. Sfortunatamente il libro ha successo. Ed Andrè si troverà impelagato a far fronte alla richiesta di interviste all’autore, di viaggi promozionali, di sedute pubbliche di lettura. Nonché all’insistenza della bella Aurélie che lo contatta e non lo molla più per farsi presentare al fantomatico Robert Miller. Capirete anche voi, che si andrà avanti a forza di equivoci, di possibili smascheramenti, e soprattutto del tentativo di Andrè di creare tutto un castello di menzogne per screditare l’autore fasullo, e per farsi bello verso Aurélie. Che in realtà è proprio la persona descritta nel romanzo. In effetti, ad Andrè l’idea era venuta passando davanti al ristorante e vedendo oltre il vetro Aurélie in uno splendente vestito verde. Come detto una trama che rischierebbe di andare alla corda dopo poche battute. O di essere ripetitiva. Invece viene ben sostenuta dalla scansione di una serie di colpi di ingegno dello scrittore, per dare voce e speranza a turno ai due protagonisti. Ovviamente, quando tutto sembra andare per il meglio per Andrè, Aurélie manda all’aria tutto il castello. E … e non vi dico altro, su come andrà a finire. Ognuno faccia il tifo per chi vuole e se ne goda la lettura, rilassante (soprattutto in questa turbolenta fine di un anno bisestile). Un’ultima notazione riguarda il “Menu dell’Amore”, un menu per due che il padre di Aurélie le ha donato prima di morire, e che è una catena che legherà per sempre chi lo mangerà con spirito giusto. Barreau (come a me fa piacere che mi rimanda ad altri testi a me cari) alla fine ce ne dà anche le ricette (che consiglio di provare a chi sa ben cucinare). Io mi limito solo a riportarne i piatti (e ad invitarvi al sorriso): insalata di valeriana con avocado, champignon e noci, coscio d’agnello alla melagrana con gratin di patate, parfait all’arancio con gâteau au chocolat (che da solo vale tutta la cena!). Buona lettura!
“Gli anni non contano. Conta solo come li viviamo.” (10)
“Non riesco ad immaginare una vita senza libri.” (20)
“A volte è più facile convivere con la menzogna che con la verità.” (119)
“L’amore quando finisce è sempre triste. Chi lascia ha la coscienza sporca. Chi viene lasciato si lecca le ferite. Alla fine però ognuno è quello che è sempre stato.” (gli appunti di Aurélie)
John Banville “Dove è sempre notte” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 26/08/2012 – I: 16/12/2012 – T: 22/12/2012]
[tit. or.: Christine Falls; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2006]
Sono rimasto molto deluso da questa lettura di un nuovo romanzo della collana Noir di Repubblica, che sembra a volte buttar dentro alla rinfusa cose varie, senza pensarci troppo. Ed altrettanto deluso dall’autore. Che in realtà avrei dovuto sospettare non fosse nelle mie corde. Ricordo anni fa, alla mia (per ora) unica visita a Dublino, alla ricerca di un autore locale, presi un libro del buon Banville, libro tra l’altro vincitore di premi e riconoscimenti. Ma non riuscii ad andare avanti (ebbene sì, a volte i libri si possono abbandonare, per poi magari tornarci, se capita, seguendo i principi cui sempre mi rifaccio del decalogo di Pennac). Ora, Banville è un autore poliedrico, che scrive di tutto. E che, ad un certo punto, imbastisce storie con protagonista Quirke, un anatomopatologo di Dublino. E storie ben collocate nel tempo, che si collocano, infatti, agli inizi degli anni Cinquanta. Questa è la prima in cui compare Quirke, ed è tutto fuorché una storia noir, gialla, thriller o altro. Si salva solo l’ambientazione storica, sia nella Dublino dell’epoca, sei nella corrispettiva America, dove si svolge una parte (e non secondaria della vicenda). L’autore è di una lentezza a volte esasperante. E qui deve inquadrare i personaggi. Quirke, vedovo e sempre attaccato a qualche bottiglia (tanto che alla fine siamo alticci anche noi poveri lettori). Malachy detto Mal, suo cognato e ginecologo, sposo di Sarah, sorella della defunta signora Quirke. Sarah stessa, che da sempre era innamorata di Quirke, ma che poi sposa Mal. E su questo ipotetico triangolo amoroso, Banville spende qualche decina di pagine di troppo senza arrivare mai a spiegare i perché o i per come. Phoebe la figlia di Mal e Sarah (ma sarà vero? Che i loro comportamenti a volte sembrano mostrare altro), in crisi di crescita, molto attaccata allo zio Quirke, piena di voglie e di capricci. Insofferente insomma. Ed il grande Griffith, padre di Mal, gran commis dello stato irlandese, che prese sotto la sua ala il bimbo Quirke al tempo in orfanotrofio. Per finire con il magnate Crawford, l’irlandese emigrato in America a fare fortuna, dove tutti si ritroveranno per il redde rationem finale. E dove ci saranno delle sorprese. Ma qual è la storia supposta nera? Nasce tutto dalla morte di una giovane, Christine Falls, che dava il titolo originale al romanzo, e che, chissà per quale balzano motivo, viene tradotto con questa inutile invocazione alla notte (forse perché la notte è nera?). Quirke se la trova in anatomopatologia, ed è colpito da alcune incongruenze, che sembrano coinvolgere il cognato Mal. Ed essendo curioso di natura (un curioso strano che vuole sapere, ma che non fa domande per conoscere, che si ferma spesso, e che mi ha irritato per tutto il romanzo con questa sua ignavia di fondo) decide di capirne di più. Viene così a sapere che Christine è morta dando alla luce una bambina. Aiutata dalla mammana Dolly, che però, vista la mala parata chiama il suo vecchio datore di lavoro Mal per cavarsi dagli impicci. Ma Christine muore, la bambina sparisce. E quando Quirke scopre di Dolly e dei suoi legami con un orfanatrofio gestito dal suocero Crawford, anche Dolly muore. E Quirke viene talmente pestato a sangue da due loschi sicari che per qualche mese dovrà fare vita di ospedale, con una gamba che non si rimetterà a posto del tutto. Ma Quirke sembra non demordere, ed accompagnando Phoebe da nonno Crawford, scopre casualmente una sua ex-infermiera finita anch’essa in America. E tramite lei, risale alla storia della bambina scomparsa, della sua adozione americana, e della loro storia tribolata e poco edificante. Per arrivare alla catarsi finale di cui sopra. Tuttavia impiegare quasi 400 pagine per tutto ciò è un inutile tormento per noi poveri lettori. Che la trama nera esce sì a poco a poco, ma è del tutto sovrapposta a quello che interessa Banville, cui piacciono le atmosfere, le descrizioni, le case, i giardini. E tanto, tanto alcol. Insomma, alla fine, un nero insopportabile per una lettura che non sa né di carne né di pesce. Chissà se riuscirò mai a riprendere in mano quel primo libro… Nota finale (se qualcuno mi aiuta): Marcella Dallatorre, esimia traduttrice, ad un certo punto parla di un tal MacCoy soprannominato Maciste, e l’autore dice “che bel gioco di parole”. Io non l’ho capito e l’ottima Marcella non lo spiega. Che ci sarà da ridere?
Salman Rushdie “Joseph Anton” Mondadori s.p. (regalo di Aldo & Michela)
[A: 07/10/2012 – I: 30/12/2012 – T: 16/01/2013]
[tit. or.: Joseph Anton; ling. or.: inglese; pagine: 649; anno 2012]
Libro ben lunghetto e, purtroppo, poco scorrevole. Erano anni che non tornavo su Rushdie. Diciamo, in effetti, che, dopo “I figli della mezzanotte”, non è che ne abbia letto gran che. Troppo il clamore, troppa la scarsa simpatia del personaggio. Che questa lettura mi conferma. Intanto ringrazio i donatori che mi hanno spinto comunque a riprendere in mano “il caso Rushdie”, che giaceva un po’ lì senza un vero perché. Come detto, il libro non è eccelso. Intanto non ha (o non è stato reso in italiano) la scoppiettante inventiva dello scritto di Rushdie, che nei romanzi lavora molto di penna e di metafora. Si sente abbastanza il dolore dello scrittore per tutto quanto succede. Così imbastisce un libro di “memoir” (pare così sia ormai il termine usato, autobiografia risulta obsoleto). A partire dal giorno infausto (14 febbraio 1989) quando l’ormai fuori di testa Khomeini lanciò una fatwa mondiale sul negletto autore di un libro che, viene detto, mette alla berlina la religione islamica. Peccato mortale, visto che l’autore, anche se ateo, è di provenienza mussulmana. Ne seguiamo così la storia, con il rapido inserimento in un programma di protezione, il cambiamento di nome (e lui adotta quello del titolo, che deriva, come ci confessa, da quello di due autori a lui cari: Joseph Conrad e Anton Cechov), la vita quotidiana a contatto con le forze speciali di protezione, la ricerca di luoghi sicuri, i problemi con i suoi cari, soprattutto con il primo figlio allora di 14 anni, Zafar, che vive con la prima moglie e che lui avrà difficoltà a vedere per anni. La rottura con la moglie Marianne (a naso un po’ psicolabile), la scoperta del grande amore con Elizabeth, che condividerà con lui tutti gli anni clandestini (per poi sposarsi, farci un secondo figlio, Milan, e quindi divorziare). Vediamo, nella sua prospettiva, come tutto diventi difficile, come sia impossibile fare una passeggiata, o andare al cinema. Vediamo alti e bassi della clandestinità. Vediamo passare gli anni, crescere Zafar, morire la prima moglie, venire uccisi alcuni suoi traduttori o editori in giro per il mondo, crescere gruppi di pressione per togliere la fatwa, sentiamo l’idiozia dei politici (e quelli inglesi sembrano di buona razza “legnosa”), vediamo i differenti modi con cui le polizie del mondo lo proteggono, non meravigliandoci degli strombazzamenti americani. Poi, con il tempo, un po’ si affievolisce la pressione iraniana (non ultima la temporanea ascesa di moderati alla Katami), comincia ad avere libertà, soprattutto in America. E piene di sentori di primavera, quando tutto rinasce, sono le pagine in cui descrive le prime volte in cui esce senza protezione, le prime passeggiate in spiaggia, i primi viaggi aerei diretti, senza che le compagnie si rifiutino di tenerlo a bordo. E poi, velocemente nel finale, tutto il resto: la fine della fatwa e dell’amore con Elizabeth, l’illusione della bella vita con l’attrice indiana Padma, che sposa (ed è la quarta) e da cui poi divorzia. Nel frattempo c’è anche l’11 settembre. E non è poco. Anche se, alla fine, dopo quasi venti anni, riesce a rimettere piede nell’India natia. Seguiamo anche le difficoltà ed i successi della scrittura, l’impossibilità di scrivere romanzi, poi lo sblocco. Ma tutta la sua produzione post-versetti mi risulta poco se non del tutto ignota. Rimangono alcune questioni, ancora sul tappeto: i comportamenti degli altri scrittori rispetto alla fatwa (dalla sua prospettiva ne risultano due agli opposti atteggiamenti: sostenuto da Paul Auster e osteggiato da John le Carré), la scrittura e la filosofia di vita di Salman (le pagine sono farcite di nomi di personaggi illustri che a lui si accompagna, per aiutarlo, principalmente, come Susan Sontag ed altri, ma è il senso di inclusione in una èlite mondiale di “buoni” che esce dalla penna, di gente colta, di gente “arrivata”, descrizioni che personalmente accolgo con fastidio, che mi sanno ecco la parola giusta è snob, un particolare, ma innegabile snob), e, last but not least, la materia stessa del contendere: “I versi satanici”. E quello che implicano. Siano o meno un dileggiamento religioso (e non lo credo) io condivido fino alla fine il pensiero illuminista francese della libertà di espressione (“non condivido una parola di quello che dici, ma farò di tutto perché tu lo possa dire”). E sopratutto sono completamente, totalmente contrario a tutti quei regimi che usano la religione come metro di giudizio per accettare o bandire idee. La forza di una convinzione “sana” è quella di accettare la diversità, criticando, anche aspramente, quanto diverge da me. Ma dopo averlo, almeno, letto. Cosa che non è successa per Rushdie, bandito come idea, senza che l’80% delle persone che ne parlavano avesse idea di cosa abbia realmente scritto nel suo libro. Credo che questo sia il vero fulcro che mi ha costretto a leggere tutte queste pagine, per cercare di capirne di più. Alla fine, prima o poi, credo che leggero i versi satanici, anche se non ne sono convinto. Come non sono convinto della scrittura di Rushdie. E come non sono convinto dell’uomo-Rushdie, che, in fondo, non mi sta poi tanto simpatico, con tutti gli atteggiamenti di cui ho detto. Sono profondamente dolente che un uomo abbia perso anni ed anni della sua vita per questi motivi. E spero che possiamo arrivare a vivere in un mondo in cui questa non succeda più. Ma ho molta paura che queste mie speranze siano lungi dall’avverarsi (e fosche nubi si stagliano in orizzonti a me cari). Commento a margine: ma si possono usare termini come “odeporica” di cui tutti (meno io) sanno il significato?
“Sono sempre le donne a prendere le decisioni, e agli uomini non resta che sentirsi riconoscenti se sono abbastanza fortunati da risultare i prescelti.” (20)
“Che l’amore muoia non significa non abbia vissuto.” (127)
“Le idee forti ammettono il dissenso … Solo chi è debole e autoritario si sottrae agli avversari, li ricopre di insulti, e a volte desidera far loro del male.” (355)
“[frammento della poesia di Williams Carlos Williams ‘La corona di edera”] But we are older / I to love / and you to be loved” (533)
“Io non so distinguere un albero dall’altro, e lo stesso vale per i fiori, ma ad ogni modo ho molto apprezzato i fiori e gli alberi.” (551)
Al fine, per chi volesse recuperare tutte le recensioni arretrate, consiglio di visitare il mio blog di back-up (http://giogio53.blogspot.it/trame_e_voilà ). Per chi vuole conoscere la mia biblioteca indico il sito http://www.anobii.com/gio53/books. Intanto stiamo organizzando grandi – piccole cose e vedremo presto qualche risultato. 

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