Dopo la tanta e gustosa verdura
assaporata in Thailandia, dedico questa settimana ad un’insalata mista con
sapori eterogenei e non sempre graditi. In tanto, porgo il benvenuto ai nuovi
arrivati in questa mail list, dal nome misterioso e significativo (che non
spiego). A voi spiego invece che metto qui le mie recensioni, indicando una
mini-scheda per libro, includendo la data di entrata nella mia libreria, e le
date di inizio e fine lettura. Comunque una settimana che segna alcuni ritorni:
a Coe, dopo sei mesi dall’ultima lettura, a Rushdie, dopo anni da “I figli
della mezzanotte”, a Banville, dopo 4 anni dall’acquisto senza essere ancora
riuscito a leggere di “The sea”. E la scoperta di uno strano autore
franco-tedesco, che tutto sommato è stato piacevole.
Jonathan Coe “La pioggia prima che cada” Feltrinelli euro 7,50
[A: 13/05/2012 – I: 28/11/2012 – T: 04/12/2012]
[titolo: The rain before it
falls; lingua: inglese; pagine: 222; anno:
2007]
Sono
passati sei mesi dalla lettura del precedente libro di Coe, che un po’ mi aveva
riconciliato con questo scrittore, pieno di alti e bassi; o meglio di bassi sì,
ma più che alti, altopiani, qualcosa di piacevole, seppur non eccellentissimo.
Ricordo anche che in quell’occasione uno dei miei lettori ben mi sottolineava
di questo. Andiamo allora avanti con la normale ambivalenza del buon Jonathan.
Sono sempre dubbioso quando la voce narrante che usa è femminile, cioè quando i
suoi romanzi ruotano intorno a personaggi femminili. Che non sempre (e questa è
una polemica che porto appresso da tempo) il narratore uomo riesce ad entrare
nella narrazione donna. Ci sono autori e situazioni che ci riescono e/o ci
vanno vicini. Ma spesso (ed è vero anche il contrario quando è la donna ad
usare voci maschili) il testo mostra la corda. Qui l’idea di fondo è ben
sviluppata, anche se (ogni tanto) l’autore-narratrice sembrano incartarsi. Riporto
l’idea di base: una donna vicina alla fine narra la storia della vita (sua e di
chi le è intorno) ad una specie di nipotina, non vedente. Lo fa registrandola
su cassette, e lo fa descrivendo ad Imogen, 20 fotografie che fermano momenti
della vita trascorsa. Rosamund (la narratrice) muore lasciando questi nastri ad
Imogen che è scomparsa, dando incarico alla nipote Gill di trovarla. Non
riuscendo, Gill decide di sentire i nastri insieme alle figlie (tutti
personaggi femminili). Ci troviamo così immersi nell’atmosfera della vita di
Rosamund, con una strana infanzia, con una infatuazione per la cugina maggiore
Beatrix, con la quale vive momenti da dodicenne esaltanti. Poi Rosamund cresce
e si innamora della bella Rebecca, con la quale va a vivere insieme. Beatrix
intanto va in giro per Inghilterra e Irlanda, lasciando mariti, prendendo
compagni, e gestendo (male) la piccola Thea. Al seguito di un grande amore,
decide di fuggire in Canada, lasciando Thea (non volente e non volendolo) a
Rosamund e Rebecca. Trascorrono così due anni meravigliosi, fino al ritorno di
Beatrix che si riprende Thea, mentre il dolore farà separare per sempre Rosamund
e Rebecca. Della seconda spariscono le tracce, mentre Rosamund per anni ed anni
porterà avanti il proprio dolore, fino ad essere consolata dalla pittrice Ruth.
Intanto Thea, che tanto aveva portato di gioia e spensieratezza nella sua vita,
cresce. E ripete gli errori della madre. Sposa persone improbabili. Mette al
mondo Imogen, e non la sa gestire. Rosamund cerca ogni tanto di intervenire per
portare “momenti positivi”, senza riuscirci. Fino al dramma: un pianto
immotivato della treenne Imogen fa andare fuori di testa Thea, che la sbatacchia
con tanta irruenza, da provocarle una lesione permanente, che renderà
non-vedente la bambina. Thea è condannata a diversi anni di carcere. E le viene
tolta la potestà di Imogen, che viene affidata ad una famiglia che la adotta. E
che la fa, giustamente, sparire. Thea per anni non sembra interessarsi
all’accaduto. È solo Rosamund che cerca di mantenere i contatti con Imogen,
fino a che la famiglia adottante decide che è meglio troncare tutti i legami. E
sparisce anche lei in Canada. Assistiamo ai rimpianti di Rosamund, a tutte le
piccole cose che si accumulano in questo gineceo londinese. Ai pensieri di Gill
che ascolta, che durante un ricordo dell’Alvernia di Rosamund, ripensa alla sua
gita francese con il marito, invero poco felice e funestata dall’investimento
di un uccello con la macchina (che avviene a pag. 27, ma che si capisce, se uno
se lo ricorda solo a pag. 220). Dopo aver accompagnato quasi tutti i suoi cari
alla tomba, e soprattutto l’amata Ruth, anche Rosamund si spegne. Mancando
anche l’ultimo appuntamento con Thea, che, carica d’anni e di sventure, sembra
aver messo la testa a partito. Anche se non si assolverà mai di tutte le colpe
commesse. E se farà brillare una possibile connessione tra i sentimenti negativi
di Gill e la storia di Imogen, di cui narra pezzi a Rosamund ignoti. Ecco,
sembra proprio un elenco di possibilità mancate, di felicità sfiorate e mai
raggiunte, che lascia una tristezza grande addosso. Con quei piccoli elementi
di sorriso e di felicità, come quello del titolo, o della musica popolare
francese o del clarino di Catherine la figlia di Gill. Ma non scatta mai oltre
un certo limite. Non passa mai quel guado che farebbe sentire importante il
testo. Un buon testo, con buoni coinvolgimenti. Di media lettura e gradimento, con quel tocco di ingegno della vita attraverso le foto
che resta e forse va ripreso.
“Mi sembra importante … non sottovalutare mai quel che si prova nel
sapersi indesiderati dalla propria madre. … Rendersene conto corrode il senso
del proprio valore, e distrugge le fondamenta stesse del proprio essere. È
molto difficile uscire incolumi da un’esperienza simile.” (58)
“Non si può descrivere la musica a parole.” (130)
“Col tempo, diventa così difficile distinguere le tue idee da ciò che
puoi aver orecchiato da qualche altra parte.” (142)
Nicolas Barreau “Gli ingredienti segreti dell’amore” Feltrinelli euro 8
[A: 30/09/2012 – I: 12/12/2012 – T: 14/12/2012]
[titolo: Das Lächeln der
Frauen; lingua: tedesco; pagine: 239; anno:
2010]
Nato
in Francia da madre tedesca, il nostro bilingue imbastisce una storia che fa
perno su di un … inglese (anche se poi si sviluppa in molte direzioni).
All’inizio, essendomi ignoto il Barreau mi aveva decisamente spiazzato il nome
francese dell’autore ed il titolo originale in tedesco. Scoperto il trucco, ho
trovato tuttavia simpatico il modo di “essere” in Parigi, quasi da straniero
nella propria terra (un po’ come Veit Heinichen e Trieste). Anche se poi ci si
domanda perché i sorrisi delle donne diventino “ingredienti dell’amore” e
perfino segreti. Mistero! Comunque senza tanti battage pubblicitari, Barreau
ottiene un discreto successo internazionale con una storia delicata, che quasi
ci fa tornare alle atmosfere leggere e simpatiche della Parigi di Amèlie (e non
a caso i protagonisti hanno nomi in A: Aurélie e André). Ed anche l’idea di
base ha un suo fascino, ed è ben svolta dall’autore. Poteva venirne fuori una
cosa un po’ banale, invece, pur nell’assoluta normalità si fa seguire. La
storia procede su due binari paralleli, alternando i punti di vista dei due
protagonisti. Aurélie gestisce un piccolo ristorante parigino (dal nome storico
che rimanda a quel ristorante vicino a Place d’Italie gestito negli anni ’70 da
una cooperativa di operai e che proponeva e propone una cucina francese
tradizionale), sta uscendo malconcia da una storia, cerca consolazione dalla
sua amica Bernadette, ma la trova leggendo un libro di un ignoto scrittore
inglese, dove il britannico protagonista, a valle di una serie di ironiche
situazioni scontrandosi la sua flemma d’oltre manica con la giocosità parigina,
si innamora di una ragazza che gestisce un ristorante che guarda caso è quello
di Aurélie. E dove anche la descrizione della protagonista si adatta alla sua.
Da questo punto in poi la nostra cercherà in tutti i modi di entrare in
contatto con l’inglese, fallendo (e vedremo presto il motivo) miseramente ogni
suo tentativo. André invece lavora in una piccola casa editrice, come editor,
e, non riuscendo a trovare autori soddisfacenti la linea editoriale, in complicità
con un suo sodale inglese, scrive un libro (quello di cui sopra), facendo finta
sia la traduzione da un libro inglese. Sfortunatamente il libro ha successo. Ed
Andrè si troverà impelagato a far fronte alla richiesta di interviste
all’autore, di viaggi promozionali, di sedute pubbliche di lettura. Nonché
all’insistenza della bella Aurélie che lo contatta e non lo molla più per farsi
presentare al fantomatico Robert Miller. Capirete anche voi, che si andrà
avanti a forza di equivoci, di possibili smascheramenti, e soprattutto del
tentativo di Andrè di creare tutto un castello di menzogne per screditare
l’autore fasullo, e per farsi bello verso Aurélie. Che in realtà è proprio la
persona descritta nel romanzo. In effetti, ad Andrè l’idea era venuta passando
davanti al ristorante e vedendo oltre il vetro Aurélie in uno splendente
vestito verde. Come detto una trama che rischierebbe di andare alla corda dopo
poche battute. O di essere ripetitiva. Invece viene ben sostenuta dalla
scansione di una serie di colpi di ingegno dello scrittore, per dare voce e
speranza a turno ai due protagonisti. Ovviamente, quando tutto sembra andare
per il meglio per Andrè, Aurélie manda all’aria tutto il castello. E … e non vi
dico altro, su come andrà a finire. Ognuno faccia il tifo per chi vuole e se ne
goda la lettura, rilassante (soprattutto in questa turbolenta fine di un anno
bisestile). Un’ultima notazione riguarda il “Menu dell’Amore”, un menu per due
che il padre di Aurélie le ha donato prima di morire, e che è una catena che
legherà per sempre chi lo mangerà con spirito giusto. Barreau (come a me fa
piacere che mi rimanda ad altri testi a me cari) alla fine ce ne dà anche le
ricette (che consiglio di provare a chi sa ben cucinare). Io mi limito solo a
riportarne i piatti (e ad invitarvi al sorriso): insalata di valeriana con
avocado, champignon e noci, coscio d’agnello alla melagrana con gratin di
patate, parfait all’arancio con gâteau au chocolat (che da solo vale tutta la
cena!). Buona lettura!
“Gli anni non contano. Conta solo come li
viviamo.” (10)
“Non riesco ad immaginare una vita senza
libri.” (20)
“A volte è più facile convivere con la
menzogna che con la verità.” (119)
“L’amore quando finisce è sempre triste. Chi
lascia ha la coscienza sporca. Chi viene lasciato si lecca le ferite. Alla fine
però ognuno è quello che è sempre stato.” (gli appunti di Aurélie)
John Banville “Dove è sempre notte” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 26/08/2012 – I: 16/12/2012
– T: 22/12/2012]
[tit. or.: Christine Falls; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2006]
Sono
rimasto molto deluso da questa lettura di un nuovo romanzo della collana Noir
di Repubblica, che sembra a volte buttar dentro alla rinfusa cose varie, senza
pensarci troppo. Ed altrettanto deluso dall’autore. Che in realtà avrei dovuto
sospettare non fosse nelle mie corde. Ricordo anni fa, alla mia (per ora) unica
visita a Dublino, alla ricerca di un autore locale, presi un libro del buon
Banville, libro tra l’altro vincitore di premi e riconoscimenti. Ma non riuscii
ad andare avanti (ebbene sì, a volte i libri si possono abbandonare, per poi
magari tornarci, se capita, seguendo i principi cui sempre mi rifaccio del
decalogo di Pennac). Ora, Banville è un autore poliedrico, che scrive di tutto.
E che, ad un certo punto, imbastisce storie con protagonista Quirke, un
anatomopatologo di Dublino. E storie ben collocate nel tempo, che si collocano,
infatti, agli inizi degli anni Cinquanta. Questa è la prima in cui compare
Quirke, ed è tutto fuorché una storia noir, gialla, thriller o altro. Si salva
solo l’ambientazione storica, sia nella Dublino dell’epoca, sei nella
corrispettiva America, dove si svolge una parte (e non secondaria della
vicenda). L’autore è di una lentezza a volte esasperante. E qui deve inquadrare
i personaggi. Quirke, vedovo e sempre attaccato a qualche bottiglia (tanto che
alla fine siamo alticci anche noi poveri lettori). Malachy detto Mal, suo
cognato e ginecologo, sposo di Sarah, sorella della defunta signora Quirke.
Sarah stessa, che da sempre era innamorata di Quirke, ma che poi sposa Mal. E
su questo ipotetico triangolo amoroso, Banville spende qualche decina di pagine
di troppo senza arrivare mai a spiegare i perché o i per come. Phoebe la figlia
di Mal e Sarah (ma sarà vero? Che i loro comportamenti a volte sembrano mostrare
altro), in crisi di crescita, molto attaccata allo zio Quirke, piena di voglie
e di capricci. Insofferente insomma. Ed il grande Griffith, padre di Mal, gran
commis dello stato irlandese, che prese sotto la sua ala il bimbo Quirke al
tempo in orfanotrofio. Per finire con il magnate Crawford, l’irlandese emigrato
in America a fare fortuna, dove tutti si ritroveranno per il redde rationem finale.
E dove ci saranno delle sorprese. Ma qual è la storia supposta nera? Nasce
tutto dalla morte di una giovane, Christine Falls, che dava il titolo originale
al romanzo, e che, chissà per quale balzano motivo, viene tradotto con questa
inutile invocazione alla notte (forse perché la notte è nera?). Quirke se la
trova in anatomopatologia, ed è colpito da alcune incongruenze, che sembrano
coinvolgere il cognato Mal. Ed essendo curioso di natura (un curioso strano che
vuole sapere, ma che non fa domande per conoscere, che si ferma spesso, e che
mi ha irritato per tutto il romanzo con questa sua ignavia di fondo) decide di
capirne di più. Viene così a sapere che Christine è morta dando alla luce una
bambina. Aiutata dalla mammana Dolly, che però, vista la mala parata chiama il
suo vecchio datore di lavoro Mal per cavarsi dagli impicci. Ma Christine muore,
la bambina sparisce. E quando Quirke scopre di Dolly e dei suoi legami con un
orfanatrofio gestito dal suocero Crawford, anche Dolly muore. E Quirke viene
talmente pestato a sangue da due loschi sicari che per qualche mese dovrà fare
vita di ospedale, con una gamba che non si rimetterà a posto del tutto. Ma
Quirke sembra non demordere, ed accompagnando Phoebe da nonno Crawford, scopre
casualmente una sua ex-infermiera finita anch’essa in America. E tramite lei,
risale alla storia della bambina scomparsa, della sua adozione americana, e
della loro storia tribolata e poco edificante. Per arrivare alla catarsi finale
di cui sopra. Tuttavia impiegare quasi 400 pagine per tutto ciò è un inutile
tormento per noi poveri lettori. Che la trama nera esce sì a poco a poco, ma è
del tutto sovrapposta a quello che interessa Banville, cui piacciono le
atmosfere, le descrizioni, le case, i giardini. E tanto, tanto alcol. Insomma,
alla fine, un nero insopportabile per una lettura che non sa né di carne né di
pesce. Chissà se riuscirò mai a riprendere in mano quel primo libro… Nota
finale (se qualcuno mi aiuta): Marcella Dallatorre, esimia traduttrice, ad un
certo punto parla di un tal MacCoy soprannominato Maciste, e l’autore dice “che
bel gioco di parole”. Io non l’ho capito e l’ottima Marcella non lo spiega. Che
ci sarà da ridere?
Salman Rushdie “Joseph Anton” Mondadori s.p. (regalo di Aldo &
Michela)
[A: 07/10/2012 – I: 30/12/2012 – T: 16/01/2013]
[tit. or.: Joseph Anton; ling. or.: inglese; pagine: 649;
anno 2012]
Libro ben lunghetto e, purtroppo,
poco scorrevole. Erano anni che non tornavo su Rushdie. Diciamo, in effetti,
che, dopo “I figli della mezzanotte”, non è che ne abbia letto gran che. Troppo
il clamore, troppa la scarsa simpatia del personaggio. Che questa lettura mi
conferma. Intanto ringrazio i donatori che mi hanno spinto comunque a
riprendere in mano “il caso Rushdie”, che giaceva un po’ lì senza un vero
perché. Come detto, il libro non è eccelso. Intanto non ha (o non è stato reso
in italiano) la scoppiettante inventiva dello scritto di Rushdie, che nei
romanzi lavora molto di penna e di metafora. Si sente abbastanza il dolore
dello scrittore per tutto quanto succede. Così imbastisce un libro di “memoir”
(pare così sia ormai il termine usato, autobiografia risulta obsoleto). A
partire dal giorno infausto (14 febbraio 1989) quando l’ormai fuori di testa
Khomeini lanciò una fatwa mondiale sul negletto autore di un libro che, viene
detto, mette alla berlina la religione islamica. Peccato mortale, visto che
l’autore, anche se ateo, è di provenienza mussulmana. Ne seguiamo così la
storia, con il rapido inserimento in un programma di protezione, il cambiamento
di nome (e lui adotta quello del titolo, che deriva, come ci confessa, da quello
di due autori a lui cari: Joseph Conrad e Anton Cechov), la vita quotidiana a
contatto con le forze speciali di protezione, la ricerca di luoghi sicuri, i
problemi con i suoi cari, soprattutto con il primo figlio allora di 14 anni,
Zafar, che vive con la prima moglie e che lui avrà difficoltà a vedere per
anni. La rottura con la moglie Marianne (a naso un po’ psicolabile), la
scoperta del grande amore con Elizabeth, che condividerà con lui tutti gli anni
clandestini (per poi sposarsi, farci un secondo figlio, Milan, e quindi
divorziare). Vediamo, nella sua prospettiva, come tutto diventi difficile, come
sia impossibile fare una passeggiata, o andare al cinema. Vediamo alti e bassi
della clandestinità. Vediamo passare gli anni, crescere Zafar, morire la prima
moglie, venire uccisi alcuni suoi traduttori o editori in giro per il mondo,
crescere gruppi di pressione per togliere la fatwa, sentiamo l’idiozia dei
politici (e quelli inglesi sembrano di buona razza “legnosa”), vediamo i
differenti modi con cui le polizie del mondo lo proteggono, non meravigliandoci
degli strombazzamenti americani. Poi, con il tempo, un po’ si affievolisce la
pressione iraniana (non ultima la temporanea ascesa di moderati alla Katami),
comincia ad avere libertà, soprattutto in America. E piene di sentori di
primavera, quando tutto rinasce, sono le pagine in cui descrive le prime volte
in cui esce senza protezione, le prime passeggiate in spiaggia, i primi viaggi
aerei diretti, senza che le compagnie si rifiutino di tenerlo a bordo. E poi,
velocemente nel finale, tutto il resto: la fine della fatwa e dell’amore con Elizabeth,
l’illusione della bella vita con l’attrice indiana Padma, che sposa (ed è la
quarta) e da cui poi divorzia. Nel frattempo c’è anche l’11 settembre. E non è
poco. Anche se, alla fine, dopo quasi venti anni, riesce a rimettere piede
nell’India natia. Seguiamo anche le difficoltà ed i successi della scrittura,
l’impossibilità di scrivere romanzi, poi lo sblocco. Ma tutta la sua produzione
post-versetti mi risulta poco se non del tutto ignota. Rimangono alcune
questioni, ancora sul tappeto: i comportamenti degli altri scrittori rispetto
alla fatwa (dalla sua prospettiva ne risultano due agli opposti atteggiamenti:
sostenuto da Paul Auster e osteggiato da John le Carré), la scrittura e la
filosofia di vita di Salman (le pagine sono farcite di nomi di personaggi
illustri che a lui si accompagna, per aiutarlo, principalmente, come Susan
Sontag ed altri, ma è il senso di inclusione in una èlite mondiale di “buoni”
che esce dalla penna, di gente colta, di gente “arrivata”, descrizioni che
personalmente accolgo con fastidio, che mi sanno ecco la parola giusta è snob,
un particolare, ma innegabile snob), e, last but not least, la materia stessa
del contendere: “I versi satanici”. E quello che implicano. Siano o meno un
dileggiamento religioso (e non lo credo) io condivido fino alla fine il
pensiero illuminista francese della libertà di espressione (“non condivido una
parola di quello che dici, ma farò di tutto perché tu lo possa dire”). E
sopratutto sono completamente, totalmente contrario a tutti quei regimi che
usano la religione come metro di giudizio per accettare o bandire idee. La
forza di una convinzione “sana” è quella di accettare la diversità, criticando,
anche aspramente, quanto diverge da me. Ma dopo averlo, almeno, letto. Cosa che
non è successa per Rushdie, bandito come idea, senza che l’80% delle persone
che ne parlavano avesse idea di cosa abbia realmente scritto nel suo libro.
Credo che questo sia il vero fulcro che mi ha costretto a leggere tutte queste
pagine, per cercare di capirne di più. Alla fine, prima o poi, credo che
leggero i versi satanici, anche se non ne sono convinto. Come non sono convinto
della scrittura di Rushdie. E come non sono convinto dell’uomo-Rushdie, che, in
fondo, non mi sta poi tanto simpatico, con tutti gli atteggiamenti di cui ho
detto. Sono profondamente dolente che un uomo abbia perso anni ed anni della
sua vita per questi motivi. E spero che possiamo arrivare a vivere in un mondo
in cui questa non succeda più. Ma ho molta paura che queste mie speranze siano
lungi dall’avverarsi (e fosche nubi si stagliano in orizzonti a me cari).
Commento a margine: ma si possono usare termini come “odeporica” di cui tutti
(meno io) sanno il significato?
“Sono sempre le donne a prendere le decisioni, e agli uomini non resta
che sentirsi riconoscenti se sono abbastanza fortunati da risultare i
prescelti.” (20)
“Che l’amore muoia non significa non abbia vissuto.” (127)
“Le idee forti ammettono il dissenso … Solo chi è debole e autoritario
si sottrae agli avversari, li ricopre di insulti, e a volte desidera far loro
del male.” (355)
“[frammento della
poesia di Williams Carlos Williams ‘La corona di edera”] But we are older / I
to love / and you to be loved” (533)
“Io non so distinguere un albero dall’altro, e lo stesso vale per i
fiori, ma ad ogni modo ho molto apprezzato i fiori e gli alberi.” (551)
Al fine, per chi volesse
recuperare tutte le recensioni arretrate, consiglio di visitare il mio blog di
back-up (http://giogio53.blogspot.it/trame_e_voilà
). Per chi vuole conoscere la mia biblioteca indico il sito http://www.anobii.com/gio53/books.
Intanto stiamo organizzando grandi – piccole cose e vedremo presto qualche
risultato.
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